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SECONDI MA NON SECONDARI.

Storie di laici e virtù nel Tempio quotidiano di Dio.

 Introduzione

Questa visitazione di personaggi biblici «secondi ma non secondari» sono il tentativo di fermare alcuni fotogrammi di stili di vita quotidiani feriali o festivi comunque non convenzionali. E’ un modo per cercare, secondo lo spirito dei Libri biblici sapienziali, di riconoscere la possibilità di vivere nella quotidianità le grandi architetture della Storia della Salvezza, il DNA della Pasqua, i principi seminali della fede, le mappe sconfinate della teologia. Scrive Filippo Gentiloni nell’introduzione al suo «Virtù povere, povere virtù [1]»:<<Esistono le grandi e le piccole virtu? Direi di sì: le virtù grandi sono quelle più solenni e soprattutto più reclamizzate. Talmente tanto che è difficile parlarne senza ripetere schemi convenzionali. Così per l’amore, la solidarietà, la bontà. Così, in campo teologico, per la fede, la fiducia, la speranza, il pentimento dei peccati...E’ più opportuna - forse anche più interessante - una riflessione sulle virtù piccole e povere, quelle più dimenticate, meno da prima pagina. Eppure essenziali per la persona e la società...Le virtù sono non per me, ma per l’altro. Non per meritare qualcosa ma per dare, offrire. Non per rispecchiare in un limpido lago, come Narciso, la propria bontà e santità, ma per dimenticarsi a favore dell’altro, qualunque sia il suo nome e la sua carta d’identità....La virtù povera «non incanterà mai gli uccelli e non accarezzerà mai il lupo di Gubbio» (Beirnaert): è la virtù di «santi senza nome» che si rivolgono a poveri senza nome. Senza premio e soprattutto senza vantaggi per sè. Caso mai i vantaggi sono per l’altro che coglie il frutto. Ne parla l’apostolo Paolo in alcuni brani famosi che enumerano appunto i frutti dello Spirito: fra gli altri la cordialità, la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la fedeltà, la mitezza. Tutti indicano qualche cosa di visibile e di piacevole, di disponibile per l’altro che si accosta, mangia il frutto e ne ricava felicità>>.

 1.      La fede nasce dai racconti e si racconta [2].

Non ci avevo mai fatto caso, finché qualcuno non me l’ha fatto notare: la fede cristiana è nata e si è diffusa attorno a dei fatti che poi sono stati raccontati.

Giovanni, il Battezzatore, mentre era in carcere (Luca 7) sentì raccontare dai suoi discepoli le opere di Gesù. Allora mandò due discepoli dal Signore a chiedergli: <Sei tu il Messia oppure dobbiamo aspettare un altro?>. Gesù rispose: «Tornate dal vostro maestro e raccontate quello che avete visto e udito». Anche i primi discorsi di Pietro, così come sono riferiti dal Libro degli Atti degli Apostoli al capitolo 2, sono delle testimonianze di eventi meditati. E Filippo a Natanaele dice:<<Vieni a vedere>> (Giov.1,46).

Siamo, cioè,  nel filone del più tradizionale e affascinante metodo della teologia narrativa giudaica che quando vuole parlare di Dio non formula definizioni astratte o concettuali, ma piuttosto ama narrare storie (cf. Salmo 145). Storie dentro cui Dio cammina in punta di piedi o calpesta, sussurra o rimbomba, entra ed esce di spalle, lascia orme, si fa cercare, si lascia trovare e sguscia via, dona, toglie, geme, sbuffa, gioisce, lavora, riposa. E, sempre, in compagnia di uomini e donne che gli danzano intorno, gli si mettono per traverso o gli danno una mano. Ogni volta che qualcuno ci racconta una storia possiamo constatare come egli organizza e presenta le circostanze solo in funzione del punto-vertice del suo racconto, della sua portata e del suo significato; ma tutto va seriamente considerato.

Perchè la Bibbia, per esempio, parla di Efron figlio di Zocar della tribù degli Ittiti (Gen.23)? Efron entra nei racconti di Abramo come l’uomo attraverso cui Dio incomincia a realizzare la promessa:<<Alla tua discendenza io darò questo paese>>; quando muore la moglie Sara, Abramo chiede agli Ittiti di poter seppellire la moglie su un pezzo di terra che vuole acquistare e che gli viene venduto, dopo alcune trattative, appunto da Efron. Sembra che tutta la terra promessa da Dio ad Abramo si riduca ad una tomba, ma la promessa inizia a realizzarsi così, su questo fazzoletto di campo e per mano di questo ignoto Efron, simbolo di tutti quegli uomini e donne attraverso cui Dio diventa protagonista dei propri progetti.  

Perchè il Libro dell’Esodo parla in ben 5 capitoli (cap.31;35;36;37;38) di Bezaleel, Ooliab e tutti gli artisti «che il Signore aveva dotato di saggezza e di intelligenza perchè fossero in grado di eseguire i lavori di costruzione del santuario» (Esodo 36)?  Tra l’altro, si narra che il popolo si era autotassato portando quotidianamente a questi artigiani  delle offerte volontarie per sostenere i lavori del santuario tanto che ad un certo momento le offerte superarono l’effettivo fabbisogno. Allora successe un fatto inconsueto e ancora esemplare per oggi:  <<...tutti gli artigiani andarono da Mosè e gli dissero: <Il popolo porta più di quanto è necessario per il lavoro che il Signore ha ordinato>. Mosè allora fece proclamare: <Nessun uomo o donna offra più alcuna cosa come contributo per il santuario>. Così si impedì al popolo di portare altre offerte; perchè quanto il popolo aveva già offerto era sufficiente, anzi sovrabbondante, per l’esecuzione di tutti i lavori>>. Con una punta di ironia si potrebbe arrivare a sospettare il motivo di una palese distrazione della predicazione e catechesi delle chiese che hanno permesso di lasciare andare alla deriva tale racconto!

Nelle Bibbia esistono pagine che sembrano affreschi narrativi della fede.

 Oltre ai salmi (tutti, oltre quelli più rigidamente “storici” come il salmo 78) sto pensando al noto Cap. 11 della Lettera agli Ebrei e ai  capp. 44-50  del Libro del Siracide. Nei capitoli del Siracide l’autore, che vive in ambiente non giudaico nel II° sec. a.C.,  dopo aver tentato una lunghissima raccolta di indirizzi spirituali e morali per vivere da fedeli in ambiente pagano, dedica ben 6 capitoli ad elencare ed esaltare il ruolo e le virtù degli antenati del popolo attribuendo così un ruolo indispensabile alla memoria storica. Ma ciò che mi colpisce è che nell’elenco dei  nostri antenati nella fede, che Ben Sira chiede di non dimenticare, vi si trovano anche santi personaggi di cui vengo a conoscenza per la prima volta e per mia colpevole ignoranza: Pincas «per il suo zelo nel timore del Signore, per la sua fermezza quando il popolo si ribellò ed egli intervenne con generoso coraggio e placò Dio in favore di Israele» (Sir. 45, 23-26); Caleb, collega di Giosuè, che «si oppose all’assemblea impedendo che il popolo peccasse e dominando le loro maligne mormorazioni...e così ricevette da Dio una forza che lo assistette sino alla vecchiaia così che tutti sapessero che è bene seguire il Signore» (Sir. 46,7-10); il sacerdote Simone di cui si ricordano indimenticabili liturgie con tratti poetici di rara intensità (premuroso... stupendo... fiore... astro... arcobaleno... fuoco... vaso d’oro... ulivo verde. Sir. 50, 1-21).

Nel 2 Libro dei Re (4, 38-41) viene narrato uno strano miracolo di Eliseo, chiamato anche, “miracolo della minestra o della pentola risanata” . E’ tempo di carestia. Il profeta Eliseo ordina di preparare una minestra di verdura. Alcuni vanno a cercare erbe. Un discepolo, poco pratico, porta foglie selvatiche velenose. La minestra è immangiabile. Eliseo invece di buttare quel ben di Dio, corregge e risana la minestra con farina. Ecco come commenta Lidia Maggi[3]: «Per cucinare la minestra di Dio i discepoli agiscono in maniera diversa.  Alcuni aspettano che vengano loro consegnati gli ingredienti, scelgono una vita più contemplativa; altri sentono di dover uscire a cercare personalmente le erbe.  Uscendo affrontano una realtà «selvatica», sconosciuta, non catalogabile, come tutte le nuove situazioni che interpellano la nostra vita. In un nuovo contesto il rischio di sbagliare è sempre alle porte come succede a quel discepolo.  E'  il rischio di chi nella vita non gioca in difesa e percorre piste sconosciute, alla ricerca di senso.  E il frutto sconosciuto sembra bello e appetitoso, sembra aprire nuove possibilità di nutrimento. Si rivela invece tossico e capace di avvelenare il tutto: «C'è la morte in questa minestra». Ironia della sorte, il discepolo che voleva contribuire col suo servizio al  bene comune si scopre avvelenatore. Ma in tempi di carestia lo spreco non è permesso.  Il profeta allora interviene. Egli non moltiplica o trasforma, bensì corregge: aggiungendo un ingrediente trasforma quel veleno in cibo appetitoso che nutre.  Il lavoro di tutti non va perciò sprecato. La Parola di Dio risulta a volte cruda, indigesta e deve essere cotta perché sia resa appetibile per nutrire la nostra realtà, perché si trasforma in minestra che può essere distribuita e mangiata da molti.  Ma il fuoco della passione non sempre è acceso e gli ingredienti giusti scarseggiano.  Vorremmo trovare nuovi linguaggi, nuovi ingredienti per cuocere la Parola, nuove ricette, ma abbiamo paura, paura di essere il discepolo che, avventurandosi per sentieri sconosciuti, trasforma la Parola di vita ricevuta in minestra di morte, e allora ci sentiamo paralizzati.  Meglio morire di fame che rischiare l'avvelenamento. Carestia di Parola, di passione, di coraggio e di discernimento. Forse però la morsa della fame ci rende disponibili ad apprezzare anche solo le briciole della parola di Dio e a non gettare via troppo frettolosamente quei piatti che ci sembrano riusciti male, nella speranza che Dio susciti tra noi i profeti ironici, capaci di correggere le nostre minestre sbagliate».

Anche il racconto di 1 Samuele 25 narra di Davide, capo di un gruppo di fuorilegge, che in cambio di una garanzia di protezione chiede il pizzo a Nabal ricco possidente di greggi e a Abigail sua bellissima moglie. Nabal, il cui nome vuol dire stupido viene descritto come brutale e cattivo perché rifiuta la logica mafiosa di Davide della protezione a pagamento mentre Abigail opportunista, ruffiana, servile e pragmatica, cerca di calmare l'ira di Davide sottomettendosi a lui ed elargendo doni in abbondanza  Minimizza l'atto di ribellione del  marito, facendolo passare per demente.  Infine, sviolina ben bene Davide augurandogli successo e «profetando» per lui una brillante carriera politica. La logica mafiosa è così, grazie alla donna, ristabilita, l'ubbidienza al «padrino» riconfermata. Lo stupido Nabal, saputo delle trame della moglie morirà d’infarto. Si crea pertanto nel racconto un vero paradosso: buono è chiamato il cattivo Davide, prudente viene chiamata Abigail e stupido invece il coraggioso Nabal.  C'è un'inversione di valori che solo il Profeta Natan (2 Samuele 12) rimetterà in ordine[4].

Che dire poi di Gedeone (Giudici 7,20-22) che vince uno scontro con i Madianiti spaventati da pochi uomini inermi che li affrontano al rumore di pentole e trombe anziché con armi: «Tutti suonarono le trombe e ruppero le brocche.  Nella mano sinistra tenevano la torcia e nella destra la tromba.  Gridavano: All'attacco, per il Signore e per Gedeone!  Rimasero invece tutti al loro posto attorno all'accampamento.  I Madianiti si misero a correre da una parte a dall'altra, urlavano di paura e cercavano di fuggire e si colpirono l'un l'altro con la spada».

Oggi mi pare sia andata un po’ perduta questa connotazione storico-narrativa delle fede.

Non è la prima volta che la Chiesa rischia di perdere la sua innocenza narrativa nonostante il permanere e il diffondersi dello studio-lettura-preghiera del testo biblico.

Già nei suoi primi anni di espansione,  il contatto con l’ambiente e la cultura greca (tradizionalmente detta ellenistica) fu per la Chiesa un’incarnazione del messaggio cristiano che risultò da un lato una benedizione perché la fece uscire dal circuito giudaico, ma dall’altro una iattura quando l’annuncio ne fu troppo avviluppato.

In seguito, la necessità di sistematizzazione teologica delle verità della fede portò la Chiesa sul versante della disquisizione e argomentazione che indusse Padri, teologi e aree di Chiesa a sottovalutare il poter fare teologia anche narrando.

In successivi periodi la chiesa fu molti impegnata a dimostrare più che a mostrare. Con ciò non si vuol dire che la catechesi e la teologia narrativa si identifichino nel costruire raccontini edificanti per attirare l’attenzione di uditori stanchi o poco avvezzi alle stringenti logiche ed al pensiero astratto. La narrazione non esclude l’argomentazione, anzi proprio per il suo valore simbolico da un lato tende alla riflessione e dall’altro conduce al rito, alla celebrazione, al fare memoria.

Non è inutile ricordare che all’interno della grande preghiera eucaristica si celebra un evento mentre lo si  narra: << Alla vigilia della sua passione prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò, lo distribuì ai suoi discepoli e disse...>>.

Senza trascurare, poi, il fatto che Gesù, in quella circostanza, lava i piedi ai discepoli e alla fine non chiede: «Avete capito quello che ho detto?», ma «Avete capito quello che ho fatto?» (Giov. 13,12).

Le narrazioni bibliche non sono nate solo per descrivere né si limitano solo a constatare, ma divengono «storie pericolose», nel senso che incidono sulla situazione, operano cambiamenti. O, per lo meno, questo è il loro fine. Non si è in grado di narrare in profondità le opere o i gesti di Gesù come azioni salvifiche, se non si è in grado di mostrarne l’efficacia nel presente; solo quando accade qualcosa nel presente, il racconto diventa davvero significativo. Non per nulla il vero narratore è il testimone.

A tale proposito viene spesso riferito un caratteristico aneddoto appartenente alla tradizione dei chassidim ebrei e riferito da M. Buber nel suo «I racconti dei chassidim»: <<Ad un rabbi, il cui nonno era stato discepolo del Baalshem[5], fu chiesto di raccontare una storia. Egli disse: «Una storia va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto». E poi raccontò: « Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo maestro Baalshem era solito saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò; e il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare come faceva il maestro a saltellare e danzare. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie»>>.

La narrazione - continua Buber - ha la sacralità di un rito.

2.     Il povero, santo, quotidiano.

Un secondo aspetto che va rilevato è legato ai personaggi di queste storie.

Noi conosciamo i grandi patriarchi della fede prima di Cristo e i pilastri apostolici della chiesa delle origini.  Passano in secondo piano le miriadi di altri personaggi meno conosciuti, virtuosi o peccatori, ma appartenenti ugualmente al significato rivelativo, simbolico e operativo della narrazione.

Per fare un esempio basti citare il caso della parabola chiamata per lungo tempo «del figliol prodigo» ed ora meglio ricordata come la parabola del «Padre misericordioso» con un significativo spostamento del baricentro teologico e narrativo; oltre a ciò viene a galla e turba la figura del figlio «maggiore» che nella tradizione catechistica era stato lasciato sullo sfondo, ma che oggi viene riportato in scena come il terzo personaggio-chiave indispensabile alla completa comprensione del messaggio di salvezza e della sua operatività. Chi si sentirebbe oggi di leggere e commentare solo due terzi della parabola lasciando fuori il figlio maggiore come se fosse una figura pleonastica, inutile e decorativa?

Un altro esempio può essere costituito, secondo la versione di Luca, da quel ladrone che muore (pentito?) a fianco di Gesù, l’unico santo canonizzato in vita, e per di più non da un Papa, ma da Gesù (<<Oggi sarai con me in paradiso>>), diventando così la primizia dell’albero della croce. E tutto ciò con buona pace dei due apostoli, figli di Zebedeo, che tramite la madre chiedono di potere sedergli a fianco nel regno e rimediano una rispostaccia: <<..non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio>> (Mt. 20,23).

Esistono dunque personaggi resi insignificanti da taluni mutilanti approcci di lettura che con supponenza non si attardano a cogliere il tutto nel frammento. Approcci mutilanti non meno di quelli che si rimproverano a chi utilizza le narrazioni come raccontini edificanti recisi dal cespuglio del loro contesto rivelativo.

Questi personaggi vanno fatti riemergere, proprio per salvaguardare il timbro incarnato della rivelazione e per esaltare la polifonia, la polisemia delle sante Scritture e cioè la ricchezza inesauribile di sensi che gorgogliano dalla sorgente dello Spirito e della vita quotidiana.

Esiste dunque una agiografia di personaggi che chiamerò minori,  ma che tali non sono.

Una delle loro caratteristiche è che spesso hanno a che fare con la quotidianità o la non-eroicità: in questo ritrovo una spiegazione plausibile della loro emarginazione in  talune epoche della chiesa. Quando la spiritualità e la santità sono troppo contigue alla fuga dal mondo o alla radicalità eroica, inconsciamente si perde contatto coi gesti quotidiani che vengono sviliti a piccolo ciarpame che  determinerebbe la distanza, se non addirittura l’abisso, che ci separa da Dio.

<<Le dodici fatiche di Ercole, Robin Hood, i grandi esploratori, gli scienziati, i benefattori dell’umanità: lo sforzo eroico sembrerebbe quasi sempre inquadrato in relazioni a fatti ed eventi straordinari....Proviamo a pensare per un attimo di poterci inquadrare in quella categoria di eroi che ogni giorno compiono imprese di pazienza, di cura, di attenzione, di creatività. Imprese minime che sfuggono alla nostra stessa percezione, che ci sembrano fatti normali o marginali o addirittura irrilevanti se misurati sulla scala dell’eroismo classico. Per esempio: riuscire a mandare avanti una famiglia con un solo reddito, oppure riuscire ad avere comunque una vita dignitosa con la sola pensione oppure essere in grado di provare tenerezza per gli altri anche quando la vita ci ha molto provato. Se da un lato l’eroe è colui o colei che trascende l’ordinario, dall’altro lato l’eroe è anche colui o colei che sa ritrovare attenzione e interesse per le cose ordinarie trovandovi il coinvolgimento globale di tutto se stesso. Allora, invece che cercare cose o imprese straordinarie, si cerca in se stessi un modo straordinario di star dentro l’ordinarietà della vita quotidiana. L’ordinario non è automaticamente ciò che noi siamo abituati ad intendere per «normale», piatto, banale. La vita di ogni giorno può essere piena di passione e di slancio vitale. E’ l’attitudine interiore con cui lo fronteggiamo che rende ogni istante unico. Se affrontiamo l’ordinario con un atteggiamento di curiosità, di attenzione, di cura, potremo trovare un antidoto a quella specie di dolorosa e rassegnata alienazione rispetto alle cose che facciamo per caso, per obbligo, per noia, per routine. In epoca di crollo dei grandi sistemi di pensiero, di smantellamento dei miti, occorre indagare quest’altra dimensione, questa ordinaria vita [6] >>.

 3.     Dacci oggi il nostro laico quotidiano.

Sergio Sabbadini[7] in un intervento nel ciclo «La cattedra dei non credenti» organizzato dal Card. Martini, confidò che, dopo un serio cammino di approccio biblico, aveva trovato nella Bibbia anche un terreno di incontro con i credenti e che <<se ci mettiamo in ascolto davvero, il testo biblico ci interpella tutti senza chiederci l’adesione preventiva a un credo». Poi citava una frase del card. Martini:<<La Bibbia non parla di credenti e non credenti! La Bibbia parla di uomini e donne>>.

Il Concilio  (Lumen Gentium 30) e l’esortazione post-sinodale Christifideles laici (30/12/88) sottolineano l’importanza fondamentale e assolutamente necessaria del battezzato laico per la costituzione della Chiesa come sacramento universale di salvezza. Loro compito precipuo è cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio (Lumen Gentium 31), e sono chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo. Di fatto bisogna riconoscere i tantissimi fedeli laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività di ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi della crescita del regno di Dio nella storia.(ChL n.17). Il Concilio considera la loro condizione non semplicemente come un dato esteriore e ambientale, bensì come una realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato sull’esempio dello stesso Gesù che santificò le relazioni umane e volle condurre la vita di lavoratore del suo tempo e della sua religione. Si richiede dunque - dice l’esortazione sinodale - non due vite parallele: da una parte quella «spirituale» e  dall’altra quella»secolare». Essi debbono santificarsi nell’ordinaria vita professionale e sociale guardando alle attività della vita quotidiana come occasione di unione con Dio, di compimento della sua volontà e di servizio agli uomini. (ChL 17). La Chiesa non può separare ciò che Dio ha congiunto! Nel XIV secolo lo scrittore mistico domenicano Giovanni Taulero, nella festa di Ognissanti parlava dei laici così:<<Viene infine la folla della gente comune che va a Dio nelle cose e con le cose>>.

Oggi si direbbe che, per bisogno o per convinzione, il clero sta per scoprire il laicato, ma talvolta in modo sospetto. Nel senso che c’è sempre più bisogno in parrocchia di servizi per il catechismo, le celebrazioni e l’organizzazione pastorale integrativa (carnevale, campi, gite, ANSPI, tornei, feste della santa torta fritta, tombolate per anziani). Ragion per cui si chiede, si mendica, si supplica. Da un lato è giusto: una comunità vive della partecipazione viva ed estesa di tutti se non vuol essere un supermarket religioso per clienti o una AUSL per utenti. Ma la clericalizzazione, se non si sta attenti, è dietro l’angolo, sorniona. Prova ne sia quanta poca attenzione, udienza e pratica si ha, anche presso i laici stessi, delle grandi direttive dei documenti sopra citati in relazione alla vita quotidiana e professionale.

La vita quotidiana è santa anche quando io non mi converto al Signore, dal momento che lui stesso si converte a me;  quando io non mi innalzo a misura del Suo mistero Lui scende al livello delle mie evidenze; se io non busso alla sua porta Lui bussa alla mia e quando  la chioma della mia vita non  frondeggia nel cielo dei cieli, lui ritorna alle mie radici solleticandone gli umori e le linfe per incuriosirmi a lui. Con un sorriso.

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[1] F.Gentiloni Virtù povere, povere virtù, Claudiana, Torino, 1997; vedi anche A. Pronzato Alla ricerca delle virtù perdute, Gribaudi, Milano, 1997

[2] B. Wacker Teologia narrativa, Queriniana, Brescia, 1977; S.Lanza La nube e il fuoco,Edizioni Dehoniane, Roma 1995,pagg.200-229.

 [3] L. Maggi, ROCCA 8/99.

[4] L. Maggi, ROCCA 9/2000 PAG. 57

[5]Baalshem Tov (Polonia 1700-1760). Ebreo.  Dopo aver fatto parecchi mestieri, rivelò sempre maggiore predisposizione alla vita ascetica, mistica e contemplativa. A 36 anni incominciò a viaggiare e predicare nei villaggi accompagnato da una crescente fama per la sua personalità e santità influente. Da un primo gruppo di discepoli nacque il movimento dei fedeli detti anche (c)hassidim perchè mossi sempre dalla (c)hesed, dalla fedele tenerezza per Dio e per gli uomini. Le radici del movimento affondano nel giudaismo più osservante, ma il movimento fondato da Baalshem fu molto ostacolato dalle scuole rabbiniche ufficiali per il suo carattere popolare e per una spiritualità molto legata alla vita quotidiana.

[6] R. De Leonibus Eroismi post moderni, Rocca 11/1998 pagg.44-45

[7] «Spazi e momenti vivibili nella città» - intervento di Sergio Sabbadini in Questa nostra benedetta maledetta città,Gribaudi, 1996, pag 60.[7]

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