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Il sacro fuori dal dominio del sacro

di don Angelo Casati (ADISTA n. 123 - 05/12/09)

Ancora una volta qui, con il desiderio nel cuore di essere come quei pastori che bucano la notte, una delle loro tante notti, ma una notte diversa. Uguale e diversa da tutte le loro notti di veglia. E non sarebbe bastata una vita, la lunghezza di una vita, a dimenticarla. Una notte iniziata come tutte le altre notti. Scrive Luca: "C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge". Notte iniziata con la veglia al gregge e finita con la veglia ad un bambino, il Messia in una mangiatoia, notte che segnò per sempre i loro occhi e la loro vita.

Notte del paradosso, quel paradosso che noi abbiamo in qualche misura cancellato, paradosso che il Vangelo puntualmente registra. A memoria. Per sempre. E che oggi nelle chiese va ricordato. Luca non lo nasconde, anzi sembra sottolinearlo con quell'inizio del racconto che parla di Roma, del suo imperatore Cesare Augusto, della sua volontà di dominio e di controllo: il palazzo vuole, impone un censimento. Questo il mondo che fa notizia, anche oggi: di chi e di che cosa si parla? Dei palazzi più o meno sacri. Meno sacri, dice Luca, perché il sacro è altrove. Anche oggi il sacro è altrove. Perché Dio non cambia stile, non cambia le sue preferenze. È il paradosso del Natale. E non cancelliamolo. Se no, cancelliamo la "buona notizia": La "grande gioia", dice Luca, "che sarà di tutto il popolo".

Un Natale dei sacri palazzi non sarebbe stato notizia. Da che mondo è mondo, e anche oggi, sempre succede che i sacri palazzi rivendichino a sé il sacro, si sentano detentori del sacro, il divino abita da loro. Se la nascita fosse avvenuta da loro, che buona notizia sarebbe stata? Quello è il corso di sempre. Sempre c'è qualcuno che ritaglia per sé la gioia. Questa, della notte santa, è invece notizia, da stropicciarsi gli occhi: è una gioia non ritagliata per pochi, i soliti pochi. È scritto: "Una grande gioia che sarà di tutto il popolo". Non gioia di pochi, ma della moltitudine, della moltitudine dei viventi, gioia oggi per me, oggi, per noi che apparteniamo alla moltitudine, alla moltitudine dei viventi.

In quella notte si sentirono guardati. E in un primo momento ebbero paura, perché sempre le autorità religiose li avevano fatti sentire sotto uno sguardo che incuteva paura. Così che quando il cielo si accese per loro nella notte, è scritto, "furono presi da grande spavento". Non gli avevano forse da sempre fatto credere che erano degli scomunicati, loro che non osservavano le regole? Non li chiamavano forse irregolari, fuori dalle regole? Questo è il Natale, non cancelliamo il Natale. Non cancelliamolo, noi veniamo qui a leggere la vera nascita, fuori, molto fuori da ammiccamenti mondani, falsamente religiosi.

Quella notte i pastori in veglia, ancora avvolti di luce, dopo un momento di spavento, sentirono nel cuore dilagare una gioia che mai avevano sperimentata così forte, perché la parola diceva che era nato, per loro ‑ per loro! ‑ nella città di Davide, il salvatore. Per loro, gli esclusi, gli scomunicati. Che Dio avesse pensato a loro! Sentirono sulla loro pelle, ruvida pelle, ruvida in tutti i sensi, lo sguardo di tenerezza di Dio. Quella tenerezza che loro riservavano ai loro greggi, Dio l'aveva per loro. Ricercati, non abbandonati erano loro. Era scritto nel rotolo di Isaia: "E tu sarai chiamata Ricercata, Città non abbandonata". "Salvati", come scrive Paolo, "non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia".

Questo è il Natale, Natale è sentire questo sguardo di Dio. In quel bambino lo sguardo di Dio su di noi. Uno sguardo che ci fa sentire pensati.

E fu notte di altre meraviglie: un Salvatore per loro, ma un salvatore adagiato nelle loro cose, quasi rivalutasse le loro cose. Vengono e che cosa vedono se non le cose di sempre? Un bambino nato come i loro bambini. E dove nascevano mai i loro bambini, dove potevano deporli quando una delle loro donne li metteva alla luce, se non in una delle loro grotte, se non in una delle loro mangiatoie? Un salvatore uguale a un loro bambino. Un Dio, diverso da quello che era stato loro predicato, un Dio non fuori, ma dentro la fragilità, dentro la debolezza degli umani. Si sentirono riconciliati con la loro vita, con la loro fragilità, con la loro debolezza.

E videro, dice Luca, anche quella madre. Quella madre fissata a memoria, questa sì dolce memoria, in un gesto: "Lo avvolse in fasce e lo depose nella mangiatoia". La tenerezza fasciava la fragilità di un cucciolo d'uomo.

Questo sembra dirci il Natale, fuori dai sentimentalismi facili: Dio è nella carne viva e debole di ogni essere umano. Fascialo, prenditi cura. Come fa la madre. Non ridurre il Natale a un bambino di cartapesta. Il pericolo c'è e lo sottolineavo questa notte ricordando le parole di don Primo Mazzolari, parole, dopo anni, ancora di una attualità sconcertante. Diceva: "Se penso che, a forza di mettere insieme Gesù bambini di cartapesta non vediamo più i bambini di carne, se penso che possiamo far patire la fame a non so quanti milioni di bambini, quasi fossero di cartapesta anche loro, se penso che possiamo sparare, buttare giù bombe di due‑quattro tonnellate, perché gli uomini sono di cartapesta, se penso che possiamo minacciare l'uso delle armi nucleari, perché gli uomini sono materiale umano, allora mi chiedo se è buono questo incantamento che ci procuriamo a Natale per distaccarci il cuore di carne dal cuore di carne del Natale".

Ecco l'augurio ed ecco la preghiera: "Salvaci, Signore, dal ridurre il Natale a un incantamento. Fa' che ci prendiamo cura, che fasciamo, come Maria, la carne di ogni essere vivente. Perché questa è ora la tua dimora, qui sulla terra".