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 Se Dio muore tra gli sbadigli dell'uomo
Daniele Garota
(Jesus, n° 5, maggio 2007)

Sergio Quinzio - sull'onda dell'ebraismo più sensibile ai bisogni che ha Dio accanto a quelli che ha l'uomo, sull'onda di pensatori cristiani come Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij e Bloy, solo per citarne alcuni - aveva scritto di getto, sul fini­re della sua vita, un libricino che suscitò un certo dibattito: La sconfitta di Dio. Per Quinzio aveva senso parlare della sconfitta di Dio proprio perché intorno a sé non vedeva che credenti compiaciuti con croci esposte dappertutto quali vessillo di militanza e di vittoria, dunque lontanissime dal dolore di Dio, dalle attese di Dio. Se avesse infatti visto la gente andare in direzione contraria - come confessò al teologo Severino Dianich - allora avrebbe piuttosto insistito su parole di consolazione, additando le primizie in atto, la tenerezza di Dio, della quale diceva di avere fatto «esperienza reale».
Quella della sconfitta di Dio per Sergio non era dunque un'affermazione, e nemmeno un'ipotesi. Se lo fosse stata sarebbe caduto, e lo sapeva, fuori dall'orizzonte della fede. La sua era solo una domanda fatta col cuore in gola, combattendo a fianco del suo Dio. Attento lettore dei segni dei tempi e in lotta costante col «principe di questo mondo» (Gv 12,31), Quinzio quotidianamente vegliava nell'attesa del ritorno del suo «re» (Lc 19,12; Gv 18,37), e senza mai lasciarsi imbrigliare da quella mania tutta fanatica del calcolo della fine, percependo piuttosto, in un tempo che corre sempre più in fretta nella storia moderna, la fatica di Dio. A fianco del Dio guerriero (non a caso prima dell'ultimo capitolo del suo libro "La sconfitta di Dio"c'è quello su "La guerra di Dio"), che strenuamente combatte avendo promesso redenzione e vittoria sulla morte, egli vedeva molte vittime stese sul campo, vedeva Dio stesso in difficoltà, insanguinato, disgustato dall'orrore del mondo, molto bisognoso di aiuto. Ecco perché ebbe l'ardire di concludere il suo libro dicendo: «Mentre Dio è "sconfitto"( ... ) lasciato cadere dalla croce come un inutile brandello e dimenticato, noi con la nostra fede saliamo sulla croce, combattiamo l'ultima lotta, l'agonia». E così facendo, nell'estremo dolore, compiremo «ciò che ancora manca alla passione di Cristo e avverrà il supremo capovolgimento». Ecco, proprio in questo punto Quinzio ci conduce sull'orlo di un abisso da vertigine, là dove impotenza e potenza estrema si toccano, e così l'umiltà e il coraggio, nell'unica guerra che vale la pena di combattere ormai nel mondo, per l'uomo e per Dio. E continua: «Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio. Dio che si è offerto a noi, che aspetta da noi la salvezza, è un Dio che dovremmo perfettamente amare, ma ci ha reso troppo stanchi, delusi, infelici, per poterlo fare». Queste parole suscitarono le reazioni più disparate quando, una quindicina di anni fa, diventarono pubbliche, da quelle dell'alto prelato che pur timidamente lo ringraziava, a quelle dell'autorevole teologo che lo tacciava di eresia, fino ad arrivare a Norberto Bobbio che disse di essere rimasto «trasecolato» di fronte a un uomo che si era spinto a fare domande simili senza rinunciare alla propria fede. Ho conosciuto Sergio Quinzio da vicino, ho toccato con la mano il suo petto vibrante prima che si accingesse a dire queste cose di fronte a una sala gremita di gente e dico: solo una fede robusta può reggere negli anni la tensione messianica dell'attesa nel costante timore di perderla, solo chi si aspetta l'impossibile da Dio sa guardare gli occhi di un cane che muore, la durezza della guerra contro il male e la morte che Dio sta ancora combattendo, fino a pensa­re la possibilità di una sua sconfitta. Solo un uomo che ama Dio riesce a cogliere quanto sia lontano dall'amarlo davvero. Ma dopo quindici anni, quale seguito ha avuto questa forte intuizione di fede vissuta in prima persona? Quale eredità è stata raccolta tra gli studiosi che pure si sono avvicinati per molti versi al pensiero di Quinzio? A me pare, sia pure in mezzo alle migliori intenzioni e ai vari gesti di benevolenza e ricordo (poiché Quinzio continua a essere ricordato, anche tra molti giovani), una davvero esigua eredità, giacché, non può assolutamente essere, quella della sconfitta di Dio, una tematica che diventa scuola di pensiero, una intuizione sistemabile in qualche modo all'interno di questa o quella tendenza. L'idea di un Dio sconfitto appartiene alla forma dell'invocazione e del grido, appartiene alla domanda più radicale di salvezza rivolta con timore e tremore alla potenza di un Dio che è risorto ma che per salvarci ha dovuto prima passare attraverso gli orrori della crocifissione e della morte.
A questionare con Quinzio giungevano anche i filosofi. Pensiamo a Gianni Vattimo, che come Quinzio percepiva le radici della fede cristiana nell'esperienza moderna della secolarizzazione, anche se poi, lasciando l'amico accanto al Dio della sconfitta, sceglieva di avviarsi verso il "pensiero debole". Ma pensiamo anche a Salvatore Natoli, che ne aveva compreso tutta l'energia di credente, ma da lontano, preferendo all'impossibile, promesso da Dio, la sfera neopagana del possibile e dell'abbordabile. O a Massimo Cacciari, che vedeva lo stare di Quinzio all'interno di una Chiesa che ritarda l"'ineluttabile" lottando «per sopravvivere alla morte del suo Dio», una diretta conseguenza alle proprie affermazioni di impotenza e sconfitta di Dio, senza forse rendersi conto che quelle di Quinzio lungi dall'essere affermazioni erano terribili domande. Domande fatte da chi non si era certo limitato a fare della fede una materia di studio, ma, come ebbe a dire Carlo Bo sul Corriere dello Sera il giorno successivo alla sua morte, «una ragione di vita», una ragione che riusciva a trasformare «la lettura in sangue». Prima di parlare di sconfitta di Dio, bisognerebbe subito chiedersi: la sconfitta di quale Dio? Per Quinzio era il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo. Niente a che vedere dunque con il dio di Aristotele o di Platone, o con una salvezza spirituale, intima, disincarnata, come quella prospettata dalla mistica e dall'idea dell'immortalità dell'anima. Nella Bibbia la salvezza è qualcosa di vi­sibile e di pubblico, salvezza del mondo e della storia. Il Dio biblico è un Dio che fa promesse concrete di liberazione a un po­polo, all'intera umanità. E per mantenere le sue promesse deve combattere con tutte le forze contro avversari terribili: il male, la morte,la caducità del creato intero. E in Gesù, Parola fatta carne, Dio combatte da terra, da uomo che tribola pagando il suo prezzo se è necessario, non stando beatamente seduto nei troni celesti a mo' degli apatici dei dell'Olimpo. L’idea di sconfitta di Dio viene da lontano, da quando uno scrittore sacro osò regalarci parole in cui è detto che Dio si pentì di avere creato l'uomo e che poi si pentì di averlo distrutto col diluvio. Se da un cespuglio di rovi che brucia Dio dice a Mosè di avere udito le grida del suo popolo oppresso che vuoi liberare, i pensatori religiosi ebrei dicono che ha parlato da lì, dai rovi, proprio perché anch'egli soffriva col suo popolo che soffriva. La tradizione ebraica pensando alla redenzione del mondo parla dell'arcata di un ponte che si può spezzare, nel senso che la vittoria di Dio non è scontata: il ponte potrebbe rompersi e noi tutti precipitare nella sconfitta, anche Dio. Dai giorni del Golgota sappiamo che Dio è capace persino di abbandonare se stesso fino a morire pur di non abbandonarci. Dio ha pagato e paga il suo prezzo avendoci creati e resi liberi, avendo creato tutto come ha potuto, improvvisando sul posto, rimaneggiando più volte la sua creazione ­come dice ancora la riflessione religiosa ebraica - fino a lanciarla in avanti dicendo: speriamo che tenga. Conservare la fede nel cuore quando si è in attesa del Dio che salva, è «buona battaglia» da combattere proprio perché anche Dio combatte. Fede è agonia - come ben sapeva anche De Unamuno -, la storia è l'agone in cui il credente combatte contro le potenze dell'incredulità in attesa che Dio vinca. Dio stesso spera, ha bisogno di vincere, di essere aiutato a vincere. Di fronte a chi vive l'idea di un cristianesimo bello, gioioso e gratificante, un cristianesimo in cui tutto è da guadagnare e poco da perdere, c'è ancora chi si ostina a vivere invece un cristianesimo che ha al suo centro il Dio crocifisso. Solo tenendo insieme la divinità e l'umanità del Cristo, solo tenendo insieme onnipotenza e povertà, grandezza e piccolezza, vittoria e sconfitta, si può arrivare a cogliere in profondità quel «mistero della fede» che ha sugli altari il segno più vero del prezzo pagato da Dio per salvarci. Nella fede si cammina incespicando nel buio, «a tentoni», dice Paolo. Solo partendo dalla consapevolezza profonda di una fede che lotta contro le forze del male e dell'incredulità, insieme ai sofferenti della terra, si può arrivare a parlare di fede rivolta a un Dio che rischia la sconfitta. La fede si può perdere e il peggior modo di perderla è quello di non accorgersi di averla perduta. Si può essere ciechi pensando di vedere, ma quello, come diceva Gesù ai saputelli religiosi del suo tempo, è il peggiore dei peccati, perché ti fa credere di essere salvo in mezzo a un mare di ingiustizia e di morte, perché non ti porta più a bussare alla porta del giudice per gridargli forte nella notte: «Fammi giustizia!». Chi perde la fede è uno sconfitto, perché su di lui il mondo ha avuto la meglio, e ha avuto la meglio proprio perché muore «sapendo di essere per intero mortale, senza risurrezione possibile», accogliendo la morte «con tranquilla fierezza, come un dio» (I fratelli Koramozov). La sapeva lunga Dostoevskij.
Si può pertanto continuare benissimo a vivere anche senza la fede, senza la fame di redenzione, senza il pane del Regno, proseguendo più o meno allegramente, magari tra gli sbadigli. Sì, Dio può anche morire tra gli sbadigli umani. È la fede, invece, che lungi dal risolverle te le complica le cose, mettendoti inquietudine nel cuore. La fede è fondamento che ti spinge a sperare l'incredibile, l'impossibile, ciò che ragionevolmente non si dovrebbe credere. Uno che ti dice che soltanto se muori vivrai, è un Messia difficile da seguire. Ma se ci si allontana da lui si perde la «buona battaglia».