| chiudi la finestra |stampa |  

---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 Israele e le nazioni
Gabriella Del Signore
(HOREB  n.24 - sett-dic. 1999 n. 3, pagg 33ss)

Spesso sentiamo ripetere, nonostante il Concilio Vaticano II° ci abbia insegnato il contrario, che il Dio dell' Antico Testamento è un Dio vendicativo, "diverso" dal Dio rivelatoci da Gesù. Israele, di conseguenza, diviene la nazione depositaria, per così dire, della parte "peggiore" della rivelazione. Inoltre il fatto che Dio abbia scelto un solo popolo tra tutti viene spesso visto come un'ingiustizia: Dio ci appare come un padre capriccioso che arricchisce un figlio spogliandone altri.
Questo è il retaggio di una inimicizia che si cela nella nostra conce
zione di Dio. Questa inimicizia ha trovato, in alcuni periodi storici, un terreno talmente fecondo da diventare un'espressione teologica che si è diffusa attraverso le omelie e la catechesi e che contrappone il Dio d'Israele e il Dio di Gesù, il Dio dell' Antico Testamento e il Dio del Nuovo Testamento, il Dio vendicativo e il Padre della misericordia. I non credenti, che hanno a volte più di noi la lucidità della razionalità, ci fanno notare che nelle nostre affermazioni si cela una contraddizione rispetto al nostro credo monoteista. In altre parole, noi così facendo, testimoniamo due "Dei" contrapposti e piuttosto nemici, il Dio dell' Antico e il Dio del Nuovo Testamento e così facendo neghiamo l'unità della rivelazione. È evidente che, a nostra insaputa, l'inimicizia ci allontana dalla fede in un Dio unico.

L’elezione di Israele.
L' ebraismo si è trovato storicamente e geograficamente al fianco di popoli che frantumavano Dio in Dei locali, ciascuno dei quali poteva essere sovrano solo nei confini della propria nazione. Israele al contrario credeva che ci fosse un Dio solo, un solo creatore di tutti gli uomini.
Un'unità in alto, il Dio unico, si rifletteva in basso nell'uomo unico Adamo-Eva: unico è Dio e unico è il progenitore. Da questo Uno nel cielo scaturiva l'Uno sulla terra e da entrambi, le genti. Ma ecco che, nell'affer
marsi della molteplicità degli uomini, Dio opera ancora la scelta di un nuovo "uno": Noè. Da lui, di nuovo, il tempo riprende a scorrere e riprende a germogliare la molteplicità delle genti, quella molteplicità che impedisce il definitivo smarrirsi della vita. Ancora popoli e genti che tuttavia smarriscono ben presto la fraternità affannandosi nella comune costruzione di una torre, Babele, e ancora Dio che trae tra i molti "uno", un nuovo padre: Abramo.
Un continuo crescere di cespugli di vita dai quali Dio trae uno stelo, uno solo,  per iniziare un nuovo inizio senza che ciò cancelli o interrompa la continuità con il passato. Ogni successivo inizio noi lo chiamiamo nella bibbia, alleanza. Come in un cerchio che si fa sempre più piccolo e stretto come una torre costruita nella storia, Dio sceglie Abramo, Giuda, Mosè, Davide, e pian piano dall'umanità, per elezioni successive, scaturi
­sce la scelta di un popolo e in esso sempre nuove scelte: tra fedeltà e novità.  
Anche Gesù fa parte di questa logica di elezione legata al popolo. Lui l’eletto del Padre, deve essere figlio d'Israele perché il cammino delle alleanze e delle elezioni abbia senso nella fedeltà.
Tuttavia l'elezione porta in sé una drammaticità; infatti l'elezione d'Israele si fonda sul monoteismo ed il dramma d'Israele è legato tutto al monoteismo. Israele è sempre stata immerso in culture e popoli che pote
­vano anche essere monolatre (adorare un solo Dio) ma non erano monoteiste (credere che ci fosse un solo Dio). Molte nazioni adoravano un solo Dio e lo ritenevano unico responsabile della nazione, ma tali nazioni ritenevano che ogni nazione avesse il proprio dio, il proprio Nume tutelare. Israele al contrario era ed è testimone del Dio che è Uno.
Se noi fossimo un po’ meno abituati al monoteismo capiremmo la drammaticità dell’affermazione
"un solo Dio". Nelle deportazioni e invasioni Israele. non poteva rifugiarsi nella illusoria speranza che il dio delle nazioni straniere fosse il "responsabile" della loro sconfitta. Non c'è altro dio che Dio. Quindi, drammaticamente, Israele non poteva far altro che concludere che l'unico Dio, il Dio che solo Israele adorava, era stato proprio Lui a lasciare il suo popolo in balia della violenza degli invasori, ad aprire la porta all'invasore.
Questo è il dramma del monoteismo! Non siamo sconfitti perché il nostro debole Dio è stato travolto con noi da un Nume più potente; siamo sconfitti perché inconcepibilmente il nostro Dio  ci ha resi preda del nemico della morte, della malattia, del dolore, del fallimento.
È il dramma del credente, di chi non può fare riferimento al caso, alla sorte, alla molteplicità degli Dei; Lui, Lui solo è Dio, Lui solo ha potuto mettermi tra le mani dei miei aguzzini; Lui solo perché non c’è che Lui.
Siamo talmente atterriti dal monoteismo che cerchiamo di esorcizzarlo
in ogni modo, incrinando l'Onnipotenza di Dio, allargando il potere del libero arbitrio, sospirando una storia che non abbia termine, con la reincarnazione. Vivere e poi vivere ancora in un tempo quasi interminabile ci dà la possibilità di distogliere l'attenzione dal problema di Dio, di vedere il dolore con minore drammaticità, annacquato, in un tempo che potrebbe darci un prossimo riscatto. Israele non ha mai annacquato finora il problema della drammaticità del monoteismo; per questo, quando il popolo viene oppresso dal dolore grida a Dio non solo il bisogno di salvezza ma anche lo sgomento per il comportamento di Dio. Questo "dramma" Israele lo vive non solo per se stesso ma anche per ogni uomo, infatti, "se il Signore è il sovrano dell'Universo, come ha confessato Abramo, se non esiste un luogo di tenebre o luce, di sofferenza o di gioia in cui Egli non sia presente come ha cantato David, se solo a Lui appartengono le lodi e l’adorazione come hanno continuamente ripetuto Mosè e i profeti", come potrebbero la sua provvidenza e presenza non essere universali? Come può lasciare esistere ogni oppressione e dolore? Il dolore personale o il riscatto dal dolore diventano aspetti di valenza universale per Israele.   L'elezione, da una parte, rivela una prossimità particolare di Dio verso il suo popolo, ma da questa elezione scaturisce nel tempo una profonda riflessione su ogni evento che ponga il popolo ed ogni uomo (come in Giobbe) nelle mani di una dolorosa inimicizia.

La prossimità dell'inimicizia
Serrato tra il desiderio di essere l'unico popolo di Dio e la vocazione di essere l'unica Nazione per le nazioni, Israele scopre la drammaticità della propria chiamata soprattutto nell'esilio quando il Dio fedele lascia strappare via la vita del suo popolo, quando il Dio padre lascia sfregiare la fecondità del suoi figli, quando il Dio che copre con la sua presenza perfino la profondità degli abissi sembra non vedere e non udire il grido del dolore.
Israele nell'esilio è immerso in una inimicizia che la circonda come una deportazione e che gli sorge dentro come il desiderio di una libera
zione.
Nella tensione mortale che accompagna questa condizione Israele prega: «Sui fiumi di Babilonia là sedevamo piangendo al ricordo di Sion» (Sal 137, l).  Il contesto storico che precede e accompagna questo salmo è molto difficile. Il regno di Giuda subisce una prima deportazione ad opera dei Babilonesi (597 a. C.) ma il popolo spera in un immediato ritorno perché Gerusalemme e il Tempio sono integri (cf. Ger 29,5-10). Tuttavia nel 586 un nuovo e definitivo attacco dei Babilonesi cancella totalmente ogni speranza. Gerusalemme e il Tempio vengono distrutti, il re viene deportato. La realtà e della distruzione fa infrangere rovinosamente le spe
­ranze del popolo. Questo momento storico trova eco nel Salmo 137.  Il popolo viene addossato lungo il corso dei fiumi che irrigano Babilonia, accasciato, sfinito come sfinita è la speranza che si dissolve nel pianto. I  babilonesi chiedono agli esiliati un canto, un bel canto, un canto di Sion. Dopo aver distrutto, dopo aver violate le donne, ucciso i bambini, gli oppressori vogliono rallegrarsi al canto degli oppressi: effimera pietà che mentre cancella il diritto e la dignità, si illude di essere munifica. 
Gli esiliati si chiedono come si possa cantare se nelle orecchie risuo
­nano ancora le «urla degli assedianti» (Ger 4,16), la tromba, il fragore della guerra (cf. Ger 4,19), il silenzio della rovina e della solitudine (cf. Ger 4,23ss)?  Il dolore della distruzione trascende il momento storico e avvolge il passato del popolo d'Israele. La distruzione della terra, l'esilio, sollevano il problema della fedeltà di Dio alle promesse e coinvolge, in qualche modo anche coloro che nel passato furono testimoni e mediatori di tali promesse.

Questo travaglio trova voce anche nei Midrash: «Così si lamentava Mose nel vedere il luogo santo devastato e il popolo esiliato: "Ahimè per il Tuo splendore, o Santuario! Come si è offuscato! Ahimè! Perché è giunto il tempo in cui doveva essere distrutto. Ora il tempio è arso, i bambini delle scuole sono stati uccisi e i loro padri vanno prigionieri in esilio. Poi rivolgendosi ai Babilonesi disse: "E voi vincitori non fateli morire di morte crudele, non distruggeteli completamente, non uccidete il figlio dinanzi al padre e la figlia dinanzi alla madre perché verrà il tempo in cui il Santo, Benedetto Egli sia, chiederà conto a voi". Ma i Caldei non fecero così, ponevano un bimbo sul seno della madre e dicevano al padre: "Uccidilo!" Disse allora Mosè dinanzi al santo, Benedetto Egli sia: "Hai scritto nella tua Torah: "di un bue e un capretto non uccidere padre e figlio nello stesso giorno" (Lev 22,28), eppure quanti figli hanno ucciso insieme alle madri e Tu non hai detto niente»
[1].
Il dolore avvolge ogni cosa, il presente trascina nell' amarezza anche il passato e la speranza nel futuro è sommersa dall' amarezza di una attesa di salvezza che ha avuto come epilogo la totale di istruzione. Se tale e la devastazione, non si possono cantare "canzoni di gioia", se tale è la deva
­stazione, la speranza che apre la bocca al canto è bandita per sempre.
Se gli stranieri vogliono udire i canti di Sion, ascoltino il silenzio perché
, dopo la loro devastazione, questo è l'unico canto rimasto. Ma il silenzio che accompagna la distruzione conduce ad una radicale e significativa domanda: chi loderà ancora il nome del Signore se Gerusalemme è ridotta al silenzio (cf. Ger 4,23ss)?
Il destino dell'uomo nel mondo è lodare Dio. Se la lode di Dio cessa, l'uomo disconosce la tensione tra la sua indigenza e le sue capacità. Per questo anche il lamento è, in qualche modo, lode. Il lamento è il canto al quale si aggrappa l'uomo che non è in grado di cambiare la propria miseria ma che resta unito, anche nella miseria, al Signore. Canto di dolore,di attesa, di speranza di pentimento, di ringraziamento, di qualsiasi vero, profondo, sentimento. Se questo canto tace, il mondo rimane e ammutolito. Se la distruzione ammutolisce anche il grido rivolto a Dio, tutto diviene terrificante silenzio.

Forse ogni popolo trattato al pari d'Israele, resterebbe ammutolito per sempre, chiuso in un giustificabile silenzio, proteso a chiedere anche su Dio una vendetta per avere abbandonato il suo popolo. Israele invece, nell'accanirsi del dolore e della sopraffazione dell'inimicizia dei popoli canta, danza e prega. «Danzare quando tutto va bene non è nulla. Cantare quando il cuore è gaio e leggero non è nulla. Ma quando le cose vanno male, quando non si osa più alzare la testa, quando sembra che il male trionfi allora ci è chiesto di lodare il Signore sorgente e approdo di ogni estasi»
[2]. Israele è la nazione eletta per saper cantare fino a questo punto.
Dio deve fidarsi molto della fedeltà d'Israele per tendere la corda così
spesso e così duramente con il suo popolo nel corso della storia. Altri popoli avrebbero taciuto per sempre il nome del Signore e lo avrebbero taciuto per molto tempo.
Israele prega ancora: «A chi dobbiamo dunque appoggiarci? Al nostro Padre che è nei Cieli».

Dall'inimicizia alla prossimità
Nel capitolo
14 del libro di Zaccaria viene descritta, con toni molto drammatici, la contrapposizione tra Israele e le nazioni. Dio fa convergere verso Gerusalemme le nazioni straniere; la violenza colpisce e distruggere, sradica metà della popolazione. Il solito dramma del Dio che lasci a abbattere il dolore e l’inimicizia contro il suo popolo soggiace al racconto ma ad un tratto, inspiegabilmente, il brano cambia. Di io difendere il popolo che prima aveva lasciato in balia delle violenze e lotta contro le nazioni. Dio si pone dinanzi a Gerusalemme sul Monte degli ulivi e il monte si frantuma sotto il peso di Dio dividendosi nel mezzo. Anche la nostra anima e la nostra mente ora, se fossimo meno abituati alla parola di Dio, verrebbe lacerata come il monte a causa dell’inconcepibile comportamento di Dio che raduna la morte intorno alla vita e poi combattere per salvare i brandelli dell’esistenza. Lui che ha lasciato distruggere il vigore della città, ora si sveglia sdegnato fra le rovine della città e lotta per un popolo dimezzato che sopravvive in Gerusalemme. Il monte si spacca in due come avrebbe dovuto spaccarsi la terra che calpestava Abramo nel vedere Dio o affannarsi a rendere fertile  Sara e Abramo dopo averli consumati nell’attesa e condotti alle soglie della morte. Dovrebbe lacerarsi il cuore dell’uomo quando assapora l’assenza di Dio,un’assenza che a volte diviene il preludio inconcepibile di una futura vicinanza. Il Monte degli ulivi si lacera come si lacera il velo del tempio dinanzi al grido di Gesù. Gerusalemme, Abramo, Gesù, Israele, molti di noi… tra inimicizia e prossimità su terre e su storie che si frantumano per la loro incoerenza dolorosa. Il Monte degli ulivi, è lì a frantumarsi sotto il peso della lontananza e della prossimità di Dio, entrambe laceranti. Attraverso tale lacerazione il popolo fugge tra le falde del monte spezzato, fugge dalla città ferita. Mentre tutto si spezza, il giorno si trasforma in buio e freddo come buio e freddo divenne il giorno in cui il velo del tempio si lacerò, come buio e freddo ci appare il giorno del dolore. E, al termine di un giorno così buio e freddo, sopraffatto dal tremore della terra e dalla lacerazione del monte degli ulivi,giunge la sera. La sera di un giorno fatto di notte  è quanto di più terribile si possa immaginare. Ma verso sera la sera di quel giorno fatto solo di notte, “apparirà alla luce” (Zacc 14,7).
Alla luce di questa incredibile notte, il terremoto di frantumi si allarga in una vallata dove scorrono acque che non inaridiscono all'arsura né si ritraggono al gelo. La terra, tutto intorno, diviene una valle senza più asperità: la pace.
Solo Gerusalemme resta elevata, visibile da ogni terra, unica cima in una pianura che abbraccia ogni orizzonte. Allora i popoli che avevano angustiato Israele vengono sconfitti da una guerra interna a se stessi, si sfalda la compattezza della loro esistenza: come viventi decomposti.
 Dio combatte contro di loro semplicemente ritraendosi da loro e lasciandoli preda di una vita che si scompone dal di dentro. Le genti si gettano l'uno contro l'altro in un incontro reciproco che sa contemporaneamente di guerra e di vana, reciproca, ricerca di vita.  Sembra tutto finito è decretato: Israele dimezzata sopravvive dopo l'i­nimicizia, i popoli che le sono venuti contro si sfaldano sotto il peso del loro errore.  Ma non è così! Non è questa l'ultimo atto dell'inimicizia. Infatti, nel giorno in cui la notte diviene luminosa «avverrà che i superstiti delle nazioni insorte contro Gerusalemme verranno ogni anno a prostrarsi di fronte al Re, Signore delle schiere e a celebrare la festa delle Capanne» (Zc 14,16) ... «E sarà quello un giorno tutto particolare ... », un giorno di luce nella sera, solo allora il «Signore sarà l'unico e il suo nome soltanto Uno».
Dio
è davvero Uno, unico, anche quando, anzi soprattutto quando, alla notte di un giorno fatto di buio fitto come un'inimicizia mortale, "verso sera" sa destare "la luce".
È di questa luce che avranno parte i superstiti di ogni nazione con Israele, quelli che, nonostante la storia, il passato, il dolore, le stragi, riusciranno a salire, insieme, verso il monte per celebrare, insieme, la festa delle capanne: la lode. Anche l'inimicizia, in quel giorno diverrà incontro e, con passi comuni, coloro che si combattevano saliranno insieme verso il monte per cantare all'unisono la Lode. Questa
è la Parola di Dio per bocca del profeta Zaccaria. Questa è la Speranza d'Israele. Questa è l'inconsapevole attesa di tutte le nazioni.


[1] R. Pacifici (a cura di), Midrashim, Marietti Genova 1986, pag 147
[2] E. Diesel, Gli ebrei del silenzio, Milano 1985, pag 29