| chiudi la finestra |stampa |  

---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 IL NOME DELLA SPERANZA
Intervento di Enzo Bianchi al Convegno della Cittadella di Assisi agosto 1997
(ROCCA 15/10/97)

Io sono convinto che oggi la grande necessità è proprio quella di riuscire a tenere l’orizzonte escatologico, il ritorno del Signore attenzione, non la nostalgia di un ritorno qualunque, questo è New Age, il ritorno del Signore Gesù Cristo. Bisogna tenere ferma questa nostalgia ma nello stesso tempo imparare ad amare questa terra. La formula: fedeltà alla terra, comprendiamola bene.

Non è solo una formula che ha sapore ecologico, questo eventualmente è qualcosa che ha acquista­to nell 'ultimo decennio. Quando dico fe­deltà alla terra significa fedeltà alla nostra condizione, alla nostra vita, alla nostra carne, al nostro corpo, al nostro vivere quotidiano, ai nostri amori, a questo mon­do che attende una trasfigurazione non una dissoluzione, che attende di essere ri­portato all'integrità non di essere consu­mato dal fuoco.

Noi abbiamo beneficiato, anche all'inter­no dell'Antico e del Nuovo Testamento, tutta una serie di vocabolario che voleva indicare la fine dell’assetto malefico di questo mondo, ma non la fine di ciò che noi abbiamo amato, di ciò che noi abbiamo creato che fa parte della nostra storia. Togliete a ciascuno di noi i suoi amori, togliete le sue creazioni, togliete i suoi desideri e quel che ha vissuto e cosa resta di noi? Resurrezione della carne non significa, tanto che risorge questo corpo che io mi ri­trovo e che perde" milioni di cellule ogni giorno, ma significa che tutto ciò che ho amato, tutto ciò che ho vissuto, tutto ciò in cui ho creduto, purificato dal male che mi ha attaccato, sarà trasfigurato.

 

il capolavoro umano

È questo l'orizzonte allora di una fedeltà alla terra. E credo sia importante in que­sto senso il progetto culturale così coniu­gato dalla chiesa italiana. Non ne amo la formula, non lo nascondo, ma cosa può es­sere progetto culturale? Può essere sem­plicemente che i cristiani reimparino la grammatica umana, delle relazioni uma­ne, del vivere umano, del tempo che è la vi­ta e che presentino una vita bella e buona nel senso compiuto del termine; un capo­lavoro umano, perché non si dà vita cri­stiana autentica che non sia un'opera d'ar­te umana. Se noi sapessimo presentare questo agli uomini questo sarebbe suffi­ciente per dire la speranza che è in noi. E il capolavoro umano, l'opera d'arte di vi­ta umana è una vita vissuta in pienezza, in fedeltà alla terra ma segnata dalla logica di comunione a tutti i livelli. Vivere con gli altri, vivere per gli altri. Questo è quello che ci dice il cristianesimo; la koinonia, la comunione è il mezzo, è il fine che in Cri­sto Gesù ha avuto la sua evidenza umana e divina.

Quando Gesù ci ha raccontato Dio, ci ha semplicemente raccontato come Dio vuol fare comunione con noi e in sé ha vissuto come un uomo può far comunione con Dio in una estrema comunione con tutti gli uomini.

Io non credo che il cristiano sia chiamato a delle cose straordinarie, singolari a livel­lo di vita umana, sono convinto che deve fare la vita umana come capolavoro per­ché questa è la vocazione dell'uomo crea­to da Dio. Ed è su questa vita umana che lui tenta di fare come capolavoro, che tie­ne viva quella promessa della resurrezio­ne, della trasfigurazione del nostro corpo di miseria e di tutto l'universo.

 

cristiani prima che militanti

La parrocchia. Credo che la chiesa che ha voluto il Signo­re sia la comunità, la comunità locale, per­ché lo spazio e il tempo son due categorie che fanno l'uomo; senza spazio e tempo non si trova l'uomo. È solo il territorio a fare chiesa, non i mo­vimenti che sono tutt'al più semplicemen­te delle ipotesi che sorgono in un momen­to di patologia della comunità territoria­le; hanno il diritto ad esserci, e han fatto gran che bene, ma son convinto che tornia­mo effettivamente alla parrocchia. Io ho sempre creduto nella parrocchia e spero che i cristiani nella parrocchia ab­biano queste cose: un luogo in cui loro cre­scono in una vera gnosi cristiana; cioè un giorno, una sera alla settimana, in cui si ri­trovino attorno alla Parola di Dio e che possano crescere, esser cristiani adulti, maturi, con una pienezza, con una statu­ra, una soggettività della loro fede. E che poi si ritrovino tutti la domenica per l'eu­carestia dove la koinonia non è solo con il corpo del Signore, morto e risorto, ma de­ve essere anche una koinonia in cui si in­contra gente che si riconosce, gente che ha una appartenenza comunitaria, che non va a prendere un servizio semplicemente, co­me si diceva quando ero giovane: vado a prender messa.

Poi io a questi cristiani quotidiani chiede­rei una sola cosa: che trovino un momen­to al giorno per pregare nella maniera che suggerisce il Signore, ricordando che la preghiera ha una fonte che è l'ascolto del­la parola contenuta nelle Scritture. E poi niente altro. Facciano la loro vita di geni­tori fedeli nel matrimonio e capaci di ascoltare i figli; facciano una vita profes­sionale seria aiutando la trasfigurazione di questo mondo, lavorino pensando che il frutto del loro lavoro può esser fonte di co­munione e di grande carità, non di elemo­sina. E allora, io dico, per un tale cristia­no ce n'è d'avanzo, ce n'è d'avanzo.

Questo sarà minimalismo, ma io sono cri­tico verso quella forma di cristiano mili­tante che dovrebbe essere ogni sera in par­rocchia, ogni sera impegnato in qualcosa dimenticando che la vocazione è nella compagnia degli uomini. Ve lo dico da mo­naco, non amo questa forma di laico cleri­cale o militante tutte le sere in opere par­rocchiali che poi normalmente è un uomo malato di carità presbite, cioè vede quelli che han bisogno lontano e non vede chi ha bisogno in casa o vicino.

Una parola sulla carità. Il cristianesimo senza una prassi, senza una realizzazione della caritas, non solo non è credibile, ma sarebbe semplicemente una ideologia né più né meno. Giovanni nella sua Lettera ha detto una parola definitiva per sempre: «Nessuno può dire di amare Dio che non vede se non ama il fratello che vede».

Guardate questa frase di Giovanni la po­tremmo parafrasare, decodificare in mil­le maniere: nessuno può dire che comuni­ca con Dio che non vede se non sa comuni­care col fratello che vede; nessuno può di­re che fa comunione con Dio che non vede se non sa fare comunione col fratello che vede. Giovanni usa il verbo agapan, un ver­bo non usato nel greco classico; per dire l'amore, c'era il verbo fileo, c'era l'altro verbo dell'amore passionale, erao. Gio­vanni usa un verbo che non trovate nel gre­co classico per dire che quell'amore, quel­la Carità con la C maiuscola, è qualcosa che discende da Dio. Ma una volta disceso da Dio, se veramente è disceso, si fa pras­si tra gli uomini.

Il Cantico dei Cantici termina dicendo: l'a­more del Signore è più forte della morte. Giovanni dice: Dio è amore. Ma allora quando l'amore raggiunge questa perfe­zione l'amore è il nome della resurrezione, è il nome della speranza.

In tutti gli uomini credenti e non credenti, c'è in realtà questa sete di amore, che è dav­vero l'immagine di Dio stampata in noi, che non è persa neanche nell'uomo più obbiet­to, vizioso e delinquente. Ecco è questo amo­re che non può esser perduto, è questo amo­re che ha il nome di resurrezione perché Cri­sto è risorto avendo dato la vita per i suoi.

La cristianità oggi è finita, soprattutto io ne riconosco la fine per due elementi precisi.

Il primo: è venuta meno la maggioranza. Ormai i cristiani sono condotti a ricono­scersi come una minoranza. So bene che questo riconoscimento per molti è ango­scioso, per molti è virtuale nel senso che, pur arrivando a confessare di essere mino­ranza, hanno la pretesa di continuare ad es­sere presenti nella società come maggio­ranza. Tuttavia noi siamo minoranza.

Perché però questa minoranza non provo­ca in me e in altri una domanda angoscio­sa circa il futuro del cristianesimo? Perché sono convinto che la secolarizzazione ha portato a una purificazione della fede e ha reso la comunità cristiana molto più libe­ra e autentica.

Il secondo elemento per cui è venuta a man­care la cristianità, secondo me, sta nel fat­to che è scomparso dall'orizzonte il nemi­co. Per sentirci cristianità ci vuole un nemico. Nel Medio Evo nemico era il saraceno, poi è stato il turco, poi l'uomo del Settecento, della Rivoluzione francese, poi è stato il marxismo, il comunismo. Adesso nemico, per ora, pare non esserci. Ecco allora la cri­stianità in crisi e forse il tentativo di rifare una nuova cristianità.

 

la cultura non si incultura

Mai come oggi in maniera indiretta e sub­dola si insiste sul cristianesimo come ani­ma dell'Occidente, sull'unità europea come il cemento della fede cristiana.

Ora io pongo questo problema: se fossi un cristiano d'Africa, del Sudamerica, cinese o giapponese come leggerei questo conti­nuo martellio della necessità che l'Europa ritrovi un'unità politica a partire da quel­la che era la cristianità se non come una rie­dizione di una nuova cristianità?

Guardate, so che lo fanno anche degli uo­mini di chiesa tra i più aperti, ma secondo me non hanno messo a fuoco bene cos'è il Vangelo rispetto a un cristianesimo che se non ha cristianità, come dice la Lettera a Diogneto, non ha nessuna patria di qui, nes­suna, né la Padania e neppure l'Europa unita, perché la patria è nei cieli e l'atten­diamo di là.

L'Occidente per il cristianesimo deve re­stare un accidente, nel senso tomistico del termine; solo se il Vangelo torna ad esser povero di cultura potrà essere incultura­to. Il cristianesimo come lo viviamo noi nel cattolicesimo è una cultura, e la cultura non si incultura, si incultura la fede non una cultura già fatta. È un controsenso parlare di inculturazione quando il nostro cristianesimo è ricco di un sistema etico, di un sistema di valore filosofico, di un si­stema giuridico, di un sistema ammini­strativo, di un sistema addirittura di asset­to diplomatico. Cosa inculturiamo? Ci ren­diamo conto dell'assurdità di questo? Si incultura la fede, non il cattolicesimo, non il protestantesimo.

 

dove sta la differenza

Dove sta la minaccia alla fede cristiana nel prossimo millennio? Io la vedo in tre pun­ti.

La prima minaccia è il cristianesimo come religione. All'uomo di oggi che chiede religione, non un Dio personale, non Gesù Cristo, la tentazione è quella di far appa­rire il cristianesimo soprattutto come re­ligione. Ora non c'è fede senza religione, ma il cristianesimo deve restare innanzi­tutto una fede. E cosa significa che deve re­stare una fede? Deve restare attaccato al­l'unica promessa cristiana che non può passare all'uomo salvatore, l'unica: la re­surrezione. L'alterità, la differenza il cristianesimo la esprime là dove annuncia la resurrezione di Cristo e quindi la resurrezione nostra; la vittoria della vita sulla morte. Se il cri­stianesimo continua ad avere questa spe­ranza allora il cristianesimo svolgerà dav­vero la sua funzione e sarà necessario co­me il lievito nella pasta, come il sale della terra perché in tutti gli uomini è presente quell'ansia di eternità di cui parla Qohelet. Per quell'ansia la fede cristiana della re­surrezione è una promessa che solo Dio fa, che può avere senso. E’ lì, guardate, io credo, la grande sfida: o noi sappiamo annunciare la vittoria della vita sulla morte, sappiamo annunciare il regno di Dio come faceva Cristo, come fa­ceva la chiesa primitiva, annunciare che davvero c'è la vita eterna, oppure il cristianesimo sta all'interno semplicemente di quel mercato religioso da cui oggi l'Occi­dente attinge in una logica del fai-da-te.

Il cristianesimo deve restare ad essere una fede: la resurrezione è stata per Cristo e l'annunciamo, ma noi attendiamo che Cristo torni per partecipare tutti e tutta l'umanità alla resurrezione.

Noi cristiani siamo un popolo escatologi­co, la nostra più grande preghiera nel cuo­re è Maranatha: Vieni Signore Gesù. Ed è li che noi mostriamo che la nostra fede è una promessa di Dio, l'unica promessa che l'uomo non può fare. Tutte le altre promes­se l'uomo può prima o poi farle, questa no. ed è, secondo me, l'essenziale del cristia­nesimo anche riguardo le altre religioni.

 

il cristianesimo non è un'etica

L'altra minaccia è il cristianesimo come etica: non stemperiamo il cristianesimo in etica. Eppure quel che succede è che i gio­vani sanno tutto dell'etica cristiana, poi non sanno chi è Gesù Cristo. Non osserva­no l'etica cristiana, ma sanno cosa il cri­stianesimo e la chiesa chiede nelle relazio­ni prematrimoniali, nella sessualità, nel­la vita; lo sanno perché il martellare di questo annuncio è un martellare che ha toccato tutte le orecchie, anche se poi non lo osservano.

Ma il problema serio è che il cristianesimo trascende l'etica. La società chiede che noi gli diamo un'anima supplementare visto che si sono frantumate le ideologie e le mo­rali laiche. E allora le componenti dell'at­tuale società non cristiana applaudono a questo tipo di chiesa. Questa chiesa serve. Ma serve per annun­ciare la fede o serve come cemento in una società malata, come intonaco a un muro cadente, usando l'espressione di Ezechie­le? Perché intonacare muri cadenti? Guai se il cristianesimo si esprime solo in etica, e se non si esprime nella carità, nell'aga­pe, nel dare la vita per gli altri, perché se c'è qualcosa che unisce Cristo, gli uomini e i credenti insieme è quella formula di Bonhoeffer: Gesù uomo per gli altri. Il cristiano è colui che dà la vita per gli al­tri; è colui che trova una ragione per mo­rire, dunque anche una ragione per vivere. Ma guai se passasse il progetto di Kung in cui il cristianesimo si fa semplicemente portavoce di un'etica mondiale. Il cristia­nesimo sarebbe ridotto a filantropia e a quel punto abbisognerebbe di maestri spi­rituali, in concorrenza con altri maestri spirituali di altre vie religiose, che sono so­vente raffinate, più delle nostre vie occi­dentali. E allora troveremmo là il Buddha, come diceva De Lubac: l'ultimo nemico, (in senso di opposizione) che il cristianesimo avrà è il buddhismo. Infatti dove c'è il bud­dhismo noi siamo fermi; da quando l'ab­biamo incontrato quattrocento anni fa, non un passo, non una conversione, non una dilatazione del cristianesimo; ci do­vremmo chiedere perché. Perché certo di fronte a culture come l'africana o del Su­damerica, là dove si deve portare il pane, il cristianesimo è avanzato. È certo che l'A­frica domani sarà cristiana, come lo è già il Sudamerica, ma perché in Oriente non un passo, perché? Chiediamocelo. Se avessimo un cristianesimo capace di es­ser povero di annuncio culturale e fosse soltanto annuncio della resurrezione, non potrebbe esserci forse quell'innesto e quell'incontro tra una ricerca di Dio raf­finatissima fatta dalle culture orientali per millenni con una pazienza, una devo­zione sovente veramente più visibile di quella che abbiamo fatto noi in Occidente?

 

il problema della sorella maggiore

Terzo punto di questa minaccia alla fede cristiana, secondo me, viene dall'attuale organizzazione delle chiese. Ormai è scom­parsa la contestazione, molti di voi si ricor­dano cosa è stato il postconcilio. La conte­stazione è scomparsa dall'orizzonte, ma non pensate che, siccome è scomparsa la contestazione, si sia allontanata la possi­bilità di una crisi all'interno della chiesa. In realtà c'è un'altra possibilità che avan­za, quella di una crisi per implosione. Se le chiese continuano ad organizzare tut­to intorno a se stesse e non a Cristo, se con­tinuano a ecclesificare la fede come stan­no facendo tutte, se continuano in questa forma in cui l'esaltazione della chiesa è un'esaltazione che contagia addirittura i non cristiani e i non credenti, io mi chiedo se questo non rappresenterà un'altra mi­naccia alla fede cristiana. Permettetemi di dire una parola chiara, di cui ho piena coscienza: da cosa dipende la crisi dell'ecumenismo tra chiese cristia­ne attuali? Pensate forse che dipenda dal­la cristologia? Pensate forse che dipenda dalla dottrina? Se noi oggi siamo arrivati soprattutto a una tensione che è quasi una rottura tra chiese ortodosse e chiese cat­toliche, è semplicemente per un problema di organizzazione di chiesa, in cui chiese efficienti, grandi, potenti fanno paura al­le chiese piccole: il problema della sorel­la maggiore. È questo il vero problema. Per cui in realtà più una chiesa si organiz­za efficiente e domina nel mondo, più dif­ficile diventa per la chiesa l'accogliere del­le chiese povere che escono dalla persecu­zione comunista o che siano presenti come minoranza nella grande marea musulma­na di Siria, del Libano o di altre realtà. Questa è un'altra minaccia.

Io credo che, al di là della pos­sibilità di una confessione di fede extra ni­cena su Cristo che forzatamente ci dovrà essere, noi dobbiamo imparare che la fe­de di Nicea è la fede espressa da dei greci, da dei greco-romani. Già gli ebrei, i giudei­cristiani, non potrebbero mai riconoscersi in una espressione di fede cristiana nelle formule di Nicea pur accettando che Ge­sù è il Cristo e dovrebbero confessarlo con altre formule.

A chi di voi sfugge che, ad esempio, se per noi confessare la piena divinità di Gesù oc­corre dire che Gesù è Figlio di Dio, per dei giudei-cristiani l'unica formula possibile per dire che Gesù ha un rapporto di Figlio di Dio nel senso che intendiamo noi, è di­re che Gesù è figlio dell'uomo? Formula che invece a noi dice niente. È biblica sì, ma non dice più nulla a noi. Allora vedete quale confessione extra nicena dovranno fare i cristiani che saranno chiamati a que­sto compito.

 

fedeltà alla terra

Ma c'è un altro compito che attende, ed è quello piuttosto della spiritualità. Cioè, noi per duemila anni abbiamo atteso il Si­gnore che ritorna disprezzando la terra nel contemptus mundi; forse è venuta l'ora in cui noi dobbiamo continuare a guardare là, a guardare le cose di lassù, come dice Paolo, aspettare il Cristo che ritorna ma amando questa terra. Permettetemi la for­mula: nella fedeltà alla terra. Questo è il grande compito che attende la nuova spi­ritualità cristiana per il Terzo millennio insieme alla nostra perseveranza nella fe­de e alla capacità di dare la vita per Cristo e darla per i fratelli.

Enzo Bianchi