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Dove non esiste futuro
Vincenzo Andraous
[1] (ROCCA 15/05/2010)

Il carcere continua a rimanere un luogo non autorizzato a fare nascere spe­ranza, non rammentando che l'uomo privato della speranza è un uomo già morto.
Questo «niente» inciderà forzatamente sulle menti, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro sono lì, in un presente dove non esiste futuro.
Il carcere non è una realtà trasparente, ma un mondo sommerso che l'immaginario collettivo popola di dannati, in cui la coscienza collettiva rimuove e chiude dentro tutto il male, la parte negativa della società, e dove ha paura di riconoscersi: per questo cerca di allontanarlo da sé, escludendolo, facendo diventare la prigione una struttura fuori dal mondo, utilizzata per risolvere i conflitti, come se esistesse un punto terminale; il criminale va in gattabuia e poi basta, non si agita più.
L'idea del carcere come unica difesa sociale è una bufala, è sufficiente osservare le statistiche sulla recidiva, il carcere è quello che ben sappiamo, ma chi vive in quest'agglomerato umano ha il diritto-dovere di ritrovare fiducia in se stesso e negli altri. Perché questo accada occorre rendere più umano l'inumano, il consorzio sociale dovrà attivarsi consapevolmente con il suo interessamento produttivo e non pietistico, aiutando chi è nell'errore a ritenersi capace di un costante e continuo miglioramento. L'impressione che si ricava dal dibattito attuale sul carcere è una somma di parole che non favorisce speranza, come se il carcere, per un imperativo categorico non scritto ma imponente, dovesse rimanere uno spazio isolato, disgregato e disgregante, annichilente a tal punto che nessuno deve interessarsene, con impegno e investimento appropriato.
Obbligatoriamente chi entra nel perimetro di una prigione, deve uscirne svuotato di se stesso, e senza prospettiva alcuna, come se trasformare il presente carcerario, ricercando un dialogo possibile, fosse utopia lacerante.
Se vogliamo che l'insicurezza e la criminalità diminuiscano, dobbiamo riflet­tere, perché l'esperienza ci dice e conferma che sulla personalità di ogni de­tenuto, di ogni uomo ristretto, di ogni minore o adulto in prigione, gli effetti sfavorevoli delle sanzioni privative della libertà personale, superano di gran lunga qualsiasi portata positiva per la sua risocializzazione.
Per superare lo scompenso, la diastasi tra punizione e recupero, occorre ripristinare un clima di collaborazione e di partecipazione attiva, dare senso e im­pegno a superare il passato, in una assunzione di responsabilità soggettiva che impone al detenuto, ma anche alla collettività un nuovo modo di «vivere il carcere».
C'è davvero bisogno di un incoraggia­mento pedagogico, verso condotte so­cialmente condivisibili, ma forse c'è soprattutto urgenza che vengano attenuati alcuni meccanismi dissocianti di una peculiare condizione carceraria, i quali ostacolano la prospettiva di un valido avvenire e di una nuova esistenza sociale.
Come uomo e come detenuto da quarant'anni, ho riconoscenza per chi mi ha aiutato a rinascere, e proprio per questo senza alcuna polemica, mi viene da pensare che «una società dimentica il diritto stesso, quando lascia il detenuto solo a riconoscere le proprie colpe, e tradisce quel diritto quando lo lascia solo nel suo impegno a superarle e rinnovarsi».


[1] Vincenzo Andraous è nato a Catania il 28-10-1954, ha una figlia Yelenia che definisce la sua rivincita più grande. Condannato all'ergastolo "FINE PENA MAI". Da qualche tempo usufruisce di permessi premio e di lavoro esterno svolgendo attività di Tutor presso la Comunità "Casa Del Giovane "di Pavia. È impegnato in attività sociali e culturali con scuole, parrocchie, associazioni e movimenti culturali. È titolare di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, ha conseguito circa 80 premi letterari, pubblicando libri di poesia, di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria autobiografia.