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IL CROCIFISSO DI STATO
di Giancarlo Zizola
(ROCCA - 1
ottobre 2002)
Tornano in circolazione per decreto
ministeriale i crocifissi di Stato, di nuovo il simbolo della non- violenza
è impugnato come corpo contundente per affermare un diritto politico di Dio,
o rilanciare una religione dell’utile, all’insegna del vecchio motto della
borghesia volterriana: «Ciascuno per sé e Dio per tutti».
Era spaventosa l’immagine del Crocifisso brandito sui carri della morte dei
Franchisti durante la guerra civile spagnola. E’ ripugnante l’uso politico
del Crocifisso per verniciare di una ipocrita patina di cristianesimo
culturale l’ateismo pratico di una politica basata sul culto dell’Oro,
sull’individualismo esasperato, sulla caccia feroce agli immigrati in cerca
di pane alle mense dei nostri Epuloni.
In qualunque tempo il crocifisso significa questo: la potenza divina si è
fatta inerme, rifiuta la spada non solo per la conquista ma anche per
l’autodifesa e sceglie di morire su un patibolo infame. Un simbolo per la
non-violenza come fonte di storia. Come dunque si può pretendere che sia il
simbolo dell’Occidente? Anche il nazismo ornava le sue armate messianiche
con la croce, per quanto uncinata. La Chiesa firmava concordati con Hitler,
con Mussolini e con Franco, ma la croce era al suo posto nell’immoralismo
politico delle dittature e sulle stragi del fascismo in Etiopia?
Padre Turoldo mi raccontava di quando vide un crocifisso sulla scrivania
d’un banchiere a Ginevra. Era un pezzo d’antiquariato. Si tirava l’asta
verticale e dal crocifisso si estraeva un pugnale. Era usato dai crociati
per offrirlo al bacio dei prigionieri musulmani. Se non lo baciavano
venivano infilzati. E commentava che l’offesa più grave che si possa fare al
Non-Violento Crocifisso è proprio di brandirlo come un emblema di parte, di
usarlo come collante dell’etnocentrismo, di mistificarlo e bestemmiarlo come
ingrediente dello «scontro di civiltà» per giustificare la guerra.
Non sono iconoclasta ma mi oppongo a questa spericolata, simoniaca e
oltraggiosa offensiva anticristiana che usa il crocifisso per liquidare le
ultime, fragili resistenze della religione della carità in questo paese.
Vorrei solo che il crocifisso esistesse nei cuori prima che sui muri
pubblici, nelle coscienze prima che negli apparati statali. Sono convinto
che non sono i crocifissi esibiti a fare cristiana una società, ma i
cristiani, se sono capaci di pace e di giustizia, di adorazione e di rivolta
di fronte all’oppressione e al massacro dei più deboli. Di questo
anzitutto i dirigenti ecclesiastici dovrebbero preoccuparsi: di rifare i
cristiani, di rifarli dall’interno, in modo che non pieghino la loro
coscienza di fronte ai tiranni. Confesso di non comprendere le ansie per la
segnaletica esterna, se non come sintomo della vetustà intellettuale dei
nostri integralisti cattolici, indaffarati a togliere dal Vangelo il suo
veleno rivoluzionario. A loro non gli par vero che il segno della croce sia
divenuto, almeno nei media, il ghiribizzo scaramantico dei calciatori
all’ingresso in campo. Un amuleto calma l’ansia. E intanto mettono tutto
l’impegno possibile nell’accelerare il processo di secolarizzazione in
chiave neoliberista, facendo strame della verità e della giustizia, e
segando il ramo dei valori cristiani sui quali si regge l’ordine
democratico.
Chiedono ai vescovi di allargare la cruna dell’ago, ma offendono
pubblicamente quelli che non accettano di farci passare i loro cammelli da
nababbi. Pretendono il crocifisso nelle scuole, ma diseducano con mezzi
potenti e su tutte le reti le nuove generazioni. Vorrebbero una Chiesa
ridotta al foro interno e al culto, privarla della carità e dei poveri, cioè
dei «segni dei chiodi» per i quali può fluire ad essa la luce del Cristo.
Questa vecchia Chiesa madre, grazie all’armatura che ci irrita talora e che
consideriamo vetusta, ha preservato grazie alla carità il mistero della vita
divina. Essa ha mantenuto contro tutte le eresie, e continua a mantenerla
anche contro la gnosi anticristiana di oggi, la parola del Cristo che ha
cambiato il destino dell’umanità: «Questo è il mio corpo, offerto per tutti
voi». E il corpo vivente di Colui che ha dato il proprio sangue per ché il
sangue dell’uomo non sia più versato. Il cristianesimo ha imparato a proprie
spese cosa ha significato per 1500 anni preferire i crocifissi «di stato» a
questo altro tipo di icona. La società si è fatta profana e multireligiosa,
nemmeno il Cardinale Ratzinger accetta che il cristianesimo torni ad essere
una «religione della società», nella quale i crocifissi siano esibiti come
emblemi di una nuova alleanza tra trono e altare, messi sui muri e abrogati
dalla vita.
E soltanto allontanandosi da quei muri pubblici e dalla loro ambiguità che
il crocifisso potrebbe tornare ad essere significativo per mobilitare le
forze spirituali, nell’ora in cui il mondo agonizza, e rispiritualizzare
l’uomo. Questa rimozione può apparire traumatica e «laicistica», ma forse è
necessaria per purificare il senso del Dio crocifisso dalle immagini
ereditate della religione utilitaria. Molto a ragione Jurgen Moltmann ha
affermato che «cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige una rivoluzione
dell’idea di Dio». Ciò che era scandalo e follia per i contemporanei di
Paolo resta tale anche per molti nostri contemporanei. E difficile abituarsi
a questa figura di Dio inutile e impotente. Essa non funziona come utensile
del dominio. E questo cui richiamava Fran Verillon quando avvertiva: «Noi
cerchiamo Dio nella luna mentre lui sta lavandoci i piedi».
Per quanti riconoscono nel crocifisso il Cristo di Dio e continuano a
credere in lui quella croce significa che colui che ha subìto la più
profonda umiliazione da parte del potere politico diventa portatore della
massima dignità e che la gloria di Dio non illumina più le corone dei
potenti. Come notava Hegel, se colui che è morto impotente, esautorato e
inutile sulla croce diventa per i credenti la massima e unica fonte di
autorità, allora svanisce per essi la base religiosa del vincolo con il
potere politico, che postula in ogni caso un rapporto di scambio delle
utilità, un do ut des. Da queste poche osservazioni diventa chiaro
che una teologia politica della croce è qualcosa che non ha nulla da
spartire con la teologia politica delle religioni di stato. Essa si presenta
anzi come l’avversaria irriducibile delle religioni politiche, e contesta a
partire da un punto cardinale la possibile omologazione della fede cristiana
a funzioni utilitarie nell’ambito degli interessi del sistema dominante. Al
contrario, essa si traduce in una forza critica di liberazione dell’uomo dal
giogo delle religioni politiche e dell’alienazione.
Di qui il significato anti-idolatrico della teologia della Croce nel senso
in cui essa si costituisce in fattore critico delle pretese
dell’assolutismo. Non sarebbe impropria, da questo punto di vista, una
lettura teologica delle Beatitudini nelle quali il rovesciamento introdotto
dal Cristo manifesta il divino nelle figure dei poveri, dei semplici, degli
umili, dei deboli e dei sofferenti, dei pacifici e dei diseredati. Il divino
si costituisce nel mondo come scarto e non più nelle tradizionali categorie
della potenza trionfale. In un mondo senza compassione, la mitezza di Gesù
di Nazareth non può essere presentata in modi schiaccianti e trionfanti:
Gesù non schiaccia nessuno, anzi «è il Dio che si è fatto schiacciare per
l’amore verso l’uomo» ci ha insegnato il Cardinale Carlo Maria Martini.
Il Dio crocifisso è dunque un Dio dello scarto. Il Totalmente Altro è per
eccellenza il Non Potente. Egli non si arruola nelle file dell’idolatria
politica e non può funzionare come utensile del potere, né ordinare a Pietro
di impugnare la spada del potere per difendere lui e una civiltà, come
ancora tentano di fare i nostri mammalucchi cristiani che aspirano a
conquistare il mondo all’arma bianca. Perfino il papa polacco preferisce
consigliare le carmelitane del convento di Auschwitz a togliere la grande
croce che avevano installato nel lager e trasferirle altrove. Ed è proprio
ripensando alla Shoah che Emmanuel Lévinas ha scritto una pagina su cui
giova soffermarsi nella triste ora presente: «L’idea di una verità che si
manifesta nell’umiltà, l’idea di una verità perseguitata, è l’unica modalità
possibile della trascendenza. Manifestarsi come umile, come alleato del
vinto, del povero, del perseguitato significa proprio non rientrare
nell’ordine. L’umiltà disturba totalmente. La persecuzione e l’umiliazione a
cui essa espone sono modalità del vero». |