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I dodici volti di Dio
Daniele Garota
(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)
11. IL
TERRIBILE
“Terribile tu sei, o Dio, nel tuo
santuario” (Sal 67,36). Avvicinarsi a Dio non è avvicinarsi a uno
qualunque: per farlo come si deve sono necessari “reverenza e timore;
perché il nostro Dio è un fuoco divorante” (Eb 12,29). Quando il Signore
“ruggisce” i cieli e la terra si mettono a tremare (Gl 4,16-17). Il credente
percepisce la vicinanza e la tenerezza di Dio ma può (e forse deve), per
amore, arrivare anche a comprendere il perché della sua ira quando si
accende. Dio diventa terribile infatti, non perché onnipotente, alla maniera
di certe divinità arcigne e severe che scagliano fulmini contro chi osa
contraddirle, ma a causa della sua sofferenza e debolezza, dunque della sua
impotenza, in un mondo in balìa dell’ingiustizia e del male.
Se Dio si scatena contro un mondo che pure ama fino a dare la vita pur di
salvarlo (Gv 3,16-17), vuol dire che ha momenti in cui teme non solo di non
farcela a salvarci, come ha promesso, ma di non riuscire a salvare proprio
coloro che tra noi gli stanno più a cuore: i più piccoli e bisognosi di
salvezza, i poveri, gli affamati, quelli che indicava come beati nel
discorso sul monte. È questo il motivo per cui Dio si sente come costretto a
intervenire, costi quel che costi, in determinate situazioni. A
chiederglielo sono, con alte grida, persino “le anime di coloro che
furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli
avevano reso” (Ap 6,9-10). Anche i morti continuano ad avere “fame e
sete della giustizia” (Mt 5,6).
Cristo Gesù, “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), è “L’agnello di
Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29), colui del quale
continuiamo a mangiare il “corpo” e a bere il “sangue” (Mt 26,26-28), perché
è stato “immolato” ma, alla fine, la potenza del peccato sarà tale che non
solo “i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti”, ma
anche “ogni uomo, schiavo o libero” si dovrà nascondere “nelle caverne e fra
le rupi dei monti” per paura della “faccia di Colui che siede sul trono e
dall’ira dell’Agnello, perché” sarà giunto “il grande giorno della loro ira,
e chi potrà resistervi?” (Ap 6,15-17). Parole terribili, apocalittiche. Jung
ha percepito, dietro parole come queste, l’esplodere della “Rivelazione” in
un uomo che “non ha nulla dello stanco distacco o della serena calma
dell’età avanzata, ma una ‘passione’ attraverso la quale è lo spirito di Dio
stesso che penetra nel fragile involucro mortale ed esige che nel cuore
degli uomini, dinanzi all’inafferrabile immensità di Dio, si annidi
nuovamente la paura” (Risposta a Giobbe). Un agnello non metterà mai paura a
un lupo, ma c’è, tra gli ebrei, anche chi proprio odiando visceralmente la
morte e avendo a cuore la sorte delle creature più umili e indifese, persino
quella degli animali che mangiamo, ha sognato pecore che “ci sbranano con
denti improvvisamente aguzzi” (Elias Canetti, La provincia dell’uomo).
Da troppo tempo l’impeto diretto della Rivelazione non è più tra noi,
diventati peraltro sordi e ciechi di fronte al dolore reale delle vittime:
l’essenziale ci sfugge e diventiamo per questo così facilmente ipocriti.
Quando vediamo un cane feroce che sta per azzannare un gattino cosa dovremmo
fare se non mettercela tutta per diventare anche noi in qualche modo
violenti alzando un bastone e gridando fino a colpire con forza se occorre?
Gesù che entrò nel tempio con violenza rovesciando “i tavoli dei
cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe”, era così carico d’ira che
nessuno osò opporsi. Capi, sacerdoti e scribi stavano intanto là a guardare,
ma anziché comprendere il dolore del Cristo - costretto a urlare con
violenza vedendo ridotta a “un covo di ladri” la “casa di preghiera” - essi
altro non cercavano che “il modo di farlo morire” (Mc 11,15-18). Dio “ha
tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16), e tuttavia ci
sono momenti in cui chi “vuole essere amico del mondo si rende nemico di
Dio” (Gc 4,4). E sono momenti in cui il Figlio detesta quella “pace” che non
è venuto a portare “sulla terra” poiché, in certi momenti, è piuttosto “la
spada” che occorre, la separazione, a cominciare da quei “nemici” che
abitano nella propria “casa” (Mt 10,34-35). Chi ucciderà Gesù sarà il potere
costituito, civile e religioso, da tutti riconosciuto come necessario e
legittimo per il bene del nostro mondo: questo mai deve essere dimenticato.
Ha ragioni da vendere Kierkegaard: se il Cristo “non fosse stato un tipo
così irascibile, si sarebbe messo d’accordo col mondo e non sarebbe stato
mandato a morte, cosa che non era affatto necessaria; sarebbe diventato un
grand’uomo nel mondo, come lo divennero nella chiesa trionfante” molti che
si spacciarono per suoi discepoli, così che “mentre lui fu crocifisso, essi
diventarono potenti con onori e considerazione” (Esercizio del
cristianesimo). La volontà di Dio nel mondo si rovescia: è chi osa gridare e
prendere la frusta a essere la vittima e coloro che siedono tranquilli nella
loro pace gli oppressori. Il Dio terribile degli ultimi giorni sarà un Dio
messo alle strette dalla falsa pace del mondo, da gente tranquilla e
pasciuta che gli ride in faccia. È per questo che piomberà tra noi “come un
ladro di notte” e sarà proprio “quando la gente dirà: ‘C’è pace e
sicurezza!’”, che “la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e
non potranno sfuggire” (1Ts 5,1-3).
In un passo di Isaia, Dio - che pure dice di parlare “con giustizia” e di
essere “grande nel salvare” - appare in enorme difficoltà davanti a un mondo
che lo abbandona senza ritenerlo più nemmeno degno di una minima attenzione:
“Guardai: nessuno mi aiutava; / osservai stupito: nessuno mi sosteneva. /
Allora mi salvò il mio braccio, / mi sostenne la mia ira. / Calpestai i
popoli con sdegno, li ubriacai con ira, / feci scorrere per terra il loro
sangue” (Is 63, 1.5-6). È un Dio che cerca aiuto e resta stupito che nessuno
vi sia più rimasto a dargli una mano, quello che alla fine si farà sostenere
dalla sua ira.
C’è una parabola, nel Vangelo di Luca, che Gesù raccontò “perché era vicino
a Gerusalemme” e “i Dodici” pensavano “che il regno di Dio dovesse
manifestarsi da un momento all’altro” (Lc 19,11). A Gerusalemme entrerà
desiderando ardentemente di essere riconosciuto come “il re”, ma s’accorgerà
presto dell’incomprensione e del rifiuto, tanto che scoppierà a piangere “su
di essa dicendo: ‘Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che
porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi”. Accadranno allora
terribili cose, come aveva del resto predetto Gesù: “distruggeranno te e i
tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non
hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.
Al centro della parabola vi è “un uomo” che decide un giorno di partire
diretto a “un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare”.
Prima di partire però, chiamò “dieci servi” ai quali consegnò “dieci monete
d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”. Ma i suoi cittadini
lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: ‘Non vogliamo
che costui venga a regnare su di noi’. Dopo aver ricevuto il titolo di re,
egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro,
per sapere quanto ognuno avesse guadagnato”. Tutti passarono al vaglio con i
frutti del loro lavoro, da quello che aveva guadagnato di più fino
all’ultimo il quale, avendo nascosto, per paura di perderla, la moneta “in
un fazzoletto”, non aveva guadagnato nulla. Così che, mentre ad ognuno degli
altri diede un premio secondo il lavoro svolto, a quello tolse anche la sola
moneta conservata per darla a chi aveva guadagnato di più. Dio ha estremo
bisogno non solo del nostro desiderio, ma anche del nostro aiuto e del
nostro coraggio, per poter regnare tra noi un giorno.
Ma il verdetto, difficile da comprendere per la sua terribilità, sarà quello
rivolto ai “suoi cittadini”, dunque alla moltitudine, a coloro che in massa
si precipitano non verso la “porta della fede” (At 14,27), ma verso quella
“larga” della “perdizione” (Mt 7,13), a coloro che, odiandolo, avevano
addirittura avuto la sfrontatezza di mandargli a dire: resta dove sei, non
abbiamo alcun interesse che tu torni a regnare tra noi. Quelli sono i suoi
veri “nemici”, è per essi che sono riservate parole di condanna tra le più
dure mai uscite dalla santissima bocca del Signore: “conduceteli qui e
uccideteli davanti a me” (Lc 19, 11-44).
C’è un momento in cui, dopo avere ricevuto tutto quanto si poteva ricevere
da parte del Signore, altro non resta che “una terribile attesa del giudizio
e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli”. Nessuno dovrebbe
scordarsi di “colui che ha detto: A me la vendetta! Io darò la retribuzione!
E ancora: Il Signore giudicherà il suo popolo. È terribile cadere nelle mani
del Dio vivente!” (Eb 10,27.30).
Dio ama essere cercato, ama esserci, desidera camminare con noi come un
amico, ma proprio per questo deve restare Dio, il Padre che conosce davvero
le cose e ce le rivela, un Dio che fa promesse e ama essere creduto, atteso.
Un Dio che enormemente soffre se lo abbandoniamo, se non crediamo più in lui
e nella sua Parola.
In Gesù morto e risorto si manifesta il mysterium e il tremendum
che abita in Dio stesso, un tremendum per cui non solo dal colpo di
lancia sul costato, ma persino dalla sua fronte usciva sangue, come “sudore”
nello sforzo della intensa “preghiera” e della “lotta” contro la solitudine
e la morte (Lc 22,44), nel desiderio di essere riconosciuto, accolto, amato.
Nel Getsemani più che paura vi fu “enigma gravido di sgomento”, la
percezione del Figlio che sa di lottare “con il Dio dell’ira e della furia,
con il numen che peraltro è MIO PADRE” dice Rudolf Otto (Il sacro).
Forse da nessun’altra parte Dio ha sofferto come quando, nel mistero
trinitario, ha dovuto lottare - per amore nostro, per strapparci dalla gola
del peccato e della morte – anzitutto con se stesso, abbandonando se stesso,
spezzandosi dentro di sé fino a morire.
A Giacobbe la diede vinta al Figlio no, non poteva: al Padre doveva restare
l’ultima mossa (Mt 26,39), senza la quale mai la morte avrebbe potuto essere
vinta, né per sé né per le sue creature. Guai a non comprendere con
devozione e amore questo abissale dramma nel cuore del Dio d’Israele, del
Dio di Gesù Cristo, costretto a entrare in una simile lotta per mantenere
fino in fondo le sue promesse di salvezza. Solo perché il Padre è riuscito
ad abbandonare il Figlio, a toglierlo “di mezzo inchiodandolo alla croce”
(non è tutta qui l’onnipotenza di Dio, l’onnipotenza del suo amore?), noi
non siamo stati abbandonati a noi stessi (Col 2,12-14). È solo perché l’ira
di Dio ha colpito prima di tutto se stesso nel proprio Figlio innocente, che
non ci apparirà ingiusta dovendosi abbattere nel mondo come ultimo rimedio.
Perché come ultimo rimedio? Perché a quel punto non rimarrà che strappare il
“resto” dei salvati, visto che “dal piccolo al grande / tutti commettono
frode; / dal profeta al sacerdote / tutti praticano la menzogna” - come dice
Geremia - e tutti ci si precipita a dire: “Pace, pace!” quando “pace non
c’è”, e nemmeno ci si vergogna dei propri “atti abominevoli” (6,9.13-15).
Ma si potrà essere salvati senza partecipare a tale dramma, nel quale Dio si
agita aspettando, nel Figlio, di tornare, dopo essersi caricato di ogni
nostra colpa, dopo avere provato sulla sua pelle ogni nostro dolore fino a
morire? Non è forse “il suo Figlio” - colui che “il Dio vivo e vero … ha
risuscitato dai morti” e che noi dobbiamo “attendere dai cieli” - a
liberarci “dall’ira che viene” (1Ts 1,9-10)? “Dio infatti non ci ha
destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore
nostro Gesù Cristo” (1Ts 5,9).
Il mistero dell’ira e della pietà di Dio lo percepiremo davvero incrociando
gli occhi del Risorto, incontrandolo nel giorno in cui ogni sua promessa
sarà compiuta e potremo finalmente vederlo “ritornare” tra noi, vittorioso
dopo tutto, col suo “titolo di re” (Lc 19,12).
(continua prossimo articolo:12- ALFA E OMEGA. IL PRIMO E L'ULTIMO) |