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 DIRE DIO AL FEMMINILE
Lidia Maggi, pastora e teologa della Chiesa Battista.

(Da Cem Mondialità Nov 2004)

La mia stagione fondatrice

Sono una ragazzina alla periferia di una grande città. Vivo nella povertà, non solo economica, anche culturale. Il contesto familiare è difficile. Intono a me ci sono però operatori sociali e missionari battisti che cercano di portare il proprio contributo in una situazione di disagio. A quattordici anni la Parola mi raggiunge e mi afferra. Mi innamoro di Gesù del suo modo di parlare, dei suoi gesti, della sua vita esemplare. E' un'esperienza di fede forte, intensa, totalizzante. Tuttavia la conversione è tutt'altro che un incontro di libertà. Oggi oserei parlare piuttosto di fede-devastante. Nell'età in cui avevo bisogno di strumenti che mi permettessero di creare il giusto distacco con la mia realtà, per poterne uscire e spezzare alcuni vincoli perversi, è arrivato questo vissuto di re-ligione che mi ha legato. E' stato un laccio: mi rendeva sottomessa laddove avrei dovuto ribellarmi. Ha bloccato quel processo di emancipazione e di crescita che probabilmente avrei spontaneamente fatto senza lo sguardo della fede, il cappello della religione che di continuo mi rimetteva al mio posto.

Conoscete quel gioco narrativo che invita il lettore ad ascoltare la stessa storia da un'altra prospettiva? Si racconta al bambino la favola di Cappuccetto Rosso dal punto di vista del lupo per permettergli di comprendere che ci sono punti di vista diversi. Quello che a me è accaduto è che questa storia, questa avventura di fede, io l'ho ascoltata e ricevuta con lo sguardo dell'altro. Ho introiettato le ragioni del “prossimo” prima ancora di capire le mie. Ho dunque imparato ad accettare situazioni che mi facevano male, e peggio, a giustificarle e tollerarle proprio in nome della fede. Purtroppo questo accade a molte donne.

Perché condivido con voi questa tragica stagione fondatrice? Per comunicarvi che dietro la necessità di dire la fede, il Dio al femminile e l'esperienza del sacro, non c'è un'istanza intellettuale, ma corpi, voci, donne e ragazze desiderose e bisognose di camminare nella libertà. Uomini e donne che aspettano di essere liberati. Ho imparato dalla mia vicenda che le grandi parole della fede non sono affatto neutre. Anzi, che una pretesa neutralità della Parola può davvero causare effetti tutt'altro che liberanti, snaturare il messaggio, tradirlo. Ogni concetto teologico pertanto ha bisogno di essere ridefinito per raggiungere chi ascolta. Pensate per esempio alla categoria del peccato. Nella tradizione riformata è quell'atteggiamento di sfiducia e disubbidienza nei confronti di Dio. E' questo che mi è stato annunciato. “Sei peccatrice e lontano dalla grazia, tuttavia Dio ti ama e ti raggiunge, ti viene incontro in Gesù il Cristo”. Per me, giovane donna che si confrontava in casa con situazioni di disagio e oppressione, il peccato non era certo l'incapacità di essere sottomessa e di onorare i genitori, piuttosto la poca audacia, l'incapacità di alzare la testa e riconoscere che ogni creatura è stata fatta ad immagine di Dio. Nel mio atteggiamento sottomesso e fatalista tradivo questa dignità, ma nessuno me lo ha fatto notare. Non esiste un modo neutro di annunciare la fede dunque. Gesù parlava al vissuto specifico di ogni persona che incontrava. Ai poveri dava dignità, mentre ammoniva i ricchi, le persone religiose, coloro che troppo facilmente si sentivano a posto con Dio. Questa consapevolezza, acquisita proprio nel rapporto con Dio e la sua Parola ha chiare conseguenze pastorali. Nella mia comunità, quando annuncio la Parola cerco ora di fare attenzione a chi mi rivolgo.

Il Dio biblico come ospite

Come sono riuscita a uscire dal circolo vizioso della fede-sottomissione? Con la stessa fede. Il percorso con Dio, nonostante l'infelice prologo era iniziato. Leggevo la Scrittura. Una lettura vorace, appassionata. Mi ammaliavano le storie bibliche, rileggevo e imparavo a memoria interi brani che mi accompagnavano nella giornata. Scoprivo la Bibbia come un mondo popolato di gente che aveva, prima di me, provato a camminare con Dio. Il Dio biblico mi si rivelava come l'ospite che abita le case, le famiglie. Accompagna le vite di coppie litigiose ed imperfette: Sara e Abramo, Giacobbe, con le sue due spose Lia e Rachele, Giuseppe e i suoi fratelli. Un Dio più vicino alle case che ai santuari. Mi inquietavano tuttavia proprio i modelli familiari. Com'era possibile che non ci fosse una condanna esplicita alla poligamia, al modo in cui le donne venivano trattate? Avevo iniziato a fare i conti con il paradosso biblico: una Parola alta incarnata in società patriarcali, dove le donne raramente occupano la scena principale e la presenza maschile è a dir poco dominante. Questo avrebbe dovuto scoraggiarmi. Suscitava invece in me sentimenti ambivalenti. Mi chiedevo come era possibile che alcune pagine liberanti convivessero accanto a storie di stupri e violenze. Fui persino tentata di farmi un mio canone personale, di decidere quale libro biblico era Parola di Dio e quale invece non lo era.

Lo stare delle donne della Bibbia

Sono state proprio le donne della Scrittura a correggere questa tentazione. Le donne dei vangeli che accompagnano Gesù fino alla fine, non lo lasciano nemmeno sotto la croce, quando la strada sembra interrotta, gli uomini sono fuggiti e tutto appare ormai finito. “Stare”. Un verbo caro alle donne. “Sto con te, Signore, continuo ad abitare la tua Parola, anche quando non la capisco, quando mi scandalizza. Rimango anche se non tutti i conti tornano”. Questo rimanere ha richiesto coraggio e disciplina. Abitando la Bibbia diventavo “figlia della Scrittura” apprendevo quel linguaggio come una bimba impara la lingua materna. Entravo in dialogo con i tanti autori biblici che discutevano di giustizia, di felicità, di Dio e con Dio. La Bibbia per molti tratti rimane un libro sessista. È il rischio di una parola che acquista voce, suono in determinati contesti storico-culturali. Emerge tuttavia uno specifico sottovalutato da chi frettolosamente visita la Scrittura: la grande voglia di discussione che anima gli autori biblici. Si pensa spesso alla Bibbia come ad un libro normativo. Invece è il luogo dove si tessono discussioni, si sollevano domande, domande di senso che spesso non trovano una risposta univoca.

Ho trovato nella Bibbia poche voci di donna - che comunque ci sono e necessitano della nostra cassa di risonanza per non rischiare di rimanere afone -. Accanto a questo però ho imparato proprio dalla Scrittura a porre domande, a questionare la mia realtà per cambiarla. È stata proprio la dialettica biblica che mi ha sollecitato a discutere: “Venite, discutiamone insieme” dice Dio per bocca del profeta. La Bibbia non è solo una raccolta di libri, uno accanto all'altro, essa è più simile ad una grande rivista dove si apre un dibattito, le persone intervengono, aprono rubriche, scrivono articoli di fondo… La Scrittura è percorsa da una discussione intensa e profonda sui grandi temi della vita, la giustizia, il male…

Rimane il sessismo, da grattare per raccontare la storia di un Dio che cammina e discute con la gente. I problemi si fanno ancora più complessi se poi si percorre la storia delle interpretazioni e degli effetti nella vita delle chiese. Questa parola è stata raccontata, interpretata, predicata dagli uomini. E non uomini qualunque, ma “maschi al quadrato” per usare un'espressione di M. Cristina Bartolomei. Ovvero maschi che abitano il sacro e che sono acculturati.

Ora le cose stanno cambiando. Noi donne leggiamo, spieghiamo e proclamiamo la Parola e questo produce degli effettivi cambiamenti. Ciò non è dovuto ad una particolare strategia. A noi donne succede di leggere la Scrittura. Per il solo fatto che questo accade, noi diventiamo attive e portiamo al testo le nostre domande, le nostre istanze. Quando noi donne, col nostro corpo, entriamo nella Bibbia lo facciamo con passi di donna, leggiamo con occhi di donna. Nessuna metodologia se non quella di esserci. E ritorniamo allo stare delle donne. Certo, poi ricorriamo a tutta una serie di strumenti per sollecitare il testo: come ad esempio l'ermeneutica del sospetto. Questo avviene però in seconda battuta.

Non leggiamo ed insegniamo la Scrittura solo per noi: lo facciamo anche per Dio e per i nostri fratelli. Dio ha diritto ad essere ascoltato con due orecchie e proclamato da due voci, voci di uomo e di donna Dio parla in stereo. Una voce sola annuncia, una parola mutilata.

È più facile liberare la Scrittura dal monopolio di pochi esperti se le donne riprendono ad abitarla. La Parola ha subìto una prigionia. La Bibbia è diventata una “cosa di Chiesa”. Abbiamo delegato la gestione del sacro alle chiese. Ma Gesù frequentava le case più che i luoghi di culto, insegnava per le strade, a tavola, parlava a gente comune e soprattutto nelle case. Far ritornare la Parola nelle case e non delegare l'insegnamento biblico solo alle chiese, può essere il contributo delle donne che ritornano a popolare la Parola. Non è permesso essere passive: bisogna avere il coraggio di discutere fino a scontrarsi con Dio. Anche questo è un tema squisitamente biblico, tanti grandi della Scrittura lo fanno: Tamar di Giuda che si traveste da prostituta per reclamare i propri diritti, Giobbe, che pretende, nella sua sofferenza di incontrare Dio direttamente per avere da lui spiegazioni su quella sofferenza che sperimenta come insensata. Dio non chiarirà tutti i dubbi di Giobbe è vero, tuttavia si degna di presentarsi e parlare direttamente con lui. E vi sembra poco?

E cosa dire di Sara, che si permette di ridere di Dio, dopo anni di attesa di un erede che tarda ad arrivare? Quel riso incredulo, amaro, sarcastico, di chi ha visto scorrere la propria vita, ritrovandosi ormai vecchia, senza la gioia di un figlio è una protesta che sollecita Dio a donare finalmente quanto da tempo aveva promesso. Il Dio biblico è un Dio che discute. Camminare con lui significa certo, fede ed obbedienza, ma accanto alla capacità di sollecitarlo a vedere le cose da un altro punto di vista, proprio come fa la donna siro-fenicia che, con le sue domande sollecita Gesù ad uscire da una visione limitata della grazia di Dio e lo porta a scoprire la forza universale della sua chiamata:

Gesù e la donna siro-fenicia

In tanti episodi evangelici si affronta il tema del pregiudizio altrui nei confronti di Gesù; c'è invece un solo racconto dove viene trattato con coraggio ed autoironia il pregiudizio del Messia stesso, che si scioglie solo con la forza della discussione. Gesù non ci fa una gran bella figura ed è messo a tacere dall'arguzia teologica di una donna. Ne parla Marco nel capitolo 7: in un apparente racconto di guarigione emergono le tensioni tra due culture, due popoli due mondi: un uomo e una donna. Gesù incontra una donna pagana ed ha dei pregiudizi. La ritiene impura, ricca, forse anche un po' troppo snob. L'incontro avviene all'estero, fuori dalla Galilea dove il Messia si reca per riposarsi. Ha perso un amico importante, un riferimento per la sua missione: Giovanni Battista è stato decapitato e lui non ha potuto liberarlo. Ora è tempo di capire dove andare, cosa fare e per farlo Gesù cerca la quiete. Già da tempo voleva prendere i discepoli e andarsene, ma poi la folla affamata di pane e parole di vita eterna ha mosso le sue viscere alla compassione e lui ha parlato, ha donato pane. Ora però non deve essere disturbato. La donna invece entra nella casa e lo disturba. Ha bisogno di Gesù, ma questa volta la compassione non fluisce. È lo scontro più che l'incontro. Parlano i pregiudizi più che il dialogo. Due persone diverse, con esigenze ed aspettative diverse, si confrontano. Uno vuole essere lasciato in pace e riposare, l'altra richiede la guarigione della figlia.

Quante barriere tra loro: lui uomo, lei donna; lui ebreo, lei greca; lei proveniente dalla ricca fenicia, lui predicatore errante... Comunicare sembra davvero difficile.

Il rifiuto di Gesù è categorico. Alla donna, che chiede aiuto perché la figlia sta male, lui risponde con una metafora durissima: “Lascia che si sazino prima i figli perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Una similitudine inopportuna e offensiva che calpesta la donna. Una metafora di cattivo gusto rivolta a chi ha una figlia malata. Egli parla dei figli, proprio a lei che ha una figlia in fin di vita. Lei vuole entrare in relazione e lui invece si tira indietro, rifiuta l'incontro e costruisce un muro. Anzi, usa la donna per vendicarsi di quelle che a lui appaiono come evidenti ingiustizie sociali: questa volta lui, ebreo, povero e straniero può permettersi di farsi forza della sua identità e capovolgere le categorie della storia chiamando “cani” i cananei, appartenenti ad un popolo decisamente molto più forte e ricco di Israele. Gesù chiama invece “figli” i membri di un popolo povero e schiavizzato.

Un no secco, severo, difficile da comprendere, visto il protagonista. Un no in contraddizione con tutto ciò che ci sembra di intuire della figura di Gesù: Egli è sempre così disponibile, pronto ad agire, gentile con la gente bisognosa... Gesù guarda con sospetto questa donna. Lui non sa niente di lei, ma l'ha già giudicata con sufficienza.

La svolta nella storia viene dalla donna che, invece di ascoltare la voce del rancore ed alimentare lo scontro, si adegua alla triste metafora. Ha fatto lo sforzo di comprendere le categorie di Gesù e usa il linguaggio dell'interlocutore per comunicare però quello che lei pensa. Riprende allora la metafora: “Dici bene o Signore, ma anche i piccoli cani sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli”. La donna accetta che questi la definisca parte di un popolo di pagani, che la chiami cane, che non ritenga di doverle qualcosa... però lo provoca insinuando che la grazia di Dio è così grande che può raggiungere anche chi non è ebreo.

Gesù è sedotto dalla dialettica di quella strana rabbina, una donna straniera che in una tradizione ortodossa viene definita teologa e apostola. “Per questa tua parola va, il demone è uscito da tua figlia”. Il dialogo è iniziato.

Entrambi hanno lavorato duramente per arrivare a capirsi: lui creando l'occasione materiale dell'incontro (ha superato il confine, è uscito fuori dal suo mondo); lei, attraverso la forza del suo desiderio, ha trasformato parole offensive in parole di rivelazione: ha forse per la prima volta capito come Gesù autocomprende se stesso e il suo popolo. Entrambi hanno dovuto superare i pregiudizi, imparare l'ascolto per capire realmente l'altro.

Umano è il pregiudizio di Gesù, altrettanto umana sembra tuttavia la sua capacità di mettersi in discussione e rivedere i suoi preconcetti. I pregiudizi sono tali anche se li ha il figlio di Dio, sembra ammonirci con leggerezza e una punta di ironia Marco.

Si superano nell'incontro, nel dialogo, nella discussione. Possa questa donna esserci maestra mentre entriamo, abitiamo ed annunciamo la Parola con voci di donne.