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 NOSTALGIA DEL LATINO?
Antonio Santantoni
(ROCCA 15/05/07)

Quarantadue anni sono molti, ma non abbastanza per cancellare la memoria d'un avvenimento che resterà alla storia (magari mino­re, ma mica poi tanto minore!) di quel popolo multitutto - multiet­nico, multi culturale, multireligioso - che è il popolo cristiano, Chiesa di Cristo. Multilingue soprattutto, ci preme ricorda­re qui. Un popolo che abbraccia tutte le nazioni, senza identificarsi con nessuna di esse; nel quale si parlano tutte le lin­gue senza che ce ne sia una condivisa e conosciuta da tutti; un popolo che abbrac­cia tutte le culture senza che si possa dire di nessuna: questa è la nostra cultura con­divisa.

Ebbene per quel popolo siffatto che è in Italia quella dell'alba del 12 marzo di 42 anni fa (1965) fu un'alba davvero storica: proprio quel giorno, il Cardo Giacomo Ler­caro firmava l'Imprimatur alla prima edi­zione del primo messale bilingue (latino-italiano) della storia. Chi visse quel tempo da testimone forse si ricorderà ancora 1'emozione di quella 'prima volta' davanti a un'assemblea stupefatta e commossa. «Finalmente si capisce qualcosa» dicevano commossi alla  fine. Erano passati solo 9 anni da quel settem­bre 1956, in cui ad Assisi s'era celebrato il 1° Congresso internazionale di Liturgia pastorale allo scopo preciso di assolvere a «un dovere di riconoscenza verso il Santo Padre Pio XII per gli insegnamen­ti e per la provvida attività svolta anche nel campo della liturgia». Così aveva esordito il Presidente del Congresso, il Card. Gaetano Cicognani, durante il di­scorso d'apertura. Tra questi insegna­menti il cardinale includeva anche la ri­conferma della piena validità della lin­gua latina nella liturgia. Qui il cardinale Presidente s'era lasciato andare a un vero inno al latino, «lingua imperiale che non è semplicemente un mezzo di comuni­cazione o di trasmissione: essa è qualco­sa di più profondo e di più sostanziale ... il suo studio non ci serve solo a compren­dere 2000 anni di civiltà e di cultura, ma è sommamente formativo dello spirito, nel concepire e coordinare le idee, nel saperle presentare ed esporre nel loro valore. Esso vale a dare al nostro spirito quella 'humanitas' che è dignità ed ele­ganza, che è discrezione e comprensio­ne, che ingentilisce e fa gustare intimamente il bello e il vero».

Il nostro popolo non la conosce, non la capisce? L'obiezione non gli sembra de­cisiva: «Se è vero che i fedeli, particolar­mente nel tempo presente, non riescono a comprendere agevolmente, come nel passato (quale passato? ndr) i riti sacri nella lingua latina, ciò per sé non signi­fica che alla lingua latina occorra sosti­tuire la lingua volgare, ma solo può ri­chiedere che con provvidi mezzi e con opportune concessioni si offrano loro gli aiuti adeguati a comprendere le formule e le parole dei sacri riti». Il Cardinale non lo cita, ma già il cardo Roberto Bel­larmino aveva stabilito il principio: non è necessario che il popolo capisca, basta che capisca Dio. In fondo «i fedeli non sono il sacerdozio gerarchico, categoria eletta, cui è riservato il sacrificio vero e proprio, e che deve perciò comprendere a fondo le espressioni e le formule sacre». Ai fedeli, pur nel loro regale sacerdozio, basta molto meno per partecipare aequo modo al sacrificio e ai divini misteri. A garantire tale partecipazione sono suffi­cienti «sapienti industrie, che li mettano in grado di rendersi conto dei riti e delle verità che ne sono il fondamento, senza per altro con questo dovere distruggere il valore e la funzione spirituale della lin­gua latina. Lingua che 'non è solo per­spicuo e venusto segno di unità' (Enciclica Mediator Dei, Pio XII, 20 Novembre 1947) che tutti i popoli e tutte le razze affratella anche esternamente e sensibil­mente nella unità d'una medesima favel­la, che sale dall'una all'altra parte del­l'universo al cielo ... 'rimedio efficace con­tro qualsiasi corruzione della vera dot­trina'... garanzia e fattore, come non può esserlo qualsiasi altra (lingua, ndr) , di purezza e fedeltà».

Questo discorso, pronunciato davanti ai circa 1200 congressisti venuti da ogni par­te del mondo, provocò una vera gelata a cui, passato il primo momento di diso­rientamento, il Congresso reagì ricorren­do all'applausometro: senza chiedere esplicitamente il cambio della lingua, i congressisti dissero il loro applauden­do quanti denunciavano i limiti pastorali d'una liturgia incomprensibile per i più. Questo era stato il tema della relazione del grande liturgista Joseph Andreas Jungmann: lo scrosciante applauso di pa­recchi minuti che lo salutò dette il via a una sorta di braccio di ferro. Sette anni più tardi, il 4 dicembre 1963, il Concilio varò la riforma che introduceva le lingue volgari nella liturgia.

Parve quasi un miracolo. Nei 24 giorni di dibattito era sembrato che le parti si equi­valessero. Il risultato fu clamoroso: 1162 placet, 46 non placet, il 96,04% approva­va. Sembrò lo squillo di tromba dell'an­gelo della risurrezione. La Chiesa e il Con­cilio avevano trovato la loro strada.

Oggi però il vento sembra cambiare di nuovo.

Quant'era bella la Messa in latino! Vuoi mettere un'antifona, un responsorio, un inno in gregoriano!? I nostalgici di sem­pre sembrano aver trovato nuovo ardire. Benedetto XVI ha riacceso in loro la spe­ranza di poter tornare a gustare libera­mente e soprattutto frequentemente la loro bella Messa in latino. Forse ci sarà un motu proprio. Questione di tempo. In­tanto il Foglio in Italia e Le Figaro in Francia hanno pubblicato due appelli di decine di intellettuali di varia nazionali­tà ed estrazione - artisti, filosofi, poeti, registi, attori, scienziati - che chiedono al Papa di liberalizzare il ritorno alla Messa di S. Pio V. Se sul piano estetico è difficile negar loro solidarietà -la tradu­zione italiana non rende giustizia al lati­no delle antiche formule eucologiche e le nuove non valgono le antiche - sul piano pastorale questo potrebbe risolversi in una vera iattura.

L'attacco è frontale e il linguaggio, nell'ap­pello italiano, è pesante. «La riforma li­turgica del 1970 ebbe due conseguenze de­vastanti. La prima, imposta dalla burocra­zia clericale contro gli stessi dettami del Concilio Vaticano II, fu la proibizione del­la Messa tridentina, quella che da secoli era la messa ufficiale della Chiesa. La se­conda involontaria: si dette il via nella li­turgia a una serie di abusi, di invenzioni e perfino follie eterodosse che hanno avu­to effetti terribili allontanando dalla Chie­sa tanti che si sono messi a cercare il sa­cro e il bello altrove». A riprova della se­rietà della denuncia, si cita il parere del­l'allora card. Ratzinger, il quale «più di ogni altro si era reso conto del colossale errore e del panorama di rovine». Il di­vieto di usare il messale romano tridenti­no «ha comportato una rottura nella sto­ria della liturgia, le cui conseguenze po­tevano essere solo tragiche». Da quel mo­mento la Chiesa post-conciliare avrebbe tollerato ogni forma di abuso liturgico e si sarebbe aperta a ogni tipo di commistione ecumenica, con qualsiasi religione.  Così, è con sollievo che oggi si prende atto che «per ridare piena cittadinanza a tanti fedeli, il Papa sta per firmare un Motu proprio» che liberalizza la celebrazione della Messa in latino secondo il messale di S. Pio V. In fondo, commenta Socci, nella Chiesa sono sempre convissuti di­versi riti e diverse liturgie (il rito ambro­siano per esempio). Socci dimentica però di dire che tale convivenza si verifica sem­pre tra diversi 'riti' (romano, bizantino, ambrosiano ... anche se coesistenti nello stesso territorio), non all'interno dello stesso 'rito'. Per lo meno questa è la rego­la. A Roma sono rappresentati un po' tut­ti i riti accolti nella Chiesa cattolica, e cer­tamente all'interno della propria casa e del loro spazio ognuno di essi celebra nel proprio rito. Ma fuori di lì possono anda­re solo se invitati.

Ciò che è straordinario nella prosa di Soc­ci è il candore: «Il popolo e il mondo della cultura stanno col Papa e con la libertà. I vescovi ribelli lo capiranno?». Non male: o è coraggio o è faccia tosta.

Un uomo meno presuntuoso di Socci, ma certamente più competente, il citato J. A. Jungmann, ad Assisi aveva detto che nel­la Chiesa primitiva (I-IIsecolo) «il culto conserva in verità il colorito del paese d'origine, ma per le preghiere e le letture vediamo che la Chiesa non insiste sull'aramaico o sull' ebraico, bensì prende la lin­gua dei nuovi popoli; non usa, no, i dia­letti delle singole regioni. .. ma la lin­gua della letteratura e del commercio, il greco, che dappertutto, più o meno, è ca­pito. E quando, a Roma stessa, la comu­nità cristiana esce sempre più dai confini della colonia greca, e la locale popolazio­ne latina diventa maggioranza, si compie qui nel terzo secolo ancora un passaggio linguistico: dal greco al latino». Solo per­ché era la lingua di tutti, dei dotti e del popolo, il latino era potuto diventare e rimanere la lingua della liturgia. Avvian­dosi alla conclusione il grande liturgista annotava: «le difficoltà delle contingenze hanno purtroppo fatto sì che nel tardo Medio Evo in numerose chiese ... si creas­se come una cortina di nebbia tra liturgia e popolo ... dietro la quale i fedeli soltanto molto in confuso potevano capire che cosa accadesse all'altare».

Le conseguenze furono pesanti: mentre la Chiesa rendeva sempre più spettacolari le sue messe, il popolo cercava surrogati alla liturgia nelle devozioni da recitare priva­tamente (un esempio per tutti, il rosario). «La cortina di nebbia rimase. La più im­portante espressione dell' elevazione del­l'anima a Dio, cioè la parola della litur­gia, è scomparsa dal popolo. Le preghie­re e i canti nei quali si compie il divino Mistero sono divenuti meri suoni per gli orecchi. La liturgia si trasforma in una serie di misteriose parole e cerimonie ... irrigidite» .

La conclusione si apriva alla speranza: «La Chiesa sente che !'irrigidimento non le occorre più ... Le nebbie cominciano a scomparire. Sta sorgendo il giorno chia­ro. La Chiesa si munisce di una forza nuova. Essa va incontro con fiducia al­l'avvenire - quale popolo orante di Dio». L'auditorium della Cittadella Cristiana tremò sotto lo scroscio dell'interminabi­le applauso. Ancora solo sei anni e sa­rebbe stato il Concilio: «Nelle Messe ce­lebrate con il popolo sia possibile conce­dere congruo spazio alle lingue vernaco­le, specialmente nelle letture e nella 'pre­ghiera comune' (o universale) e secondo le condizioni dei diversi luoghi, anche nelle parti spettanti al popolo» (Sacrosantum Concilium, 54). Sembrò una timida apertura. Ma all'im­petuoso vento dello Spirito fu più che suf­ficiente. Potranno bastare gli estenuati sospiri di esteti nostalgici a opporgli il filtro delle tapparelle? Non sarebbe un buon segno.