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Elogio della leggerezza e del sorriso La mia chiesa, in queste ore che ancora trattengono il profumo della risurrezione, ha i colori di un giardino: dilagano dolcemente le azalee, sono macchia accesa le clivie e l’ulivo ha rami in brusio d’argento. Sussurri di giardino, così lontani dalla pesantezza dei trattati teologici e delle definizioni dogmatiche. L’altare come giardino. In rispetto per la levità, che profuma di sé la Pasqua. Un giardino non lo attraversi con un esercito. Te lo immagini un esercito in un giardino, un raduno oceanico in un giardino? Dove sbucano silenziose, in tenerezza le gemme. Dio ci ha fatto grazia anche quest’anno di salvare il giardino. Di salvarlo dall’imponenza delle vesti e dei riti, dalla dissacrazione della teatralità. Dissacrazione del giardino. I giardini! Ogni giorno ne piango scomparsa nella mia città, ogni giorno uno inghiottito nel nulla. Per furia di cemento. Per dissacrazione. E tu dici: ho trovato calore nelle celebrazioni. Forse era per via del giardino. Perché cercavi il giardino. E non la pesantezza dell’esercito. In battaglia. Pasqua è leggerezza. È essere portati dal vento. Leggi i racconti della risurrezione: non c’è sfarzo di vesti né passi cadenzati di processioni. Sono processioni del cuore, corse col fiato in gola alle prime luci dell’alba, sussurri lievi di parole, odore di pesce arrostito sulla sabbia estasiata del litorale, un esserci e scomparire, un cercare trovare e ancora perdere. “Non mi trattenere” dice Gesù a Maria di Magdala. Quasi volesse dire: non irrigidirmi in un monumento. E le parole, tutte, a togliere peso. A sciogliere, non a legare, ad aprire, non a chiudere. Scioltezza, il troppo appesantisce. Un bisogno di vento leggero, di un vento che ti sfori la pelle del viso, un vento che ti rida negli occhi. Perché questa è stagione di pesantezze. Insopportabili. Non se ne può più. E ogni giorno sono parole come pietre, come macigni. Parole smemorate, dimentiche del Maestro che gli osservanti li metteva spalle al muro per quella loro insana furia di scagliare pietre. Stagione di durezze ecclesiastiche. E dove si è mai rifugiato, ti chiedi, il vento leggero della Pasqua? Costretto a spietato esilio. Sono sdoganate invece, oggi circolano a piede libero, parole che vedono perversioni dappertutto, evocano tempi di sventura, registrano assedi da ogni lato, torme di nemici, in assalto del bene e dell’umanità. Parole che diffondono paura e sfiducia. Parole pesanti, come sono pesanti i visi e gli occhi di chi le va proclamando. E dove si è mai rifugiata, ti chiedi, l’aria della risurrezione? “Come sei pesante” vien fatto di udire ormai da alcuni. “Come siete pesanti!”. E dove è mai la gioia di cui fa dono il Risorto? Lo cantate “vivente”… e parlate come se fosse “morto”. Cantate nelle chiese a squarciagola: “I cieli e la terra sono pieni della tua gloria…”. Pieni! E poi giudicate e parlate dei nostri cieli e della nostra terra come se fossero vuoti. Come se lui si fosse ritratto, fosse rientrato nella tomba. All’ombra dei morti e non nell’aria aperta dei viventi. Come se il suo Spirito, quello che soffiò il Risorto, si fosse esaurito ed oggi non fosse più vero che là dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia. Non vogliamo certo cadere, lungi da noi, in un facile, ingenuo, astratto ottimismo. Ci piace, ci sembra doveroso, stare, sano realismo, ad occhi aperti su ciò che accade dentro di noi e fuori di noi. Ma vi sembrano esempi di sano realismo, vi sembrano fotografia corretta della realtà i notiziari dei nostri telegiornali? Se uno stesse alle notizie che ci vengono ampiamente propinate, se non fossimo a conoscenza di altro, avremmo, secondo voi, uno spaccato reale del mondo, di questo mondo in cui ci è toccato per grazia (ma ancora ci crediamo?) di vivere? Immagini di delitti, di perversioni, di lutto ti pesano nell’anima, sul cuore, dopo pochi minuti che ascolti, come se tutto, come se tutti, fossero in quel buio. E così avviene scuotimento generale di testa. Cresce pesantezza e cupezza. Nel mondo a noi vicino e lontano. Da ingenuo sognatore a volte mi sorprendo a pensare che cosa succederebbe se ad ogni notizia più o meno funerea aggiungessimo un “forse” e un “ma”. Un forse che va a interrogare se non ci sia dell’altro. A ridimensionare quel giudizio che sembra così totale e così perentorio. Tutto male? Scagliamo pietre? O forse potremmo spesso aggiungere un “ma”: è vero, questo è un segno negativo, ma leggi, guarda, altri segni. O sei cieco? Cieco perché il bene tu lo vedi solo nel tuo territorio, a casa tua? E se cominciassimo a fare esercizio di racconti positivi? Di passaggi segreti della grazia? Di sconfinamenti del vento della risurrezione? Raccontatori impenitenti testardi di un’altra cronaca, che non è meno vera. Stento a pensare che sia vera solo per me, che ho avuto in sorte l’avventura di essere prete. L’avventura della realtà non è forse in sorte a tutti? L’ avventura dello Spirito non dovrebbe essere data a tutti sorprenderla? Amo e invidio gli uomini e le donne che hanno occhi per i segni. Faccio fatica ad amare e non invidio uomini e donne che rincorrono, inquieti, mai sazi, il luccichio dei miracoli e non hanno occhi per il miracolo della grazia che li sfiora incessante silenzioso ogni giorno. Comincio anche a pensare che, quando il lamento prende il sopravvento, sia nei nostri documenti come nei nostri pronunciamenti, nelle nostre assemblee come nelle nostre convocazioni, siamo in perdita certa di fede. Per miopia di cuore e di visione. Su questo bisogno di raccontare con la vita, con i nostri volti, troppo spesso incupiti, la gioia, hanno insistito, in consonanza stretta, il Cardinal Tettamanzi e il Cardinal Martini nel pellegrinaggio che, lo scorso mese di marzo, la chiesa ambrosiana fece in Terra Santa. Nella chiesa di S. Caterina, a Betlemme, in quei giorni il Card. Martini ricordava come “già nel tempo presente che ci è dato dobbiamo vivere questa gioia, questa esultanza, questa serenità, questa pace, qualunque siano le circostanze in cui ci troviamo, anche se molto sofferte e dolorose. Ciò non significa passare sopra alle sofferenze ma rendere più acuto il nostro sguardo…” . E aggiungeva: “Credo che di serenità ci sia tanto bisogno per ciascuno di noi, ma anche per la nostra società e per le nostre comunità che troppo spesso si lamentano, magari con buoni motivi, ma rischiando di rimanere come imprigionate in questa lamentosità, senza accorgersi che proprio questo è il gioco del demonio. Invece il Signore vuole che guardiamo alla nostra vita, qualunque essa sia, con gratitudine, con riconoscenza, con fiducia, provando gioia per il bene che facciamo, e per quello che molti altri fanno”. Oggi invece, in questa stagione ecclesiale, sembra prevalere il lamento e la paura. Così facendo ci rendiamo, occorre dirlo con coraggio e fortezza, insignificanti. Quale vangelo, quale buona notizia darebbe una chiesa che allungasse la litania delle cose che non vanno? Andrebbe a ingigantire, lo sappia o no, il peso dilagante delle depressioni, cancellando i sussulti che scorrono nei vangeli della risurrezione. Riprendete, sembra dirci il Signore, un viso fiducioso. Non mi annunciate con un volto smunto e tetro. Passo per le strade, vedo mugugni e visi abbuiati. Come se avessimo disimparato a sorridere, come se, come cristiani, avessimo disimparato la levità del Risorto. E quasi non ci accorgiamo che questi volti impenetrabili sono in stretta inscindibile connessione con il vizio ricorrente di dare a noi stessi, agli altri, alle cose troppa importanza. Come singoli, come gruppi, come chiesa. Ho ritrovato questo invito al sorriso, il sacramento del sorriso, nelle pagine che un’amica giorni fa mi ha regalato. Sono riflessioni raccolte in Quaderni di vita monastica, 1999, in occasione del XX colloquio ebraico cristiano. Sono parole di Sandro Rotili. La bellezza di queste parole , ne sono certo, mi farà perdonare la lunga citazione. “Concludo questa passeggiata” scrive, a conclusione del suo intervento, Sandro Rotili “con un elogio di quel prezioso sacramento della fraternità riconciliata che è il sorriso, prima di tutto, su se stessi, e poi donato agli altri. Il sorriso è sempre espressione di tenerezza e misericordia. Chi sorride (pensiamo al sorriso della mamma al suo bambino) si rende disponibile, accogliente, apre uno spazio alla relazione. Il sorriso è attenzione, invito, un segno di incoraggiamento. Chi sorride all’altro e dell'altro, non chi lo deride, rende effettiva l’accoglienza, porta comprensione e conforto. Il sorriso è sguardo indulgente, come dice Paul Celan, è uno sguardo indulgente e misericordioso sull’altrui debolezza, è lo sguardo di chi sa bene di essere altrettanto dolorosamente afflitto dalla propria precarietà. La capacità di sorridere sul proprio dolore, sul non senso, ha il potere di frenare la caduta nel baratro della disperazione, da un lato, e, dall’altro, di salvaguardare dal cinismo corrosivo della disillusione. Impariamo dagli ebrei quella forma preziosa di libertà che è l’autoironia, antidoto divino al veleno del prendersi troppo sul serio. La vita, interpretata nella luce di un sorriso sofferto, ci faccia scoprire che ognuno è assoluto e assolutamente relativo. Lasciamo che ognuno abbia il suo cammino abissale. Chiediamo al Signore di tutti la pace e la capacità di venerare la bellezza del mondo senza diventare esteti, venerare la verità senza diventare fanatici, amare il bene senza diventare plumbei moralisti mancanti di pietà, amare il mistero senza diventare troppo devoti, accettare la contingenza e la fragilità senza andare alla deriva. Forse proprio in questo “senza” è nascosto quel sovrappiù di grazia che ci fa chiamare e riconoscere fratelli, che ci fa dire che mai potremmo vivere gli uni senza gli altri”. |