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La
sindrome del santo.
di Lidia Maggi (in ROCCA 16/99 Pag. 49)
Non colpisce solo la religiosità popolare fatta di devozioni, ricerca del
sensazionale, dove il sacro diventa spesso un prodotto da supermercato...
Cresce e si sviluppa anche all'interno di quei luoghi che conosciamo meglio
per le nostre frequentazioni: gli ambienti cosiddetti «impegnati». Attacca
facilmente coloro che si sono gettati anima e corpo per «la causa». E' la
sindrome del santo. Malattia che porta il soggetto affetto a sentirsi, solo
vero militante rimasto. Tale sindrome impedisce qualsiasi forma di
aggregazione e condivisione. Nessuno è ritenuto all'altezza. Un caso
interessante riguarda un certo Elia, profeta dell'Iddio vivente. I primi
segni della malattia compaiono alla vigilia di quella strana teofania
conosciuta come «voce di sottile silenzio» (I Re 19). Ha vinto le olimpiadi
sacre. Ha umiliato e ridicolizzato i suoi concorrenti, i profeti di Baal,
con un 'ironia sferzante: «Gridate più forte perché dio forse sta
meditando o è indaffarato o è in viaggio o magari si è addormentato e deve
essere svegliato» (I Re 18,27). Nonostante le urla dei poveri profeti,
Baal non si è fatto vivo, mentre il Dio di Israele, all'invocazione di Elia,
ha subito risposto con generosità e fragore, facendo piovere fuoco dal
cielo. Elia ha vinto. Non pago di tale vittoria, scanna con le sue mani i
450 profeti del dio perdente. Subito dopo però ritroviamo il nostro eroe in
fuga, confuso, spaventato, solo e depresso. Rilegge in chiave negativa
tutta la sua vicenda ed è in preda a manie suicide: «Ora basta, o
Eterno! Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri»
(1 Re 19,4). Così, paradossalmente, mentre scappa per salvare la vita,
desidera morire. E' in queste condizioni che Dio lo incontra fuori dai
riflettori per iniziare la terapia. Non è servita la grande dimostrazione
di potenza a rassicurare Elia e a suscitare fede nel popolo. Dio allora
prova ad utilizzare un altro linguaggio che spinga il profeta a cercarlo non
solo nei luoghi ortodossi delle apparizioni, ma in terra di confine.
Linguaggio pericoloso perché simile al silenzio dell'assenza ben conosciuto
dai poveri profeti di Baal. Non più il sensazionale con le grandi
manifestazioni della natura: fuoco, vento, terremoto, diluvio, ma... un
sussurro di silenzio, una voce che si può udire solo nel cuore: «Che fai qui
Elia? (v. 1 3) non dovresti essere in pista a lottare con gli altri per me?
Perché fuggi e getti la spugna? non sei forse fuori posto qui?» Dio già ad
altri ha dovuto fare da terapeuta: ad Adamo (Adamo, dove sei?), a
Caino (Dov'è tuo fratello?). Anche Elia ha bisogno di prendere
coscienza che ciò che prova è legato alla sua particolare visione delle
cose, deve capire dove le sue azioni e il suo sentire lo hanno condotto. «Sono
stato preso da una grande passione per te, perché i figli di Israele hanno
abbandonato il tuo patto, hanno demolito i tuoi altari e ucciso con la spada
i tuoi profeti e sono rimasto solo» (1 9,14). Elia nella sua sindrome è
convinto di essere l'unico rimasto fedele, si considera l'ultimo giusto.
Nessuno ama Dio come lui, tutti sono infedeli, pertanto nessuno è degno di
lottare al suo fianco. Si sente Atlante con il peso del mondo sulle spalle.
Come non sentirsi depresso in queste condizioni psicologiche! Le cose però,
dal punto di vista di Dio sono più ampie, meno tragiche. «Sei veramente
sicuro Elia di essere rimasto l'unico fedele a me? La tua grande passione
non ti avrà reso un pochino miope, incapace di vedere che ci sono altri che
mi amano? Costoro non sono certo della tua stessa stoffa, giganti come te
Elia, e tuttavia non mi hanno tradito! Ci sono settemila persone rimaste a
me fedeli: non è un gran numero, è solo un residuo rispetto all'intero
popolo, ma tu non lo hai nemmeno considerato. Apri gli occhi, Elia! Tu
giudichi l'impegno degli altri sulla tua idea di dedizione; ma tu non sei la
misura del mondo. Perciò adesso alzati, torna indietro, c'è ancora molto da
fare. Non puoi e non devi fare tutto tu, fídati anche degli altri. A tal
proposito il primo compito che ti lascio è proprio quello di passare il tuo
incarico ad un successore: Eliseo» («ungerai Eliseo come profeta al tuo
posto» v. 16). Contro il silenzio inopportuno di Baal, Elia ha usato
un'ironia feroce. L'ironia di Dio, molto più leggera, terapeutica, consiste
nella capacità di usare lo stesso silenzio degli idoli muti per raggiungere
il cuore del profeta. Nel silenzio Elia incontra Dio, riconosce la sua
visione troppo tragica della storia, si converte e supera la malattia. Se un
gigante come Elia è riuscito a guarire grazie alla terapia di Dio, c'è
qualche speranza anche per quelli tra noi affetti della stessa sindrome, per
quanti tra noi giudicano la vocazione degli altri sulla propria. Sono
persone coraggiose, generose, ma incapaci di collaborare, di riconoscere
altri modi di vivere l'impegno, la fede; sono giganti tutti d'un pezzo che
rischiano di sgretolarsi nella solitudine e di soffocare con la loro
«santità» quanti, pur nella loro inadeguatezza «sono rimasti fedeli». Quando
la «voce di sottile silenzio» ci interpella, impariamo a guardare oltre, a
cercare Dio anche nei «non-luoghi», cambiamo sguardo e ci accorgiamo degli
altri settantamila che, nel silenzio, continuano a remare per resistere alle
acque del caos.
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