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Il credente non è che un povero ateo,
che ogni giorno si sforza di cominciare a credere.

(Mons.Bruno Forte “Ho cercato e ho trovato” Ed. S.Paolo)

Nella notte del mondo, nella notte del cuore,  questi “stranieri” si sono fatti pellegrini, guidati da una stella, per andare alla ricerca di Colui, che dà senso alla vita e alla storia. I  Magi rappresentano tutti i cercatori della verità, pronti a vivere l’esistenza come esodo. Il non-credente pensoso,  al pari del credente non-negligente, è un uomo in ricerca, che lotta con Dio alla ricerca della verità, pellegrino nella notte, attratto e inquietato da una misteriosa stella. Il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere un’impari lotta con Dio, nella notte.

            L’uomo è un ricercatore della patria lontana. Se l’esodo è la condizione umana, se l’uomo è un pellegrino verso la vita e un mendicante del cielo, la grande tentazione sarà quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe arrestare la fatica del cammino. Una tradizione ebraica racconta di alcuni giovani che chiedono a un vecchio rabbino quando sia cominciato l’esilio di Israele. «L’esilio di Israele - risponde il rabbino carico di anni e di saggezza - cominciò il giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio». Il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c’è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. Il dramma dell’uomo moderno non è la mancanza di Dio, ma il fatto che egli non soffra più di questa mancanza. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, questa è la malattia mortale. Tu sarai morto non nel giorno in cui morirai, ma quando penserai di essere giunto al tuo compimento. Tu sarai morto quando il tuo cuore non vivrà più l’inquietudine e la passione del domandare, il desiderio del cercare ancora, di trovare per ancora domandare e cercare. Quando non lascerai più che a guidare i tuoi passi sia la stella splendente nella notte, allora avrai perso la tua lotta con la morte. L’uomo che si ferma, l’uomo che si sente padrone e sazio della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno da cui essere posseduto sempre più profondamente, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha ucciso in se stesso non solo Dio, ma anche la propria dignità di essere umano. La condizione umana è, insomma, una condizione esodale: l’uomo è in esodo, in quanto è chiamato permanentemente ad uscire da sé, ad interrogarsi, ad essere in cerca di una patria. Martin Lutero avrebbe detto sul letto di morte: «Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità».

            Chi crede non ha un pensiero totalizzante, luminoso su tutto, non è schiavo di una ideologia, ma vive in una sorte di conoscenza notturna, carica di attesa, sospesa tra il primo e l’ultimo avvento, già confortata dalla luce che è venuta a splendere nelle tenebre e tuttavia in una continua ricerca, assetata di aurora. Come aurora è il mondo della fede, non ancora pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria, e tuttavia sufficientemente rischiarato per sopportare la fatica di conservare la fede. Pellegrino verso la luce, già conosciuta e non ancora pienamente raggiunta, chi crede avanza nella notte, appeso alla Croce del Figlio, la stella della redenzione.

            Ma la fede è anche resa e abbandono: quando tu nella lotta capisci che vince chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all’assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, puoi vivere la fede come abbandono. La fede è consegnarsi ciecamente all’Altro: «Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!” Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,7.9). Nelle «Confessioni» di Geremia troviamo una altissima testimonianza di questa resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui.

            Solo dopo che noi lo avremo ciecamente seguito e perdutamente avremo accettato di amarlo dove e come Lui vorrà, Egli diverrà per noi la sorgente della gioia che non conosce tramonto. Noi crederemo in Dio se saremo sempre cercatori del Suo volto, guidati dalla stella venuta nella notte, Gesù. Perciò, il credente non è in fondo che un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se non fosse tale, la sua fede non sarebbe altro che un dato sociologico, una rassicurazione mondana, una delle tante ideologie che hanno illuso il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. Diversamente da ogni ideologia, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare. La luce della fede è aurora di chi sa aprirsi all’oltre e al nuovo di Dio nello stupore e nell’adorazione. Proprio come confessano i Magi davanti al Bambino: «Siamo venuti per adorarlo».   Se c’è una differenza da marcare nella ricerca della verità che è la ricerca di Dio, non è anzitutto quella tra credenti e non credenti, ma l’altra tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di tendere ad essa fino alla fine, oltre la fine.