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L’uomo che cammina
 Christian Bobin
(Ed Qiqajon – Bose)

 Cammina.  Senza sosta cammina.  Va qui e poi là.  Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza.  E cammina.  Senza sosta.  Si direbbe che il riposo gli è vietato.

 Quello che si sa di lui lo si deve a un libro.  Se avessimo un orecchio un po' più fine, potremmo fare a meno di quel libro e ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi nudi.  Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine.

 Sono dapprima in quattro a scrivere su di lui.  Quando scrivono hanno sessant'anni di ritardo sull'evento del suo passaggio.  Noi ne abbiamo molti di più: duemila.  Tutto quanto può essere detto su quest'uomo è in ritardo rispetto a lui.  Conserva una falcata di vantaggio e la sua parola è come lui, incessantemente in movimento, senza fine nel movimento di dare tutto di se stessa.  Duemila anni dopo di lui è come sessanta.  E’ appena passato e i giardini di Israele fremono ancora per il suo passaggio, come dopo una bomba, onde infuocate di un soffio.

 Se ne va a capo scoperto.  La morte, il vento, l'ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo, Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera.  Che la morte è nulla più di un vento di sabbia.  Che vivere è come il suo cammino: senza fine.

 L'umano è chi va così, a capo scoperto, nella ricerca mai interrotta di chi è più grande.  E il primo venuto è più grande di noi: è una delle cose che dice quest'uomo. E’ l'unica cosa che cerca di inculcare nelle nostre teste grevi.  Il primo venuto è più grande di noi: bisogna scandire ogni parola di questa frase e masticarla, rimasticarla.  La verità la si mangia.  Vedere l'altro nella sua nobiltà di solitudine, nella bellezza perduta dei suoi giorni.  Guardarlo nel movimento del venire, nella fiducia in questa venuta. E’ quanto si sfianca a dirci, l'uomo che cammina: non guardate me.  Guardate il primo venuto e basterà, e dovrebbe bastare.

 Va dritto alla porta dell'umano.  Aspetta che questa porta si apra.  La porta dell'umano è il volto.  Vedere faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno.  Nei campi di concentramento i nazisti proibivano ai deportati di guardarli negli occhi, sotto pena di morte immediata.  Colui di cui non accolgo più il volto - e per accoglierlo bisogna che io lavi il mio volto da qualsiasi residuo di potenza - quello io lo svuoto della sua umanità e me ne svuoto io stesso.

 E’ ebreo da parte di madre, ebreo da parte di padre, eternamente ebreo per quel suo modo di andare ovunque senza trovare da nessuna parte un rifugio, meravigliosamente ebreo per quel suo amore infantile per gli indovinelli - come l'uccello che con il canto pone interrogativi e per tutta risposta riceve una pietra e canta ancora, anche morto canta, ancora, ancora, ancora, anche molto tempo dopo che la pietra che l'ha ucciso è tornata friabile, polvere, meno che polvere, silenzio, meno che silenzio, nulla, e sempre permane questa vibrazione del canto puro nel nulla manifesto del mondo.

 La morte è economa, la vita è prodiga. Lui parla solo della vita, con parole a lei proprie: coglie dei pezzi di terra, li raduna nella sua parola e il cielo appare, un cielo con alberi che volano, agnelli che danzano e pesci che ardono, un cielo impraticabile, popolato di prostitute, di folli e di festaioli, di bambini che scoppiano in risate e di donne che non tornano più a casa: tutto un mondo dimenticato dal mondo e festeggiato là, subito, adesso, sulla terra come in cielo.

 E’ pesantezza delle società mercantili - e tutte le società sono mercantili, tutte hanno qualcosa da vendere - concepire la gente come cose, distinguere le cose in base alla loro rarità, e gli uomini in base alla loro potenza.  Lui, ha quel cuore di bambino che nulla sa di distinzioni. Il virtuoso e la canaglia, il mendicante e il principe: a tutti si rivolge con la stessa voce solare, come se non ci fosse né virtuoso, né canaglia, né mendicante, né principe, ma solo, ogni volta, due esseri viventi faccia a faccia, e in mezzo ai due la parola, che va, che viene.

 Ciò che dice è illuminato da verbi poveri: prendete, ascoltate, venite, partite, ricevete, andate.  Ignote quelle parole mezze velate, mezze consegnate, la cui oscurità permette ai potenti di consolidare la loro potenza.

 Non parla per attirare su di sé un briciolo d'amore.  Quello che vuole, non per sé lo vuole.  Quello che vuole è che noi ci sopportiamo nel vivere insieme.  Non dice: amatemi.  Dice: amatevi.  Un abisso tra queste due parole.  Lui è da un lato dell'abisso e noi restiamo dall'altro. E’ forse l'unico uomo che abbia mai davvero parlato, spezzato i legami della parola e della seduzione, dell'amore e del lamento.

 E un uomo che va dalla lode alla disaffezione e dalla disaffezione alla morte, sempre andando, camminando sempre.

 Non fa dell'indifferenza una virtù.  Un giorno grida, un altro giorno piange.  Percorre l'intero registro dell'umano, l'ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere Dio attraverso le radici.

E’ tenero e duro.  Spezza, brucia e riconforta. La bontà è in lui come una materia chimicamente pura, un diamante.

 Il suo spirito è leggermente assente, e questa inezia d'assenza è la sostanza del suo essere attento a tutto. Preso in un caos di desideri e di richieste, stretto da una folla che si contende i suoi favori come i passeri si tuffano a nugolo su un unico pezzetto di pane, distingue nettamente il fruscio di una sola mano su un lembo del suo mantello, si volta immediatamente e chiede chi l'ha toccato, chi gli ha sottratto una parte della sua forza.  La ladra - sì, naturalmente è una donna, perché le donne hanno saputo subito conoscere in lui la più grande intelligenza vivente, l'intelligenza del dono; perché le donne non si ingannano sulla luce che emana da lui: è la stessa che esce da loro per inondare la carne dei loro figli - la ladra per amore è quella che indubbiamente l'ha inteso meglio: prendete quello che vi do, ve lo do senza condizioni e, siccome ve lo dono assolutamente, ce n'è assolutamente per tutti; ciò che si condivide si moltiplica.

 Dice di essere la verità.  E’ la parola più umile che esista.  L'orgoglio sarebbe di dire: la verità, ce l'ho.  La possiedo, l'ho messa nello scrigno di una formula.  La verità non è un'idea ma una presenza. Nulla è presente fuorché l'amore.  La verità: egli lo è per il suo respiro, per la sua voce, per il suo modo amorevole di contraddire le leggi di gravità, senza farci caso.

 Il fatto che milioni di uomini si siano nutriti del suo nome, che abbiano dipinto con oro il suo volto e fatto risuonare la sua parola sotto cupole di marmo, tutto questo non prova alcunché riguardo alla verità di quest'uomo.  Non si può prestar credito alla sua parola sulla base della potenza che ne è storicamente scaturita: la sua parola è vera solo in quanto disarmata.  La sua potenza è di essere privo di potenza, nudo, debole, povero: messo a nudo dal suo amore, reso debole dal suo amore, fatto povero dal suo amore.  Questa è la figura del più grande re d'umanità, dell'unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice.  Il mondo non poteva sentirlo.  Il mondo sente solo quando c'è un po' di rumore o di potenza.  L'amore è un re privo di potenza, Dio è un uomo che cammina ben oltre il tramonto del giorno.

 Qualcosa prima della sua venuta lo intuisce.  Qualcosa dopo la sua venuta si ricorda di lui.  Questo qualcosa è la bellezza sulla terra.  La bellezza del visibile è composta dall'invisibile fremito degli atomi spostati dal suo corpo in cammino. 

Proviene da una famiglia in cui si lavora il legno.  Lui lavora i cuori, diversi e più duri del legno. Alcuni si associano al suo lavoro.  Con fatica li forma ai principi di una nuova economia: non si fa nulla in serie, si va dall'unico all'unico.  Non si vende, si regala.

 Parla spesso di suo padre.  Un adulto che parli di suo padre è un uomo che riscalda un'ombra.  Con lui è diverso.  Da come ne parla, si direbbe che suo padre non appartiene al passato ma al futuro. Suo padre ha un vocione. Una voce che impaurisce bestie e uomini. Il padre ha una reputazione da temporale, il figlio viene a calmarlo, ad addomesticarlo. Dice: vedete, mio padre è come un uomo che aveva due figli, uno tranquillo e uno matto che ha voluto subito la sua parte di eredità e se l'è spesa in vini, donne e divertimenti di ogni tipo.  Poi ha avuto fame, il matto, non aveva più una lira in tasca ed è tornato a casa rosso di vergogna.  Si è nascosto in un angolo e si è messo a mangiare con le bestie.  Il padre, quando l'ha scoperto, l'ha abbracciato, l'ha portato alla luce del sole e ha deciso di fare una grande festa, per tutti.  L'altro figlio ha cominciato a recriminare: questo sistema non gli piaceva, tutte quelle spese in una volta e per chi poi?  Per un ingrato, un fannullone; a cosa serve essere avveduto, economo e fedele, a cosa serve allora?  Il padre beveva, cantava, rideva.  Quei rimproveri non li ha neanche sentiti.  Era un tipo d'uomo particolare: sentiva solo la gioia; per il resto, era sordo.

 Di sua madre non parla mai.  E’ ovunque in lui. E una contadinella, poco più che adolescente. E’ sul suo volto che egli ha aperto per la prima volta gli occhi.  Questa prima volta rimane per lui, come per ogni essere umano, incisa nel più profondo della carne, incancellabile. In campagna si dice di un bambino che "ha preso" più da suo padre o più da sua madre.  Lui "ha preso" da sua madre l'ampiezza dello sguardo, e la dolcezza conservata anche nelle parole più rudi. Lei lo vede morire.  Nulla di peggio può capitare a una madre.  Non ci sono parole per un dolore simile.  Non c'è parola in nessuna lingua per ciò che ci strappa vivi alla nostra vita.  Ci sono solo le sue parole che sono più che parole.

 Non sembra seguire un percorso a lui noto.  Potremmo addirittura parlare di esitazioni.  Cerca semplicemente qualcuno che lo ascolti. E’ una ricerca quasi sempre delusa, il suo cammino è quello delle delusioni, da un villaggio all'altro, da una sordità alla seguente.  Come la falda d'acqua in cerca di una via d'uscita: scava, gira, ritorna, riparte, fino al colpo di genio risolutore: il getto impetuoso che sgorga in un pieno respiro polverizzando l'ultima diga.

 Pochissimi riescono a tenere il suo passo.  Una manciata di uomini e alcune donne. Le donne hanno un vecchio legame coniugale con la fatica e il rifiuto della fatica.  Verso la fine, annuncia che "là dove va" nessuno potrà seguirlo e che non si tratta di un abbandono, perché "là dove va" avrà la stessa costante benevolenza per ciascuno.  Le società ci prendono per quantità, in blocco, in massa, a cifre.  "Là dove va" non potremo andarci diversamente da lui: solo come a un appuntamento.

 I quattro che descrivono il suo passaggio sostengono che, morto, si è rialzato dalla morte. E’ questo indubbiamente il punto di rottura: questa storia che ha molti tratti della luce serena d'Oriente, assume qui una dimensione incomparabile. O ci si separa da quest'uomo su questo punto, e si fa di lui un sapiente come ce ne sono stati migliaia, pronti magari ad accordargli un titolo di principe.  Oppure lo si segue, e si è votati al silenzio, perché tutto ciò che si potrebbe dire è allora inudible e folle.  Inudibile perché folle.  L'uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita cosi abbondante da inghiottire perfino la morte.  Coloro che ne seguono le orme e credono che si possa restare eternamente vivi nella trasparenza di una parola d'amore, senza mai smarrire il respiro, costoro, nella misura in cui sentono quel che dicono, sono forzatamente considerati matti.  Quello che sostengono è inaccettabile.  La loro parola è folle e tuttavia cosa valgono altre parole, tutte le altre parole pronunciate dalla notte dei secoli?  Cos'è parlare?  Cos'è amare? Come credere e come non credere?  

Forse non abbiamo mai avuto altra scelta che tra una parola folle e una parola vana.