|
CONFESSO
A DIO E A VOI FRATELLI
Goffredo Boselli, monaco di Bose
Riflettere sulla dimensione ecclesiale
della penitenza significa evidenziare anzitutto la natura comunitaria e
sociale del peccato. Si è soliti invece dimenticare un elemento rilevante,
non centrale ma tuttavia decisivo tanto dell'ecclesialità della confessione
del peccato quanto dell'invocazione del perdono. Un elemento che invece la
liturgia ha custodito integro soprattutto nell'atto penitenziale della
messa, ma anche in alcuni formulari del Rito della penitenza, esattamente
nel Confiteor. «Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho
molto peccato». Nella liturgia il peccato è confessato a Dio e alla
Chiesa, ossia davanti a Dio e davanti ai fratelli nella fede, a dire che
ogni volta che si commette peccato esso implica tanto Dio quanto il
fratello.
Il riconoscimento e la confessione del peccato non sono pertanto una
questione strettamente privata tra me e Dio, perché nella fede cristiana tra
me e Dio vi è sempre il fratello che, molto spesso, è colui che per primo
soffre ingiustamente le conseguenze del mio peccare.
La
dimensione ecclesiale
Pertanto, affermare la dimensione ecclesiale della penitenza, e anche
celebrare comunitariamente questo sacramento, significa non solo confessare
il peccato insieme ai fratelli nell'assemblea liturgica, ma confessare il
mio peccato ai fratelli, riconoscendosi peccatori non solo davanti a Dio ma
anche davanti a loro. Esemplare, a questo riguardo, è la formula che
l'evangelista Luca pone sulle labbra del figlio tornato alla casa del padre:
«Ho peccato contro il cielo e davanti a te» (Lc 15,18). Qui sta
l'essenziale articolazione tra il personale e il comunitario della
confessione del peccato e dell'invocazione della misericordia. Questa
articolazione è uno dei principi costitutivi della liturgia cristiana e, per
ciò che concerne la dimensione ecclesiale della penitenza, il Confìteor
è una perla della lex orandi dal valore incalcolabile.
Nella dimostrazione della legittimità della confessione dei mea culpa
della Chiesa voluta da papa Giovanni Paolo II nel grande Giubileo del 2000,
l'allora cardinale Joseph Ratzinger offrì un vero e proprio commento
teologico del Confiteor: «Nei giornali si parla giustamente del mea
culpa del Papa, in nome della Chiesa, e così si cita una preghiera
liturgica, il Confiteor, che introduce ogni giorno nella celebrazione
liturgica. Il sacerdote, il Papa, i laici, tutti, nel loro io - ogni
singolo, e tutti insieme - confessano davanti a Dio, e in presenza dei
fratelli e delle sorelle di aver peccato, di aver colpa, anzi grandissima
colpa. Importanti mi sembrano due aspetti di questo inizio della sacra
liturgia. Da una parte si parla dell' "io". "Io" ho peccato, e non confesso
i peccati degli altri, non confesso peccati anonimi di una collettività,
confesso con il mio "io"; ma nello stesso tempo sono tutti i membri che con
il loro "io" dicono "ho peccato", cioè tutta la Chiesa viva, nei suoi membri
viventi dice questo: "Io ho peccato"... Il soggetto della confessione è
l'"io". Io non confesso i peccati degli altri ma i miei; come secondo punto
l'io confessa, ma in comunione con gli altri, e conoscendo questa comunione,
si confessa davanti a Dio, ma prega i fratelli e le sorelle di pregare per
me, cioè cerca, in questa comune confessione davanti a Dio, la comune
riconciliazione».
Questo breve commento al Confìteor è una sintesi della dimensione
ecclesiale della penitenza fatta a partire non da un presupposto teologico
da dimostrare ma da un testo liturgico da pregare. L'affermazione che il
Confiteor pregato nell'atto penitenziale della messa è il testo che più
di altri fa sì che il fedele confessi il proprio peccato in comunione con i
fratelli, può sollevare l'immediata obiezione che questo testo e il perdono
che ne segue non abbiano in realtà alcun valore sacramentale. Si congeda
forse in modo troppo frettoloso la frequente domanda: «Ma nell'atto
penitenziale della messa i peccati sono perdonati o no?».
Nella celebrazione eucaristica, la benedizione che conclude l'atto
penitenziale, è chiamata "assoluzione del sacerdote" dall'Ordinamento
generale del Messale Romano 51, che precisa: «Tuttavia non ha lo stesso
valore del sacramento della Penitenza» (ibid.). Il senso di questa
precisazione si coglie nel suo pieno valore se riferito all'esortazione che
l'apostolo Paolo rivolge ai cristiani di Corinto: «Ciascuno esamini sé
stesso e poi mangi del pane e beva dal calice» (l Cor 11,28).
La
tradizione
Con l'intelligenza spirituale che gli è propria Origene ha visto il valore
di questa esortazione apostolica già in qualche modo contenuto nelle
guarigioni compiute da Gesù immediatamente prima della moltiplicazione dei
pani. A partire da questo atto di Gesù, Origene motiva la necessità della
purificazione dal peccato come condizione per accedere all'eucaristia: «Sul
punto di dare i pani della benedizione ai suoi discepoli, affinché essi li
consegnassero alla folla, [Gesù] "guarì le loro malattie", affinché in buona
salute avessero la loro porzione del pane della benedizione. Infatti, chi è
ancora malato non può ricevere i pani della benedizione di Gesù. Inoltre, se
qualcuno invece di ascoltare la parola "ciascuno esamini sé stesso e poi
mangi del pane" e quanto segue, rigetta l'avvertimento e, nella condizione
nella quale si trova, partecipa al pane e al calice del Signore, diventa
debole e malato, o perfino la forza di questo pane, per così dire, lo
ucciderebbe» (Commento al vangelo di Matteo 10,25). Teodoro di Mopsuestia,
pur attestando la potenza purificatrice dell'eucaristia, indica con più
grande precisione rispetto a Origene dei criteri con i quali discernere la
gravità delle colpe: «Non sono gli errori che per debolezza umana ci
capitano che ci impediscono la comunione ai santi misteri. [ ... ] Non
nuocciono per nulla le colpe che ci capitano senza pensarvi, per debolezza,
invece ne trarremo un soccorso non mediocre dal ricevere i misteri. Senza
dubbio, infatti, la comunione ai santi misteri ci darà la remissione da tali
colpe. [ ... ] Se abbiamo commesso un grande peccato, che rigetta la legge,
dobbiamo sempre astenerci dalla comunione, e neanche accordare a noi stessi
il permesso di allontanarci da questi [misteri]. Quale vantaggio infatti
avremmo dal fare questo, quando ci mostreremo perseveranti negli stessi
peccati? Ma è richiesto che affliggiamo la nostra coscienza con tutte le
nostre forze, perché com'è necessario, ci prodighiamo alla penitenza per gli
errori. [ ... ] Sacerdoti ed esperti che trattano e curano i peccatori,
secondo la disciplina e la saggezza della Chiesa, in base alla misura degli
errori, presentano alla coscienza dei penitenti il trattamento di cui hanno
bisogno» (Omelia XVI, II sull'eucaristia, 33-39). Vi sono dunque
peccati frutto della "debolezza umana" che non impediscono l'accesso ai
santi misteri i quali danno invece la forza per combattere e vincere ogni
debolezza. Altri peccati, che Teodoro definisce "grande peccato",
rappresentano un ostacolo alla comunione all'eucaristia e richiedono un
cammino di penitenza e di cura sotto una guida esperta che agisca «secondo
la disciplina e la saggezza della Chiesa».
Analogia
e differenza tra Confiteor e sacramento.
Si può osservare, in sintesi, come sia del tutto scorretto negare ogni
valore sacramentale alla preghiera assolutoria pronunciata al termine
dell'atto penitenziale, in quanto ogni formula e gesto della liturgia
partecipa di quella sacramentalità che è propria di ogni azione liturgica.
Diversamente, le parole di perdono pronunciate dal presbitero non
realizzerebbero ciò che significano e, assumendo il valore di un semplice
augurio o di un formale auspicio, rappresenterebbero una grave
contraddizione al senso della liturgia e al valore delle parole che in essa
si pronunciano. Precisando invece che l'assoluzione «non ha lo stesso valore
del sacramento della penitenza», il n. 51 dell'Ordinamento generale del
Messale mostra al tempo stesso intelligenza liturgica e sapienza pastorale
senza soluzione di continuità con la grande tradizione della Chiesa che i
testi patristici appena evocati attestano. Nell'Ordinamento non si afferma,
infatti, che l'assoluzione dell'atto penitenziale non ha alcuna efficacia
sacramentale, ma che essa «non ha la stessa efficacia del sacramento della
penitenza». E' un altro grado di efficacia quella di cui gode tale
assoluzione, certamente inferiore a quello del sacramento della penitenza.
L'opportuno rimando al sacramento della penitenza per quei peccati che in
modo grave infrangono la comunione con Dio e con la Chiesa non è dunque una
sottovalutazione e tanto meno una negazione dell'effettivo e reale perdono
di Dio dato nell'atto penitenziale. Appare invece come un'attenzione
spirituale nei confronti del credente che, prendendo coscienza davanti a Dio
e ai fratelli della qualità dei suoi atti, riconosce il suo "grande
peccato". L'efficacia di un sacramento, qualsiasi esso sia, non può essere
in nessun modo ridotta a una semplice formula da pronunciare. Al contrario,
l'efficacia del sacramento, analogamente a quella della parola di Dio, è
tanto più intensa quanto più chi la riceve è consapevole della propria
condizione umana e spirituale e, al tempo stesso, è liberamente disposto a
corrispondere al dono di grazia. Per questo, stabilire che il perdono di un
"grande peccato" richiede il sacramento della penitenza significa affermare
la necessità di un tempo di conversione e di pentimento nel quale il
credente è aiutato dal sacerdote a prendere coscienza della sua situazione
esistenziale. Questo percorso è il contenuto del sacramento della penitenza,
soprattutto quando esso è vissuto e celebrato nella sua piena espressione.
In questo consiste l'efficacia propria ed esclusiva del sacramento della
penitenza. «Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto
peccato»: il Confiteor è dunque un pregiato frammento dell'eucologia
romana che attesta quella dimensione ecclesiale insita in ogni confessione
del peccato e in ogni invocazione del perdono che avviene nella liturgia
cristiana, sia essa l'atto penitenziale della messa o il Rito della
penitenza, rivelando al con tempo il valore dell'uno e dell'altro,
l'analogia e la differenza.
|