| chiudi la finestra |stampa |  

---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 Tabità. Il vangelo del lavoro.

Il testo
<<A Giaffa c'era una discepola chiamata Tabità, nome che significa «Gazzella», la quale abbondava in opere buone e faceva molte elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero in una stanza al piano superiore. E poiché Lidda era vicina a Giaffa i discepoli, udito che Pietro si trovava là, mandarono due uomini ad invitarlo: <<Vieni subito da noi!>>. E Pietro subito andò con loro. Appena arrivato lo condussero al piano superiore e gli si fecero incontro tutte le vedove in pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava quando era fra loro. Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare; poi rivolto alla salma disse: <<Tabità, alzati!>>. Ed essa aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere. Egli le diede la mano e la fece alzare, poi chiamò i credenti e le vedove, e la presentò loro viva. La cosa si riseppe in tutta Giaffa, e molti credettero nel Signore. Pietro rimase a Giaffa parecchi giorni, presso un certo Simone conciatore>>. (Atti 9, 36-43)

Per comprendere il testo
Di Tabità non sappiamo molto. Il nome aramaico Tabità tradotto in greco (Dorkas) significa “Gazzella”. Ma di lei conosciamo tre cose importanti. La prima: che era una discepola. La seconda: che era un’abile tessitrice e sapeva confezionare tuniche e mantelli. La terza: che aveva colto il cuore del Vangelo ossia l’amore preferenziale di Dio per i poveri (opere buone=opere d’amore). La donna viene caratterizzata mediante le sue opere: il verbo greco è al tempo imperfetto “epoiei” che indica pratica continua; si può quindi tradurre con “era piena (era ricca) di buone opere”. Le vedove infatti erano a quel tempo l’anello debole della società ed avevano bisogno di tutto per sopravvivere. Tabità mette a disposizione la sua professionalità anche per loro diventando un segno della benedizione di Dio. L’agape-amore di Tabità non è un sentimento, ma ha lo spessore di abiti concreti confezionati. Questa caratteristica che l’autore Luca mette in evidenza, ha forse la finalità di risvegliare la comunità per sostenerla nella sua prassi sociale di amore. L’agape non muore. Quando per lei venne la morte, si trova accompagnata da una comunità di intercessori. Ci piace pensarla come icona di tutti quei cristiani e lavoratori anonimi e silenziosi che con la loro fatica, competenza e solidarietà costruiscono il Regno di Dio e la Chiesa.

 Il Libro della vita
<<Il mio lavoro si colloca alla fine dell’ingranaggio produttivo e consiste nell’imballaggio del prodotto finito con l’uso di scatoloni. Altre mie amiche vivono il lavoro sotto la pressione della produzione giornaliera. Un capo semplice di abbigliamento da confezionare chiede un ritmo produttivo di 120  capi all’ora. Si lamentano ritmi sostenuti stressanti fino a 49 ore settimanali. Il loro coinvolgimento psicologico è ridotto al minimo per la mansione ripetitiva.  E’ triste riconoscere che nel posto di lavoro si vivono più aspetti negativi che positivi e le preferenze o le simpatie non si giocano sull’umanità di ciascuno, ma sull’abilità di produrre e bene.  Mi sento realizzata nel lavoro? Non so che rispondere se non che l’azienda sta attuando la scelta dell’efficienza con l’innesto di tecnologia sempre più avanzata là dove oggi opera la persona.  Nel rapporto con le colleghe non c’è tempo e motivazione per coltivare rapporti interpersonali profondi. Noto una relazione tra la disaffezione al lavoro e i giovani  neo-assunti: essi affrontano il lavoro per se stesso. Non lo apprezzano come noi più anziani>>. (Fernanda Tonellato  del Benetton Group di Treviso.  Da I  lavoratori di oggi si raccontano in Vangelo e mondo del lavoro,  EDB, pag. 57).

<<Dalla lettura del vangelo ho conosciuto Gesù, i suoi valori, le sue realizzazioni. Ho scoperto di non essere sola, di vivere problemi simili a molti altri giovani e così ho iniziato a sentire l’esigenza di uscire da me stessa, di rinunciare alla frustrante necessità di dover emergere sugli altri; questa è l’aria che si respira soprattutto in fabbrica, in un ambiente cioè in cui i valori dominanti sono la bellezza, la ricchezza, l’estetica, la carriera. Per raggiungerli spesso non si guarda in  faccia a nessuno, ci si basa più sugli errori e sulle debolezze degli altri che sulle proprie effettive capacità. In questo ambiente è difficile creare rapporti autentici e fraterni tra colleghi. Ma non è neanche impossibile: con il mio gruppo ho capito che era ora di cercare di cambiare qualcosa. All’inizio è stato duro. Ma grazie all’incoraggiamento dei compagni di gruppo con cui condividevo settimanalmente la mia vita alla luce della parola di Dio, ho deciso di tener duro. Ho così iniziato a guardare i miei colleghi con più fiducia nelle loro e mie possibilità>>. (Dalla testimonianza di Tina, giovane lavoratrice)

Per soldi e per amore: come si concilia il lavoro come necessità con il lavoro come vocazione? Il Vangelo ti aiuta a cambiare il tuo essere lavoratore? E il tuo lavoro ti aiuta a cambiarti nella direzione del Vangelo?

Per continuare la ricerca

Comunità cristiana e lavoro. Alcune domande come premessa
Il lavoro costituisce una condizione talmente normale da farci rischiare di non accorgerci che esiste come problema e come chance. E' cioè una condizione data per scontata, mentre scontati non sono i problemi connessi con l'evangelizzazione, con la catechesi e con la moralizzazione delle attività professionali, sindacali, corporative.

Esemplifico:
-         la generale richiesta di moralizzazione del servizio pubblico non è rivolta solo ai vertici dei pubblici servizi, ma anche ai singoli operatori, impiegati, professionisti da cui dipende in larga misura l'efficienza e l'efficacia dei servizi. Dove spariscono i cristiani che alla domenica hanno celebrato l'Eucarestia pasquale e durante la settimana dovrebbero attenersi a rigorosi e rispettosi comportamenti professionali? La grande immoralità scoperchiata con invalidopoli, affittopoli, tangentopoli, calciopoli ecc non richiama la Chiesa ad uno scatto di urgente ri-evangelizzazione di un paganesimo pratico e idolatra che si consuma negli ambienti di lavoro?

-         la tendenza attuale a ragionare in termini corporativi e non di "bene comune" non pone forse seri problemi al sindacato, ma anche a chi, come la Chiesa, sta a cuore una equa ridistribuzione del reddito e dei benefici sociali, perché i beni sono di Dio/di tutti e noi ne siamo solo amministratori?

-         la ricerca di una equità fiscale che attenui la divaricazione tra poveri sempre più poveri e garantiti sempre più garantiti è forse diventata estranea all’Evangelo dei profeti e di Gesù?  L'equità fiscale sarà solo frutto di nuove leggi e di uno stato poliziesco, oppure primariamente di una nuova coscienza? Se la logica della croce non incomincia a concretarsi in qualche martirio quotidiano, dove andrà a posarsi?

-         la prassi diffusa dei doppio lavoro e del lavoro nero, la condizione dei turnisti, il lavoro precario stagionale, la gestione del bilancio familiare, sono o non sono problemi per i quali la comunità cristiana deve saper offrire un contributo di denuncia, di consolazione, di annuncio?

-         la crisi del sindacato e della militanza sindacale é finalmente una liberazione oppure é il segno di un rigurgito di individualismo e di una abdicazione di responsabilità di cui e per cui la Chiesa soffre?

-         La crescita del mercato e la diminuzione della solidarietà hanno qualcosa da spartire con l’annuncio che Dio é Padre?

 Perché dobbiamo avere attenzione al lavoro?
1)     
perché la Chiesa e la società non ne hanno più o ne hanno poca. Per la pastorale del lavoro nella Comunità cristiana c’è una sostanziale disattenzione. Nel passato, almeno si registrava attenzione e mobilitazione, ma solo in termini di emergenza, ad esempio per aiutare i cassaintegrati o in occasione di chiusura di fabbriche. Oggi neppure in queste occasioni.

 
2)      perché questo ci consente di rimettere in dialogo la fede con la vita quotidiana. Sembra che il cristiano sia impegnato quando è in Oratorio o in parrocchia. Il Concilio Vaticano II° ci ha insegnato che il laico battezzato è uno che è responsabile della missione della Chiesa e dell’annuncio del Vangelo, in forza del suo battesimo, ogni giorno della sua vita. Chi ha preso sul serio la fede e la mette in dialogo con tutto ciò che fa parte della sua vita - come l’amicizia, i soldi, le proprietà, i rapporti coniugali, la sessualità, il lavoro - non elimina parti della sua vita. Ecco perché bisogna avere "attenzione al lavoro", a cominciare dagli stessi educatori che a loro volta aiuteranno i ragazzi, gli adolescenti, i preadolescenti ed i giovani a coltivare questa sensibilità.
3)     
perché la realtà umana del lavoro è una realtà che allude a Dio: se è vero che Dio lavora e riposa, è vero che Dio ha a cuore le realtà quotidiane e la vita dell’uomo. Se è vero che Dio ha a cuore la vita umana e le cose quotidiane, allora è vero che nulla è senza significato: ricomprendere il lavoro dentro la prospettiva del regno di Dio.

 Le “dimensioni” del lavoro
1)     
Il lavoro come dimensione esistenziale (il lavoro nella vita della persone). Il lavoro costituisce una parte fondamentale nella vita di ciascuno di noi non solo poiché io gli dedico molte ore ma anche perchè ha almeno tre valenze fondamentali: Primo: quando si parla di lavoro in fondo si parla di scelta di futuro. Secondo: la scelta vocazionale, per la assoluta maggioranza dei battezzati, è spesso associata alla scelta professionale (e sponsale). Terzo: il lavoro continua ad essere una fonte di identità sociale nonostante la rivoluzione recente del mercato del lavoro che ci obbliga a parlare non più di lavoro, ma di “lavori”, nonostante il precariato, i lavori a tempo, ecc. Anzi proprio per questo è necessario tornare a pronunciare una riflessione profetica e ad offrire spunti di comprensione e autocomprensione.  il lavoro conta perché è il luogo in cui uno apprende sé stesso ed apprende la società. Uno capisce sé stesso, misura sé stesso, i suoi limiti, le sue virtù, la sua capacità di relazione, misurandosi nel lavoro. E capisce nella propria carne i meccanismi che reggono la società. L’Enciclica Laborem exercens n. 9: «Il lavoro è non solo un bene "utile" o "da fruire", ma un bene "degno", cioè corrispondente alla dignità dell'uomo, un bene che esprime questa dignità e l'accresce... : perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso "diventa più uomo”».
2)     
Il lavoro come dimensione sociale (il lavoro nella società). Il lavoro ha anche una dimensione sociale. Nella società postmoderna o dei mille lavori, mille mestieri, si è smarrito il significato ed il senso del lavoro. E’ finita l’idea del lavoro come tutto nella vita, come ansia di riscatto, come dovere sociale. Tutta questa concezione si è lentamente sgretolata, sgretolando una concezione alta del lavoro ed introducendo il rischio che il lavoro diventi lo strumento per soddisfare un insieme di bisogni, invece che il luogo di costruzione della persona: una concezione neo-funzionalista del lavoro. Il lavoro, invece, deve essere recuperato nella sua valenza pubblica. Il lavoro è quella dimensione dell’uomo che sta nello snodo tra vita privata e pubblica, tra vita individuale e collettiva, tra dimensione esistenziale e dimensione pubblica. Il concetto di professionalità è un concetto che ha dentro di sé tre dimensioni fondamentali: la dimensione delle conoscenze, la dimensione delle competenze (o capacità) e la dimensione delle motivazioni. Oggi s’intende per professionalità l’insieme delle conoscenze e delle competenze (spesso per fare carriera e per guadagnare di più) ma si dimentica la terza dimensione, la dimensione vocazionale in senso laico: ciò che mi consente di partecipare ad un comune e reciproco servizio sociale.
3)     
Il lavoro nella prospettiva cristiana della vita.  Vale ancora richiamare il triplice primato indicato dall’Enciclica Laborem exercens: quello dell'uomo sul lavoro, quello del lavoro sul capitale, quello dell'utilità comune sulla proprietà privata? Oggi la comunità cristiana sta crocifissa, insieme con i suoi battezzati lavoratori, dentro questi tre snodi irrinunciabili? Ma soprattutto se voglio capire il lavoro dal punto di vista cristiano, devo collocarlo nella prospettiva del regno di Dio, cioè nel primato di Dio. Il primato del Regno significa prima di tutto, denunciare il limite del lavoro: il lavoro non è tutto per i cristiani. La società di oggi è anche, per molti, la società dell’eccesso di lavoro. Il lavoro è un luogo in cui ci possiamo salvare o perdere, dipende in che posto lo collochiamo rispetto al Regno. Inoltre il lavoro, nella prospettiva del Regno, assume una rilevanza fondamentale, perché, secondo un linguaggio teologico non ancora smentito, «anche Dio ha lavorato e opera ancora». Dio lavora e riposa, quindi quando noi quotidianamente lavoriamo ha un senso. Il lavoro deve essere coniugato sempre alla festa ed al riposo. Contemplazione ed azione, festa e lavoro (ferialità) sono due dimensioni da cui non è lecito dimettersi.

 La comunità cristiana ha forse il compito di proclamare che certe regole del gioco non sono ineluttabili e immodificabili, diventando luoghi di elaborazione e sperimentazione di  esperienze di lavoro dove, pur fra contraddizioni e dubbi, si cerchi un lavoro “dai confini grandi”, a misura d’uomo e di famiglia e non solo di moneta. La comunità cristiana forse ha il compito di formare dei laici che attuino concretamente dei piccoli segni costruttivi compiendo i passi che sono possibili: <<Di fronte a situazioni tanto diverse ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce della Parola immutabile del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa, individuare - con l’assistenza dello Spirito Santo, in comunione con i vescovi e in dialogo con i fratelli cristiani e tutti gli uomini di buona volontà - le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si rivelano urgenti e necessari in molti casi>> (Enciclica Octogesima adveniens 4). Il mondo del lavoro interpella la Chiesa, dunque, e la Chiesa interpella il mondo del lavoro. Dalla reciprocità (ascolto-appello) si sviluppa la pastorale. Giovanni Paolo II durante la sua visita pastorale a Terni nel 1981 riferì alcuni passaggi di un suo precedente discorso tenuto in Polonia nel 1979 sul “Vangelo del lavoro”: « Il cristianesimo e la chiesa non hanno paura del mondo del lavoro. Non hanno paura del sistema basato sul lavoro. Il Papa non ha paura degli uomini del lavoro. Essi gli sono stati particolarmente vicini. E’ uscito di mezzo a loro. E’ uscito dalle cave di pietra di Zakrzowek, dalle caldaie di Solwey in Borek Falecki, poi da Nuova Huta. Attraverso tutti questi ambienti, attraverso le proprie esperienze di lavoro - oso dire - il Papa ha imparato nuovamente il vangelo. Si è accorto e si è convinto di quanto profondamente nel vangelo sia incisa la problematica contemporanea del lavoro umano. Come sia impossibile risolverla fino in fondo senza il Vangelo. Ma bisogna dire di più: e cioè che la chiesa non può essere estranea o lontana da questi difficili problemi; non può staccarsi dal “mondo del lavoro” perché proprio il “vangelo del lavoro” è iscritto organicamente nell’insieme della sua missione. E la chiesa non può non proclamare il vangelo. Infatti come scrissi nella “Redemptor hominis” tutte le vie della chiesa conducono all’uomo (n.14). Benché da diverse parti si cerchi di creare opinioni opposte e di sostenerle ad ogni costo, la chiesa ha tante cose da dire all’uomo del lavoro. Certamente non nelle questioni tecniche, professionali o simili, ma nelle questioni fondamentali. E si tratta di una parola “impegnativa”. Se essa viene a mancare e se non è messa in pratica, allora manca la vera pietra angolare in tutta la gigantesca costruzione della tecnica moderna, dell’industria e dei vari settori con cui è connesso il lavoro umano».

Nel commentare questo discorso, Mons. Gaetano Bonicelli, allora vescovo di Siena e presidente del Centro Orientamento Pastorale, aggiungeva: «La pastorale sociale, cioè la riflessione e l’azione della chiesa nelle diverse realtà del nostro tempo, non è andata molto al di là di alcuni specialisti ecclesiastici e laici - quando ci sono - a cui volentieri si attribuisce una delega generica, senza che la comunità ecclesiale come tale se ne senta responsabile. Non è probabilmente il caso solo della pastorale sociale, ma certamente questo è ancora l’atteggiamento comune a dispetto di tutte le esortazioni e le messe in guardia della gerarchia e gli stessi appelli delle varie articolazioni di base che attendono indicazioni e stimoli. Che un prete non sia puntuale a celebrare l’eucarestia, può fare ancora scandalo. Che un prete o un laico non dicano una sola parola nei momenti di crisi nell’ambito del lavoro o non sostengano chi vi è impegnato in prima persona, non costituisce problema. Un convegno sul canto liturgico attira migliaia di persone; un incontro dove ci si sforza di vedere la problematica del lavoro alla luce della fede, non interessa più di tanto. Sono decisamente poche le diocesi dove ci si premura di preparare responsabili e animatori, preti e laici capaci, per sensibilità e dottrina, di mettersi all’ascolto dei problemi culturali e sociali, disposti ad uscire allo scoperto, come cristiani, in un pubblico dibattito. Ci sarebbe molto da ridire sulla tripartizione classica della pastorale in tre settori: evangelizzazione, liturgia e carità. Ma quello che stupisce di più è che parlando di carità, una larga parte pensa solo alla Caritas. La carità, se non rifiuta certo l’assistenza ai vecchi e nuovi feriti della vita, deve impegnarsi a creare forme nuove di vita sociale. Ci si domanda spesso cosa devono fare i consigli pastorali a livello diocesano o locale e non si nasconde che molti siano in crisi, proprio perchè ritenuti inutili o ridotti a fare da comitati per le varie feste della comunità. E perchè non riescono ad essere attenti e sensibili ai problemi reali della comunità e mancano almeno di esprimere, dal di dentro, partecipazione, proposte e speranze? Dicono i Vescovi italiani[1]: “La pastorale sociale non è un semplice settore della pastorale della comunità cristiana, ma l’espressione viva e concreta di una comunità pienamente coinvolta dentro le situazioni, i problemi, la cultura, le povertà e le attese di un territorio e di una storia». Bisogna convenire che questa divaricazione tra le indicazioni della gerarchia in tema di morale e spiritualità del lavoro non è una caratteristica solo dei nostri tempi. Una costante così radicata non può trovare spiegazione solo nella buona e cattiva volontà degli operatori, ma nella teologia che fa da supporto alla pastorale. La missione della chiesa e conseguentemente la pastorale, è centrata ancora troppo sull’autoconservazione. Si parla tanto di evangelizzazione, anzi di nuova evangelizzazione e talora da parte di molti preti e laici, si temono nuove iniziative. La mancata conversione alla pastorale sociale di molte nostre comunità è di fatto un’incomprensione o un inconscio rifiuto di ciò che esige di fatto l’evangelizzazione».[2]


[1] CEI Evangelizzare il sociale, n.7 

[2] Mons. Gaetano Bonicelli Per una rinnovata pastorale del mondo del lavoro, in La comunità cristiana e le sfide del mondo del lavoro, Ed. Dehoniane, Roma, 1997.