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LO SCANDALO DEL PERDONO
Lilia Sebastiani
(ROCCA 15/02/07)
La strage di Erba, in dicembre, e la scoperta dei colpevoli un mese dopo, ha giustamente sconvolto l'opinione pubblica: difficile concepire un delitto così feroce maturato in condizioni normali e anzi 'domestiche' e quotidiane, un odio sanguinario generato da banali beghe condominiali. Ma all'orrore siamo tutti abbastanza avvezzi e stranamente, non appena passata la reazione emotiva, le discussioni si sono concentrate su un punto in apparenza collaterale: l'anziano signor Carlo Castagna, che nella strage ha perduto moglie, figlia e nipotino, ha detto fin dal primo momento (rispondendo all'immancabile domanda che i cronisti farebbero assai meglio a non porre, non nel primo momento almeno) che perdonava gli autori del delitto. «L'odio non porta da nessuna parte... Non capisco perché la gente si stupisca... Tradirei mia moglie, la nostra storia, se non perdonassi i colpevoli». Aggiungendo che chiede al Signore di proteggere e perdonare coloro che hanno sterminato la sua famiglia.
Rispetto all'evento, drammatico e impressionante, il perdono risulta semplice, pacato, espresso come una cosa naturale. E forse per questo suscita scandalo e incredulità e dibattiti..., assai più che non il desiderio di vendetta espresso da Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna: su quello nessuno si sofferma, non tanto per un senso di rispetto al dolore, ma perché sembra ovvio.
Se in altre civiltà o in altre epoche si sarebbe potuto dire che non c'è comprensione per chi trasgredisce, oggi potremmo dire che non c'è comprensione per chi perdona. Il risvolto più amaro, anche se non il più evidente, in questa tragica vicenda, consiste nel dover prendere atto di questo: la vendetta in qualche modo ci appartiene, o quantomeno ne riconosciamo le radici in fondo al nostro cuore e ai nostri istinti; il perdono no, è fuori di noi. E forse la peggiore delle violenze si ha quando un perdono come questo, mite e semplice, viene incompreso e anzi (diciamo pure) calunniato. Le solite persone incapaci di concepire che qualcuno nelle sue reazioni possa spingersi al di là della legge del taglione, sono giunte a dire che il signor Castagna era evidentemente molto tiepido nei suoi affetti familiari. Insomma, che amava poco. Questo significa confondere il sentimento con le reazioni più primitive, viscerali e non elaborate.
Anche per i cristiani, la logica del perdono sembra funzionare bene, o comunque essere al suo posto, solo in sede omiletica e catechetica: dunque indolore per definizione, non coinvolgente. Nella realtà, a contatto con il divampare del male, dell'ingiustizia e della sofferenza, è diverso: parlare di perdono, nel migliore dei casi, provoca un'alzata di spalle; nel peggiore, turba e scandalizza. In altri termini, è assolutamente impopolare. Risulta invece 'popolare' e accettabile il più efferato sentimento di vendetta, anche da parte del primo che passa. Anche chi ritiene di avere sentimenti più delicati, più elevati, non se ne scandalizza. È 'normale'. Il perdono invece è anormale.
Colpisce molto il fatto che Lidia Ravera, su l'Unità, abbia ironizzato senza mezzi termini su «il nonno, il signor Castagna, mobiliere, che recita una cavatina sul perdono e contro l'odio».
Vattimo: il perdono non compete agli uomini
Molte persone ben abituate a pensare, e certo non favorevoli alla violenza hanno espresso sull'atteggiamento di Carlo Castagna riserve anche severe. Uno è il filosofo Gianni Vattimo. In un'intervista egli afferma che «il perdono non compete agli uomini» e, in un altro punto specifica che «il perdono ha a che fare col giudizio», arrivando poi a dire (di Castagna): «Ma come si permette di perdonare? Chieda alle vittime». Sorvolando sul fatto che ai morti non si può più chiedere nulla e che, in casi come questo, vittime sono soprattutto quelli che restano, feriti irrimediabilmente nell'esistenza e negli affetti, è ben possibile che dicendo perdono non s'intenda tutti la stessa cosa. In effetti abbiamo l'impressione che molti, nel dire 'perdono', pensino piuttosto all"assoluzione' (morale, se non giuridica) o a qualcosa di simile.
Perdonare o no, dice ancora Vattimo, è un affare talmente privato che non vale la pena di parlarne pubblicamente... Non siamo d'accordo sul 'privato'. È un fatto intimo, sì, nel senso che ha a che fare con le profondità della persona. Ma 'privato', perché? Se le solite frasi, e ne abbiamo udite parecchie, di quelli che invocano per gli assassini la pena di morte, e possibilmente una morte lenta e orrenda ecc. ecc. sono affare (molto) pubblico, almeno nel senso che tutti le sentono proclamare - di solito in televisione, dove anche le più barbariche idiozie diventano opinioni provviste di qualche autorevolezza -, e perciò contribuiscono a plasmare l'opinione pubblica e influiscono sulle persone più deboli, forse anche il perdono è un affare pubblico: deve esserlo. È giusto che la gente sappia che vi è anche qualcuno che reagisce così, qualche persona 'normale' (secondo i parametri 'normali'!) che perdona: per di più senza considerare questo suo perdono una specie di eroica e sublime follia, ma semplicemente l'unica cosa che si debba fare.
Rigoldi: il perdono è un percorso interiore
Don Gino Rigoldi, prete milanese ben conosciuto, che per la sua lunga esperienza di cappellano di carcere ha senz'altro familiarità con il problema della colpa e del perdono (persona che io apprezzo moltissimo, tra parentesi), ha avuto in proposito parole rispettosamente incredule, valide certo dal punto di vista psicologico, ma stranamente riduttive del perdono cristiano, fino a limitarne di fatto la possibilità stessa. A chi gli domandava come valutasse il perdono espresso dal signor Castagna, ha risposto: «Questa cosa non l'ho proprio capita. Il perdono è qualcosa che non sta sulla punta della lingua, ma viene fuori dal profondo del cuore. O questa persona è proprio un santo, o ha avuto una folgorazione dello Spirito Santo. Una persona ha bisogno di metabolizzare, di rivedere le facce insanguinate dei parenti. Il perdono è un processo lungo che deve essere molto consapevole. Mi lascia perplesso non tanto la sincerità di Carlo Castagna guanto l'autenticità».
E vero che lo stile e forse le esigenze dei mass-media tendono a banalizzare tutto: in ogni caso non possono valorizzare, anzi nemmeno permettono di intuire il cammino interiore che può trovarsi dietro certi segni. Certe scelte di amore 'irragionevole', fino all' accettazione stessa del martirio, non lasciano di solito il tempo di riflettere lungamente. Come scelte, possono risultare improvvise a noi che scorgiamo solo la manifestazione esterna: ma sono il punto di approdo di un cammino che coincide con lo stile e l'orientamento di una vita intera.
A questo proposito, mi sembra che vadano tenute presenti le parole dei due figli di Carlo, Pietro e Giuseppe Castagna. I figli sembrano un po' meno spontanei e lineari del padre, come se parlare di perdono per loro fosse più difficile, ma si trovano sulla stessa linea; e questa è senz'altro un'importante conferma da sottolineare, un indice di autenticità e di 'storicità'. «L'odio non porta da nessuna parte...». «L'odio è un
sentimento difficile da gestire... Provo pena per quella coppia, e preferisco stare nella famiglia delle vittime, piuttosto che in quella degli assassini. Come mio padre, sono convinto che Abele abbia vinto contro Caino, e non viceversa». Parole che da sole sarebbero sufficienti ad attestare che il perdono del signor Castagna non è un fatto estemporaneo e 'mediatico' (tale in sostanza la perplessità di don Rigoldi), ma l'affiorare di un atteggiamento interiore sviluppato e maturato nell'arco dell'intera esistenza, trasmesso ai figli come insegnamento di vita. Quanti genitori, anche sinceramente cristiani e anche impegnati, possono vantarsi di aver fatto lo stesso?
io ci credo
Io credo, come si sarà capito, nell'autenticità delle parole di quell'uomo semplice, e anche nell'autenticità del sentimento che le ispira. Va da sé che si tratta, nel suo caso come per ognuno di noi, di autenticità 'situata', storica, plasmata dalle esperienze compiute: esperienze che in questo caso comprendono anche un' evidente frequentazione ecclesiale.
Non solo: mi sembra che abbia offerto un esempio di forza d'animo ammirevole, di sapienza, di magnanimità (proprio nel significato antico ed etimologico di 'anima grande), e abbia offerto a tutta l'umanità un insegnamento di grande valore: un insegnamento che speriamo solo non venga troppo presto ingoiato, metabolizzato e dimenticato come avviene per tutto ciò che fa discutere l'opinione pubblica.
Se dallo stupore, dallo scandalo, dal fatto che al male siamo ben abituati e al bene non tanto, nascesse qualche seria riflessione, si potrebbe davvero riconoscere che in questa vicenda terribile non tutto il male è servito unicamente al male.
A pochi giorni di distanza da una fine d'anno resa tristissima da due vicende tanto diverse, ma unificate dal tema vita-morte e dal rispetto della persona umana, cioè l'esito della vicenda Welby (con il rifiuto delle esequie in chiesa, giustificabile sul piano dei princìpi e assai meno su quello della misericordia) e l'esecuzione ripugnante di Saddan Hussein, io confesso che la testimonianza offerta da quest'uomo semplice, a cui prima nessuno avrebbe pensato come a un 'testimone' di professione, è stata una notizia di vita: una notizia che allarga il cuore e aiuta a non perdere la speranza.
i molti piani del perdono
La gente è così poco abituata al perdono che, oltre a respingerlo con un fastidio che fa (male) da schermo al turbamento, volentieri lo confonde con qualcosa d'altro: precisamente, con qualcosa che si avrebbe ragione di disapprovare.
Perciò va sempre sottolineato che perdonare non significa non sentire, non soffrire la perdita; non significa dichiarare in qualche modo 'giusta' l'ingiustizia; non significa non impegnarsi per eliminarla dal mondo. Ancora, il perdono per chi uccide non significa né implica (guai se fosse così!) assolverlo in tribunale; non significa aver simpatia per lui nel senso corrente: il Vangelo comanda l'amore dei nemici, e non possono esserci 'sconti' su questo ma, psicologicamente parlando, è evidente che i nemici non si amano nello stesso modo in cui si amano gli amici.
Perdonare, come atto accentuatamente personale (cioè atto della persona che continua a guardare all'altro, al colpevole, come persona), non significa disprezzare o 'dribblare' la giustizia terrena. Semmai fare il possibile per migliorarla, ma questa è un'altra cosa. Invece significa essenzialmente non accettare la logica del male: perché accettare la logica del male significa soccombervi e, inevitabilmente, generare altro male, da cui altro poi se ne genererà all'infinito.
Infine, perdonare chi ha commesso un atto terribile non significa nemmeno riuscire ad azzerare subito, a comando, un certo riflesso di orrore e di sgomento quando si sta alla presenza della o delle persone da cui l'atto terribile è stato commesso. Se accade a noi, che quel male lo conosciamo solo per sentito dire, è normale che avvenga a chi lo ha subito personalmente. Crediamo che potrà essere superato anche questo, ma effettivamente richiede un cammino, un'elaborazione, un tempo lungo. Quello che chiamiamo un 'riflesso di orrore', anche se certo non è la vetta più sublime dell'amore cristiano, non è incompatibile con una scelta di fondo per l'amore, a differenza della vendetta attuata o desiderata o approvata...
Siamo d'accordo sul fatto che il perdono non è solo un atto, ma un cammino interiore: un cammino tutt'altro che semplice e in ogni caso non automatico né rettilineo. È vero, come suggeriva la risposta di don Rigoldi, che la pienezza del perdono implica l'aver elaborato il lutto, aver accettato la propria perdita, aver superato la fase più esplosiva e incredula del dolore. È vero; ma con tutto ciò sentiamo qualcosa di molto vero, rispettabile e anzi esemplare nel perdono proclamato dal signor Castagna sin dal primo momento.
Non hanno agito diversamente le vittime, i martiri, che prima di morire hanno fatto in tempo a perdonare i loro uccisori. Certo non hanno avuto il tempo materiale di elaborare quanto era loro successo, di compiere un cammino di riconciliazione. Dire «Sì, io perdono» non è esauriente relazione di un processo interiore compiuto, ma funziona lo stesso, almeno in quanto ferma volontà proclamata di aderire all'esempio di Cristo.
Alla radice di ogni equivoco esploso in questi giorni vi è il fatto che il perdono, nella sua gratuità, nella sua apparente irragionevolezza (o trans-ragionevolezza?) è difficile da concepire non meno che da offrire. Sta in agguato dentro di noi, nei nostri ragionamenti 'civili' come in quelli religiosi, l'idea che l'eventuale perdono si debba prima in qualche modo meritare. Con il pentimento perfetto, con la riparazione, con l'espiazione... Da un certo punto di vista tutte queste cose possono essere molto desiderabili, ma in quanto consentono al colpevole di recuperare la dignità umana, di riattivare la coscienza morale. Invece porle come condizione per il perdono equivale a negare il perdono, che ha a che fare con il 'dono': anche nell'etimologia. Precisamente, con una logica di dono intensificato, condotto al di là di se stesso, che spezza il circolo del male ed è l'unica capace di risanare.
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