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 LUNEDI 30 APRILE
Veglia di preghiera dei lavoratori

Fiaccolata dal Battistero ore 20.30.

Al termine della fiaccolata nella cripta della Cattedrale
meditazione e preghiera di intercessione
con Mons. Bruno Maggioni, docente di Esegesi Biblica.

Don Cipputi
don Augusto Fontana

Dal 2005 sono preteoperaio pensionato. Come ormai la maggioranza di quel centinaio di preti italiani che negli anni ’70 decise di prendere la strada del lavoro dipendente per condividere nella carne e nell’animo la condizione lavorativa e per non rischiare di mercificare, per vivere, il religioso e il sacramentale. Per 26 anni fui preteoperaio e non mi pento; anzi rifarei tutto e di più. Chiamala testardaggine ideologica fondamentalista, se vuoi; per me fu immeritata Grazia di Dio, pur anche nella quasi trentennale indifferenza della mia chiesa e della sua pastorale. Ora vivo in pastorale parrocchiale, d’altronde mai abbandonata negli anni. Mi sento un emigrato, un extracomunitario prestato ad altra cultura, altri mondi, altri linguaggi. Il tema “lavoro”, nel contesto ecclesiale, è andato in esodo dal tempio, espulso dall’agenda pastorale. Sarebbe interessante che tu stesso facessi un’indagine linguistica: quante volte il tuo prete ha pronunciato in un anno la parola “lavoro” nelle omelie, nella catechesi dei giovani, dei fidanzati, degli sposi? E chiedigli quante volte ha letto un articolo sul lavoro e sui suoi drammi, problemi e risorse. Sono lontani i tempi in cui il classismo, il sindacalismo sbracato, l’operaismo ideologico potevano suggerire al clero di non avvicinare la mano al fuoco e a mettere sotto tutela le masse dei devoti, sottratte al dio Moloc del socialismo materialista e anticlericale. Eppure resta questa ancestrale rimozione, questa paura di guardare i fedeli battezzati con i connotati non solo di genitori, nubendi, catechisti o sagrestani, ma anche di lavoratrici e lavoratori. Eppure è gente che, quando viene in chiesa, si è bevuta, come me, ogni anno 260 giorni di lavoro che è come dire duemila ore, centoventimila minuti di collaborazione con il Dio della creazione, di condivisione con la trentennale vita laica di Gesù a Nazaret, di scambio sociale di beni e di servizi: una massiva e devastante diaconìa di amore seppur intarsiata con beghe, trucchi, maledizioni e inferi.

Forse ho anch’io un’immagine distorta, cioè ideale, del lavoro. Ne sono cosciente. Il lavoro è una necessità ingombrante, raramente liberante e di cui tutti ne farebbero volentieri a meno, se si potesse vivere d’aria, d’ozio e d’amore. Eppure oso ancora indagare se stiamo banalizzando una fenomenale e complessa risorsa, abbandonandola alla deriva di se stessa e con essa tutti gli addetti che in Italia sono 23 milioni di cui 4 milioni di “Cipputi”, come il vignettista Altan volle chiamare i testimoni di un ceto, la classe operaia, non estinto dal terziario avanzato e dalla globalizzazione. Comunque il lavoro resta una delle realtà umane più diffuse: chi studia si sta preparando al lavoro, gli adulti lavorano, i giovani lavoricchiano, i disoccupati cercano lavoro, i pensionati sono reduci del lavoro. Il lavoro costituisce una condizione talmente normale da farci rischiare di non accorgerci che esiste come problema e come chance. E' cioè una condizione data per scontata, mentre scontati non sono i problemi connessi con l'evangelizzazione, con la catechesi e con la moralizzazione delle attività professionali, sindacali, corporative.

 

 

 

 

1) Perché dobbiamo avere attenzione al lavoro?:

Dobbiamo avere attenzione al lavoro perché la Chiesa e la società non ne hanno più o ne hanno poca. Nella chiesa del passato, almeno si registrava attenzione e mobilitazione nei momenti di emergenza, per aiutare i cassaintegrati o in occasione di chiusura di fabbriche. Oggi neppure in queste occasioni. Scrisse Mons. Gaetano Bonicelli quando era Presidente del Centro di Orientamento pastorale: «Che un prete non sia puntuale a celebrare l’eucaristia, può fare ancora scandalo. Che un prete o un laico non dicano una sola parola nei momenti di crisi nell’ambito del lavoro o non sostengano chi vi è impegnato in prima persona, non costituisce problema. Un convegno sul canto liturgico attira migliaia di persone; un incontro dove ci si sforza di vedere la problematica del lavoro alla luce della fede, non interessa più di tanto». Infatti io ci ho provato; e ho dovuto desistere. E ciò la dice lunga: gli stessi parrocchiani, tutti lavoratori, hanno imparato a deprezzare ciò che sono e fanno.

Dobbiamo avere attenzione al lavoro perché questo ci consente di rimettere in dialogo la fede con la vita quotidiana: rapporti ed etica professionali, redditi, tasse, proprietà, concorsi, carriere.

Dobbiamo avere attenzione al lavoro perché la realtà umana del lavoro allude a Dio: se è vero che Dio ha a cuore la vita umana e le cose quotidiane, allora è vero che nulla è senza senso.

2) Le “dimensioni” del lavoro.

Il lavoro contiene una dimensione esistenziale della persone perché continua ad essere una fonte di identità sociale nonostante la rivoluzione recente del mercato del lavoro che ci obbliga a parlare non più di lavoro, ma di “lavori”. Anzi proprio per questo è necessario tornare a pronunciare una riflessione profetica. Inoltre il lavoro conta perché, misurandosi nel lavoro, uno capisce se stesso, i suoi limiti, le sue virtù, la sua capacità di relazione; e capisce anche la società e i suoi meccanismi.

Il lavoro contiene anche una dimensione sociale: nella società postmoderna o dei mille lavori e mestieri, si è smarrito il significato ed il senso del lavoro. L’idea “alta” del lavoro come dovere sociale si è lentamente sgretolata, introducendo una concezione del lavoro solo in vista del guadagno. Scrive l’Enciclica Laborem exercens n. 9: «Il lavoro è non solo un bene "utile" o "da fruire", ma un bene "degno", cioè corrispondente alla dignità dell'uomo, un bene che esprime questa dignità e l'accresce…perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso "diventa più uomo”».

Il lavoro contiene anche una prospettiva cristiana della vita. Vale ancora richiamare il triplice primato indicato dall’Enciclica Laborem exercens: primato dell'uomo sul lavoro, primato del lavoro sul capitale, primato dell'utilità comune sulla proprietà privata. Oggi la comunità cristiana sta crocifissa, insieme con i suoi battezzati lavoratori, dentro questi tre snodi irrinunciabili. Ma soprattutto se voglio capire il lavoro dal punto di vista cristiano, devo collocarlo nella prospettiva del regno di Dio, cioè nel primato di Dio che ridimensiona anche il lavoro: oggi da parte di molti occupati c’è perfino un eccesso di lavoro, o perché ne sono costretti per sfruttamento o perché lo vogliono per acquistare più beni di consumismo. La comunità cristiana ha forse il compito di proclamare che certe regole del gioco non sono ineluttabili e immodificabili e che è possibile un lavoro “dai confini grandi”, a misura d’uomo e di famiglia e non solo di moneta.. Il mondo del lavoro interpella la Chiesa, dunque, e la Chiesa interpella il mondo del lavoro. Dalla reciprocità (ascolto-appello) si sviluppa la pastorale.