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SE QUESTA E’ VITA.
Quando gli orari di lavoro aumentano.

Paolo Andruccioli (ROCCA 1 agosto 2008)

In politica contano anche i segni e i mes­saggi simbolici. Per varare l'ultimo accordo dei ministri europei del welfare sugli orari di lavoro ci sono volute infatti ore di negoziati e alla fine l’'intesa è stata raggiunta a Lussemburgo di notte, tra un lunedì e un martedì di una settimana di giugno. Si supera il limite delle 48 ore settimanali. In base a quell'accordo «notturno», nelle aziende, negli uffici, nei cantieri si potrà lavorare oltre le 48 ore a testa. Ogni lavoratore potrà essere impegnato fino a 60 ore e ci sono i soliti estremisti che parlano di una settimana di 65 ore. Negli stessi giorni a Roma il governo Berlusconi varava le norme sulla detassazione degli straordinari, per rendere finalmente «libera» (e soprattutto individuale) la gestione del tempo di lavoro, spingendo appunto i lavoratori che possono permetterselo a fare più straordinari, che sono resi «convenienti» anche dal punto di vista fiscale. L’accordo sugli orari e l'apologia dello straordinario hanno fatto notizia per qualche giorno. Poi sono stati messi da parte, triturati sotto i banchi dell'informazione consumistica. Non hanno comunque fatto scandalo più di tanto e non ci risultano prese di posizione di autorevoli intellettuali in proposito. La battaglia per la riduzione dell' orario di lavoro diventa così un' eco di tempi lontani. «Lavorare meno per lavorare tutti», la settimana di 35 ore, la spinta al part time, «se otto ore vi sembran poche», sembrano ormai vestigia di epoche passate. Che cosa succede al movimento sindacale europeo e a tutta la sinistra nelle sue variegate sfaccettature? Abbiamo deciso di abbandonare per sempre l'utopia e perfino la speranza della «liberazione» dal lavoro e del lavoro? A scorrere le cronache sembra proprio di sì e sembra anche che la questione del tempo di lavoro sia messa da parte nell'epoca della flessibilità totale.

Alle masse servono soldi.
La ri-appropriazione della propria vita, degli spazi di socializzazione e perfino del tempo dedicato alla famiglia sembrano concetti arcaici affidati ai sacri testi della teoria, ma che non parlerebbero più alla gente comune, fatte le dovute eccezioni di cui parleremo tra poco e che riguardano comunque delle minoranze. Alle masse servono soldi. La ricerca del denaro è frenetica. Si deve arrivare alla quarta settimana del mese, ma si deve trovare soprattutto «quell'in più» per avere la playstation, la vacanza particolare o magari il nuovo modello di telefono cellulare. E nello stesso tempo ci si deve ancorare il più possibile al proprio posto di lavoro, pena l'esclusione economica, nella nuova battaglia per la sopravvivenza. Nonostante gli immigrati che svolgono i lavori che non vogliamo più fare.
Per il momento rimane il tetto delle 60 ore settimanali, ma si offre l'opportunità alle parti sociali di prevedere altri limiti. Si rovescia dunque il tradizionale concetto di sindacato. Invece di essere uno strumento per migliorare la condizione dei lavoratori e per ottenere conquiste sociali che rendono più civile la nostra società, la politica ha la presunzione di affidare al sindacato il compito di derogare dalle norme, di peggiorarle, o quantomeno renderle sempre più flessibili in piena sintonia con l'epoca della flessibilità sociale. Secondo il pensiero e il volere dei ministri europei del welfare, si potrà infatti arrivare anche alle 65 ore settimanali, quando si includa il tempo di reperibilità passivo nell'orario di lavoro.

Un ibrido inedito.
Siamo alla generazione del lavoro flessibile e dell'orario continuato, è iniziata l'epoca del lavoratore reperibile. Tempo di vita e tempo di lavoro si mescolano e in certi casi si fondono in un ibrido inedito. Ecco perché - forse - il lavoro non si vede più: è confuso e assorbito dal supermarket del consumo, come sostiene da anni Zygmunt Bauman, che ha descritto appunto il passaggio dall'etica del lavoro all'estetica del consumo. E in apparente, clamorosa, controtendenza rispetto alle teorizzazioni di molti studiosi che hanno parlato della fine del lavoro e della progressiva riduzione dello spazio delle attività lavorative all'interno della nostra vita. Il lavoro manca (visto che il problema della disoccupazione ha semplicemente cambiato caratteri) e nello stesso tempo non si riduce, anzi si espande e si mescola al consumo. L’ozio creativo di Domenico De Masi è per molti di noi solo una colorata copertina di un libro di successo. Secondo lo psicologo del lavoro Pierenrico Andreoni, l'affermarsi della flessibilità come cultura globale del lavoro ha fatto scomparire di colpo il problema della riduzione generalizzata dell' orario di lavoro che aveva come slogan «lavorare meno, lavorare tutti»: il problema delle 35 ore che ha avuto riscontri contrattuali e legislativi in molte nazioni europee. Si tratta di un fatto storico molto importante, di uno dei segni del passaggio d'epoca che è bene indagare a fondo perché non è utile archiviare quelle battaglie come se non si fossero mai combattute. Per Andreoni, alla base di tutto ci sarebbe la grande trasformazione che stiamo vivendo proprio in questi anni. «Quel modo di pensare occidentale - scrive lo psicologo del lavoro - non aveva percepito l'invasione degli affamati dall'Europa dell'Est, dal Terzo mondo, il trasmigrare velocissimo delle tecnologie obsolete laddove il costo del lavoro fosse più basso e l'affermarsi delle nuove tecnologie e delle loro abilità manipolatorie e reali, la loro prorompente comparsa e la ristrutturazione del mercato del lavoro». Quasi a dar ragione a questa interpretazione, è stato interessante sentire le interviste ai lavoratori italiani nei giorni della detassazione degli straordinari. Le tv hanno intervistato madri di famiglia sole (vedove o divorziate), costrette a fare gli straordinari per mantenere i figli, lavoratori capi famiglia che hanno dichiarato espressamente l'obbligatorietà dello straordinario. Mentre è il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, a denunciare il ritardo italiano a proposito dei redditi da lavoro; la gente comune cerca di arrangiarsi come può e cade spesso nelle trappole che le vengono tese. La Cgil- per esempio - non ha apprezzato la misura sugli straordinari e ha parlato di un provvedimento che non solo non risolve il problema dei redditi da lavoro troppo bassi e in particolare dei salari, ma soprattutto che tenderà a dividere ancora di più tra chi può permettersi appunto lo straordinario e chi invece non riuscirà ad accedere al «privilegio» di lavorare di più. Ma anche tra le fila degli altri sindacati confederali serpeggia il malcontento e si vive un senso di disagio profondo. Le trasformazioni sembrano sormontare anche le culture più radicate nella storia sociale e non è un caso che anche il sindacalismo cattolico si trovi oggi in difficoltà rispetto alle nuove tendenze. È utile ricordare per esempio la storica contrapposizione tra chi si batteva per la riduzione dell'orario di lavoro e chi invece pensava che sarebbe stato meglio puntare sull'aumento del salario e l'organizzazione del lavoro. Tra Cisl e Cgil la tensione politica e culturale su questi temi ha prodotto in passato teoria ed esperienza. Per chi ha seguito le cose italiane, è sufficiente ricordare le battaglie di Pierre Carniti e di Bruno Trentin. Ora siamo di fronte alla settimana la­vorativa di 65 ore.

Non c’è lavoro, ma si lavora di più.
Mentre nei convegni si teorizzava la fine del lavoro, nelle fabbriche italiane e nei cantieri edili si lavorava sempre di più, visto che l'Istat segnala un orario di lavoro effettivo pro-capite più alto nel settore delle costruzioni e nei comparti dell'industria in senso stretto. Anche l'analisi «dimensionale» dell'Istat ci aiuta a capire un po' meglio i fenomeni. In questi ultimi anni, molto prima del vertice di Lussemburgo dei ministri europei, in Italia si è registrata una progressiva crescita delle ore lavorate nelle aziende più piccole. Già secondo il rapporto Istat del 2004, le imprese con oltre 500 addetti presentavano un orario di lavoro, pari a 1.591 ore medie annuali, inferiore del 6,7% a quello delle imprese con 10-19 addetti, mentre l'incidenza delle ore di lavoro straordinario mostra il livello più elevato (5%) nelle imprese con 500 addetti e oltre. Le ore lavorate per dipendente a tempo parziale equivalevano in quel periodo a circa 967 ore medie annuali e risultavano quindi circa il 56% delle ore effettivamente lavorate per dipendente full­time. La tendenza è stata confermata - e caso mai si è accentuata - negli anni successivi. Si lavora di più nelle piccole imprese dunque, l'orario di lavoro è più elastico nella piccola dimensione, dove però si accede meno che nelle imprese con oltre 500 addetti all'istituto dello straordinario. E anche il lavoro part-time è parziale solo nella definizione teorica e tecnica, mentre nella realtà il tempo di lavoro viene sempre più stiracchiato secondo le esigenze della produzione. Siamo di fronte a una specie di mistero che andrebbe prima o poi svelato.

Immersi in una catena di montaggio.
Si dice che viviamo in una società dell'informazione e del post-industriale (questa per esempio è la definizione preferita di De Masi) e nello stesso tempo ci sembra di vivere ogni giorno dentro una grande catena di montaggio: milioni di merci che circolano sulle nostre strade, Tir che invadono i raccordi cittadini, oltre le autostrade e soprattutto una corsa frenetica e continua della metropoli che tende a estendersi fino ai piccoli centri. L'orario di lavoro è anche il traffico. Siamo lavoratori reperibili anche quando siamo in coda sul raccordo. A occhio la produzione non si è spostata tutta in Cina. E sempre a occhio non stiamo assistendo alla liberazione dal lavoro e all'aumento del tempo libero. Siamo in coda anche per entrare nei parcheggi dei centri commerciali dove ormai si celebra ogni sabato e domenica il rito del nuovo idolo.

Il sogno del telelavoro.
L'ufficio in casa è un sogno o un incubo per molti. Il famoso telelavoro che avrebbe dovuto sostituire l'organizzazione tradizionale non sembra prendere piede, soprattutto perché le aziende resistono per non perdere quote di produttività. O perché temono di perdere consistenti quote di produttivià lasciando «liberi» a casa propria i dipendenti. Secondo un recente report citato dal Sole 24 ore e intitolato «Lavoro flessibile in Europa e in Russia», realizzato dalla società Avaya (azienda specia­lizzata in reti di tele comunicazione ), il 94% dei lavoratori intervistati si dice interessato al telelavoro. Ma nei fatti la possibilità di lavorare a distanza è concessa per ora solo al 17% del campione intervistato. I responsabili delle piccole e medie aziende coinvolti nel campione hanno affermato che il lavoro via Internet potrebbe essere dannoso per la produttività aziendale. Nonostante i sofisticati sistemi di controllo e gli strumenti avanzati di comunicazione come Skype, le aziende non si fidano dei dipendenti e temono che lasciati a casa possano gestire a loro piacimento il tempo.  Il problema principale nell' epoca della società della conoscenza e della comunicazione rimane dunque il controllo diretto sul lavoro, a cui viene chiesta contemporaneamente obbedienza e massima disposizione, o predisposizione alla flessibilità.

I re dell’orto.
In questo quadro non certo esaltante la società produce le sue innovazioni e tenta strade nuove. Siamo nell'epoca dei centri commerciali, ma i quotidiani - a giorni alterni - titolano sulla rivincita dei piccoli negozi e perfino sul ritorno degli orti. Anche l'Istat nell'ultimo rapporto sui consumi in Italia ha sottolineato il fenomeno della diffusione degli orti non solo nelle piccole città di provincia dove le famiglie vivono ancora in una condizione «naturale» e più salubre. Anche nelle metropoli, sui balconi e le terrazze ci sono sempre più persone che insieme alle piante cercano di coltivare ortaggi. Ed è un fenomeno in crescita anche tra i giovani, anche se sono sempre gli over 65 i veri re dell'orto. Accanto a questi fenomeni, o queste «mode», se ne stanno sviluppando altri molto diversi: la crescita dei gruppi di acquisto solidali e delle esperienze «bilanciste» (ovvero di chi cerca di fare la spesa in modo alternativo e più sostenibile) e il diffondersi di esperienze innovative nel campo del volontariato e quindi dell'utilizzo del tempo libero. Per capire chi siamo, dobbiamo «cercare ancora».