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QUELLA PORTA ANCORA CHIUSA.
La confessione

Antonio Santantoni
(ROCCA1/11/07)

Con l'introduzione della famosa terza forma (quando si parla di terza forma si intende parlare di quel rito della Penitenza introdotta con la riforma del 1974) si introduce il vero elemento di novità di quel Rituale. Un rito essenzialmente e interamente comunitario sia nella preparazione sia nell'accusa dei peccati: un'accusa fatta ad alta voce, in maniera generale e non particolareggiata o specifica, con la quale il penitente si riconosce peccatore e lo proclama davanti a Dio e ai fratelli, senza però che i peccati vengano elencati e specificati uno per uno. Secondo la normativa vigente, questi peccati dovranno essere sottoposti a confessione particolareggiata e completa nella prima confessione individuale che si avrà occasione di fare. Omettendo di confessarli, il peccato non rivive, ma si incorre in una trasgressione al precetto della Chiesa. Nel testo ufficiale non è detto se, secondo la mente del legislatore, questo trasgressione debba essere considerata come peccato. La Chiesa aveva inteso aprire una porta, ma quella porta qualcuno ha subito provveduto a richiuderla. E resta chiusa tuttora. Almeno in Italia. In Italia infatti, da circa trent'anni, resta proibito ciò che altrove è permesso. Da noi infatti la Cei ha deciso che non esistono casi che rendano necessario o anche solo opportuno il ricorso alla terza forma. La ragione di questo rifiuto va cercata certamente nel timore che l'eventuale successo della nuova forma potrebbe provocare una precipitosa decadenza della forma tradizionale, quella che prevede la confessione dei peccati al ministro del sacramento: una forma cui evidentemente non si intende rinunciare. Questa forma (confessione diretta di tutti e singoli i peccati gravi), l'unica tenuta presente e sancita dal Concilio di Trento, appare ai custodi della tradizione l'unica forma ordinaria del sacramento, la più utile e la più raccomandabile delle tre ammesse dal Ritus Paenitentiae del 1974. Questo timore non è nuovo: anzi la storia di questo sacramento l'ha conosciuto e sofferto altre volte. Nel sec. II si temeva che concedere una seconda penitenza avrebbe significato un calo di tensione morale nei battezzati. Nel sec. VI si temeva che l'abbandono del rigore penitenziale e la prospettiva di una riconciliazione frequente potesse indurre al lassismo. Nel sec. X la paura era che, una volta ottenuta la riconciliazione, molti avrebbero tralasciata poi la gravosa penitenza inflitta dal confessore. Timori non infondati, ma che non valsero a interrompere il cammino della storia.
Oggi noi assistiamo a un altro fenomeno epocale: i confessionali si svuotano e i fedeli passano anni senza confessarsi (più o meno come avveniva nel sec. VI). Al tempo stesso le comunioni tra i presenti non accennano a diminuire, anzi tendono ad aumentare. Gente che da mesi o anni non si confessa, ma non per questo rinuncia alla comunione. Questo suscita allarme in chi vi scorge un segno di indebolimento della coscienza morale e del senso del peccato.

Una coscienza pastorale divisa.
Di fronte al nuovo pericolo la coscienza pastorale della Chiesa si trova, oggi come sempre in casi analoghi, divisa. L'anima tradizionale, sempre preponderante nella gerarchia, ha scelto la via della fedeltà alla tradizione, intesa come complesso di dottrina, prassi e disciplina canonica. Questa fedeltà è vista come un valore e un merito per se stessa e dunque come garanzia di efficacia pastorale.
L'altra anima, quella che ho più volte definita 'pastorale e profetica' della Chiesa ha preferito invece, ancora una volta, scommettere sul futuro, fidandosi dello Spirito Santo e della sua capacità di proporre sempre «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52) alla sua Chiesa. Nessuna meraviglia: c'è una legge, universalmente riconosciuta dai cultori della liturgia, secondo la quale, quando un nuovo rito viene introdotto, prima incontra delle resistenze, poi convive in qualche modo (per lo più conflittuale) con l'antico; infine il nuovo soppianta il vecchio e diventa dominante e spesso unico. Si può scommettere che sarà così anche in questo caso; solo che questa volta non passeranno secoli. Del resto il problema è più della Chiesa italiana che della Chiesa universale. Come è già avvenuto per la comunione sulle mani, l'Italia, una volta di più, arriverà buon'ultima. Più che fedeltà alla grande Tradizione, è probabilmente il prezzo della nostra vicinanza con Roma.
Purtroppo bisogna registrare una certa latitanza dei liturgisti in proposito. Forse sarebbe anche il caso che questi tornino a rendersi profeti convinti delle riforme sul campo. Delle riforme vere, non delle formulette eucologiche che costano anni di lavoro e quasi sempre lasciano il tempo che trovano. La sapienza del Concilio s'era manifestata col porre in mano ai pastori tre preziosi strumenti per la celebrazione della Penitenza. La Chiesa italiana ha mostrato ancora una volta arretratezza culturale, eccessiva timidezza davanti alle sfide dei nuovi tempi e mancanza di coraggio pastorale privandosi quasi subito proprio dello strumento più innovativo e profetico di quella riforma.

Nessuno, in tutto l'orbe cattolico, mette in discussione l'utilità della confessione per coloro che vi trovano sostegno e conforto, e nessuno ne invoca la soppressione. Ma il problema oggi non è di coloro che amano la confessione (in qualche modo, riescono sempre a trovare chi li ascolta: in parrocchia, in un santuario, nelle penitenzierie delle cattedrali); il problema è di coloro che della confessione non vogliono più saperne. A questi ultimi è stata tolta ogni possibilità di accedere al sacramento. Per favorire il contatto e il dialogo tra confessore e penitente, si dice. Ma quale dialogo è possibile quando a causa della folla dei penitenti (perché è del caso di moltitudine di penitenti che si sta parlando) non puoi dedicare più di 2-3 minuti a ciascuno di loro? Ci si dice: si chieda aiuto ai confratelli. Ma natale e pasqua vengono per tutti nello stesso giorno, e i preti (e i religiosi) sono ogni giorno di meno.
In questo stato confusionale è alla seconda forma del sacramento che ci si rivolge di preferenza. Una lunga, spesso ben fatta preparazione per una confessione che esclude 'per statuto' ogni dialogo. Ci si deve accontentare di un rapido elenco di peccati. Cioè di molto poco.
L'introduzione coraggiosa e profetica della terza forma aveva suscitato grandi speranze. Pur con tutti i suoi limiti, l'innovazione introdotta era in grado di dare inizio a un'epoca nuova. L'evidente formula di compromesso (confessare i peccati gravi in un secondo tempo) non avrebbe saputo né potuto sterilizzarla. Alla lunga avrebbe prodotto i suoi frutti. Ma il timore che l'assoluzione generale avrebbe finito con !'indurre a rinunciare alla confessione privata, ne ha provocato una sorta di ibernazione: la si è messa in congelatore, almeno in Italia. In attesa che maturino i tempi. Qualcuno dice che là dove la terza forma è stata introdotta, è accaduto proprio qualcosa del genere: non lo escludo, anzi lo ritengo probabile. Ma lungi dal considerarlo un limite, lo vedo piuttosto come un merito. La vera 'confessione di penitenza' avrà solo da guadagnarci.

Chi non si confessa più .
Il problema, infatti, non è la fine che farà la confessione privata (continuerà a vivere finché ci sarà chi ne trarrà profitto, e cioè sempre): il problema vero del nostro tempo è posto da quelli che non si confessano più da anni o da una vita perché non se la sentono più di parlare dei propri peccati con un uomo, preferendo rivolgersi direttamente a Colui che solo può concedere il perdono, e della cui misericordia e comprensione non hanno motivo di dubitare. Si contano certamente a decine e decine di milioni gli uomini e le donne che, pur dicendosi e dichiarandosi cristiani, non si sanno risolvere a tornare al confessionale, e tra questi anche dei preti; fedeli che magari sentono struggente il bisogno del perdono di Dio, ma d'un perdono che sia alla loro misura, alla misura dell'uomo dei nostri giorni: un uomo che ha paura di guardarsi dentro perché sa che non riuscirà a darsi una risposta convincente, ma meno ancora se l'aspetta da un suo simile. Se da qualcuno l'aspetta, l'aspetta solo da un Dio che sappia accoglierlo come il Padre della parabola, a braccia aperte, che lo reintegri senza porre domande, senza nulla chiedere (perché sa già tutto), lieto solo di vederselo davanti, ritrovato, risorto. Quest'uomo - che conosce la sconfitta e il peccato, il tradimento e lo sconforto - si aspetta, da chi gli parla di amore e di perdono, che dell'amore di quel Padre sappia farsi immagine; che, come lui, sappia accontentarsi di vederlo tornare, prostrarsi in ginocchio e invocare il perdono; padre, appunto, non giudice; che, senza null'altro chiedergli, lo reintegri nell'amore e nel suo rango di figlio. In una famiglia dove i fratelli maggiori non abbiano il diritto di rovinare la festa preparata per quel figlio-fratello perduto e ritrovato.

La parola restituita alla Parola.
Un altro merito, e non certo il più piccolo, di questa terza forma, sta nel fatto che è proprio questa la forma che al massimo grado possiede la virtù e la capacità di dialogare col peccatore, perché rinuncia a ogni forma di pressione e quasi di violenza sulla sua coscienza, perché sa chiedere senza esigere, sa invitare senza obbligare; sa chiamare senza mettere fretta. La terza forma è un rito che non rinuncia a parlare, anzi moltiplica le occasioni, i tempi e le parole, ma poi si fonda sulla consapevolezza che ogni richiesta ha bisogno di un suo tempo per la risposta, che per ogni invito occorre avere la pazienza di attendere, che per alcune guarigioni la cura può essere anche molto lunga, con un tempo che spesso si misura in anni... e forse una vita intera potrà non bastare. Un rito che tiene in conto che nessuno di noi potrà mai dire a nessuno 'alzati e cammina', né allo storpio né al peccatore. Proprio perché si è convinti di questo, nella terza forma 'la parola è restituita alla Parola': sarà proprio il confronto con questa, abbondantemente annunciata largita spiegata, ad agire. Nella terza forma non si rinuncia a parlare alle coscienze, anzi nessun'altra forma penitenziale offre il tempo e la libertà che ci dà il rito comunitario: parlando ai molti, chi propone l'esame di coscienza o la meditazione potrà anche penetrare in quei meandri dell' anima umana dove mai un confessore di buon senso e di buon gusto oserebbe addentrarsi.

Il momento della conversione.
Questo ci permette di affrontare il nodo forse più difficile e critico di tutto il problema. Quanti sono quelli che non s'accostano più alla confessione perché consapevoli di non poter mantenere i propositi che il confessore gli chiederà di formulare? E del, resto, cosa resta loro da fare, quando si sentono quasi 'precettati' alla conversione, come se si dimenticasse che il momento della conversione non può essere stabilito dall'uomo, ma è scritto invece nel mistero del disegno di Dio? È allora che per molti nasce la tentazione di lasciare del tutto la pratica penitenziale e di stabilire con Dio un rapporto diretto che faccia del tutto a meno della mediazione umana. Gli antichi Padri lo avevano capito molto bene: indotti a questo dalla stessa severità della penitenza canonica, avevano elaborato una risposta proporzionata: finché si è nel pieno vigore degli anni e nel fervore delle passioni e delle imprese, astieniti dall'accostarti alla penitenza: non indossarne l'abito, adottane invece le opere (preghiere, elemosine, penitenze volontarie, ecc.). Giorno verrà in cui l'anima saprà ritrovare il suo equilibrio e la signoria sulle proprie passioni; forse sarà proprio quello il momento che Dio aspettava e preparava per far sentire la sua voce al cuore del peccatore: sarà proprio quello il momento della conversione. E a quel punto gli potrà essere sufficiente buttarsi ai piedi del Crocifisso e chiedere e ottenere il perdono per tutti i propri peccati. Per altri, magari, sarà invece dolce inginocchiarsi umilmente davanti al confessore e dirgli «ho peccato; perdonami padre» e sentirsi dire «i tuoi peccati ti sono rimessi, va in pace». Meglio la prima o la seconda strada? Non esiste un meglio o un peggio per tutti: per ognuno di noi la misericordia di Dio sa tracciare sentieri proporzionati alle nostre forze.

L’Eucaristia in remissione dei peccati.
La Chiesa antica questa pazienza seppe averla. Ciò fu possibile perché i Padri non si sentivano affatto 'ostaggio' dell'idea dell'eccellenza della 'grazia sacramentale' su tutte le altre fonti di grazia di cui disponeva la Chiesa. A ciascuna di queste fonti veniva riconosciuta una decisiva efficacia sacramentale. Cassiano ne elenca una lunga serie: preghiera, elemosine, dolore e pentimento per i peccati, opere della carità fraterna, aiuto ai bisognosi, un buon consiglio dato per amor di Dio, veglie di preghiera, e soprattutto digiuno  e il grande Agostino vede nel Padre nostro il sacramento quotidiano del cristiano. E poi c'era sempre l'Eucaristia, per la remissione dei peccati. I 'peccati quotidiani' (tra i quali erano inclusi anche molti di quelli che noi consideriamo 'gravi', purché non inclusi nei delicta per i quali era prevista la penitenza canonica), venivano rimessi dal contatto con il Pane eucaristico. Solo quando lo scandalo diventava pubblico scattavano l'excommunicatio (allontanamento dall'eucaristia e dalla vita liturgica), e l'erogazione di penitenze molto severe.  Questa meravigliosa saggezza e questa prudente pazienza sono andate smarrite col passare dei secoli. Il processo può apparirci paradossale e contraddittorio: da una parte la Chiesa accetta di rendere sempre più facile l'accesso alla riconciliazione, dall'altra vuole estendere il suo potere di controllo sulle coscienze. Ti perdonerò tutte le volte che vuoi, ma tu mi dirai tutto quello che hai fatto di male: peccato per peccato, quante volte, con chi, perché ...
In seguito giunse anche il precetto: almeno una volta all'anno. In queste condizioni, per alcuni la confessione divenne un conforto irrinunciabile, per altri è divenuta un tormento e un intollerabile sopruso. Ora molti dicono 'basta' e fuggono dai confessionali. Chi ha il potere di decidere privilegia il bisogno e il conforto dei primi, e disapprova !'insofferenza dei secondi. È giusto che sia così? Sinceramente non lo penso. Avendo avuto la possibilità di sperimentare la terza forma (quando la sperimentazione era consentita) per circa tre anni, posso riconoscerle una assoluta superiorità sulle altre forme.

I tempi di Dio.
Concludendo questo lungo viaggio intorno alla Penitenza, do atto alla Commissione per la riforma del rito della Penitenza di aver avuto la genialità e il coraggio di proporre una risposta validissima alla decadenza, a mio giudizio inarrestabile e forse irreversibile, della confessione auricolare. Un rito penitenziale antico e nuovo allo stesso tempo, che accompagni il penitente per tutto il tempo della sua vita, rispettandolo nei suoi tempi di conversione, aiutandolo con frequenti e abbondanti 'infusioni' di Parola di Dio. A quanti continuavano a confidare più sulla parola dell'uomo che sul linguaggio del rito, questo dev'essere sembrato troppo poco. La Chiesa aveva proposto di lasciare aperta la porta di casa perché il figlio prodigo potesse entrarne e uscirne a piacimento intanto che maturava il fermo proposito di entrare per non uscirne mai più. I fratelli maggiori hanno deciso altrimenti: o dentro o fuori, o integrato o escluso, o a pieno ser­vizio o senza mangiare. In ogni caso i tuoi peccati li devi dire. Tutti!
Che qualcuno abbia dimenticato che l'orologio di Dio non è retto dal moto delle stelle, ma da quello del suo amore? E che i suoi tempi sono diversi da quelli dell'uomo? Perché se è vero che nessuno può dire «Gesù è Signore se non sotto l'azione dello Spirito» (l Cor 12,3), come si può affermare che mentre il peccatore prega in unità d'intenti con la comunità dei fratelli, egli non sia già in qualche modo e in qualche misura, per noi misteriosa, nella grazia di Dio? Come potrebbe invocare Dio chi è in sua 'disgrazia'? E non sarebbe il caso di lasciare a Dio la gestione della salvezza eterna dei suoi figli?