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Scrivo a te, arcivescovo
Don Angelo Casati
Il pezzo che segue è una lettera aperta scritta da don Angelo Casati al proprio
arcivescovo che sollecita le parrocchie a riflettere sul livello qualitativo della
celebrazione dell’Eucaristia. Don Angelo è parroco di S. Giovanni in
Laterano a Milano ed è quindi responsabile dei riti che in quella Chiesa vengono
compiuti. Le cose che dice nella lettera, partendo dal “livello qualitativo”
dell’Eucaristia, toccano la sostanza dell’essere Chiesa, la sostanza del messaggio
di Gesù agli uomini e, se mi è consentito, “toccano il cuore”.
Scrivo a te, arcivescovo,
e la lettera, come vedi, è aperta.
Non c’è nulla da nascondere. La
firma è mia, come hai potuto adocchiare,
prima di scorrere il testo.
Ma potrebbe essere di tanti. A firmarla
potrebbe essere una moltitudine.
Ma non siamo qui a raccogliere
firme per un referendum. Tu dici che non è il numero che
fa la verità. Giustamente. Anche se
in passato nelle aule di teologia dove
tu insegnavi si osava ancora parlare
del sensus fidei, cioè del comune
modo di sentire dei fedeli a proposito
di fede. E, se non sbaglio, si insegnava
che gli erano dovuti una certa attenzione, un certo rispetto, una
misura non avara di onore. Capisco che non sono queste le
lettere che sfiorano l’aria impregnata
dei sacri palazzi, dove la considerazione,
data la scarsità del tempo,
va misurata sulle competenze e sui
titoli che nel nostro caso sono assenti
e dove, per lo più, lettere devote
attendono spasimando riconoscimenti.
Cose, ti confesso, che non
mi appartengono, e sia chiaro, non
per virtù, ma per una sorta di disinteresse
e di idiosincrasia.
Di più, vorrei anche dirti che a
scriverti oggi non mi spinge, se ci
penso, il disagio che io personalmente sto vivendo o chissà quale
mia attesa. Non avrò, tu lo sai, ancora
molto da vedere dentro e fuori
la chiesa. Gli occhi, anche se ancora
curiosi, inspiegabilmente ancora
così curiosi, denunciano debolezza
per l’età e per il velo dell’usura.
Ma ti scrivo per loro, e vorrei
che tu mi capissi, perché non sempre
si scrive a speranza degli altri.
Ti scrivo per i volti che dalla grazia
mi sono stati affidati. Volti che
sembrano navigare, ogni volta che
mi ci immergo e me ne innamoro, il
futuro. Scrivo per loro, quasi declinando
religiosamente i versi di una
estrema offerta laica:
Ti dono l’avara mia speranza.
Ai nuovi giorni, stanco,
non so
crescerla.
L’offro in pegno al tuo fato che
mi scampi. (E. Montale, Ossi di seppia)
Perdona questa lunga premessa.
Ma forse non è del tutto inutile capire
da che cosa uno sia spinto a
scrivere. E vengo al disagio, perché di disagio
si tratta. Quest’anno riceviamo
sollecitazioni a riflettere sull’eucaristia.
Nei documenti si parla dell’eucaristia e della sua innata carica
missionaria, si parla della domenica,
il giorno del Signore, e dell’onore
che le va restituito.
Il problema, lo ammetto, è importante.
Ma forse è chiaro a tutti, o a quasi tutti, che a nulla servono
le grida e i proclami dall’alto.
Quest’anno, mi si dice, sarà tempo
di indagini e di statistiche. Sotto inchiesta
saranno la frequentazione
delle messe domenicali e la loro
alta qualità celebrativa.
«L’alta qualità celebrativa»: ogni
volta che sento pronunciare la parola,
e già è diluviata straripando in
questi mesi, mi rintrona a perdizione
di pensieri nella testa, la mia debole
testa. Puoi dunque ben immaginare
quante volte si prepara a rintronarmi
lungo l’anno e, già lo prevedo,
desterà sussulti di insofferenza
e disagio nel cuore. Sarà per una questione di linguaggio,
come dice qualcuno?
Forse è vero, tra le tante troppe
manie, mi resta anche questa del
linguaggio, del linguaggio come
spia e veicolo del pensiero. Mi affascina
fino a sedurmi il Gesù dei
vangeli, il suo linguaggio così distante
dal mestiere di parlare. Sarà, tu dici, per una questione
di linguaggio? Forse non è solo
questo. L’espressione «alta qualità
celebrativa» evoca, in modo fin
troppo evidente, le indagini di mercato,
le sollecitazioni del marketing,
dove tutto deve essere alto,
evoca l’immagine, evoca le vendite,
evoca il mercato. La mia Messa ha
una più alta qualità celebrativa della
tua e dunque compra la mia.
Tutto oggi è azienda, prevale l’aspetto
aziendale, mercantile. Anche
la scuola è diventata azienda, anche
la sanità è diventata azienda. Chissà
che i criteri dell’azienda non debbano
essere illuminanti anche per
le chiese! Andiamo dunque a misurare
l’alta qualità delle celebrazioni.
Siamo arrivati, passo dopo passo, a
misurare il mistero! Dopo aver consumato mesi e
mesi in estenuanti indagini, precisi
come saremo nel riferire se il salmo
responsoriale nelle liturgie è cantato
completo o solo nel ritornello,
cantato ogni domenica o solo nelle
feste solenni, quale «alta» qualità
celebrativa avremo alla fine misurato?
È forse misurabile il mistero?
Non pensi che a questo punto,
dopo tanto parlare per documenti,
sarebbe bene che mettessimo fine
alle enunciazioni e alle declamazioni
e imparassimo qualcosa da
Giobbe? Metterci una mano sulla
bocca e tacere, sentirci piccoli e
adorare il mistero? Ma forse una ragione, ancor più
profonda di questa, mi porta lontano
dagli aneliti all’alta qualità celebrativa,
una ragione ancora più intima
che sfiora il mistero stesso della
cena del Signore: noi parliamo di
«alto» dentro il mistero sconvolgente
del «basso», starei per dire,
di un basso che più basso non è immaginabile.
E non è, questa, dissacrazione? Vogliamo circondare di toni altisonanti,
di coreografie prestigiose,
di incensi e paludamenti il sacramento che narra l’umiltà di Dio,
l’abbassamento di Dio. E così lo
veliamo. La parola non è mia, è presa a
prestito da un santo, che di vangelo,
a differenza delle gerarchie del
suo tempo, ne sapeva e soprattutto,
e qui era la differenza, il vangelo lo
scriveva sulla sua pelle, quotidianamente,
era la sua norma, Francesco
d’Assisi. Proprio lui giunse a chiamare
con chiaroveggenza e audacia
l’eucaristia «l’umiltà di Dio», quasi
fosse l’ultimo gradino del suo discendere.
Già Dio aveva attraversato
l’immensità dei cieli per chinarsi
su di noi, l’immensità dell’obbrobrio
per abbracciarci da una croce,
ma qui in questa cena volle lasciarsi come pane, umile povero piccolo
pezzo di pane. Per voi sono vivo in
un pezzo di pane. Spezzato. E tutti i gesti di quella cena - ce
lo ricorda il Giovedì Santo ma presto
dimenticammo – parlavano di
umiltà: il contrario degli abiti raffinati,
delle precedenze ecclesiastiche,
dei nostri copricapo e dei nostri
bastoni. Lo ricorda a noi senza
sbavature Jean Vanier in un lucido
passaggio di un suo libro: «Gesù si toglie la veste.
Togliendosi la veste Gesù si pone al
di fuori di ogni funzione e di ogni
stato sociale. Possiede certamente
un’autorità e un potere, ma vuole
manifestarsi ai discepoli come persona,
e soltanto come persona, senza
rango sociale, senza funzione determinata. Prima di essere il maestro
e il Signore, egli è un cuore che
vuole incontrare cuori, un amico
che vuole incontrare amici, una
persona amante che desidera vivere
nel cuore dei propri amici. In questo
mondo del cuore tutti gli uomini
e tutte le donne sono uguali.
Non esiste più alcuna gerarchia visibile
indicata dal vestito. Le persone
con o senza handicap visibile,
poveri o ricchi, giovani o anziani,
neri o bianchi, malati di AIDS o
sani, tutti sono uguali, tutti hanno
la stessa dignità, tutte sono persone
la cui storia è sacra. Ognuno è importante,
ognuno è unico. La sola
gerarchia che rimane è quella dell’amore e questa rimane nascosta». Abbiamo cancellato dal rito l’umiltà.
Eppure aveva detto: «Fate
questo in memoria di me». E la memoria
era quella, il gesto di una
semplicità disarmante e sconvolgente. Non si può equivocare: il gesto
del pane era umile, era silenzioso,
era semplice. Ma parlava. Loro
guardavano e capivano. Capivano
l’amore di Dio. In un pezzo di
pane. Oggi per farlo vedere l’abbiamo
circondato, oserei dire assediato,
di mille cose e la foresta non permette
più di intravedere il pane, di
intravedere la cena, di intravedere
il cuore. Siamo ormai nella necessità
di spiegare i segni, quando essi
stessi per loro natura dovrebbero significare. Il pane, confessiamolo,
non lo si vede più. Non si vede più
la cena. Più volte – non so se capita anche
a te nelle tue liturgie dentro e
fuori il Duomo - mi capita mentre
celebro di sorprendermi a pensare
e mi prende, lo confesso, un brivido:
che cosa è rimasto di quella
cena, racconto dell’umiltà di Dio?
Non ti è mai capitato di pensare
che gli uomini e le donne di oggi,
ritrovando quell’antico segno, sarebbero
presi da emozione come
quei discepoli nella notte del tradimento?
Prendila per una stranezza. Da
tempo mi vado chiedendo se, anziché
aggiungere cose a cose nei riti,
non sia l’ora, questa, di incominciare
pazientemente ma fermamente a
scrostare dagli ispessimenti, dai
soffocamenti, dalle verniciature sovrapposte
nel tempo, l’affresco.
Perché di affresco si tratta.
L’affresco dell’amore incondizionato
di Dio. E ritorni a splendere il
colore di questa incondizionatezza,
l’incondizionatezza del pane. Dato
a Giuda che lo vendeva, a Pietro
che lo rinnegava, ai discepoli sul
punto di fuggire. E lui a dire: «Fate
questo in memoria di me». Ripulire l’affresco, proposta
stravagante. E forse improponibile?
Come ti guarderebbero i vescovi
tuoi colleghi se tu ti azzardassi a
parlarne nella sale prudenti della
Conferenza episcopale?
Forse ti può far pensare che la
proposta stravagante non venga dal
vento della giovinezza, ma da un
vecchio prete sull’orlo del pensionamento,
un prete che testardo continua
a sognare parole non stanche e
non spente nelle celebrazioni, uno
cui ancora fa tristezza vedere occhi
fissare incolori il vuoto, in assenza
del segno del pane e della cena. E se non fa testo la tesi scombinata
di un vecchio prete chissà che
non ti facciano pensare le parole di
una delle nostre nonne, occhi verdi,
che bucano il futuro, anche lei
sulla soglia. Dopo aver assistito a
una delle imponenti liturgie televisive,
disgustata, mi chiedeva: «Ma
che cosa c’entra tutto questo con
quello che ha fatto Gesù nell’ultima
cena? Che cosa è rimasto di
quella cena?». E gli occhi, occhi
verdi, bucavano il futuro. Dove dovremo andare per ritrovare
il colore e il profumo della
cena, sacramento dell’umiltà di
Dio? Dovremo ritornare alla variante
proposta da Paul Wilkes in un suo
libro? «Va’ a Messa durante un
giorno feriale. C’è un’atmosfera diversa,
più intima, con poca gente.
La cripta di un convento, una piccola
cappella in città o anche la tua
stessa parrocchia. Senza i canti corali,
senza la folla. Potresti chiudere
gli occhi e immaginare l’ultima
cena. E tu sei là, intorno alla tavola.
E hai proprio ragione. Tu sei là». Chiudo. Le firme potrebbero
essere tante. Anche quella della
nonna, occhi verdi, che bucano il
futuro. Con amicizia, don Angelo.
È giunto un pellegrino alla mia porta.
Ho preparato la mensa con il pane e il vino
e l’angolo nascosto per ascoltare musica.
Egli mi ha benedetto nel nome della Trinità
con la casa, l’ovile e i miei cari.
L’allodola ripete nel suo canto:
“Sovente, sovente passa il Cristo
in veste di pellegrino”. (Poesia Gaelica)
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