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 SANTI SENZA RECINTI
Mons. Gianfranco Ravasi
(Avvenire -1 novembre 2002)

Come ci sono i "santi pagani" anche nella Bibbia (pensiamo a Enok, a Noè, a Giobbe, che non sono ebrei e quindi non appartengono al popolo dell'elezione, eppure sono esaltati dalla Scrittura), così ci sono i "santi musulmani", come questo gruppo di dervisci, ossia di membri di una confraternita spirituale: «Una sera eravamo una trentina di dervisci e non avevamo che una sola pagnotta. La facemmo a pezzetti, poi spegnemmo la lampada; così, se qualcuno avesse mangiato più pane dell'altro, non avrebbe dovuto vergognarsi. Dopo un po' di tempo, la lampada fu riaccesa. Ed ecco, tutti i pezzetti di pane erano ancora lì, perché ciascuno aveva rinunciato a mangiare a favore degli altri». Il racconto arabo esalta soprattutto una qualità che anche il cristianesimo pone alla base dell'autentica santità, cioè l'amore puro, totale, assoluto e libero. Non per nulla Gesù, quando dipinge - in una pagina mirabile del Vangelo di Matteo (25, 31-46) - il giudizio finale pone come discriminante decisiva della salvezza e della condanna proprio quello che si sarà fatto «a uno solo di questi fratelli più piccoli», cioè l'atto di amore per affamati, assetati, stranieri, miseri, malati e carcerati. Oggi nell'«immensa moltitudine dei giusti di ogni nazione, razza, popolo e lingua» descritta dall'Apocalisse (7, 9) intravediamo un tratto a tutti comune, quello della carità che «copre una moltitudine di peccati» e conduce alla luce della gloria divina. Giovanni Pascoli nei suoi Nuovi Poemetti scriveva: «Chi prega è santo, ma chi fa, è più santo». Tuttavia, senza la grazia divina che si irradia dalla preghiera, l'azione si isterilisce e corre il rischio di essere solo un'impresa che glorifica se stessi.