Il
Buon Samaritano
Eraldo Tognocchi,
Un viaggio nell'amore,
Cittadella Editrice.
Un uomo incappò nei ladroni
Il quadro è subito fosco e mena sventura. Quest'uomo che si mette in
cammino da solo e subito viene colpito, spogliato dei sui vestiti e dei
suoi averi, ricoperto di bastonate e abbandonato mezzo morto sul ciglio
della strada, è il simbolo di ognuno di noi? E' questa la sorte che la
vita riserva a tutti gli uomini in un modo o in un altro, in un mondo come
il nostro? Esagerato - può dire qualcuno. Vero, non è sempre così, ma è
certo che un giorno o l'altro, senza alcuna eccezione per nessuno, ci
capiterà di ritrovarci in mezzo a simili traversie: soli sulla via della
vita e in balia dei ladroni.
I ladroni non sono un incontro
casuale o un imprevisto marginale, ma fanno parte anch'essi delle regole
di questa vita sbagliata. Questo tipo di vita che gli uomini hanno
disegnato e impiantato sulla legge dell'egoismo e del tornaconto, questa
vita fondata sulla ricerca del successo personale ad ogni costo, sui cui
principi ispiratori gli uomini non hanno niente da ridire; questo tipo di
vita, che, con tanta determinazione ha voluto la società degli uomini,
proprio questa, porta nel suo seno e genera, per natura sua, un mucchio di
ladroni. Gesù, pur avendo potuto collocare lo svolgimento della parabola
in un ambiente meno pericoloso, di fatto, sceglie proprio questa strada,
tra Gerusalemme e Gerico, a tutti nota per le sue insidie, perché essa si
presta per fare da sfondo a un serio avvenimento: la vita è rischiosa e
piena di agguati e ogni ingenuità nel viverla potrebbe essere fatale:
"Ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi" (10, 3); "Vigilate e
pregate in ogni momento" (21, 36); "Vegliate e pregate per non cadere in
tentazione" (22, 46); "Siate prudenti come serpenti e semplici come
colombe" (Mt 10, 16). Certi mali sono inevitabili e bisogna prepararsi a
combatterli.
Un sacerdote vedendolo girò alla
larga
Adesso Gesù passa in rassegna i combattenti. Il primo è un disertore, e
avrebbe dovuto essere il capitano! E' un professionista della religione,
conosce la legge di Dio, guida la preghiera, passa il suo tempo in chiesa;
ma da lui non verrà nessun aiuto. Egli si trova solo per caso, sulla via
della sofferenza dell'uomo e, appena la scorge, gira alla larga. L'essere
accanto all'uomo che soffre, non fa parte dei suoi programmi, non rientra
nei suoi doveri: egli deve interessarsi delle cose di Dio. E Gesù lo
ripudia, nonostante la sua religiosità. Nessuno più di questo sacerdote
avrebbe dovuto rispondere alla fiducia e al bisogno di quel malcapitato; e
invece fugge e lo abbandona a se stesso. Nessuno, più di lui, avrebbe
dovuto riscuotere la fiducia di Gesù; e invece lo fa sparire per sempre
nella vergogna, sconfessato e bollato a fuoco come eterno rappresentante
dell'indifferenza e della crudezza del cuore. Tutti lo conoscono come
guida spirituale del popolo e lo riveriscono come dignità religiosa, ma
Gesù lo ripudia proprio perché questo è l' uomo più pericoloso per la sua
religione. Se non sapessimo che è Gesù a parlare penseremmo che si tratti
del discorso di un miscredente, e lo rigetteremmo in blocco, convinti come
siamo della sua malafede; vi scorgeremmo la volontà dissacratrice di un
nemico della religione e di Dio e non ci faremmo impressionare dalle sue
calunnie, dal suo racconto maligno e tendenzioso, lo riterremmo
un'invenzione sacrilega di un anticlericale che si diverte a denigrare i
preti e la religione e noi sdegnosamente lo ignoreremmo.
Ma siccome è Gesù a parlare, allora,
pur non nascondendo la nostra sorpresa e la nostra malavoglia, dobbiamo
metterci in ascolto e domandarci il perché di questo inatteso trattamento
così squalificatorio, riservato all'uomo di chiesa. Gesù vuole colpire una
liturgia e una pratica religiosa avulsa dalla carità e dalla vita; vuol
mettere in guardia la sua comunità dal pericolo di ridurre la religione a
un culto vuoto, fine a se stesso, che ignora gli uomini le loro tormentose
vicende. Gesù abbina audacemente e scandalosamente religiosità ufficiale e
mancanza di misericordia, perché sa che proprio questo peccato più di ogni
altro, subdolamente e inavvertitamente può infiltrarsi nelle coscienze dei
cristiani e inquinare la loro vita; perché sa che proprio questo peccato è
l'impostura che più snerva e svuota la vera religione, privandola della
sua genuinità e della su forza rinnovatrice e riducendola a involucro
noioso e senz'anima. Perché sa che proprio questo è il peccato che più
ipocritamente si mescola con le nostre celebrazioni liturgiche, le nostre
pratiche di pietà, le nostre feste religiose, e che viene perfino
inghiottito, tutto d'un fiato e senza scrupoli, col Pane eucaristico.
Gesù colpisce questa figura di
sacerdote che manca dell'amore all'uomo per dirci chiaramente che un tipo
come quello non lo vuole nella sua Chiesa perché paralizza quelli di
dentro e allontana quelli di fuori. Gesù rifiuta una religione senza
carità fraterna e riprova ogni tentativo di amare Dio senza amare il
prossimo. Gesù non ci convalida neppure l'amore a Dio, se non c'è l'amore
per gli altri, perché un tale amore è falso. Un Dio infatti, che non sia
anche padre dell'umanità non è mai esistito né mai esisterà. Un tale Dio è
falso, come falso è quell'amore che se lo immagina o tenta di farlo
esistere. Questo sacerdote è il tipo di tutti quei cristiani, di quelle
comunità cristiane che, solo per caso e al di fuori delle loro normali
attività, si occupano della gente che sta male e che da sola non riesce a
uscire fuori dalla chiusa prigione della sua disgrazia e del suo peccato:
"Questa - ci diciamo - è gente perduta, e noi non abbiamo tempo da perdere
per correrle inutilmente dietro; noi abbiamo ben altro da fare". La
maggior parte del nostro tempo, dei nostri sforzi e dei nostri soldi se li
divora il culto e la bella Precessione. Ma non la carità. Tutto viene
programmato: la Messa, la novena, la dottrina e, perfino i fuochi
d'artificio, ma a un programma per snidare la miseria e combatterla, a
questo non si pensa affatto. Manca, e non senza colpa, una necessaria
organizzazione delle nostre migliori energie per scoprire e sollevare quei
figli di Dio confinati nella desolazione della privazione materiale o nel
buio del vizio. Capita, certo, di fare anche di queste cose, ma per caso e
come incidenti noiosi di percorso, col cuore rivolto altrove e con uno
sforzo che duri il meno possibile. Molto meglio ancora se poi possiamo
delegare tutto ad una terza persona: a noi certi casi "fanno senso". Sì, è
vero, i prediletti di Cristo sono i poveri (4, 18; 7, 22), ma essi non
conosceranno mai il suo amore, né mai ne saranno guariti, finché noi
cristiani non ci decideremo a rivelarglielo col nostro amore (14, 21-23).
Il levita
Il secondo si comporta da funzionario, mentre avrebbe dovuto essere un
buon soldato! Egli non ha idee molto originali e personali, ma un'idea ben
precisa e funzionante se l'è fatta con gli anni: stare sempre dalla parte
dei più forti e comportarsi sempre come loro. Per questo gira alla larga
proprio come il suo sacerdote. Ora "egli arriva sul posto". Per capire
questa finezza del discorso di Gesù, bisogna subito fare il confronto col
samaritano che arriva "vicino a lui". C'è una tragica differenza tra
l'arrivare sul posto e l'arrivare vicino all'uomo. Il levita è il tipo di
tutti coloro che, nella Chiesa, sono sempre ai loro posti, hanno in
consegna istituzioni, leggi, fabbricati e secolari costumanze, ma pensano
agli uomini come freddi ingredienti di questi venerabili e benemeriti
congegni; che guardano agli uomini come ombre che passano appena sulla
concretezza dei loro calcoli e dei loro assetti. Anzi, qualche volta non
li guardano affatto e, quando sono forzatamente chiamati a notarli, si
mostrano palesemente seccati di doversi occupare di loro, e di essere
stati costretti a scendere dal limpido cielo dei loro conteggi. Ogni uomo,
per costoro, è una pratica; e quando lo devono trattare direttamente, si
vede lontano un miglio che essi non sono addetti al trascurabile incarico
di occuparsi di loro.
Il loro compito è solido e reale;
non ha niente di immaginario e di imprendibile come quello di chi affronta
problemi di coscienza, complicate inquietudini interiori, drammi di
incomprensione, dubbi e fatiche per cercare la verità, o tentare di
esporla con fedeltà e chiarezza in un linguaggio comprensibile anche per
la povera gente.
Quanti si occupano di simili cose sono per loro degli acchiappanuvole
inconcludenti.
Essi invece camminano sulle buone e care basi su cui tutto (secondo loro)
si regge nella Chiesa: amministrazione di soldi e di sacramenti che
agiscono ex opere operato, conservazione di edifici e patrimoni,
attuazione letterale e rigorosa delle leggi, doveroso sospetto per ogni
forma di rinnovamento; e infine una buona scorta di abiti filettati e di
titoli onorifici diversi per distinguere diligentemente tra eccellenze,
eminenze e monsignori.
Il samaritano
E finalmente, il terzo combattente è un bravo soldato e va al fronte (era
in viaggio), ma purtroppo non è mai stato arruolato e non fa parte di un
esercito regolare. E' solo un samaritano, eretico e scismatico,
disprezzato e odiato più di un pagano. Gv 8, 48 ci riferisce che i giudei,
al colmo della rabbia, in un diverbio con Gesù, lo ingiuriano con gli
insulti più infamanti del loro disprezzo, chiamandolo samaritano e
indemoniato (si badi bene: prima samaritano e poi indemoniato!). Gesù
reagisce all'accusa di indemoniato ma non si difende da quella di
samaritano. Gv 4, 9 ci riferisce, attraverso le parole di una donna del
luogo che l'ostilità tra giudei e samaritani era tale che non osavano
chiedersi neppure un goccio d'acqua da bere.
Ora Gesù prende proprio questo straniero diffamato, inesperto delle cose
di Dio, per farne il suo tipo e il soccorritore dell'uomo ferito e
depredato. Costui gli va bene. Sembrava la persona meno adatta, e invece
Gesù lo preleva dalla sua irregolarità e lo pone, come salvatore, accanto
all'umanità sofferente e tradita.
Un momento fa, due addetti ai lavori, due persone religiosamente
ineccepibili, sono state riprovate, solo perché hanno fallito nell'amore
al prossimo e gli hanno negato la loro misericordia; ora un miscredente
viene approvato e portato come esempio da imitare, solo perché ha avuto
compassione di lui.
Mi sembra che non ci possa essere alcun dubbio sulla conclusione da trarre
circa l'insegnamento di Gesù: la nostra appartenenza a Dio la decide il
nostro amore per il prossimo. Il nostro amore a Dio è vero, se è
altrettanto vero il nostro amore per l'uomo. Il nostro amore all'uomo è la
prova inconfutabile e insostituibile della verità del nostro amore a Dio.
"Un samaritano che era in viaggio arrivò vicino a lui". Accostando queste
due espressioni "era in viaggio" e "arrivò vicino a lui" sembra che Luca
voglia ottenere l'effetto di farci pensare che il suo viaggio era diretto
ad arrivare vicino a lui: ora è arrivato a destinazione, ha trovato quello
che cercava, si è fermato proprio dove voleva.
Lo scopo della vita non è quello di arrivare in qualche luogo (sul posto)
ma di arrivare vicino a qualcuno. Che senso può avere la nostra vita se
non fa felice nessuno? Che ve ne fate di voi stessi se non c'è qualcuno
che si rallegri di voi, anche solo al pensiero di avervi? Se non c'è
qualcuno che vi esalta appoggiandosi a voi e gridando di gioia perché ci
siete? Che significato può avere la vostra vita se non c'è nessuno che la
cerca, se non c'è nessuno che la stringa e la ritenga una fortuna per la
sua, e piange quando non ci siete, e muore di paura e di dolore appena
pensa che un giorno o l'altro non ci sarete più? Che ve ne fate di tutto
quello che possedete se non vi serve per esercitare il meraviglioso potere
di allontanare lo sconforto, la solitudine e il pianto dalla vita di
qualcuno che, ormai, solo a questo si credeva destinato? Che ve ne fate di
tutto quello che possedete se non c'è qualcuno che ricevendolo dalle
vostre mani, riprenda ad amare quella vita che prima temeva, perché ora
potrà mangiare, vestirsi, studiare, nutrire i suoi bambini, avere un luogo
decente in cui abitare e smettere di tremare di paura per il domani,
perché ormai voi siete diventati la sua speranza, la fine dei suoi
patimenti e delle sue angosce?
Se qualcuno ha incominciato a credere nella vita e a conoscere un po' di
felicità dall'ora in cui vi ha incontrato, voi avete liberato la vostra
vita dal bisogno di ulteriori spiegazioni, voi avete vinto il non senso
che minaccia tutte le altre vite. Ora voi potreste perfino dire che la
vostra stagione si è compiuta, perché il vostro albero ha maturato tutti i
suoi frutti; ora voi potreste perfino morire perché ormai voi avete
attuato l'eterno, voi avete toccato l'essenza del "sempre", voi avete
eguagliato Dio, siete diventati veramente come Lui: artefici di vita,
autori di risurrezione.
Queste sono le vere giustificazioni
dell'essere e dell'avere, al cui confronto tutte le altre sono morte e
cose da morti. Vive chi sa far vivere. Il samaritano vive di questo.
Le persone, la loro vita, le loro
pene e le loro gioie sono l'obbiettivo di questo viandante, scelto da Gesù
a rappresentare se stesso. Non è difficile, infatti, scorgere sotto le
sembianze del samaritano, la persona di Gesù; è in viaggio come lui (9,
57; 10, 1.38; 13, 22; 14, 1.25). E' mosso da quello stesso sentimento di
misericordia che commuove Gesù alla vista delle folle stanche e prostrate
come pecore senza pastore (Mt 9, 36), alla vista della madre vedova che
accompagna il figlio morto (7, 13), alla vista dei figliuol prodigo che
ritorna (15, 20). Attua la profezia di Ez 34, 16 riferita al Messia
pastore che "andrà in cerca della pecora perduta, ricondurrà all'ovile
quella smarrita, fascerà quella ferita e curerà quella ammalata".
Ebbe compassione
E questa l'impetuosa sorgente di
ogni rimedio. La compassione è quel sentimento divino che ti fa patire
insieme all'altro il suo dolore, che ti comunica un po' di quella
onnipresenza di Dio facendoti rompere il cerchio del "io" per andare a
vivere nel cerchio infuocato del dolore dell'altro. Il verbo greco
esplanknisthe tradotto letteralmente significa "gli fremettero le
viscere". E' un'immagine più sensitiva, fisiologica e che sembra voler
esprimere l'accoglienza dell'altro dentro il nostro ventre, farlo abitare
con tutto il suo dolore dentro il nostro corpo. Andare a vivere il dolore
dell'altro con lui, o chiamarlo a vivere il suo dolore dentro di noi, è
sempre quello stesso tipo di vicinanza inventata dal Signore per venirci a
salvare, che si chiama incarnazione. E' forse per questo richiamo
all'incarnazione che Luca ha incastonato la compassione di questo testo
tra i due verbi "arrivò vicino a lui" e "si avvicinò", che, messi così di
seguito, l'uno dopo l'altro, danno il senso dell'incollamento delle due
vite, dell'unificazione delle due sorti. La vicinanza è la residenza della
compassione e dell'amore, è la condizione richiesta perché l'amore possa
operare. E' questa la postazione per muovere guerra ai mali del prossimo,
la base di partenza di tutte le operazioni di soccorso per chi voglia
realmente intervenire nella vita di chi soffre. Senza vicinanza, l'amore è
velleitario e inutile; e le ferite del prossimo rimangono aperte e
scoperte, senza la morbidezza di un po' d'olio che possa lenirle (Is 1,
6).
Versò sopra olio e vino
Qui l'olio e il vino compaiono abbinati come farmaci. Nell'Antico
Testamento si parla, sì, dell'olio con cui si curano le ferite, ma mai lo
si ritrova unito al vino in questa veste. Olio e vino insieme, sono,
invece, due voci essenziali per la descrizione dell'abbondanza dei
raccolti e del tripudio della mensa. Così insieme, come sono messi nella
parabola, sanno di medicina ma profumano anche di "ora di pranzo" e si
portano dietro immagini e richiami conviviali. Chi sa che qui Luca non
voglia allargare simbolicamente il suo modello fino a farlo diventare,
anche solo allusivamente, comprensivo della raccomandazione di soccorrere
i miseri dando loro da mangiare e da bere e invitandoli alla propria
mensa?
Lo condusse in un albergo
Strana quest'idea dell'albergo: fa pensare più a un soccorso commissionato
ad altri, che non a un servizio da prestare personalmente e con amore. Per
illustrare l'insegnamento di un amore fraterno, in un caso come questo,
poteva venire in mente l'idea della casa del soccorritore, come ulteriore
prova di amore partecipante e ospitale; o anche la casa dell'uomo
aggredito, come segno e prova di un'opera di carità felicemente conclusa e
compiuta fino in fondo; ma mai l'idea dell'albergo. Per questa ragione è
da escludersi che esso possa ridursi a un elemento puramente coreografico
e ornamentale. Nel quadro di questa parabola, la presenza dell'albergo
occupa un posto così rilevante e lì si svolgono operazioni così numerose e
importanti, da farci concludere che esso appartiene all'essenza del
racconto e che, quindi, il narratore l'ha voluto espressamente, dandogli
un suo speciale significato al fine di ricavarne un insegnamento ben
preciso. Sotto l'immagine dell'albergo credo che si debba vedere la
Chiesa, dentro la quale Gesù è venuto a curare l'uomo, ma dalla quale,
fisicamente un giorno se ne andrà, lasciando proprio ai cristiani la
consegna di condurre compimento l'opera da lui iniziata. Pandokeion:
il termine greco che abbiamo tradotto con "albergo” appare solo qui in
tutto il Nuovo Testamento, e tradotto letteralmente significa "accoglienza
universale". Ci vuole poco a immaginare che Luca abbia scelto questo
vocabolo con l'intenzione di farci pensare al cosmopolitismo della Chiesa
e alla sua missione di accoglienza universale, che, ai suoi tempi, doveva
essere per i cristiani il vanto più progressista, il punto di forza
maggiore della speranza di liberazione e di progresso religioso e civile
di tutto il mondo. Avrebbe potuto usare cataluma che aveva già
impiegato nel racconto della nascita di Gesù, e invece preferisce questo
termine che con le sue radici filologiche di pan (tutto), e
dokeo (accogliere), ben si prestava a disegnare la figura della Chiesa
comunità aperta a tutti.
Si prese cura di lui
Credo che non ci debba sfuggire questa cura quasi pignola di volerci far
notare che, una volta arrivati all'albergo, il samaritano si prende cura
personalmente del ferito. Non lo affida alla servitù, ma lo tiene sotto le
sue cure dirette e personali Solo il giorno dopo, quando dovrà andarsene
lo consegnerà all'albergatore.
I Vangeli ci presentano Gesù che non agisce mai da solo, però è sempre il
primo. Coinvolge e sempre si trascina dietro la folla dei discepoli, ma è
sempre lui a iniziare e a precederli in tutto. Tipica e molto vicina alla
nostra è la narrazione della moltiplicazione dei pani (9, 12-16) dove i
discepoli si accorgono dell'incombere della notte, del freddo e della
fame, ma non sanno proporre altro rimedio se non che ognuno se la sbrighi
da solo e a modo suo: "Ora il giorno cominciò a declinare: avvicinatisi i
dodici gli dissero: "Licenzia la folla affinché partendo per i villaggi e
le borgate d'intorno, vi alloggino e trovino vitto perché qui siamo in un
luogo deserto". Ma egli disse loro: "Date voi loro da mangiare..."". E'
Gesù che inaugura un modo nuovo di guardare le necessità degli altri: per
gli apostoli sono affari loro, ma per Gesù sono affari nostri. Siamo noi
che dobbiamo provvedervi: "Date voi loro da mangiare". Gli apostoli
avrebbero voluto lasciare a ognuno di loro il proprio affanno, Gesù invece
categoricamente li impegna a sollevarli da quel peso. Solo Dio è buono (Lc
18, 19) e solo da lui si può imparare la bontà. Alla fine, gli apostoli
distribuiranno il pane alla folla, ma sarà stata la parola e l'opera di
Gesù a convincerli e a condurceli. Ognuno di noi è un convertito
all'amore, dall'amore di Gesù. Noi siamo degli egoisti e non sappiamo
immaginare nient'altro che il nostro tornaconto e il nostro sgravio; solo
Gesù, che è l'amore, immagina e attua una vita di servizio spesa nella
cura degli altri. Anche in questa parabola il samaritano, alla fine,
consegnerà l'ammalato all'albergatore, ma solo a cure iniziate e dopo
avergli dato l'idea di cosa e di come dovrò fare; solo dopo avergli dato
"un esempio affinché come ho fatto io facciate anche voi (Gv 13, 15).
L'albergatore ha bisogno di vedere
l'amore in atto perché ci possa credere e lo voglia praticare. L'amore
resterà sempre una bella ma inattuabile utopia finché qualcuno non ci
convincerà del contrario, facendocelo vedere all'opera. Ma "noi abbiamo
visto l'amore".
Il giorno dopo
Il giorno del samaritano passerà, ma tutti quelli che verranno dopo, si
richiameranno sempre a lui e cominceranno a contarsi a partire proprio di
lì, perché non se la sentiranno più di essere diversi: vorranno tutti
rassomigliargli. In quel giorno è successo qualcosa di unico, Gesù ha
compiuto una tale novità che, prima di lui, non solo non era mai accaduta.
ma neppure era stata immaginata: l'oppresso è stato raccolto e curato
senza interesse per il soccorritore, anzi, con suo scapito. Una novità
assoluta di cui la storia dopo di lui (il giorno dopo) non riuscirà mai
più a dimenticarsi e di cui gli uomini, dopo di lui, non riusciranno mai
più a liberarsi. La vecchia religione ebraica, rappresentata dal sacerdote
e dal levita, non aveva mai fatto niente del genere per quest'uomo
sfortunato e carico di piaghe; neppure le altre istituzioni e culture del
passato si erano mai sentite in dovere di chinarsi sulla sua sofferenza:
l'uomo che soffriva, moriva con tutto il loro benestare (Gv 10, 8). Il
samaritano invece rompe con tutto il passato e istituisce una nuova fede,
una nuova civiltà, una nuova cultura che continuerà dopo di lui (il giorno
dopo) nei suoi discepoli (albergatore). E' lui il primo a cercare di
salvare l'uomo e a proclamare ai suoi discepoli che questo è un compito
indispensabile e una legge irremovibile anche dopo di lui (il giorno
dopo). Ormai i poveri e i morenti, abbandonati sul ciglio della strada,
sanno che qualcuno dovrà passare a raccoglierli per comando di Cristo e a
condurli all'albergo; ormai tutti i poveri e i bisognosi sanno che
all'albergo potranno ricevere sostentamento e cura, perché il samaritano,
quando se n'è andato, ha lasciato all'albergatore la sua stessa
incombenza: "Prenditi cura di lui". Sotto questa immagine del samaritano
che se ne va, ma che viene rimpiazzato dall'albergatore, mi pare che si
celi l'avvertimento che Gesù non intende guarire l'uomo da solo, ma
pretende la collaborazione dei suoi discepoli e di tutti gli uomini che
possono. Di fatto la parabola suppone una guarigione in due tempi: il
primo è il giorno del samaritano, e il secondo è il "giorno dopo", quello
del l'albergatore, con la restituzione della salute proprio nel "giorno
dopo". Sembra che Gesù voglia avvertirci che non intende riservare tutto
per sé il merito di questa grande impresa, ma che lo vuole condividere con
noi. Il povero deve essere guardato e curato, in parti uguali, da Gesù e
da noi. Gesù lascia la sua opera a metà, perall'altra metà ci dobiamo
pensare noi. Se noi non ci decideremo a cercare insieme a lui le miserie
del mondo, la sua azione resterà sempre a mezza strada, eternamente
incompleta.
Prenditi cura di lui
L'ordine viene impartito con quello stesso verbo con cui è stata descritta
l'opera del samaritano: "Si prese cura di lui". Luca usa lo stesso verbo
per far risaltare l'identità del compito: l'albergatore (il cristiano)
deve impegnarsi nella medesima opera del samaritano (Gesù). In quell'albergo
(la Chiesa) si deve mandare avanti la sua stessa attività. E' questa la
consegna che Gesù lascia alla sua Chiesa: prenditi cura di lui come hai
visto fare da me (7, 21-23; 9, 1). Occupati di tutta quella gente che,
come lui, ha subito tracolli e sventure; li affido a te e al tuo aiuto
perché, d'ora in avanti, il mio aiuto sarà continuato dal tuo, ma nel tuo
si dovrà, per sempre, riconoscere il mio. La cura dei cristiani per gli
abbandonati e i vinti fa parte essenziale dell'identità della Chiesa e
della sua somiglianza col Signore.
Gli consegnò due denari
Nei Vangeli il numero 2 ha spesso un valore simbolico che si richiama ai
due popoli, quello ebraico e quello pagano, che sempre, anche se in modo
diverso, furono oggetto della cura di Dio, e che poi, insieme, hanno
finito per formare la Chiesa. Ricordiamo poi i due figli (Mt 21, 28; Lc
15, 11); i due discepoli (Mt 4, 18-20; Lc 24, 13; Gv 1, 35); i due ciechi
(uniti in Mt 20,29; separati in Mc 8, 22 e 10, 46); i due indemoniati
(uniti in Mt 8, 28; separati in Mc 1, 23 e 5, 1); i due spiccioli della
povera vedova. Nel nostro caso può voler significare tutte le ricchezze.
Gesù ci invita ad impegnare, in questa opera di misericordia tutte le
nostre ricchezze, tutte le nostre migliori risorse. E' in questo impiego
per gli umili che i nostri beni e la nostra vita trovano la loro
legittimazione e la loro consacrazione.
Quello che spenderai di più
Non potremo essere ricompensati per ciò che non avremo donato. Quello che
ci siamo tenuti è esso stesso il nostro salario: non ci spetta altro. La
ricompensa ci sarà solo per ciò che ci siamo tolti, per tutto ciò che
avremo dato agli altri. Ma che significato ha quello "spenderai in più"?
Cosa si può spendere in più di tutto? Sì, c'è sempre il cuore, c'è sempre
l'amore che deve essere dato in più delle cose. Le cose non possono
sostituirci nel dono di noi stessi. E' vero che si deve amare col dono
delle cose, perché esse sono necessarie ai bisogni reali della vita; e
vero che senza di esse l'amore sarebbe aereo e inefficace, ma queste cose
devono nascere dal dono del cuore e devono preparare il dono della vita.
E' quel tanto di cuore e di dono della vita che si deve aggiungere ai doni
di Dio, a far parlare Gesù di una possibile spesa in più? Oppure con
questo "in più" Gesù vuole preparare anche l'idea di una ricompensa
superiore? Credo che siano vere ambedue le cose. Questo "in più" infatti,
mentre riguarda la spesa della vita, pone le premesse e prende le misure
di una ricompensa infinita.
"Quando ritornerò te lo renderò"
Questo verbo "ritornerò" (epanerkesthai) ricorre solo qui e in 19,15 dove
serve per indicare il ritorno di Gesù nell'ultimo giudizio. E' presumibile
che anche qui si voglia intendere il ritorno finale di Gesù, col quale si
porrà fine alla vita del cristiano e della Chiesa. Alla fine saremo
ricompensati, soprattutto, per questo bene fatto ai miseri (Mt 25, 31ss).
Il nostro rapporto compassionevole con la sofferenza del mondo determina,
essenzialmente, a nostro vantaggio l'esito finale del giudizio di Dio
sulla nostra vita.
Ci ha già consegnato i due denari, tutte le ricchezze dei popoli, ma per
chi si prodiga ad aiutare i bisognosi, non c'è paga adeguata in questo
mondo: tutti i beni del mondo sono insufficienti e sono ancora troppo
poco. L'opera di misericordia è così smisuratamente grande che per essere
adeguatamente ricompensata c'è bisogno, niente meno, che dei beni eterni.
"Chi di questi tre ti pare che
sia stato prossimo?"
Lo scriba aveva fatto la domanda: "Chi è il mio prossimo?", ora Gesù la
riprende, ma, alla luce della parabola e dei fatti della sua vita, la
trasforma cambiandole direzione. Quella dello scriba era diretta a sapere
l'oggetto dell'amore, quella di Gesù, il soggetto dell'amore. E'come se
Gesù dicesse: la domanda è posta male perché il problema è guardato dalla
parte sbagliata. Prima ancora di indagare da che parte deve andare l'amore
dobbiamo sapere da dove deve partire. E' inutile domandarci chi deve
ricevere l'amore, se prima non sappiamo con certezza chi lo deve dare.
Prima di tutto dobbiamo assicurare l'esistenza dell'amore, poi ne
definiremo l'operare. Così Gesù rovescia la prospettiva: il prossimo non è
più colui che deve essere amato, ma colui che deve amare. Nella mente di
Gesù si è operato un trasferimento dell'idea di "prossimo" dall'altro a
noi. Egli ci sorprende rivelandoci che la legge dell'amore al prossimo non
è comandata dalla diversa condizione o natura dell'altro, ma dalla natura
del nostro essere. E'una legge dell'"essere" cristiano, prima ancora che
una regola del suo fare o una richiesta dello stato di bisogno dell'altro.
Un cristiano è tale, solo se ama sempre. Si vede, dunque, che l'amore al
prossimo non poggia sull'oggetto a cui è diretto, ma sul soggetto che lo
dirige. E' per questa ragione che porsi la domanda: "Chi è il mio
prossimo?" è porsi sulla strada sbagliata. Essendo tu il prossimo che deve
sempre amare, è chiaro che chiunque ti si avvicini dovrà ricevere sempre
questo tuo amore. Con questo trasferimento di concetti, Gesù ci toglie
dalla testa e dalla bocca ogni pretestuoso tentativo di sospendere l'amore
in taluni casi o di distinguere tra caso e caso. Non è mai lecito
sospendere questa emissione d'amore, pena la perdita della nostra identità
di cristiani. In forza di questa innovazione del Signore, ognuno di noi
deve farsi prossimo agli altri, e tutti gli altri devono poter vedere in
noi il vicino che li ama. Si tratta di amare gli altri in modo così
convinto e persuasivo che gli altri, incontrandoci e guardandoci, si
debbano accorgere che noi li amiamo; e scorgendo il nostro interessamento
e la nostra preoccupazione per loro, siano portati a rallegrarsi perché
non sono più soli, ma, fortunatamente, hanno un vicino. Questa conclusione
tanto sorprendente, condotta sul filo della domanda di Gesù ci mette di
fronte a un piano d'amore che sconvolge gli assetti mentali e pratici a
cui ci eravamo abituati; ci scomoda da tante posizioni in cui,
quietamente, ci eravamo sistemati; e rischia di incrinare le troppo facili
sicurezze di dottrine e comportamenti che ormai ritenevamo tanto assodati,
ineccepibili e definitivi, ma forse solo perché ancora, non avevamo
ascoltato e custodito nel cuore la parola del Signore.
"Colui che gli ha usato
misericordia"
L'altra sorpresa ci viene dalla risposta dello scriba. Avrebbe potuto
rispondere: "il terzo", oppure "il samaritano"; e invece sceglie la via
più lunga e dice: "Colui che gli ha usato misericordia"; arrivando in tal
modo a identificare l'amore del prossimo con l'amore di misericordia.
L'essenza del vero amore al prossimo è la misericordia, tanto che senza di
essa, l'amore si sperde in inutili e ingannevoli slanci, non cura i mali
veri o dove realmente si trovano, porta aiuti a chi non ne ha bisogno, e
interviene solo quando il caso diventa sentimentalmente gradevole e
gratificante. Vedi certe opere buone fatte con molta scena o anche con
apparente noncuranza che hanno quasi esclusivamente lo scopo di fare del
benefattore un personaggio, o di accarezzarne il sentimento. L'amore del
prossimo equivale ad avere cuore per la sua miseria (questo significa
"misericordia") e a mettere in atto tutto quanto per soccorrerla. Ma c'è
da tirare un'altra conseguenza ugualmente importante: gli altri dobbiamo
guardarli bene, senza farci ingannare da quella loro aria di sicurezza con
cui si addobbano per coprire le loro paure e i loro drammi, e poi ci
accorgeremo sempre di una loro miseria. Dobbiamo cercare di avvicinarci a
loro come fa il Samaritano per poterli vedere nel profondo della loro vera
realtà, non come tentano di apparire; e alla fine immancabilmente una loro
ferita nascosta ci farà sempre compassione. Ogni uomo, se lo vediamo con
l'occhio giusto, quello del vero interessamento per lui e quello della
fede, se lo vediamo senza temere la fatica di guardare a fondo, né il
fastidio di dover scoprire cose raccapriccianti che poi ci chiederanno di
accollarci il peso della loro cura, ogni uomo, dico, ci mostrerà sempre il
suo lato doloroso e preoccupante, la sua scontentezza o anche il suo
fallimento, perfino la sua possibile ultima rovina. L'uomo è sempre un
misero, incapace di salvarsi da solo, chiunque esso sia e dovunque si
trovi; ma resisterà sempre a ogni intervento, rifiuterà ogni sorta di
aiuto se non si incontrerà con un amore misericordioso che, conoscendo il
suo male, non lo offenderà; che penetrandogli dentro, non violerà nessuna
segretezza; che volendolo curare, non lo vorrà assoggettare. Allora egli
troverà il coraggio di uscire dalla sua falsa corazza e, lasciato ogni
timore, liberamente, chiederà di essere guarito. Solo così l'amore
cristiano può mettersi in cammino alla maniera del Samaritano e mettere in
atto il comando di Gesù: "Va e anche tu fa' altrettanto".