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 IMPORTUNARE DIO
Daniele Garota
 da L’onnipotenza povera di Dio, ed Paoline pag 49-57

Alla gioia nel servire Dio, alle benedizioni ricevute, può seguire, da un momento all' altro, la discesa precipitosa nella cupa spirale del dolore e della sventura. Uno scacco che induce il giusto a chiedere ragione a Dio di quello che ingiustamente gli sta accadendo. Perché «ci hai consegnati come pecore da macello» e ci hai resi «scherno e obbrobrio a chi ci sta intorno?». Eppure «non ti avevamo dimenticato, non avevamo tradito la tua alleanza» (Sal 44, 1218). Di fronte ai dolori di Giobbe non c'è giustificazione che tenga, e il contrappasso profetato dal Magnificat non ha ancora avuto luogo: gli umili continuano a essere calpestati dai potenti, i poveri schiacciati dai ricchi. Il bambino sudamericano s'ammala di tifo e muore costretto com'è ad abbeverarsi nella lurida pozzanghera mentre lassù, a due passi, il signorotto continua felice a sguazzare nelle limpide acque della sua piscina. 
Perché non sono ancora state svuotate le mani dei ricchi e ricolmati di beni gli affamati? È forse perché i milioni di bambini morenti non pregano o pregano male che Dio non interviene? Merita un bambino, quale che sia il suo colore o la sua provenienza, la morte per fame o lo sterminio della guerra? Non ha forse detto Gesù che il Padre sa di quali cose abbiamo bisogno ancor prima che gliele chiediamo (Mt 6,8)? E ancora: che vantaggio ci sarebbe nel servire Dio, nell'osservare i suoi comandamenti quando i giusti e gli innocenti continuano a soccombere sotto i colpi dei superbi che prosperano e restano impuniti (MI 3 ,14)? Come possono non vacillare i nostri passi, come possiamo non invidiare il malvagio e il prepotente ai quali tutto va a gonfie vele? Essi non conoscono sofferenza, il loro corpo è sano e pasciuto, mangiano bene, «trasuda iniquità» dal loro grasso e scherniscono, implacabili, se non altro col loro aspetto (Sal 73,2-7). 
Il credente è misurato sulla capacità di addossarsi il peso di queste domande che lo spingono ai confini della fede. Egli è costretto dalla speranza che porta in cuore ad aprire i propri occhi là dove Dio sembra far pesare da troppo tempo la sua assenza. Non può essere a causa di una lontananza, per così dire, pedagogica di Dio, che siano accaduti e continuano ad accadere tanti orrori nella storia, non può convincere l'aneddoto delle «orme» secondo il quale è proprio quando si è soli che Dio ci è più vicino e ci porta sulle sue spalle. Gesù ha avuto il coraggio di dire: «Perché mi hai abbandonato? ». 
Per troppo tempo si è insegnato che è giusto soffrire senza lamentarsi, che è giusto rassegnarsi di fronte al dolore, quasi che tutto corrisponda alla volontà di Dio, a un fine incomprensibile e tuttavia: altissimo e colmo di armonia. Non le invettive di Giobbe, ma le asserzioni edulcorate e giustificatorie dei suoi amici sono state, purtroppo, maestre nei secoli. Tentare di scagionare Dio al cospetto del male che ci opprime, è un lasciare ampio spazio alle forze anonime del destino, al ragionamento pagano che pone il fato al di sopra di tutto, anche di Dio. li male deve restare male, lo scacco, anche se coinvolge Dio, deve restare scacco. Sarà Giobbe, l'accusatore, ad avere infine ragione davanti a Dio, non i suoi ossequiosi amici (Gb 42,7). Anche la croce del Cristo, fatta sovente passare per simbolo di sofferenza accolta, è esempio sommo di opposizione e di lotta: Gesù in croce non si rassegna, e solo disponendoci a urlare come lui possiamo dire di prendere sul serio Dio, noi stessi e il dolore degli uomini. 
Nel romanzo La peste di Albert Camus, appaiono due personaggi che reagiscono in maniera molto diversa di fronte alla tragedia che si sta consumando intorno a loro. C'è Paneloux, il prete, che considera la peste niente altro che prova, castigo teso a convertire l'uomo. E poi c'è Rieux, un medico che aveva seguito minuto per minuto l'agonia di un bambino divorato dal morbo che aveva assunto, sul letto di morte, la «grottesca posa di crocifisso ». Paneloux si rassegna, accetta e cerca di amare l'incomprensibile. Non così il medico che insorge e dice: «No, padre. Io mi sono fatto un'altra idea dell'amore. E rifiuterò fino alla morte d'amare questa creazione in cui i bambini sono torturati». 
È dalle profondità della propria fede che il credente coglie lo scandalo e pone le sue domande più radicali in mezzo al male che attanaglia l'uomo e il creato. Sono le domande di Elia, di Geremia, ai quali., alla fine, non restò che invocare la morte o maledire il giorno che li aveva visti nascere. Credere in Dio e invocare la morte? Credere in Dio e maledire la propria nascita? Francamente tutto ciò ci suona strano, incomprensibile, e forse perché non siamo più ancorati, con la nostra fede, alle questioni decisive dell'esistenza. La «Parola del Signore» è ben lontana dall' esserci «motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno» (Ger 20,8). La fede, infatti, non facilita la vita, piuttosto la inasprisce. Kierkegaard sosteneva che credere era come «andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro!» (Diario). 
La fede ci apre gli occhi e ci rende coscienti del male e delle difficoltà che serpeggiano nel mondo. E’ fatto di fede il grido ribelle di Giobbe che chiede ragione a Dio del tormento. «Egli sghignazza sulla tragedia degli innocenti» (Gb 9,23): ecco cosa dice di Dio la fede di quest'uomo immerso nelle roventi braci del dolore. Il credente ha davanti a sé la perfezione e il bene promessi mentre le carni sue e dei viventi sono straziate dalla malattia e dal dolore. L'uomo di fede per essere autentico non può accontentarsi di poco: l'orrore lo deve sentire addosso, sentirsene schiacciato. Non è fede quella di chi ha la risposta che placa a portata di mano, l'armonia che aggiusta ogni cosa e fa tornare i suoi conti. La fede deve farsi carico fino in fondo della domanda che inquieta e dispera, come altrimenti apparirà vera agli occhi di chi soffre? Chi sta al sicuro delle sue risposte, chi se ne sta tranquillo e pacificato nella botte di ferro del suo credere senza problemi, non ha nulla a cui tendere seriamente, ed è sordo e cieco di fronte al dolore di Dio e delle sue creature. 
È la fede che fa invocare quando il nodo stringe alla gola. Chi non la possiede, alla fine si raggomitola nel proprio cantuccio, rassegnato e triste: non può avanzar pretese colui che annaspa nel nulla. Non patisce il buio chi non ha nostalgia di luce, chi non sa che cosa è la luce. «Notte del mondo è », diceva Heidegger, «non la mancanza di Dio, ma il fatto che nessun uomo soffre più di questa mancanza». Il rabbi chassidico Hanoch diceva che il vero esilio dei figli d'Israele iniziò proprio quando essi avevano imparato a sopportarlo, a non soffrirci più sopra. Nella rassegnazione il credere inaridisce e muore. 
La fede poi non è sicura di nulla: è invocazione, domanda, un movimento del cuore che fin dalle radici sa decidersi per il sì piuttosto che per il no. Per il credente l'ultima parola non è stata ancora detta, ma tutto è ancora tragicamente sospeso, in attesa di quella pienezza di vita che da un momento all'altro potrebbe irrompere nel mondo. Senza rischio, la fede e la carità si eclissano. Il regno di Dio non viene con calcolo matematico. L'uomo di fede è teso come una corda di violino: Tiqwah è parola ebraica che può significare sia speranza che filo; e la ritroviamo in Giobbe, per esprimere la velocità dei giorni che svaniscono senza lasciare un filo di speranza (Gb 7,6). Nella fede non c'è certezza, c'è tensione. E si viaggia - per usare un'immagine di Neher - su un ponte la cui arcata potrebbe anche spezzarsi: non è detto che sicuramente s'arrivi dall'altra parte, nulla garantisce l'approdo sperato. C'è il rischio del crollo, c'è il rischio che negli abissi della morte si resti sprofondati per sempre. Se i morti non risorgono vince il silenzio delle tombe e Dio resta sconfitto (l Cor 15,13-14). La fede deve vivere accanto al suo Dio crocifisso, consapevole che solo la povertà e il dolore gridano e sperano. Chi desidera il «volto di Dio» nel vuoto e nella sete, e non ha che un goccio d'acqua nel bicchiere, sa che quel goccio è preziosissimo, e tale proprio perché capace di aumentarla la sete: labbra riarse si aggrappano al bicchiere vuoto. La guerra del Regno ci chiede di non cedere, di essere forti; e tuttavia è proprio quando si lambiscono i limiti del proprio credere, quando si è a terra sfiniti, che ci è dato di essere più vicini al Dio dei Vangeli. Alla fine, quello dei credenti non sarà un resto soltanto, ma un resto agonizzante che grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». 
E la fede può anche sfuggire. Sì, se il Signore non ci sostiene, la fede possiamo perderla, il ramo a cui ci aggrappiamo potrebbe anche stroncarsi e noi precipitare. È vero, come dice Paolo (l Cor 10,13), che Dio, assieme ai pesi e alle prove, ci dà anche la forza per sopportarli, ma non si è mai sicuri che basti per arrivare fino in fondo. Ci si affida, ecco tutto. Ciò che dà Dio è un dono di ogni giorno, e il dono va atteso camminando sul filo del rasoio, sperando che il dono arrivi, come un giorno arrivò la «manna» nel deserto, quella che poteva essere solo attesa e desiderata giorno per giorno, quella che imputridiva nel paniere di chi tentava di raccoglierne anche per il giorno successivo. Del domani non sappiamo nulla, e dell'oggi deve bastarci la pena (Mt 6,34): il futuro è nelle mani di Dio che ogni giorno col suo pane ci nutre. 
La fede è dolce come un dono: è via difficile, è porta stretta, e tuttavia con cos' altro può cambiarla chi ha sperimentato tali terribili dolcezze? E’ «dolce» il «giogo» del Signore (Mt 11,30), ed è così che ci inchioda. Si è fatta esperienza di qualche cosa che ci è finito in fondo al cuore, qualcosa di vivo che di continuo tormenta e non dà pace. Faticosissima è la via dell'impossibile, ma non meno lo è l'abbandonarla avendo colto là, da qualche parte, i bagliori della luce messianica, il profumo del «vino nuovo ». 
C'è una parabola che Gesù racconta nel Vangelo di Luca, «sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi ». Vi si parla di una vedova che continua a implorare, a importunare un giudice duro di cuore e d'orecchio il quale, a motivo dell'insistenza di lei, alla fine deciderà di muoversi e di farle giustizia. Non così è Dio, dice Gesù, poiché egli agisce «prontamente» e non fa aspettare a lungo quelli che lo invocano (Lc 18,1-8). Nella notte in cui Israele è uscito dall'Egitto, egli ha vegliato assieme al suo popolo (Es 12,42). Dio è un custode che vigila e non si addormenta (Sal 121 ,4). 
Ma possiamo ancora dirlo? Dov'era il Dio che vigila quando i suoi figli lo hanno invocato ad Auschwitz? No, non ha avuto la prontezza necessaria, non ha mostrato il suo volto all'oppresso: a generazioni di credenti gli si sono consumati gli occhi nell' attesa di una salvezza mai venuta. E tutto ciò deve rimanerci crampo che impedisce pacifiche distrazioni. Il « prontamente» della parabola evangelica può assomigliare a una beffa dopo duemila anni in cui «vedove» a milioni hanno continuato inutilmente a bussare alla porta. 
Dovremmo essere voce del nostro dolore e non dare pace al nostro Dio, rammentargli di continuo quanto ci ha promesso, non prendersi riposo e nemmeno a lui darne, importunarlo, assillarlo, finché non ci ha esauditi (Is 62,6-7). «Svegliati, perché dormi, Signore?», osa dire il salmista (Sal 44,24). Nel mare in tempesta i discepoli erano angosciati, non sapevano più cosa fare, le onde irrompevano, la barca affondava e lui, il Maestro, se ne stava invece «a poppa, sul cuscino, e dormiva» (Mc 4,38). Se Dio dorme va svegliato. La sua stessa potenza deve essere risvegliata (Sal 80,3). La redenzione è anche in qualche modo il risveglio di Dio quando, «come un prode assopito dal vino» si desterà dal suo sonno per vendicare i suoi amici e salvarli (Sal 78,65). Dio si stanca, ha necessità di riposarsi, come nel settimo giorno della creazione. Non dimentichiamoci mai tuttavia, che di là il nostro giudice è un Dio abbandonato, inascoltato, calpestato, un Dio che ha potuto salvare Israele soltanto distruggendo gli egiziani, anch' essi in qualche modo suoi figli, come ci ricorda un famoso midrash. Dobbiamo pregare sempre, senza stancarci, ma l'unica preghiera che Gesù ci ha insegnato dice che Dio ha tuttora bisogno di essere riconosciuto santo, di essere re, di avere creature che conoscono e compiono la sua volontà. Dio ha bisogno di essere Dio, e ha bisogno che gli chiediamo di esserlo. Senza ascoltare i brividi del suo soffrire di là dalla porta, non possiamo pregare come lui vuole, non possiamo amarlo con tutto noi stessi. 
La fede è fiducia in colui che proprio dal luogo della sua impotenza può salvare. Fede è bussare alla porta di qualcuno che amiamo nella sua povertà, qualcuno che sappiamo sofferente ma che, al tempo stesso, potrebbe in un attimo - ed è qui che si gioca la fede - risollevarci, redimerci, liberarci da tutti i mali. È forse questa la santa ostinazione della vedova importuna. È di questa fede che Gesù ha bisogno e che forse non troverà più nel giorno in cui verrà sulla terra (Lc 18,8).