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TREMORE ED ESTASI
lettura spirituale di Padre Pino Stancari, biblista (Mc 14 -16,8)

Nel Santo dei Santi

Tutta la costruzione catechistica del Vangelo di Marco si è sviluppata a partire dal nucleo originario: il racconto della passione. Queste narrazioni, anche se le leggiamo alla fine, precedono tutte le altre, sono al centro di tutta la costruzione.

Il vangelo secondo Marco è il più antico tra i Vangeli, e il racconto della passione è così il punto di partenza attorno al quale si viene costituendo non solo questo vangelo, ma tutta la letteratura evangelica che poi fiorirà gli altri scritti: Luca, Matteo, Giovanni. In qualche modo abbiamo a che fare con un testo che si presenta come il "Santo dei Santi", il nucleo originario.

Il racconto della passione si compone di 7 sezioni.

Prima sezione, Betania, 14,1-11.

Seconda sezione, Cenacolo, 14,12-25.

Terza sezione, Getzemani, 14,26-52.

Quarta sezione, Sinedrio, 14,53-72.

Quinta sezione, Pretorio, 15,1-20a.

Sesta sezione, Golgota, 15,20b-39.

Settima sezione, Sepolcro, 15,40-16,8.

Ognuna della sette sezioni si articola a sua volta in tre quadri e l’articolazione è costruita in modo tale che il primo e il terzo quadro fanno da corona al secondo che è quello centrale.

 Prima sezione: Betania 14,1-11 

Siamo a Betania, tre quadri:

il primo (14,1-2);

il quadro centrale, quello più ampio, (vv. 3-9) con l’episodio di Betania;

terzo quadro (vv. 10-11).

 «Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui con inganno, per ucciderlo. Dicevano infatti: "Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo"». A due giorni dalla Pasqua già le autorità di Gerusalemme hanno preso la loro decisione: tutto dovrà avvenire in modo da evitare tumulti di popolo.  «Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù». Dal complotto si giunge al tradimento: consegnare Gesù. «Quelli all’udirlo si rallegrarono e promisero di dargli denaro. Ed egli cercava l’occasione opportuna per consegnarlo». Adesso la preoccupazione dominante non è più quella di evitare tumulti di popolo, ma quella di trovare l’occasione opportuna perché Gesù sia consegnato. Hanno pattuito tra di loro quale somma di denaro deve essere versata. I due quadri, primo e terzo, che fanno da cornice a questa prima sezione, ci hanno messo al corrente di alcune notizie: la morte di Gesù è stata decisa, ma rimane in sospeso a quanto ammonta il compenso che verrà pagato a Giuda. «Promisero di dargli denaro». Nel vangelo secondo Marco non è precisata l’entità della somma, come invece avviene nel vangelo secondo Matteo. Si parla di una promessa. Quanto vale? Quanto vale la vita di un uomo condannato a morte? Quanto vale la vita di un uomo che muore?

Ora leggiamo il secondo quadro, quello centrale: «Gesù si trovava a Betania nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa...». E’ un momento di festa rallegrata dalla presenza di Gesù in mezzo ad altri commensali ed amici, nella casa di Simone il lebbroso. Abbiamo incontrato un lebbroso alla fine del cap.1 nel nostro vangelo e c’è un altro personaggio di nome Simone, il discepolo del Signore. A Betania Gesù si trova nella casa di un uomo che si chiama Simone, come il discepolo, e che è stato lebbroso, come quel tale che andò incontro a Gesù nel cap.1. Siamo in casa sua?
Compare una donna, anonima. Non dirà nulla, né adesso, né poi; non apre bocca, compie un gesto. «Giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo». Questo gesto immediatamente viene duramente rimproverato. «Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: "Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere tutto questo olio a più di trecento denari e darli ai poveri!». Trecento denari è una somma ingente. Un denaro è il salario giornaliero di un operaio, trecento denari sono più o meno quello che un uomo guadagnava in un anno.  Quello che un uomo guadagnava in un anno è sprecato in un rivoletto di unguento che si disperde, in una nuvola di profumo che dilaga nell’ambiente. «Erano infuriati contro di lei». Uno spreco di vita, una vita sprecata. Trattare la vita umana come un puro spreco, questo è il rimprovero che tutti stanno muovendo con parole aspre o mugugni.
A questo punto prende la parola Gesù :«Allora Gesù disse: "Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona». La donna tace, non si difende; è Gesù che parla per lei e di lei. Solo Gesù può spiegare quello che quella donna ha compiuto. Lei ha compiuto quel gesto quasi senza averci pensato; non saprebbe rispondere a quelli che la stanno accusando di sprecare il necessario per i poveri. "Ha compiuto verso di me un’opera buona". Il testo greco dice: ergon kalon, un’opera bella. Nel contesto di quella serata festosa tra amici a Betania solo Gesù sa che sta per morire. A Betania Gesù è l’unico che sa di essere in cammino verso la morte. Lo ha detto a più riprese ai discepoli e nessuno ha dimostrato di prenderlo sul serio. A Betania c’è un’altra persona che sa: la donna che ha compiuto quel gesto sa qualcosa di Gesù che gli altri non sanno; ha letto più in profondità degli altri il significato degli eventi in corso. Quella donna sa che Gesù va incontro alla morte. Questa donna è l’unica fra tutti che ha saputo apprezzare la bellezza dell’evento in corso: la sua morte è determinata dall’amore. Quella donna ha mostrato che la bellezza di questa morte per amore merita tutta la sua dedizione. Ha rotto il vasetto del profumo, ha versato l’unguento ed ora rimane li, quasi paralizzata, nella consapevolezza di avere compiuto un gesto inconsulto per tutti gli altri. Non ne ha potuto fare a meno e ora non sa nemmeno come spiegare. Gesù lo spiega. Quanto vale la vita di un uomo? La vita di un uomo vale un prezzo d’amore che non ha altro limite che la morte. Gesù è chiarissimo nella interpretazione del gesto compiuto dalla donna; espressamente accenna alla sua sepoltura: «i poveri li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre».
Un uomo che muore, come Gesù, quanto vale? Vale un atto d’amore. Gesù aggiunge: «In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto». Dovunque sarà annunciato l’evangelo si parlerà di lei, di coloro che compiono atti d’amore. È una promessa autorevolissima. L’evangelo sarà annunciato nello scorrere di eventi che manifesteranno la presenza strabiliante di una fedeltà nell’amore gratuita e intransigente. Qualcuno sarà pronto a morire per amore della vita di un uomo che muore. Perché? Per la bellezza dell’amore, per la bellezza che è nel gesto, nel dono di amore e per quella bellezza che l’amore sa contemplare nella vita di un uomo che muore.
 

Seconda sezione : Cenacolo 14,12-25.

 Siamo nel Cenacolo. Tre quadri:

il primo quadro (14,12-16);

il quadro centrale (14,17-21);

il terzo quadro, quello che chiude la sezione (14,22-25).

 Nel primo quadro ci sono i preparativi in vista del banchetto della Pasqua (o il banchetto del Pasqua, come bisognerebbe dire, perché il Pasqua è l'agnello pasquale. L'agnello pasquale è immolato di anno in anno per ricordare quello che avvenne al tempo della schiavitù in Egitto, quando con il sangue dell'agnello furono identificate le case abitate dai figli di Israele; adesso c’è un nuovo agnello e altro sangue è versato; da un altro sangue sono segnati coloro che partecipano a questo banchetto.

Nel quadro centrale (vv. 17-21), Gesù è a tavola con i dodici. «Mentre erano a mensa e mangiavano, Gesù disse: "In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà"». Incominciano uno dopo l'altro a interrogarlo: "Sono forse io?". L'accento è posto proprio su questo interrogativo drammatico, sconvolgente. "Sono forse io che partecipo a questo banchetto in qualità di traditore?" Ciascuno dei dodici si considera interpellato in prima persona: sono io? Gesù precisa: "Uno dei dodici, uno che intinge con me nel piatto. Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell'uomo dal quale il figlio dell'uomo è tradito! Bene per quell'uomo se non fosse mai nato". Perché io sono nato? E possibile che io sia nato per tradire? Il tradimento dell'agnello mi riguarda? Il sangue versato dell'agnello da cui prendo vita è zampillato a causa del mio tradimento? Sullo sfondo di questa pagina evangelica c’è una pagina dell'Antico Testamento, il Sal 41: "Beato l’uomo che si prende cura del debole". Nel Sal 41 compare una precisa allusione a colui che mangia nello stesso piatto e che tradisce. " Anche l’amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno" (41,10) E’ Gesù stesso che si presenta ai discepoli assumendo in pieno la condizione del debole, dell’indifeso, del consegnato. L'agnello è proprio lui. Gesù si presenta nella condizione dell'agnello.

 Terza sezione: Getzemani 14,26-52

Siamo nel Getzemani. Anche qui tre quadri.

Il primo quadro (14,26-31), il racconto del trasferimento dal Cenacolo fino al Getzemani;

il secondo quadro, quello centrale (14,32-42);

il terzo quadro, conclusivo (14,43-52).

 Primo quadro(14,26-31). Dopo aver cantato l'inno con cui si conclude il banchetto pasquale (il Sal 136), uscirono per recarsi sul monte degli Ulivi, e nel corso del cammino, Gesù, citando il profeta Zaccaria, preannuncia lo scandalo dei discepoli: «sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse». Se nella sezione precedente dominante era la figura dell'agnello, in questa sezione dominante è quella del pastore: Gesù, il pastore, sarà colpito, sarà percosso, sarà abbattuto; le pecore saranno disperse. Rispondendo a questo annuncio, Pietro ci tiene a precisare che in nessun modo lui cederà allo scandalo: «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò». Pietro sta ancora riecheggiando l'interrogativo che i dodici avevano preso in considerazione l'uno dopo l'altro, nel Cenacolo: "sono forse io?" Pietro dice che non sarà certamente lui la pecora che si disperde e dimostra così la sua estraneità ai fatti che si stanno compiendo. Lui e gli altri che, a loro volta, condividono la sua stessa presa di posizione.

Il secondo quadro è centrale (vv. 32-42). Ci riferisce della preghiera di Gesù. Gesù prende con sé tre discepoli, li invita a vegliare, poi si getta a terra e prega. E diceva «Abbà, Padre!». Una volta, due volte, tre volte, insistentemente ripeteva "quella medesima parola", dice il testo greco al singolare (ton autòn logon). Quella medesima parola è: Abbà. E’ la preghiera di Gesù nel Getzemani: una invocazione incessante, martellante, appassionata del Padre che finalmente il Figlio interpella in modo scoperto e diretto. Fino a questo momento, nel Vangelo secondo Marco, non abbiamo mai udito Gesù pronunciare questo nome. Nel cuore della terza sezione del racconto della passione c’è Abbà. E’ Gesù che avanza, mentre tutti fuggono. Coloro che pretendevano di dire "io" sono spariti. Gesù sta occupando la scena assumendo in pienezza la sua identità. E’ il Figlio che invoca: Abbà. Gesù si presenta, si dichiara, si scopre. Fin dall'inizio della catechesi evangelica ci siamo abituati a denominarlo in questo modo: il Figlio. La voce, al Battesimo nel Giordano, ha dichiarato così: è il Figlio di cui mi compiaccio, è il Figlio che ritorna a casa, che avanza, che attraversa il deserto, il mare, che vuole entrare nel cuore umano e aprire strade di riconciliazione, di conversione. Adesso è lui stesso che assume in modo esplicito la sua identità filiale, è lui stesso che prega invocando, nel corso di tutta quella notte, la paternità di Dio: Abbà. Gesù veglia, mentre i discepoli dormono. E lui che ha il coraggio di attraversare quel territorio notturno, amaro, squallido che è stato abbandonato dagli uomini che hanno la pretesa di dire: "Io". Adesso è Gesù che dice: Io; e dice "Io" nel suo dialogo con il Padre, nel suo rispondere, nel suo appellarsi, nel suo consegnarsi al Padre. "Abbà, non la mia volontà, ma la tua...".
Una pagina dell'Antico testamento sta sullo sfondo del testo evangelico che stiamo leggendo. Nel Cantico dei Cantici, in diversi momenti, compare l’amato in veglia al capezzale della creatura amata dormiente. L'evangelista Marco ci consente di ritornare al Cantico dei Cantici, là dove la creatura umana si addormenta, non regge, viene meno, sviene. Al capezzale di quella creatura dormiente veglia il diletto.

Il terzo quadro (vv. 43-52) descrive quello che avviene, quando Giuda, uno dei dodici, si avvicina con gente armata per arrestare Gesù. Giuda bacia Gesù, lo chiama Rabbì. C'è il tentativo di resistere compiuto da qualcuno che estrae la spada. Resta anonimo questo aspirante difensore, che in realtà non dà alcun seguito al suo gesto sconsiderato. " E tutti abbandonandolo, fuggirono".  Tutti. Tutte le pecore fuggono. Le pecore non hanno riconosciuto il pastore, e quando il pastore è colpito, le pecore sono disperse.

 Quarta sezione: Tribunale giudaico 14,53-72. 

 Siamo nel Tribunale del Sinedrio.

Primo quadro, v. 54. Pietro ha seguito da lontano Gesù, si trova dentro il cortile del sommo sacerdote e se ne sta seduto tra i servi, scaldandosi “davanti al fuoco”. Qui in greco si trova: pros to fòs. Fos è la luce, è la vampa del fuoco. Sta seduto al fuoco per scaldarsi perché è notte e fa freddo; ma è vero che la vampa del fuoco irradia luce ed è proprio alla luce di quella vampa che Pietro viene osservato. Una serva del sommo sacerdote vede Pietro che sta a scaldarsi, lo fissa. Il volto di Pietro è illuminato dalla vampa luminosa di quel fuoco acceso nel cortile sotto lo sguardo curioso e insinuante di quella serva:
"Tu eri con Gesù di Nazaret"
. Negò! "Costui è di quelli". Negò!
"E un Galileo"
. Pietro è un galileo non soltanto per la sua fisionomia, ma anche per come parla. "Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: "Non conosco quell'uomo che voi dite". Per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: "Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte. E scoppiò in pianto". Il greco dice: kai epibalon eklaiev, e epibalon, indica il gesto di chi si tira addosso il mantello e si copre il volto. Kai epibalon eklaiev, e copertosi il volto, piangeva. Pietro si nasconde sotto il mantello, si rintana nel suo mantello, per cancellare il volto che ha perso fisionomia, identità, dignità, luminosità. E’ il volto del discepolo che ha rinnegato il maestro, è il volto dell'uomo che ha tradito l'amore. Pietro ha perso la faccia, non ha più un volto; dopo avere parlato in prima persona con tanta sicurezza e con tanta presunzione, adesso non sa più chi è.

Nel quadro centrale (vv. 55-65) Gesù è interrogato dai sommi sacerdoti, alla presenza del Sinedrio. Ci sono i falsi testimoni: chi dice una cosa, chi un’altra. Gesù non risponde nulla: "Gesù taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Esattamente così si apriva la catechesi evangelica, v. 1,1: "Inizio dell’Evangelo di Gesù, Figlio di Dio"". Siamo nel quadro centrale della quarta sezione, il centro del centro del racconto della passione; e nel centro del centro l'evangelista Marco ci sta proponendo in modo sobrio ed essenziale, ma con una forza davvero straordinaria il contenuto decisivo dell'evangelo: Gesù che è il Cristo, il Figlio di Dio. Gesù rispose «Io sono!». Ego eimi. Questo è il nome santo di Dio: Io sono. E’ così che Dio si è rivelato a Mosè, quando il roveto ardeva senza consumarsi (Es 3,1-6). Sullo sfondo della pagina evangelica c'è proprio il racconto del roveto che brucia e non si consuma. Dinanzi alla vampa, illuminato dalla luce che quel fuoco proietta attorno a sé, Pietro è venuto meno, ha perso il volto; Gesù risponde: Io sono.
Qui conviene inserire un pronome personale con una doppia citazione, il Sal 110 e Dn 7: Il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo. E’ un commento a quello che Gesù ha affermato: il centro del centro del centro è : Io sono. Tutta la catechesi evangelica ruota attorno a questa rivelazione della santità di Dio: il Dio vivente arde come fuoco, brilla come luce, è presenza che ci attrae, che ci assorbe in sé, che ci brucia e ci illumina, è sorgente inesauribile di una vita nuova, a cui noi ci accostiamo, incerti, titubanti, a cui noi ancora non riusciamo a dare credito, perché siamo in fuga, come le pecore sbandate, perché abbiamo perso il contatto con l'Agnello, perché non ci siamo resi conto che proprio quell'Agnello era il pastore, perché abbiamo perso la faccia insieme con Pietro. Ebbene: Io sono.
Il sommo sacerdote si straccia le vesti. "Tutti sentenziano che è reo di morte. E alcuni cominciarono a sputargli addosso a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: "Indovina". Lo stanno insultando; in realtà debbono coprirgli il volto, glielo debbono nascondere, non lo vogliono vedere, si rifiutano di guardarlo in faccia. Mosè ha visto la fiamma del roveto che arde senza consumarsi, noi vediamo l'immagine di un volto abbruttito, reso orribile perché disprezzato, oggetto di tutta la violenza umana che rifiuta di guardarlo. Eppure quel volto arde come la vampa del roveto: Io sono. E’ Dio che si rivela a noi, è il vivente che si piega su di noi, che si prende cura di noi, che si ricorda di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che ha ascoltato il grido di coloro che dimorano in Egitto: Io sono. Là dove la presenza del Figlio subisce il rifiuto più spietato e più subdolo, essa risplende in una luce che trascina.
 

Quinta sezione: Pretorio romano 15,1-20a. 

Siamo nel pretorio romano, dove c’era anche l’aula giudiziaria.

Anche qui tre quadri.

Primo quadro: Gesù presentato a Pilato (v. 1-2)

Secondo quadro (v. 3-15): Gesù, Uomo, Figlio del Padre (Bar-Abbà) , viene sostituito dall’assassino Barabba

Terzo quadro (V. 16-20): Gesù Re-Pastore

 Nel primo quadro (vv. 1-2), solo due versetti: Gesù è presentato a Pilato e viene individuata l'imputazione. "Sei tu il re dei giudei?". Gesù risponde: "Questo lo dici tu". E Pilato trova l'imputazione conveniente per processare Gesù, perché glielo hanno presentato proprio a questo scopo. Pilato deve amministrare, rispettando le norme della burocrazia e della magistratura, il potere dell'Impero. "Dunque tu sei Re": ecco l'imputazione. La regalità di Gesù.

Se si fa un salto in avanti, al terzo quadro (v. 16-20), nel pretorio, i soldati, dopo aver convocato tutta la coorte, rivestono di porpora Gesù , intrecciano una corona di spine, gliela mettono sul capo e poi lo salutano; "Salve, re dei Giudei!". La regalità di Gesù è da considerare in strettissimo rapporto con la sua pastoralità. Il titolo regale è inseparabile dal titolo pastorale, così in tutta la rivelazione biblica. Il pastore è colui che esercita la sovranità, e la esercita in modo che quella regalità sia edificante, sia davvero motivo di consolazione e di edificazione per le pecore del gregge e per i sudditi del regno. Gli viene attribuito il titolo regale invece solo per poterlo accusare e condannare a morte. Eppure Gesù sta esercitando una funzione regale. L'Agnello, che è stato aggredito e immolato fino a versare il sangue, è divenuto pastore. Ed è proprio lui che esercita così la regalità in mezzo agli uomini.. Sullo sfondo c’è il quarto canto del servo nel libro di Isaia (52,13-53,12). Colui dinanzi al quale ci si copre la faccia, ha un volto orribile; eppure quel volto splende, manifestando una gloria inimmaginabile. Dinanzi a lui ci si nascondeva la faccia. L'Agnello, condotto senza voce al macello, è il pastore di cui le pecore del gregge potranno fidarsi. Così cantava il profeta a proposito del Servo di Dio. Adesso è Gesù il re, che viene condannato a morte.

Nel quadro centrale (vv. 3-15) Gesù non dice nemmeno una parola; viene interrogato da Pilato, ma non risponde, è afono, come l'Agnello. L'Agnello senza voce, l'Agnello innocente, non si difende, non trova chi lo consola. Eppure quell'Agnello condannato a morte sta già esercitando una funzione pastorale, sta già dimostrando di essere in grado si regnare: è in grado di elargire un dono di vita nuova agli uomini di questo mondo.
In questo contesto compare un personaggio che porta il nome di Barabba. Il nome di Barabba è citato tre volte (vv. 7.11.15). Barabba è un soprannome, vuol dire Bar Abbà, in aramaico figlio di Abbà, figlio del Padre. Nel Getzemani Gesù vegliava e pregava invocando: Abbà. Adesso compare un personaggio che si chiama Bar Abbà, un omicida per il quale si apre una strada di liberazione. Un omicida a cui compete in modo più che mai opportuno il titolo di figlio di Abbà: un uomo che ha ucciso ha trovato un padre, c’è un pastore per lui, c'è un re che lo ha coinvolto in una impresa di liberazione.
Barabba ha un titolo di figliolanza che può essere applicato ad ogni pecora dispersa del gregge, ad ogni creatura umana, per quanto desolata, devastata, dispersa nella propria storia sbagliata. Lo stesso personaggio, che qui porta il soprannome di Barabba, vive questa sua esperienza di liberazione in modo quasi inconsapevole, non si rende conto di come stiano andando le cose. Per lui, omicida, era già pronta la condanna a morte, e invece ora si apre la strada della liberazione. Là dove Gesù avanza, ecco che un omicida come Barabba ha ormai acquisito l'identità per essere riconosciuto come figlio di Dio.

 Sesta sezione: Golgota 15,20b-39.

Siamo  sul Golgota (15,20-39)

Anche qui tre quadri;

primo quadro (vv. 20-24): Gesù è condotto al Golgota;

secondo quadro (vv. 25-37) Gesù è crocifisso;

terzo quadro (vv. 38-39) il tempo della permanenza di Gesù sulla croce fino alla morte.

Primo quadro: Gesù viene condotto al Calvario, è spossato, tant'è vero che non può portare la croce. Il Golgota è un cocuzzolo pelato, come un cranio. Tutto contribuisce, anche la stessa configurazione dell'ambiente, a dimostrare che la realtà di questo mondo è scoperta, spoglia. Gesù è privo di forze, non può più reggersi, tanto meno può reggere un peso come la croce da trascinare fino al Golgota.

Secondo quadro: quando finalmente sono giunti, lo crocifiggono. "si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere." Gesù è un uomo denudato; tutto serve ad rimarcare la nudità di Gesù. E’ citato il Sal 22: "si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse." Il Sal 22 è citato nel corso del racconto, come una specie di ritornello.

Terzo quadro: nel racconto evangelico della passione il Sal 22, citato più volte, costituisce uno dei testi dell’AT a cui più intensamente hanno fatto riferimento i discepoli del Signore per esprimere l’esperienza nella quale sono stati coinvolti, la passione e morte e risurrezione del maestro. Gesù sulla croce recita il Sal 22, lo recita per intero; viene citato il primo versetto del salmo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», poi grida ad alta voce e muore. Se si fa un salto in avanti (v 38-39), leggiamo: "Il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso"[1]. La tenda, che separava il luogo Santissimo dal resto del Tempio, si squarcia: il Santo allora appare, è denudata la santità di Dio. E’ da notare la corrispondenza e la tensione tra la nudità di Gesù, il Figlio crocifisso, e la nudità di Dio. E’ il grembo del Padre che è squarciato, la profondità dell'Invisibile, la sapienza eterna dell'Irraggiungibile che appare a noi nella nudità del Figlio. Nel v. 39, il centurione, un pagano che gli stava di fronte, "vistolo spirare in quel modo, disse: ‘Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!". Là dove il Figlio è crocifisso, nudo, la paternità di Dio appare nella sua nuda santità. Il quadro centrale è ampio e articolato al suo interno, va dall'ora terza fino all'ora nona. C'è un'iscrizione che dice di lui che è il re dei Giudei (v. 26); i passanti lo insultano (vv. 29-32), e poi il grido di Gesù (vv. 33-37). Gesù muore gridando, questo grido coincide con il Sal 22: "Eloì, Eloi, lemà sabactani? che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" I presenti non capiscono, ritengono che Gesù stia invocando Elia, ma "Gesù dando un forte grido spirò". Il Sal 22 è il salmo con il quale Gesù prega mentre è agonizzante fino alla morte. Grida e spira. Questo grido è il suo atto di morte. Colui che è stato rifiutato, misconosciuto, tradito, abbandonato, ucciso, è colui che lascia a noi in eredità la paternità di Dio.
Il Figlio muore là dove il grembo della paternità divina si è svelato per noi; ed ora dalla santità di Dio è riversata sulla storia umana, su ogni creatura, su ogni traditore, su ogni fallito, su ogni uomo che muore una eterna volontà di amore che vuole essere riconosciuta, accettata, chiamata per nome: è il nome di Abbà, che dal grido di Gesù colma ogni silenzio, riempie tutte le distanze, sigilla il vincolo di una comunione nella vita che è più forte della morte. Questo è l'evangelo di Dio, che ha il volto di Gesù e la potenza dello Spirito Santo, per la salvezza del mondo. 

 Commento al Salmo 22.

Il Sal 22 è piuttosto ampio, è un grande lamento: è un lungo percorso attraverso il dolore e attraverso l’intensità dell’amore che trasuda là dove il dolore ha raggiunto il suo momento di massima esasperazione. Dolore e amore.
Prima sezione del salmo
(vv. 2-11): il lamento.
Seconda sezione del salmo
(vv. 12-22): la supplica.
Terza sezione del salmo
(vv. 23-32) canto di vittoria.

 E’ necessario leggere per esteso il salmo, perché Gesù prega con tutto il Sal 22. C’è tutta una letteratura che tende a mitizzare quell’invocazione di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», come se fosse dichiarazione di un uomo disperato, perduto.

Lamento (vv. 2-11): due strofe ( prima strofa fino al v. 6: una situazione di lontananza), seconda strofa vv. 7-11 (viene esplicitato il dramma di quella lontananza). «"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza": sono le parole del mio lamento». E’ un uomo che si lamenta e sa di lamentarsi; questo lamento è ancora il suo estremo segno di vita. Non c’è bisogno di arrivare all’ultimo versetto del salmo per rendersi conto che quest’uomo non sta scivolando nella disperazione, anche se la situazione è sconvolgente, drammatica, insopportabile. Quest’uomo si immerge nel lamento perché è l’unico modo che ancora gli rimane, per ascoltare la sua voce, per sentirsi vivo, per dire: io. Io sono un lamento, sono le parole del mio lamento. «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo». Il lamento è continuo, incessante, martellante, «eppure tu». E’ fortemente rimarcato il pronome di seconda persona: tu. «Tu abiti la santa dimora, Tu lode di Israele. In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e Tu li hai liberati; a Te gridarono e furono salvati, sperando in Te non rimasero delusi». Tu, il lontano, eppure, non è uno sconosciuto, c’è tutta la storia di un popolo, c’è il tempio, ci sono tutti quelli che hanno dato testimonianza a suo riguardo, hanno gridato, hanno sperato, non sono stati delusi, ecc. Eppure tutti i segni di comunione sono cancellati; per chi prega così rimane solo l’esperienza dell’abbandono.
«Ma io sono verme, non uomo»
. Viene esplicitato in modo estremamente chiaro il motivo di quella lontananza: io sono un rifiuto, «infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo». «Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo (questo versetto è citato nel racconto della passione): "Si è affidato al Signore, lui lo scampi, lo liberi, se è suo amico"». Questo sono io. Il pronome personale di prima persona singolare risalta in ebraico: io sono un rifiuto, nessuno più mi riconosce, mi accetta, mi considera.
«Sei tu (di nuovo pronome di seconda persona) che mi hai tratto dal grembo, mi hai fatto riposare sul petto di mia madre. Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio». Rifiutato da tutti, sei ancora tu che mi riconosci, mi riconosci come un figlio: mi hai tratto dal grembo di mia madre, mi hai fatto riposare sul suo seno, tu mi hai raccolto, tu il mio Dio, tu. C’è una forza straordinaria in questa ultima battuta che conclude la prima sezione del salmo di lamento: questo tu , un tu assoluto, un tu che riguarda quel verme che sono io; un tu che non si identifica né con quelli del mio popolo, né con quelli della mia generazione, né con quelli della mia carne e del mio sangue, con i quali io pure sono intimamente legato, ma da cui sono rifiutato. Se nella storia degli uomini tutto è venuto meno, tu sei l’interlocutore per me. Rimane il tu. Qui è la forza straordinaria di questo lamento, il lamento di chi non ha altro io che questo ammasso di putredine: tu mi guardi, mi prendi in mano, mi riconosci.
Il dramma della passione nella interpretazione teologica del nostro evangelista Marco sta tutto qua. Gesù ha detto: tu. Lo ha detto come poteva dirlo un uomo rantolante, lamentandosi; lo ha detto, oltretutto, facendosi fraintendere da coloro che dicono: Mah, cerca Elia; nel suo venir meno di uomo rifiutato, ha detto tu.

La supplica (vv.12-22): «Da me non stare lontano, poiché l’angoscia è vicina e nessuno mi aiuta. Mi circondano tori numerosi, mi assediano tori di Basan. Spalancano contro di me la loro bocca come leone che sbrana e ruggisce» C’è un malessere mortale, tutto si fa urgente, lo strazio si intensifica fino al delirio, un’esistenza che si sta consumando in modo irreparabile, «Da me non stare lontano». «Come acqua sono versato, sono slogate tutte le mie ossa». Sono dei momenti di lucidità nel delirio, è un’esistenza liquefatta ormai. «Il mio cuore è come cera; si fonde in mezzo alle mie viscere. E’ arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola, su polvere di morte mi hai deposto».
«Un branco di cani mi circonda (ritornano i mostri) mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano: si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte»
. Anche questo versetto è citato nel racconto della passione. Nel corso del salmo chi prega non chiede mai la condanna degli aggressori e non si dichiara mai peccatore. Di solito nei salmi di lamento e di supplica chi prega riconosce i propri peccati; nel Sal 22 questo non avviene, è implicita una testimonianza d’innocenza. E’ un’innocenza che non impedisce il tormento e non rivendica la condanna degli aggressori.
«Ma tu, Signore, non stare lontano». Ritorna il tu che avevamo incontrato nella prima sezione: tu non stare lontano. E’ la passione di Gesù che muore, tu. «Tu, Signore, non stare lontano, mia forza, accorri in mio aiuto. Scampami dalla spada, dalle unghie del cane la mia vita. Salvami dalla bocca del leone e dalle corna dei bufali».

Canto di vittoria (vv.23-32). Qui c’è una parola che la nostra Bibbia non traduce: anitani, "tu mi hai risposto". Il testo del Sal 22 è un po’ compromesso, e la lettura e l’interpretazione non sono agevoli. La parola anitani è stata trascurata e abusivamente inserita; forse si potrebbe leggere diversamente: «ma tu hai risposto», possiamo provare ad aggiungere.
«Annunzierò il mio nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea».
Assemblea qui è qahal, in greco diventerà: ecclesia, una assemblea di fratelli. Tu hai risposto. Il fratello trascina dietro di sé la lode di una moltitudine di fratelli raccolti in assemblea. «Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea». Il Sal 22 è il salmo con cui prega Gesù giunto alla soglia della morte, giunto in fondo all’abisso. In forza di quel rapporto misterioso e insondabile che lo lega al tu di Dio, è in grado di riconoscere una moltitudine di fratelli; già sta convocando per partecipare ad un unico canto di lode nel nome... del Padre. C’è la descrizione di questa unica, immensa assemblea convocata da Gesù attorno a lui nella fraternità: partecipano i vicini e i lontani, quelli di ieri e quelli di domani; tutte le dimensioni dell’umanità sono considerate nello spazio e nel tempo, il popolo d’Israele e gli altri popoli, tutti i pagani e le nazioni della terra, i morti del passato e le generazioni dell’avvenire. E’ una immensa famiglia di fratelli che viene fondata: ieri, oggi e domani, quale che sia la loro appartenenza sociale, la loro identità personale, la loro funzione pubblica, quale che sia lo stato di miseria in cui versa fino alla malattia, all’agonia e alla morte. Un’assemblea di fratelli.
«Lodate il Signore, voi che lo temete, gli dia gloria la stirpe di Giacobbe, lo tema tutta la stirpe di Israele; perché egli non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto, ma al suo grido d’aiuto lo ha esaudito. Sei tu la mia lode nella grande assemblea, scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli. I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano: "Viva il loro cuore per sempre"»
. Israele tende ad assumere, in modo sempre più esplicito, la fisionomia di un popolo di poveri, un popolo di anawim.
E adesso, vv. 28-29, le nazioni dei pagani: «Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli. Poiché il regno è del Signore, egli domina su tutte le nazioni». Gesù è morente, agonizza, ma il regno è del Signore, che domina su tutte le nazioni.

«A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere
». Anche i morti fanno parte dell’assemblea convocata per lodare il nome di Dio, il nome del tu, di Gesù. «Ma io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza (qui comunque lo sguardo è rivolto all’avvenire) Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: "Ecco l’opera del Signore"». 

Gridando ad alta voce Gesù spirò, Sal 22,32, ecco l’opera del Signore: il grido di Gesù. Il riconoscimento del verme come un figlio, ecco l’opera del Signore: ha riconosciuto un verme come suo figlio. La lode del figlio attrae a sé una moltitudine di fratelli, li riconosce, ed è l’umanità intera vicina e lontana, del passato e dell’avvenire, che viene generata attraverso la novità di questo travaglio, per essere famiglia di fratelli, là dove la paternità di Dio è stata ridata al mondo da un verme crocifisso.

 Settima sezione: il sepolcro 15,40-16,8.

 Qui di nuovo compaiono delle donne, al plurale adesso, sono cresciute nel frattempo. Sono citate per nome. Tre quadri.

Il primo quadro vv. 40-41. «C’erano anche alcune donne che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme». Dunque donne che osservano; tutto avviene sotto il loro sguardo. Queste donne hanno osservato Gesù fin dalla Galilea e sono state spettatrici degli eventi che si sono andati compiendo fino all’attuale, a Gesù che ormai pende dalla croce, cadavere, sul Golgota. Stavano ad osservare .

Il quadro centrale (15,42-47) contiene il racconto della vera e propria sepoltura di Gesù. Interviene Giuseppe di Arimatea. Ci sono di mezzo due giorni tra la sepoltura e quel che segue; come nella prima sezione gli avvenimenti accadono due giorni prima della Pasqua. Giuseppe d’Arimatea si fa coraggio, va da Pilato, si fa consegnare il cadavere, lo cala dalla croce, lo depone in un sepolcro, fa rotolare un masso contro l’entrata. «Intanto Maria di Magdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto». Sempre lo stesso verbo: theorei. Hanno osservato tutto fino all’evento della morte sul Golgota; osservano ora dove viene deposto. Osservano. Per la terza volta viene usato questo verbo.

Il terzo quadro nella settima sezione è piuttosto ampio; è il vangelo della resurrezione, è l’ultimo elemento dell’intera costruzione. «Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù». Di nuovo l’unguento: dall’unguento versato a Betania a questo unguento preparato per imbalsamare il cadavere di Gesù. Tutto il racconto della passione secondo Marco è incorniciato in questo duplice richiamo alla funzione prettamente femminile di ungere il cadavere. Quanto vale la vita di un uomo che muore? Come si unge un cadavere? Come si testimonia la bellezza di un uomo che muore? Hanno preparato gli unguenti necessari per andare a imbalsamare Gesù. Sappiamo come vanno le cose. «Il primo giorno dopo il sabato vennero al sepolcro al levar del sole. Esse dicevano tra loro: "chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?". Ma, guardando, videro.. » Ritorna il verbo vedere per la terza volta: hanno osservato ogni cosa sul Golgota, hanno osservato dove Gesù è stato deposto, quando Giuseppe d’Arimatea l’ha chiuso nel sepolcro; adesso osservano tutto quello che è avvenuto e sta avvenendo sotto i loro sguardi. E’ uno sguardo affettuoso, e insieme commosso e dolente. «Guardando, osservarono che il masso era già stato rotolato via , benché fosse molto grande». Il sepolcro è vuoto. Questo significa che non c’è più un cadavere da ungere. Non c’è più Gesù da imbalsamare. Le donne hanno in mano i vasetti con l’unguento, l’hanno preparato, con tanta accuratezza, se lo sono portato dietro e adesso entrano nel sepolcro, per constatare che è vuoto. Un giovane, seduto sulla destra, vestito di una veste bianca, si rivolge a loro. C’è una reazione di spavento da parte delle donne, l’angelo le conforta: «"Non abbiate paura! Voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto". Ed esse, uscite, fuggirono via del sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno perché avevano paura». Avevano paura. Questo significa che sono intimamente segnate dall’evento di cui sono state testimoni, così da riconoscere la presenza potente e santissima di Dio. Il timore di cui si parla è proprio dell’adoratore. Avevano paura. Non è il terrore di chi è preda di sentimenti oscuri, ma rimangono in adorazione. È vero sono in fuga, sono in corsa. "Uscite corsero via dal sepolcro, piene di tromos e ecstasis, tremore ed estasi": è un tremito estatico, è una commozione travolgente, è un’energia che si scatena così da proiettarle in questa corsa intrattenibile; ma è come se intimamente fossero inchiodate in un atto di adorazione, che è l’unica risposta con cui possono aderire all’evento di cui sono state testimoni. Il cadavere non è più qui, sono testimoni dell’invisibile, loro che pure hanno osservato, scrutato, studiato gli eventi, con intensità, con pazienza, con determinazione. L’invisibile sfugge allo sguardo, alla presa, alla stessa unzione, perché non c’è più il cadavere. È vivo, è il vivente. Le donne sono dinanzi alla rivelazione di un amore fino alla morte, per generare un frutto di vita che non muore più. Un amore che non si arena più là dove la morte fa da vincolo, da ultima sponda, da barriera invalicabile; un amore che affronta e apre un varco, un amore che vince la morte. "Non è più qui". Le donne restano sbalordite, e poi tremanti, prese da uno slancio incontenibile, che ormai le proietta nella corsa lungo tutte le strade per annunciare che Gesù è vivente. Quelle donne conservano tra le loro mani i vasi dell’unguento, resta loro il profumo, ma un profumo che non hanno potuto usare per imbalsamare il cadavere; è un profumo che rimane loro come sacramento del vivente: è il suo profumo, il profumo dell’invisibile. E’ passato di qua, andate in Galilea, là lo vedrete. E’ passato di qua. Il suo profumo impalpabile, inafferrabile, eppure inconfondibile, dimostra come ormai sempre e dappertutto la santità di Dio si è rivelata a noi attraverso la morte e la risurrezione del suo Figlio per amore; si è riversata nel mondo, su ogni creatura, in ogni luogo e in ogni tempo, perché gli uomini non muoiano più. La corsa di queste donne è la corsa della Chiesa che evangelizza in ogni luogo e in ogni tempo; è la corsa di coloro che sono esperti nel gustare, apprezzare, il valore di quel profumo; che sono in grado, nel contatto con ogni realtà di questo mondo, in ogni luogo e in ogni tempo, di riconoscere la presenza di quel profumo. E’ passato di qua il vivente, colui che è morto ed è risorto, colui che per amore ha donato la vita fino alla morte. Le donne sono in corsa. Così si chiude il racconto evangelico. Si va da Betania al sepolcro: l’unzione per la sepoltura è quella che avviene a Betania, ma adesso il sepolcro è vuoto, rimane l’unguento inutilizzato, anzi, rimane l’unguento come segno sacramentale di lui, il vivente, che unge noi. Ogni creatura che nasce per morire è amata dal Signore Gesù in modo da non morire più. È la santità di Dio che si rivela a noi. Noi siamo dinanzi ad essa per contemplare la fiamma che arde e non si consuma. Siamo prostrati dinanzi ad essa, siamo in adorazione e siamo trascinati lungo percorsi inimmaginabili. Non altro desiderio sostiene queste donne e i discepoli del Signore, e la chiesa e tutte le chiese nel corso della storia umana, che quello di consumarsi per amore. Siamo chiamati a morire per vivere nella pienezza definitiva del Figlio, che è risorto dai morti e che regna oggi e sempre.


[1] Isaia (63,19) invocava: Se tu squarciassi i cieli e scendessi!