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L'INCENSO NON È
UNA DROGA
Mons. Gianfranco Ravasi
(Il
racconto del cielo,Mondadori, 1995, pag. 136-152)
«Il Signore disse a Mosè: Procurati
balsami come storace, onice, galbano e incenso puro, in parti uguali.
Appronta con essi un aroma da bruciare, una miscela di essenze secondo
l'arte del profumiere, salata, pura e santa. Ne pesterai una parte
riducendola in polvere minuta e la porrai davanti alla tenda dell'incontro,
al santuario ove io ti incontrerò. Sarà per voi una cosa santissima. Per
uso profano non farete nessun profumo a composizione analoga a questa, che
rimarrà cosa santa in onore del Signore» (Es 30,34-37). Nella
vasta legislazione liturgica dell'Esodo e del Levitico, destinata a
regolamentare non tanto il culto davanti all' arca dell' alleanza - la
«cassa» di legno d'acacia, segno della presenza divina accanto al suo popolo
e santuario mobile del deserto - quanto piuttosto il culto del tempio
gerosolimitano, abbiamo scelto l'incenso come simbolo del rito, del sacro,
della liturgia. Le sue volute che ascendono al cielo sono quasi il segno
dell' orazione e della devozione del fedele che salgono a Dio, come si dice
nel Salmo 141: «Come incenso esali a te la mia preghiera, le mie mani
alzate come sacrificio vespertino» (v. 2).
Sacri o santi?
Il culto è fondamentale in tutte le
culture, anche in quelle moderne «laiche», perché i rituali fanno parte
della comunicazione simbolica insita nell'uomo. E naturale che nelle culture
religiose lo spazio occupato dal rito sia enorme, come è attestato anche
dalla Bibbia e dalle sue pagine riservate alla liturgia del tempio di Sion.
Sostando ancora ai piedi del Sinai, ma
allungando lo sguardo ai fumi dei sacrifici compiuti sull' altare degli
olocausti o al fumo dell'incenso nei cortili del tempio gerosolimitano,
prendiamo tra le mani un libro poco letto del Pentateuco, il terzo della
Bibbia, dal titolo significativo di «Levitico», cioè libro dei
Leviti, dei preti. Non vogliamo certo infliggere ai nostri lettori una mappa
di quest' opera con le sue minuziose prescrizioni legali sui vari tipi di
sacrificio, sui riti di consacrazione dei sacerdoti, sulle norme di purità e
impurità, sulla santità e profanità, sui calendari e persino sulle tariffe
cultuali. Noi vorremmo, invece, fermarci su una sola parola che ha, però, un
rilievo eccezionale nel libro e che è inserita nella frase «Siate santi
perché io sono santo» (Lv 11,44 e 45; 19,2).
La parola «santo» rimanda all' ebraico qadosh basato sulla radice
verbale qadosh, che significa in prima istanza «separare», porre una
frontiera tra l'area del tempio e del palazzo reale e quella profana. Più
corretta, allora, sarebbe la versione «sacro» che rimanda
automaticamente a qualcosa di sacerdotale, templare, sacrificale, liturgico
e che evoca incensi e rituali. Il «sacro» è la definizione di un' area
«pura» (un sinonimo usato dal Levitico) ove si può insediare Dio, che per
definizione è «sacro-santo», come ricorda a Isaia il coro angelico che egli
ode nel tempio il giorno della sua vocazione nel 740-739 a.c.: «Santo,
santo, santo è il Signore dell'universo» (Is 6,3) e come ripete il
Levitico. Il sacro per sua natura divide perché si oppone a ciò che è
limitato, imperfetto, umano. E’ significativa l'espressione del profeta Osea
messa in bocca a Dio: «Io sono Dio e non uomo, sono il santo» (Os
11,9). Solo chi è abilitato come i sacerdoti, i professionisti del sacro,
solo chi è riconosciuto come consacrato o almeno purificato attraverso
rituali definiti appunto dai gestori dell' area sacra, solo gli oggetti
sottratti all'uso profano (si è visto sopra che l'incenso del tempio non può
essere usato in casa) e benedetti, solo ciò che è sacro come il Dio sacro
può varcare la frontiera del qadosh, il «sacro» biblico.
La tradizione Sacerdotale ha elaborato il
libro del Levitico e altre norme sacrali proprio perché doveva riportare
Israele, vissuto in esilio a Babilonia e quindi inquinato e contaminato, a
uno statuto sacrale rinnovato. Lo stesso profeta dell' esilio, il sacerdote
Ezechiele, non esiterà nelle sue ultime pagine ad abbozzare un progetto
della patria futura interamente basato su una serie di filtri e di aree
sacre a diversa gradazione (Ez 40-48). A questo punto sorge spontanea una
domanda: che valore e che rischi contiene in sé la visione sacrale? La
risposta è facile e trae conferma ai nostri giorni (con tutte le sfumature
del caso) nei vari movimenti o ideologie integralistiche. Da un lato, il
sacro tutela la purezza del concetto e della realtà di Dio, la sua
trascendenza e distanza, impedendone la riduzione a realtà manipolabile,
conservandone la sua qualità di totalmente Altro. D'altro canto, però, il
sacro isola, rigetta e si pone in tensione col profano; si fa
autosufficiente, tutto ciò che non appartiene alla sua sfera diventa il
male, il peccato, l'impuro; suo sogno è quello di sacralizzare il maggior
ambito possibile (politica, cultura, società) così da porlo sotto la propria
ferrea tutela. Nell' Athalie di Racine il sacerdote proclama: «Ce
temple est mon pays; je n'en connais point d'autre», il tempio diventa
l'unica patria e, per converso, la patria ideale dovrebbe divenire un grande
tempio.
Al sacralismo si oppone il «santo» inteso in senso esistenziale e
morale: la santità non si isola ma, pur conservando la sua identità,
coesiste col profano, lo feconda senza assorbirlo. Il santo anima
l'esistenza e le realtà mondane senza annientarle ma lasciando loro
consistenza. Questo equilibrio delicato e necessario è spesso ribadito dalla
Bibbia che non dissacra il sacro secolarizzandolo (forma inversa di
integralismo) ma lo desacralizza santificandolo, storicizzandolo. Non è
forse vero, come abbiamo visto, che le feste di Israele avevano matrici
magico-sacrali, ancorate a una visione naturistico-immanentista, e che la
Bibbia le ha trasferite nella trama della storia ebraica, senza però
spogliarle della loro qualità sacra, cioè di presenza del divino? Non è
forse vero che il sabato, da scansione sacrale della settimana come giorno
proibito all' azione, diventa memoria della creazione divina e della
liberazione esodica? Il rito non dev'essere un'isola ma, per usare
un'immagine del filosofo mistico ebreo Abraham Joshua Heschel, deve essere
simile al reticolo di una foglia che regge il tessuto connettivo: la foglia,
se fosse solo nervatura, si raggrinzirebbe mostruosamente; se fosse solo
tessuto senza sostegno e alimento, avvizzirebbe.
A compiere quest' opera di desacralizzazione, che non è dissacrazione bensì
santificazione, sono soprattutto i profeti. La stessa frase di Osea che
abbiamo citato poco fa suona compiutamente così: «Io sono Dio e non uomo,
sono il santo in mezzo a te» (Os 11,9). Un «santo» che si insedia in
mezzo al suo popolo e alla sua storia, non isolandosi e respingendo l'uomo
ma coinvolgendolo e santificandolo. Isaia conierà una locuzione suggestiva
per definire Dio, lo chiamerà «il Santo d'Israele» (si veda ad esempio,Is
1,4; 5,19.24; 10,20; 12,6; 30,11-12; 43,3.14; 49,7; 60,14); una formula che
cerca di unificare due componenti in sé antitetiche, la trascendenza e
l'immanenza, l'alterità e la vicinanza, la santità sacrale e l'appartenenza
a un popolo, l'inalterabilità e la condivisione delle vicende di una
nazione. La profezia metterà l'accento in modo netto, apparentemente
esclusivistico, sulla santità esistenziale combattendo il sacralismo. È ciò
che ora vedremo, continuando il nostro percorso di conoscenza del profetismo.
Ma prima di entrare in questa proclamazione - così importante da essere
stata definita dagli studiosi «il kerygma profetico», cioè l'
«annunzio» fondamentale dei profeti usando il termine greco con cui si
indica l'annunzio centrale cristiano - vorremmo solo mostrare quanto forte
è stato l'amore di Israele per il culto del tempio.
Ci affidiamo al ritratto che il Siracide, sapiente biblico del II sec. a.c.,
dipinge nel capitolo 50 del suo libro. Al centro c'è il sommo sacerdote
Simone II che ha presieduto il culto gerosolimitano tra il 220 e il 195
circa, poco prima della stesura dell' opera stessa. «Com' era stupendo
Simone, figlio di Onia, sommo sacerdote, quando incedeva in mezzo al popolo,
uscendo dal velo del tempio! Come una stella al mattino tra le nubi, come
la luna nei giorni del plenilunio, come il sole che sfolgora sul tempio
dell' Altissimo, come l'arcobaleno che splende tra nubi gloriose, come le
rose a primavera, come un giglio lungo un ruscello, come un germoglio
dell'albero dell'incenso d'estate, come fuoco e incenso su un braciere, come
un'anfora d'oro massiccio, tempestata di gemme preziose, come un ulivo
verdeggiante e colmo di frutti, come un cipresso che svetta tra le nubi.
Indossati i paramenti solenni, rivestiti gli ornamenti più splendidi, saliva
i gradini del santo altare dei sacrifici, riempiendo di gloria l'intero
tempio. Si ergeva presso il braciere dell' altare, circondato dalla corona
dei fratelli come fronde di cedri del Libano, come fusti di palme. Stendeva
la mano sulla coppa e versava succo di uva, lo spargeva alla base dell'
altare come profumo soave all' Altissimo, re di tutte le cose.» (Sir
50,5-15)
L'incenso non è una droga.
La lotta che i profeti conducono contro
il sacralismo cultico è così aspra da offrire l'impressione di una guerra
senza quartiere. In realtà non deve trarre in inganno il linguaggio
semitico che ignora comparazioni e sfumature e procede in modo netto e
radicale. Per questo gli studiosi parlano di negazione «paradossale» o
«dialettica» del culto da parte dei profeti. Una celebre frase di Osea,
citata anche da Gesù (Mt 9,13; 12,7), «amore io voglio e non sacrifici,
conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os.6,6) è, al riguardo,
emblematica. Essa sembra rigettare totalmente l'apparato sacrificale del
tempio per sostituirvi un culto interiore fatto d'amore e di fedeltà a Dio.
In realtà la negazione è espressa in modo assoluto ma il suo contenuto è
relativo e «dialettico»: come se dicesse «io voglio soprattutto
amore e non solo sacrifici, conoscenza di Dio e non solo
olocausti». La paradossalità e l'assolutezza della negazione hanno una
funzione psicologica, vogliono istillare con incisività il concetto. Non è
una disgiunzione ma una congiunzione armonica. I profeti, perciò, ricusano
un culto isolato dalla vita, una liturgia separata dalla giustizia, una
preghiera staccata dall'impegno quotidiano, un tempio alienato dalla
società, una religiosità priva di fede, una fede spoglia di opere.
Altrimenti il rito si riduce a farsa, il culto diventa magia, l'incenso si
trasforma in una droga sacrale, la rubrica liturgica sconfina nel folclore.
Un teologo russo del Novecento, Pavel Evdokimov, invitava a far sì che tra
la strada e il tempio non vi fosse una barriera invalicabile ma che gli
incensi, mossi dallo Spirito di Dio, santificassero anche gli odori dell'
esistenza quotidiana.
Dicevamo che questo è il filo teologico dominante della profezia. Esso
appare già con Samuele, profeta e «giudice», ossia «politico» nel linguaggio
biblico, artefice esitante del trapasso istituzionale di Israele dal sistema
tribale all'istituto monarchico con Saul e Davide. A Saul che ha violato una
precisa norma divina e che adduce a sua scusante un sacrificio, Samuele
dichiara: «Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici come
obbedire alla voce del Signore? Ecco obbedire è meglio del sacrificio,
essere docili è molto più del grasso degli arieti» (1 Sam 15,22).Il
primo profeta «scrittore» - di cui, cioè, sono a noi giunti non solo
fioretti o racconti, come per Elia ed Eliseo, ma veri e propri libri di
oracoli - è Amos, un contadino di Teqoa, villaggio a 20 km a sud di
Gerusalemme. Condotto dalla sua vocazione profetica a Samaria, capitale del
regno settentrionale separatista, impegnato nella denuncia della corruzione
delle alte classi con parole infuocate, ripropone la tesi dell' autentico
rapporto tra culto e vita e lo fa con la veemenza della sua sensibilità di
uomo dei campi. «Io detesto, rigetto le vostre feste [dice il Signore]
non gradisco le vostre assemblee. Anche se voi mi offrite olocausti, io non
gradisco le vostre offerte e le vittime grasse dei sacrifici di comunione
neppure le guardo. Lontano da me il fracasso dei tuoi canti, il suono delle
tue arpe non li sopporto! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la
giustizia come un torrente perenne!» (Am 5,21-24).
L'ironia è sferzante: Dio volge lo sguardo altrove e non accoglie l'apparato
sacrificale dei templi; le musiche e gli inni sono per lui fracasso quando -
come accade a Samaria - fuori del santuario «si vende il giusto per
denaro e il povero per un paio di sandali e si calpesta come polvere della
terra la testa dei poveri» (Am 2,6-7). È la giustizia, è il diritto
diffuso nella società che rende accetto a Dio il culto. Usando una famosa
distinzione di Karl Barth tra religione (ritualità, sacralità) e fede
(adesione personale ed esistenziale), possiamo dire che il profeta reclama
l'unione tra le due realtà, dichiarando il primato della fede. Amos in un'
altra strofa del capitolo 5 attacca con sarcasmo blasfemo il culto ipocrita
dei grandi santuari israelitici del suo tempo (VIII sec. a.c.) Betel,
Galgala, Bersabea, vedendoli come covi di peccato da evitare e non da
visitare con pellegrinaggi. Riappare la radicalità della negazione di cui si
diceva sopra e la forza di provocazione del messaggio profetico (sarebbe
come attaccare oggi i santuari mariani di Lourdes, Fatima o Loreto, se
fossero solo un alibi religioso rispetto all'impegno di fede e di amore).
Ecco le parole del profeta Amos, mandriano e coltivatore di alberi di
sicomori, carico di sdegno nei confronti di una spiritualità così
artificiosa: «Andate pure al santuario di Betel e peccate! A Galgala e
peccate ancora di più! Offrite pure ogni mattina i vostri sacrifici perché è
a voi che piace fare così, dice il Signore ... Cercate me e vivrete! Non
rivolgetevi a Betel, non andate a Galgala, / non passate a Bersabea: Galgala
andrà tutta in esilio e Betel sarà ridotta al nulla. Cercate il Signore e
vivrete!» (Am 4,4-5;5,4-6). Come si è visto, anche il contemporaneo Osea
ripete lo stesso messaggio (Os 6,6) e sferra un altro attacco alla vana
moltiplicazione di atti rituali a cui non corrisponde l'adesione morale alla
legge del Signore: «Israele ha moltiplicato gli altari e gli altari sono
diventati per lui occasione di peccato... Essi offrono sacrifici, ne
mangiano le carni ma il Signore non li gradisce; anzi, si ricorderà della
loro iniquità e punirà i loro peccati» (Os 8,11.13).
Il bue dell'uomo perverso.
Il rifiuto degli esercizi cultuali
utilizzati come alibi per un'esistenza iniqua appare, però, anche nella
spiritualità dell'antico Egitto, tant'è vero che già nel 2100 a.c.
nell'Istruzione per Merikare, un testo di formazione sapienziale, si
legge: «La divinità gradisce maggiormente le qualità dell'uomo dal cuore
giusto che non il bue del sacrificio dell'uomo perverso». Secoli dopo,
in tutt'altra area culturale, il poeta mistico indù Tukaram (XVI sec.)
affermerà: «Non si può sempre rimanere davanti a Dio ad agitare il
turibolo dell'incenso ma si può sempre offrire a lui il proprio cuore».
Il grande Isaia, autore dei primi quaranta capitoli del libro che porta il
suo nome, sacerdote di classe aristocratica vissuto a Gerusalemme nella
seconda metà dell'VIII sec. a.c., riproporrà il tema con grande originalità
nella prima pagina del suo rotolo profetico, ricorrendo a un curioso genere
letterario, quello del rib, cioè della lite giudiziaria, in
cui Dio chiama in causa il suo popolo contestandogli gravi violazioni
dell'alleanza. Nel tempio di Gerusalemme il profeta vede la parata ufficiale
delle classi al potere, dei politici e degli alti burocrati che stanno
presentando un sacrificio solenne. Isaia, allora, puntando l'indice, si
scaglia contro di loro nel nome di Dio: «Udite la parola del Signore, voi
capi di Sodomia e popolo di Gomorra! Che m'importa dei vostri sacrifici
senza numero? Sono sazio degli olocausti di montoni, del grasso di
giovenchi; il sangue di tori, agnelli e capri io non lo gradisco!» (Is
1,10-11).
Risentiamo quasi alla lettera le parole di Amos. Ma Isaia va oltre e spazza
via l'intero sistema cultico del tempio innestato in una città corrotta e
ingiusta. «Quando venite a presentarvi davanti a me, chi vi dice di venir
qui a consumare i pavimenti dei miei atri? Finitela di fare offerte inutili,
l'incenso lo detesto, come noviluni, sabati, assemblee liturgiche: non posso
sopportare delitto e solennità! Odio le vostre feste, sono un peso per me,
sono stanco di sopportarle. Se stendete le mani al cielo, io guardo via,
lontano da voi. Se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto perché le
vostre mani grondano sangue! Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle
vostre azioni dalla mia vista! Cessate di fare il male, imparate a fare il
bene, cercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'
orfano, difendete la causa della vedova!» (Is 1,12-17). Il rito solenne
diventa una miserabile farsa quando le mani oranti grondano sangue e fuori
dal tempio si leva la voce dei poveri, vanamente sovrastata dai canti
liturgici. Si ricordi anche il monito di Gesù: «Se stai presentando la
tua offerta all' altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di
te, lascia la tua offerta li, davanti all' altare e va' prima a
riconciliarti con tuo fratello, poi torna e presenta la tua offerta» (Mt
5,23-24). Tuttavia l'invettiva isaiana alla fine si muta in un appello
alla trattativa; e allo scarlatto, al color sangue della porpora, tipico
dei delitti, si sostituirà il candore della neve e della lana, cioè la
purezza del perdono: «Su, venite e discutiamo - dice il Signore - e anche
se i vostri peccati fossero come scarlatto, diverranno bianchi come neve; se
fossero rossi come porpora, diverranno come lana» (Is 1,18).
Un' analoga requisitoria processuale è elaborata con molta vivacità da un
altro profeta contadino, contemporaneo e discepolo di Isaia, Michea di
Moreset. In una specie di dibattito serrato e malinconico Dio chiede a
Israele: «Popolo mio, cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato?
Rispondimi!». Israele cerca di placare il Signore con una
moltiplicazione di riti e sacrifici: «Mi presenterò al Dio altissimo con
olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore le migliaia di montoni
e torrenti di olio a miriadi?...». Ma Dio replica: «Uomo, ti è stato
insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore vuole da te: praticare la
giustizia, amare la fedeltà, camminare con umiltà davanti al tuo Dio!» (Mic
6,3-8). La formula della requisitoria o rib è adottata anche dal
Salmo 50 in cui Dio pronuncia due arringhe. Nella prima (vv. 7-15) appare
una lista sacrificale di sette animali (giovenchi, capri, fiere, bestiame,
uccelli, insetti, tori) che vanamente Israele offre al Signore per placarlo.
A essi Dio oppone l'unico atto di culto a lui gradito, cioè «la lode» pura
che nasce dalla coscienza e dalla vita. La seconda arringa (vv. 14-23)
tenta, invece, di squarciare il velo dell'ipocrisia religiosa di cui l'empio
si ammanta. Dio gli elenca sette tipi di delitti che l'ipocrita crede di
sanare con gesti sacrali e non con atti santi di giustizia: furto,
adulterio, bocca iniqua, lingua impura, giudizio ingiusto, parola empia,
calunnia (l'insistenza sulla parola è tipica di una civiltà a matrice
orale). E ancora una volta Dio ribadisce l'unico gesto a lui gradito, quello
della«lode» che si esprime attraverso la fedeltà morale («la retta via»).
Spelonca di criminali.
Vogliamo insistere nella documentazione
di questa tesi perché essa ci permette di ribadire la qualità fondamentale
della religione biblica: essa è una fede «incarnata», che non aborre di
coinvolgersi col quotidiano, che non segrega Dio dalla storia, che non
oppone il profano al sacro, senza tuttavia giungere a pericolose mistioni o
identità, come avveniva nell'immanentismo cananeo. Tale insistenza ci
permette anche di individuare un tratto pressoché costante della profezia,
l'esperienza spirituale e «teofanica» più alta che Israele abbia avuto.
Lasciamo, dunque, di nuovo la parola a un profeta, il ben noto Geremia,
testimone della fine di Gerusalemme. Lo scrittore austriaco Stefan Zweig
(nato a Vienna nel 1881 e morto in Brasile nel 1942 suicida insieme alla
moglie, disperato per il crollo dell'Europa come segno di civiltà sotto la
barbarie della guerra e del nazismo) ha composto nel 1917 - in piena prima
guerra mondiale - un dramma intitolandolo semplicemente Jeremias. Il
profeta, presentato «come baluardo del sentimento contro l'insensatezza del
tempo», fa cadere tutte le vie illusorie di salvezza, giungendo alla soglia
pericolosa della disperazione e della bestemmia. Ma il crollo non è per la
morte sua e del popolo, bensì per la risurrezione: «Ci hai indebolito nel
corpo, o Signore, ma rafforzato nello spirito» esclama il profeta nel
dramma.
Ebbene, una delle istituzioni che Geremia
demolisce con la sua parola, prima ancora che le armate babilonesi ne
facciano crollare i muri, è il tempio di Sion. La denuncia profetica si
affida a un' arringa di tipo giudiziario, tecnicamente diversa però da
quelle finora presentate, seppure analoga nella finalità. Gli ebrei di
allora, vedendo all' orizzonte incombere il pericolo babilonese, si erano
magicamente affidati alla presenza «fisica» del tempio nel perimetro della
città, quasi che essa salvasse automaticamente Gerusalemme dall' assalto
nemico. Il profeta ironizza sulle acclamazioni entusiastiche che salivano al
cielo durante i riti processionali nel santuario: «Tempio del Signore,
tempio del Signore, tempio del Signore è questo!» (Ger 7,4). La reazione
del profeta ci riporta al cuore del vero culto e della vera fede. La
shekinah, cioè la «presenza» divina nel tempio (come dirà il giudaismo
in epoca posteriore), è condizionata all'impegno dell'uomo nell'esistenza e
non è magica e necessaria: senza la giustizia nei tribunali, la difesa dello
straniero, dell' orfano e della vedova e l'eliminazione degli omicidi, in
pratica senza l'osservanza della legge divina, il tempio è una qualsiasi
costruzione. Anzi, è una «spelonca di ladri», durissima espressione ripresa
poi da Gesù nella sua denuncia della corruzione della vita nel tempio (Mc
11,17).
Ascoltiamo un brano dell' accusa di Geremia, proclamata proprio davanti
«alla porta del tempio»: «Voi confidate in parole illusorie e questo non
vi salverà: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso,
bruciare incenso a Baal, seguire altri dei finora ignoti. Poi avete il
coraggio di venir qui davanti alla mia presenza in questo tempio per dire:
Siamo salvi! E poi ritornate a compiere queste infamie. Ma è forse una
spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che è dedicato al mio nome?
Ebbene, sappiate che io vedo tutto questo!» (Ger 7,8-11). L'accesso al
tempio per il culto diventa, paradossalmente, un' offesa inflitta a Dio, se
l' orante ha alle spalle un passato di violazioni del Decalogo, sintetizzato
in quattro comandamenti (settimo, quinto, sesto e primo) proposti in ordine
diverso rispetto al testo di Esodo 20 e Deuteronomio 5. Il tempio, popolato
di questi ladri e infami del tutto impenitenti, viene dissacrato e si
trasforma in una spelonca, luogo di riparo e sicurezza per banditi e
criminali. Il tempio è una tana di rifugio dei perversi che pure
esteriormente cantano, pregano e compiono riti sacrificali. Anche il fedele
ipocrita dissacra il tempio come il babilonese distruttore, anzi, più di lui
a causa della sua consapevolezza religiosa.
Persino alcuni atti religiosi specifici tradizionali, se privi di una
«copertura» esistenziale, perdono valore, pur essendo apparentemente onerosi
e meritori. È il caso del digiuno che il cosiddetto Terzo Isaia, uno dei
profeti raccolti sotto il nome del grande Isaia, (capitoli 56-66) smitizza.
Eppure era uno dei solenni atti penitenziali d'Israele (si legga Lv
23,26-32) e lo è ancor oggi in occasione, ad esempio, del Kippur, il giorno
dell'Espiazione (Lv 16), come lo è per l'islam nel mese di Ramadan.
Citiamo solo alcune battute di un testo «urlato a squarciagola» dal profeta:
«Nel giorno del vostro digiuno [si noti quel «vostro»
sprezzante] voi curate i vostri affari, continuate ad angariare i vostri
operai. Digiunate tra liti e alterchi, colpendovi con pugni cattivi.
Smettetela di digiunare in questa maniera, facendo salire alto il vostro
chiasso! È forse questo il digiuno che io attendo: piegare come un giunco il
capo, usare sacco e cenere per letto? O non è piuttosto quest’altro il
digiuno che io voglio: sciogliere le catene inique, togliere i vincoli dei
gioghi, rimandar liberi gli oppressi, dividere il pane con l'affamato,
introdurre in casa gli emarginati e i senza tetto, vestire chi vedi nudo,
non distogliere gli occhi da quelli che sono tua stessa carne? Solo così la
tua luce sorgerà come aurora e la tua ferita presto si rimarginerà. Allora
potrai invocare il Signore ed egli ti risponderà, implorerai il suo aiuto ed
egli dirà: Eccomi! Togli di mezzo a te l'oppressione, il puntare il dito e
il linguaggio perverso contro gli altri, offri il pane all' affamato e sazia
chi è digiuno, e allora la tua luce brillerà tra le tenebre, la tua tenebra
sarà come un meriggio!» (Is 58,3-10).
Da 613 a 11 comandamenti.
Le parole di Isaia non hanno bisogno di
commento tanto sono nette nel rifiuto di atti sacrali come sostitutivi
dell'impegno morale ed esistenziale. Tuttavia dobbiamo sempre ricordare che
questo atteggiamento radicale e rigoroso della profezia non significa
negazione del culto, anzi, ne diventa la valorizzazione. Nel Talmud, la
grande raccolta delle tradizioni giudaiche, si afferma che «Dio non ha
bisogno delle vittime ma vuole che attraverso esse l'uomo confessi Dio».
E Gesù, polemizzando col ritualismo, dirà: «Guai a voi, farisei, che
pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio e poi
trasgredite la giustizia e l'amore di Dio! Queste cose bisognava curare,
senza trascurare le altre» (Lc 11,42). A tale proposito è
significativo far cenno a un particolare genere di salmi, detti «liturgie
d'ingresso» o «liturgie della porta» del tempio: Salmi 15; 24; 26;
95). Basiamoci su uno di essi, il 15, per descrivere un'ideale scena che si
svolge alle soglie del tempio di Sion. Un gruppo processionale di fedeli è
giunto davanti alla porta e, rivolgendosi al personale sacerdotale di
servizio, presenta domanda ufficiale di accesso al culto: «O Signore, chi
potrà dimorare nella tua tenda, chi potrà fermarsi sulla tua santa montagna?»
(v. 1). I leviti rispondono enumerando le condizioni di ammissione: una
serie di obblighi che diventano una sorta di esame di coscienza che il
fedele deve compiere per riconoscersi degno di accedere alla presenza del
Signore. Anche in Egitto e a Babilonia sulle facciate dei templi erano
incise le condizioni di accesso, ma si trattava di norme fondamentalmente
diverse rispetto a quelle elencate dal Salmo 15. Nell'antico Vicino Oriente
ciò che era richiesto era innanzitutto e soprattutto la purità rituale ed
esteriore e l'abbigliamento sacro. Questo non viene escluso neppure da
Israele, come abbiamo visto nel Levitico e come è attestato dal giudaismo
posteriore che nel Talmud ammoniva: «Non salga l'uomo sul monte del
tempio né con le scarpe né con la borsa né con la polvere sui piedi; non
riduca gli atri del tempio a una scorciatoia e tanto meno vi sputi».
Davanti alla moschea v'è la fontana per le abluzioni rituali e davanti alle
porte di chiese cristiane, in particolare se meta di turisti, non mancano
cartelli sull' abbigliamento conveniente. Ebbene, nelle condizioni
sollecitate dal nostro salmo si ha, invece, una ben diversa prospettiva: gli
undici commi elencati contengono esigenze di tipo morale ed esistenziale e
non rubricario o legale. Eccoli: «Chi cammina con integrità; chi pratica
la giustizia; chi dice la verità dal cuore; chi sulla lingua non ha
calunnia; chi non fa male al suo prossimo; chi non lancia insulti al suo
vicino; colui ai cui occhi è spregevole il perverso; chi onora colui che
teme il Signore; chi, pur avendo giurato a suo danno, non si ritrae; chi non
presta denaro ad usura; chi non si lascia corrompere a danno dell'innocente»
(Sal 15,2-5).
Nel Talmud si citano questi 11 precetti comparandoli ai 613 che la
tradizione giudaica aveva isolato all'interno della legge biblica (365 -
quanti i giorni dell'anno - sono precetti negativi; 248 - quante le membra
del corpo umano - sono precetti positivi; per un totale appunto di 613) e si
dichiara: «Davide ha ridotto [nel Salmo 15] i 613 comandamenti della
Torah a 11 soltanto». Si avrebbe, quindi, una sintesi dell'intera
moralità e spiritualità biblica, affermata come condizione prerequisita per
l'ammissione al culto (si ricordi anche il Confiteor, cioè l'atto
penitenziale previo alla liturgia eucaristica cristiana). Nel salmo i primi
tre impegni sui quali verificare la coscienza sono di ordine generale ed
esprimono una scelta di fondo per la giustizia. Seguono tre precetti
«orizzontali» nei confronti del prossimo, a cui succede un' altra tema
sociale, illuminata però anche dal tema «verticale» della fede («temere il
Signore»). I due impegni finali comprendono la corruzione politica e quella
economica: l'usura era una piaga diffusa in Oriente, se è vero che i tassi
d'interesse oscillavano in Mesopotamia tra il 17% e il 50%, mentre la Bibbia
li aveva del tutto azzerati (Es 22,24)! L'elemento significativo di
questa e delle altre «liturgie d'ingresso» è costituito dal loro coniugare
morale e culto, società e tempio, vita e fede. Il Salmo 24 ribadirà lo
stesso schema: «Chi potrà salire il monte del Signore e accedere al suo
luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non rivolge la sua
anima agli idoli, chi non giura a scopo fraudolento» (Sal 24,
3-4). Il celebre Miserere,il Salmo 51, attribuito dalla tradizione a
Davide, ma espressione della spiritualità profetica esilica
(Geremia,Ezechiele), fonderà mirabilmente i due aspetti. Si dirà
innanzitutto che «tu, Signore, non ami il sacrificio e, se ti offro
l'olocausto, non lo gradisci», perché «lo spirito contrito è il
sacrificio perfetto, il cuore contrito e umiliato, o Dio, tu non disprezzi»(Sal
51,18-19).
E fin qui siamo nello spirito più puro della profezia, come commenterà anche
il celebre testo spirituale del Medio Evo noto come l'Imitazione di
Cristo: «L'umile contrizione dei peccati è per te il sacrificio
gradito, un profumo molto più soave del fumo e dell'incenso» (III,52,4). Ma
in finale il Salmo 51, che guarda già alla Gerusalemme riedificata, si apre
alla liturgia celebrata nel nuovo tempio. Là tu, Signore, «amerai i
sacrifici legittimi, l'olocausto e la piena oblazione, là i vitelli
saliranno sul tuo altare!» (v. 21). |