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LA NOTTE DEL CATTOLICESIMO ITALIANO
Giancarlo Zizola (ROCCA 01/11/2010)
E’ notte fonda per il cattolicesimo italiano, «una cristianità in via di
desertificazione» secondo l'analisi choc di un osservatore francese, Jean-Luc
Pouthier in un articolo sul mensile dei gesuiti «Etudes». Eppure i
siti cattolici più visitati sono quelli che esibiscono il Sacro Cuore e
l'Ostia coi raggi, le antenne di Radio Maria
grondano ascolti, a misura in cui scoroncinano
il rosario e lanciano nuove crociate
anti-islamiche,
Padre Pio è sempre una star del firmamento dei santi, la Sindone a Torino ha
battuto ogni record di pellegrini e i santuari, da Sant'Antonio a Padova
alla Santa Casa di Loreto, da Assisi
a San Francesco di Paola in Calabria, rigurgitano di invocazioni, mentre gli
eremi non riescono a far fronte all' ondata di prenotazioni.
Vitalità solo apparente?
Nella
gran parte dei casi, sono i fronti di una pietà popolare informale,
miracolistica, involontariamente magica e infantile, ma anche spazi in cui
gli individui attingono nel silenzio le domande fondamentali, altrove
inevase o strozzate da esclamativi
arroganti.
Comunque, tutt'altro che un fenomeno in estinzione se si incarica di far
sapere che la modernità non ha ucciso la sete di credere, malgrado le
fragilità della casta sacerdotale.
Ma anche la Chiesa ufficiale, quella delle curie sembra che se la passi
meglio in Italia che negli altri paesi europei, se è riuscita a conservare
qui un'esistenza più visibile al punto che si parla di una «eccezione
italiana» nel contesto della secolarizzazione
europea:
222 diocesi,
circa 31.000 preti diocesani, 15.000 preti nelle congregazioni e negli
ordini religiosi, 100.000 suore. Numeri in forte ribasso da una trentina
d'anni, col fenomeno dell'invecchiamento del clero e della diminuzione delle
ordinazioni di nuovi preti (circa 500 all'
anno) che costringe i vertici a pescare nel clero d'importazione,
specialmente polacchi e africani,
o
a accorpare le parrocchie, in mancanza di un progetto di riforma strategica.
Altrettanto consistente l'associazionismo cattolico, forte di circa 5
milioni di iscritti o aderenti,
cioè il 12%
della popolazione adulta.
Lavorano
in campi diversi,
dall'impegno
pastorale a quello caritativo o nel volontariato,
mentre è carente il target della scuola cattolica, con solo 1'8%
degli alunni negli istituti confessionali (25% nella laica Francia).
Una vitalità solo
«apparente»,
come insinua Pouthier? Per quanto tempo ancora l'Italia
cattolica farà
eccezione?
E quali le fragilità nascoste,
che fanno parlare alcuni di «catastrofe»,
altri più prudentemente di un'identità mossa, in pieno travaglio di
transizione?
La pratica religiosa è in picchiata. Una quantità non indifferente
di preti,
di religiosi e di religiose partono,
esce di scena senza drammi apparenti la docilità dei fedeli all'insegnamento
della Chiesa in materia di morale sessuale. E non sono i soli dati che
autorizzano dubbi sulla tesi di Giuseppe De Rita («Corriere
della Sera»,
31 agosto 2010) secondo cui la tenuta del cattolicesimo italiano deve
quasi tutto ormai al suo
«fondo
identitario di carattere più religioso e spirituale che di impegno civile».
In realtà, le narrazioni più recenti di questa identità religiosa sollevano
le bende sulle ferite nascoste:
il voltafaccia o i riduzionismi sulla riforma conciliare,
maldigerita,
l'inseguimento del patto di stabilità fra Chiesa e destra politica
al comando,
l'imborghesimento
del clero,
la perdita della profezia, l'accumulo
dei privilegi concordatari, l'ignoranza della dottrina sociale della Chiesa
...
Sarebbero dunque proprio le radici religiose ad essere intaccate,
al punto di produrre un cristianesimo contraffatto, come quello degli
«atei
devoti»
o
le riscritture dei Vangeli, una nuova
eresia ariana su misura del Dio padano della Lega,
che si autoproclama vindice delle radici cristiane dell'Occidente
ma strappa i poveri e gli immigrati dalle braccia del Crocifisso. Ancora nel
2006,
al IV Convegno ecclesiale di Verona, promosso dalla Conferenza Episcopale,
erano stati diagnosticati alcuni fenomeni emergenti di distacco
«affettivo
ed effettivo»,
un clima di
«amarezza
e di incertezza»,
una «decadenza della presenza cristiana, in particolare fra i giovani».
Una fede senza rito e senza chiesa.
Ma negli ultimi mesi il linguaggio degli analisti del cattolicesimo italiano
è divenuto meno sfumato:
fine di un cristianesimo di tradizione,
indifferenza religiosa,
fenomeni di apostasia omeopatica, scismi silenziosi, ma di massa, perdita di
presa culturale della Chiesa nella società.
Sociologi del rango di Franco Garelli e Luca Diotallevi rilasciano i
bollettini della notte del cattolicesimo in Italia: non solo la pratica
religiosa precipita, più interessante è che l'appartenenza religiosa si
deistituzionalizza, che il distacco dal sistema Chiesa e dalle osservanze
non
sposta
generalmente verso l'indifferenza,
piuttosto verso un Dio più interiore, più soggettivo,
cercato nel
tabernacolo
della coscienza.
«Una
fede senza
rito e senza Chiesa»
sintetizza Garelli.
Pezzi e bocconi del dispositivo cattolico si ricompongono in nuove
combinazioni di
senso,
pur non mantenendo molto da condividere
con l'apparato
ecclesiastico.
Docente di filosofia politica alla Pontificia
Università
Gregoriana, Rocco D'Ambrosio non esita a invitare a prendere coscienza che
«la
società italiana non è più cristianamente ispirata,
in termini di costumi, idee, atteggiamenti personali e sociali,
leggi e prassi politiche».
Il suo piccolo libro bianco sui cattolici e la società italiana («Cercasi
profeti»,
Edizioni La Meridiana,
Molfetta) è un tentativo drammatico di lanciare delle ciambelle di
salvataggio alla Chiesa che naufraga, oppure una volonterosa interpretazione
terapeutica e provvidenzialista
della crisi verticale che sta decomponendo il massiccio castello del sistema
gerarchico della Chiesa romana:
«Siamo
alle prese con un'Italia
scristianizzata o senza fede e questo dato certo, visibile, obbliga a
trasformare la visione e
la strategia della Chiesa se vuole lavorare perché il cristianesimo abbia un
futuro».
Senza Dio senza Chiesa.
Per ora le previsioni di un'Italia neo-pagana
non si differenziano sostanzialmente dalle tendenze in corso nel resto dell'Europa,
dove ci si preoccupa di segnali di regressione agli idoli muti del
paganesimo, ben oltre la soglia della secolarizzazione. Un fallimento duro
per la Chiesa e i suoi piani di evangelizzazione del paese. Armando Matteo,
assistente nazionale della Federazione degli universitari cattolici (Fuci)
ha posto alla Chiesa una semplice questione: a partire dal momento in cui
dei battezzati, sempre meno numerosi, cessano ogni pratica religiosa, ogni
trasmissione di un sapere e di valori, quante generazioni ci vorranno perché
la memoria cristiana si cancelli definitivamente da questo paese?
Nel saggio
«La
prima generazione
incredula»
(Rubbettino
editore) riconosce che la fede cristiana «ha subìto nell'epoca attuale un
processo di opacizzazione della sua capacità di umanizzare, ovvero non
convince più quale possibilità di far diventare l'uomo
più uomo».
«Si
nota una incapacità del cittadino medio europeo di afferrare il senso ultimo
della fede (
...
). Gli uomini e le donne del nostro tempo non sono più attratti dal vangelo
di Gesù. Hanno semplicemente imparato a cavarsela senza Dio e senza Chiesa.
Questo è l'inedito
del nostro tempo in Occidente: non più il contro Dio dell'ateismo classico,
ma il senza Dio di chi non ha più antenne per lui».
Questa deriva è particolarmente pesante per i mondi giovanili,
ove anzi si profila un uso del cristianesimo nella linea dell' «appartenenza
senza credenza»,
utile a ridirsi la propria identità culturale in un mondo sempre più
multiculturale e multireligioso.
In realtà, malgrado i supporti concordatari sull'insegnamento della
religione cattolica a scuola, risulta che i giovani
«non
sanno perché dovrebbero credere o perché dovrebbero pregare», la fede per
molti di loro è
«una
lingua straniera».
Si è spezzata la cinghia di trasmissione delle famiglie,
l'iniziazione all'umano
non si ispira più alla grammatica cristiana dell'
esistenza. li segno di croce si riduce mediaticamente al ghiribizzo
scaramantico dei calciatori all'ingresso in campo, ma non raccoglie né
certifica l'appartenenza esistenziale di un popolo alla fede nel Cristo
morto e risorto.
Le
cause della crisi.
«Nascere
e diventare cristiano sono due cose distinte. Non si diventa cristiani col
latte materno».
L’italiano medio dunque ha smesso di essere
«naturaliter»
cristiano non giudica più il mondo e la condizione umana secondo la
prospettiva giudaica cristiana. L'aria
che tira in Europa e che i giovani d'oggi
respirano - insiste don Matteo - rende opache,
illeggibili, non immediatamente trasparenti del messaggio evangelico le
forme classiche della presenza ecclesiale, i suoi modi di pregare, di
giudicare i comportamenti morali, di assegnare specifici criteri di valore a
cose e a persone, e infine di offrire visioni alternative all'attuale
scenario mondiale, dominato dal denaro e dal potere.
Ma questi esiti così deprimenti rinviano
a cause che non sono solo esterne,
alla perfida secolarizzazione, all'ateismo
scientifico associato al comunismo,
agli attacchi mediatici contro Ratzinger, una favola piagnucolosa o un
vittimismo psichico da capro espiatorio che lo stesso papa ha smantellato
quando è stata usata in Curia per minimizzare la crisi del clero pedofilo.
Le cause della crisi sono cercate più seriamente all'interno della Chiesa,
nella sua difficoltà di liberare il cristianesimo dal regime protettivo ma
soffocante e snaturante della cristianità,
nella sua scarsa disponibilità a scendere dai troni, a spogliarsi delle
palandrane, dei privilegi e dei titoli pomposi, a uscire dalla pretesa dell'
autosufficienza per riconoscere la portata provvidenziale della rivoluzione
dei soggetti e mettersi all'ascolto
con umiltà dei loro problemi, delle loro ferite,
delle loro ricerche e dei loro punti di vista.
Risparmiando loro l'invettiva
di complici del relativismo.
«Se
una nuova evangelizzazione ci deve essere» - dice Susanna Tamaro «dovrebbe
riguardare prima di tutto gli uomini e le donne della Chiesa, responsabili
purtroppo in molti,
troppi casi - dell'allontanamento dalla fede di tante persone di valore».
Dalle colonne del «Corriere della Sera»
(2 agosto 2010), le sue domande alla Chiesa sono state quelle di tanti ex
cattolici che si sono
lasciati alle
spalle
messianismi politici, new age,
vari movimenti orientali per tornare alla fede del Vangelo, ma che,
vissuta una fase di grande trasporto, non hanno trovato nessun padre ad
attenderli,
non interlocutori,
non accoglienza,
per cui si sono nuovamente allontanati.
«Non faccio altro
-
ha scritto - che incontrare persone buone,
rette,
etiche,
che si sono allontanate per sempre dalla Chiesa dopo esperienze deteriori
con i suoi rappresentanti».
Contropassi e paradossi.
L'ipotesi
su cui lavora D'Ambrosio,
e
con lui i cristiani
«della
soglia»,
inclusi
alcuni
vescovi,
è
che la crisi storica che
va disfacendo
l'antica struttura,
con tutta la sua gloria e boria, ma anche coi suoi santi, determina anche
sul medio periodo
«la
grande
cura di umiltà»
di cui,
secondo Tamaro, la Chiesa ha bisogno.
Le apostasie la salveranno?
«La
salverà la profezia»
risponde il
politologo, discepolo del vescovo Tonino Bello,
uno dei rari profeti che la Chiesa italiana ha avuto e naturalmente
provveduto a lapidare nella seconda metà del Novecento (l'altro era Papa
Giovanni XXIII).
La sua opinione è che in sfacelo è quel modello di Chiesa e quella
forma
«costantiniana»
di cristianesimo
che, recuperata e aggiornata dal Cardinale Ruini
come traduzione italiana del trionfalismo wojtyliano,
ha puntato sul recupero
della
potenza sociale, della visibilità e della
«forza
trainante»
del cattolicesimo
nella società italiana.
In altri termini,
ciò che l'ipotesi
sostiene è che
è
stata la voglia di tornare a contare,
anche senza la Dc,
a
indebolire
la Chiesa anche sul piano pastorale,
e non solo su quello pubblico. E la sua difficoltà ad accettare di non
essere più maggioranza né religiosa
né politica in un mondo
secolarizzato
che svuota le chiese e mette alle
corde
la
credibilità
della Chiesa.
Per rievangelizzare
l'Occidente servirebbero
più monasteri,
e
non più dicasteri,
specialmente
se affidati, come quello creato nella curia romana recentemente, a uomini di
potere come mons.
Salvatore
Fisichella.
Il
«libro
bianco»
di
D'Ambrosio
è una collezione di contrappassi e paradossi,
raccolti dalla storia della
«grande
operazione di archiviazione»
del Concilio Vaticano II per mano di vertici gerarchici la cui
lungimiranza
non ha brillato, per comune ammissione.
Se qualcuno sperava
ai vertici gerarchici di usare i colpi del referendum sulla procreazione
assistita e del
proibizionismo sul testamento biologico per ostentare la forza politica
della Chiesa, i segnali
del degrado etico pubblico e privato nel Paese hanno scoperchiato la pentola:
non si trattava
che di soluzioni tampone, utili al massimo
a rinviare
il punto esplosivo della crisi.
Il bilancio
del decennio della
riconquista
culturale cattolica,
pianificata
da
Ruini,
non poteva
essere
più mitigato nel 2007,
quando
è
suonata la fine della sua era al vertice della Cei,
in coincidenza
con il raffreddamento
dei misteri gloriosi della
Chiesa wojtyliana.
Proprio quando
la
Chiesa
cattolica si ritrova con i forzieri mai stati più colmi dal
gettito dell'8 per mille,
essa
versa nella maggiore insicurezza.
Dove
la profezia soffre violenza.
«La
Chiesa italiana - dice D'Ambrosio - nel suo complesso (come nelle sue locali
articolazioni: diocesi,
parrocchie, ordini
religiosi)
è sostanzialmente troppo ricca.
Anche
in questo settore la profezia soffre violenza.
Bisognerebbe
chiedersi quanto la logica del mercato,
del profitto ad ogni costo tocchi le nostre strutture cattoliche. La parola
profetica esige la povertà
dei suoi testimoni per essere ascoltata.
Il Concilio
invitava la Chiesa perfino a rinunziare
ai diritti legittimamente acquisiti se il loro uso facesse dubitare della
sincerità della testimonianza. In Italia la Chiesa ha acquisito stipendi
ai cappellani ospedalieri, fondi per la scuola
cattolica,
la messa in ruolo dei docenti di religione,
i
finanziamenti agli oratori parrocchiali,
contributi pubblici
e esenzioni fiscali
per parrocchie,
ordini religiosi
e
diocesi».
«Una
Chiesa talmente ricca che può permettersi
di fare a meno
dei fedeli»
è
l'amara ironia di Hans
Peter
Oschwald,
il decano
di vaticanisti tedeschi.
«Forse
abbiamo un cattolicesimo tanto mondanizzato quanto il mondo che la stessa
Chiesa cattolica critica»
incalza D'Ambrosio.
«La
mentalità dell'impresa
si sta radicando nelle comunità, dove ricchi facoltosi e potenti
'atei
devoti' sono troppo di casa, mentre
languono formazione permanente,
informazione
seria e testimonianze scomode sui temi scottanti». La sua preoccupazione è
che il messaggio della Chiesa italiana sia ormai così imbrogliato
dall'ingerenza nel campo politico e partitario da rendere faticosa la sua
adesione alle limpide direttive di Papa Ratzinger di non immischiarsi negli
affari della politica, sulla scia della netta distinzione tra Chiesa e
comunità politica raccomandata dalla sua prima enciclica «Deus caritas est».
È l'operazione di presa di distanza affidata da Benedetto XVI al nuovo
presidente della Cei, Cardinale Angelo Bagnasco.
Impresa delicata seguita con l'attenzione che merita, e che viene condotta
più che altro col metodo dei bilanciamenti diplomatici, tra la Chiesa della
Caritas, evangelicamente schierata con le vittime, e la Chiesa del Meeting
di Rimini, il «red carpet» dell'alleanza del cattolicesimo italiano
di Comunione e Liberazione con i poteri forti. Una deriva ideologica,
destinata a sfociare necessariamente nell'integralismo, secondo i fautori
della nuova riforma cristiana: si precipita volentieri sul corto circuito
dei «valori non negoziabili» in campo bioetico, quelli che costano meno e
rendono di più in campagna elettorale, mentre lo stesso Bagnasco non esita a
ricordare agli immemori che la difesa della vita umana non è selettiva,
significa anche diritti dei lavoratori, rispetto per le persone e le giuste
aspettative degli immigrati, opposizione alle guerre e alle ingiustizie,
leggi a protezione dei più deboli e dell'ambiente.
La teologia utilitaristica degli atei devoti.
Di fronte alla Chiesa non sta più solo un regime politico, ma una teologia
utilitarista ad uso e consumo del Principe. È gestita da un nuovo genere di
diaconi, gli «atei devoti» e continua imperterrita il tentativo di integrare
Dio come chiave di volta del sistema borghese, del tutto funzionale agli
interessi dei poteri dominanti.
La stessa fede in Dio finisce per essere compresa, in questo contesto
culturale, non come un dono ma come un possesso, una grandezza
quantificabile e misurabile: essa è piccola oppure grande. Si ha la fede o
non la si ha. Si è dentro o si è fuori. Diventa un distintivo identitario,
un modo per rivestire gli interessi col manto religioso, ciò che rende
possibile - è accaduto - invocare il nome di Dio e la difesa delle «radici
cristiane» dell'Europa per giustificare politiche oltraggiose e talora
assassine verso il prossimo, il forestiero, il povero, l'immigrato, il Rom,
il diverso. Una deriva pubblica che rivela il fallimento del sistema
dell'evangelizzazione in un paese sedicente «cattolico» e che, rimettendo in
causa la legittima diversità delle appartenenze sociali, arriva a intaccare
indirettamente anche il principio ecumenico dell'accoglienza delle diversità
in quanto componenti essenziali dell'unica Chiesa di Cristo.
Sotto
i colpi della tempesta.
È precisamente questo intreccio organico che viene chiamato in causa dal
collasso delle strutture della cristianità stabilita. Dal punto di vista del
Vangelo, dice D'Ambrosio, un puro guadagno: per raggiungere più
profondamente la propria ispirazione, la Chiesa è sollecitata a distinguersi
in modo più chiaro dagli interessi dominanti, recidere i legami
istituzionali che ne fanno una succursale dello Stato, consegnare
l'efficacia della propria missione a quell'incarnazione storica della
differenza che è assicurata dalla povertà evangelica come forma fondamentale
della Chiesa «piccolo gregge», «lievito nella pasta», «granello di senape».
Lo sta diventando sotto i colpi della tempesta, che rendono i cattolici una
minoranza di convinzione, ma la loro cultura resta radicata nel ruolo di
maggioranza del Paese. Eppure lo stesso Ratzinger non aveva dubbi, in
un'intervista del 1997, a suggerire di abbandonare l'idea di chiesa
nazionale o di massa: «Davanti a noi è probabile che ci sia un'epoca diversa
- diceva - in cui il cristianesimo verrà a trovarsi nella situazione del
seme di senape, un gruppo di piccole dimensioni, apparentemente ininfluenti,
che tuttavia vivono intensamente contro il male e portano nel mondo il
bene».
Anche nelle congiunture tremende della crisi della sua Chiesa Papa Benedetto
non ha cessato di avvertire che solo collocando risolutamente la sua azione
sul piano spirituale la Chiesa
potrebbe preservare la propria alterità, che costituisce la condizione non
solo per il recupero del suo significato nel vissuto quotidiano della gente,
ma anche per una migliore efficacia del suo ruolo pubblico e del suo
messaggio etico.
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