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POVERTA’, PICCOLEZZA, PROFEZIA
(ovvero riflessioni in margine a un presepe tradizionale)
Lilia Sebastiani (ROCCA 15/12/08)

 Nei nostri Presepi di solito la capanna della Natività è il centro verso cui tutto converge, il punto più illuminato - certe volte anche quello con le figure più grandi -, e si capisce. Del resto ha a che fare con la nostra fede: si tratta di una Natività 'postpasquale', diciamo, è giusto che sia così. Non è però molto fedele allo spirito di quella originaria. Non ne sappiamo nulla al di fuori del racconto di Luca assai più teologico che storico.
Luca si sofferma sul prima e sul dopo: ma la nascita di Gesù propriamente non viene raccontata. (Gli apocrifi poi avvertiranno questa specie di lacuna, di grande significato teologico; e cercheranno di colmarla a modo loro, con dettagli molto meno seri e di scarso significato teologico). L'evangelista offre solo un'informazione molto semplice, quasi distante: «Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché non vi era posto per loro ...
». «Nell'albergo», saremmo indotti a completare un po' assurdamente, sotto l'influenza delle traduzioni che abbiamo nell'orecchio.  C'erano alberghi allora a Betlemme? No, quello in cui 'non' nasce Gesù non era un albergo, certo nemmeno un caravanserraglio, e forse nemmeno una capanna come l'intendiamo noi; ma un 'alloggio', una modesta casa qualunque, un po' abitazione in muratura e un po' stalla scavata nella roccia, in cui le persone vivono e dormono nella stanza sul davanti e le bestie vengono ricoverate in quella più interna. Lì avviene la nascita di Gesù, in solitudine e penombra, senza luci sfolgoranti né canti di angeli. Il trionfo del nuovo di Dio esplode altrove: un po' lontano e un po' fuori. Luca del resto è stato chiamato l'evangelista dei lontani.
«C'erano in quel luogo dei pastori che trascorrevano la notte nei campi facendo la guardia ai loro greggi ... ». (Una piccola curiosità: proprio questo dettaglio, inserito da Luca per ragioni assai più teologiche che antropologiche, ha messo in crisi la tradizionale collocazione del Natale all'inizio dell'inverno: i commentatori più attenti osservano che, se i greggi erano nei campi, vuol dire che si era nella buona stagione. A dicembre è freddo a Betlemme come dalle nostre parti, o più ancora, e le pecore dovrebbero stare nei loro recinti).

Poveri, 'lontani', irregolari.
Il Vangelo delle origini di Gesù, che occupa i primi due capitoli di Luca, è impregnato della spiritualità mite e profetica, indifesa ma invincibile, dei Poveri del Signore, una delle categorie etico-spirituali più importanti dell'ultima fase del Primo Testamento, che giungono fino all'alba del nuovo e anticipano misteriosamente i discepoli di Gesù: poveri del Signore in quel senso sono Elisabetta e Zaccaria, Anna la profetessa e il vecchio Simeone, Giuseppe e soprattutto Maria. Ma nel racconto lucano della nascita di Gesù i Poveri del Signore che vengono in primo piano sono i pastori.
Quante annunciazioni sono raccontate nel Vangelo lucano dell'infanzia?
Penso che tutti, presi alla sprovvista, risponderebbero inizialmente «due»: cioè, l'annuncio della nascita del Battista, recato dall'angelo a suo padre, il sacerdote Zaccaria, nel Tempio di Gerusalemme (Lc 1,5-25); e l'annuncio della nascita di Gesù recato dall'angelo a Maria nella sua casa di Nazaret (Lc 1,26-38). Ma queste sono annunciazioni rivolte al futuro: non dobbiamo dimenticare che vi è anche un'annunciazione del presente, non più promessa ma realtà in atto, ed è rivolta ai pastori di Betlemme.  Anche questa è un'annunciazione, ed è costruita con lo stesso schema narrativo: prima sono presentati i personaggi nel loro contesto quotidiano, poi appare un angelo e suscita turbamento, perciò giunge subito l'invito a non temere; poi vi è il messaggio, rafforzato da un 'segno' e da una conferma. Infine vi è il ruolo attivo del destinatario dell'annuncio, che di solito non resta a meditare in solitudine su quanto gli è accaduto, ma è spinto diremmo irresistibilmente a fare qualcosa, a comunicare e approfondire l'esperienza.
Chi sono i pastori? Ovviamente non lo sappiamo - stiamo parlando di un racconto teologico, occorre sempre ricordarlo, non di un fatto storico -, ma non sembra davvero che si tratti di ricchi proprietari di greggi. Forse dei loro salariati, di mandriani: insomma, di
poveri.  Poveri in senso pregnante, poveri davanti a Dio. Noi abbiamo interiorizzato un'idea alquanto romantica (e poco biblica, e pochissimo storica) dei pastori di Betlemme: che in realtà erano una categoria disprezzata di persone irregolari e un po' malviste. I pastori sono malvisti perché lasciano sconfinare i greggi al pascolo nelle proprietà altrui, perché talvolta sono ladri e attaccabrighe, comunque perché il lavoro che fanno non consente loro la frequentazione regolare della sinagoga, e nemmeno del Tempio in occasione delle feste; ritualmente impuri, perché sono sempre a contatto con gli animali, anzi la loro vita si confonde con quella dei loro animali.

Nella città del Re Pastore.
Eppure qui incarnano i fedeli in attesa, anzi qualcosa di più: i fedeli per eccellenza, la parte migliore del loro popolo, il Resto di Israele. Inoltre i pastori in quanto tali sono figure strettamente collegate con Betlemme, la città del re David che era stato pastore: povertà e regalità sono le due coordinate fondamentali di questa pagina, e il Messia, il futuro pastore del suo popolo, che chiamerà se stesso il buon pastore, è della stirpe di David.  Nell'oscurità della notte, mentre tutti gli altri dormono, stanno svegli perché nulla di male capiti al gregge loro affidato. Vigilano, insomma, come viene raccomandato ai fedeli in tanti passi del Nuovo Testamento. E a loro viene rivelata la salvezza-gloria di Dio, e sul momento ne hanno paura. Quella paura che nella Bibbia si accompagna a ogni irruzione di Dio nella storia umana senza schermi.
Dice Luca che apparve loro «un angelo del Signore». L'angelo che nel cap.1 reca a Zaccaria l'annuncio della nascita del Battista, e poi a Maria quello della nascita di Gesù, ha un nome, Gabriele; invece questo non ha nome. Qualcosa di meno, dunque? Potrebbe essere qualcosa di più: il fatto di non avere un nome rende del tutto evanescente la consistenza individuale dell'angelo, e fa sentire maggiormente che ora è Dio stesso a manifestarsi. La luce-gloria che avvolge l'angelo, e che avvolge anche i pastori, è irradiazione della sostanza stessa di Dio. Ci ricorda il volto luminoso, in­guardabile, di Mosè che scende dal Sinai. Nell'annuncio a Maria, l'angelo le aveva detto «Su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo». Adesso la potenza dell'Altissimo, la gloria del Signore, stende la sua ombra sui pastori. «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1).

Un “segno” umile.
Il racconto immaginoso dell' evangelista ci sorprende sempre per la vertiginosa spropor­zione della premessa («Un angelo del Signore apparve loro, e la potenza del Signore li avvolse di luce; ed essi furono presi da grande spavento») e della parola che annuncia («Oggi vi è nato nella città di David un salvatore, che è il Cristo Signore») rispetto al segno: «Troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia». Ma tutti i bambini piccoli allora erano avvolti in fasce; non era troppo strano nemmeno deporli in una mangiatoia anziché in una culla, per farli stare al caldo. È un segno forte proprio nella sua debolezza, un segno che colpisce perché così umile e normale. I segni offerti a Zaccaria e a Maria rientravano nell' ordine dei prodigi: questo no.
Nel vangelo di Matteo Gesù dirà «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Meditando nel cuore il mistero di Natale - di difficile accesso anche per cristiani sinceri e non superficiali né consumisti, in un certo senso insidiato dal fatto stesso di essere troppo conosciuto -, possiamo scoprire che la profondità del senso della nascita di Gesù si trova tra i poveri, e che le realtà più folgoranti della salvezza si rivelano a loro. Si rivelano di preferenza nelle realtà umili e inaspettate. Perché il mistero della Natività è un Dio senza confini - Signore del cielo e della terra! - che assume il limite, la piccolezza, la fragilità, il nascondimento, non per nascondersi ma proprio per rivelarsi, per dire se stesso. Come leggiamo nel prologo del quarto vangelo, «Dio nessuno l'ha mai visto» (cfr Gv 1,18): ma suo figlio ce lo ha rivelato. Nel mistero del Natale, il Dio troppe volte sentito - anche dai cristiani - come infinitamente Altro, inaccessibile e temuto, si manifesta come un bambino appena nato: l'essere più fragile e dipendente che si possa immaginare. Nemmeno un piccolo principe nato fra gli onori, ma una specie di piccolo profugo che letteralmente non ha un posto in cui nascere. E tuttavia re della stirpe di David, più grande di David, più che re: il Messia atteso, così difficile da riconoscere. (Luca usa qui un appellativo insolito per colui che è nato: «il Cristo Signore», quasi una sintesi della messianicità e della resurrezione futura).
L’annuncio dell'angelo ai pastori si conclude con un trionfo angelico che celebra la salvezza in atto, nel suo duplice versante: la gloria di Dio è pace per gli uomini che Dio ama - cioè per tutti gli uomini. A parte il significato festoso, tutti questi angeli che concludono la scena sembrerebbero non aver molto da fare, visto che l'angelo del Signore ha già detto tutto quanto importava sapere. Eppure completano il segno: le schiere di angeli esprimono la comunicazione visibile tra cielo e terra, tra la sfera di Dio e quella degli uomini, e ricordano che la separazione sta per scomparire.
I pastori sono israeliti di serie B o peggio ancora, eppure vengono presentati come paradigma del credente: non hanno resistenze dinanzi all'annuncio (migliori quindi rispetto al sacerdote Zaccaria, inizialmente riluttante a credere e punito da Dio con il mutismo «a tempo»), nemmeno fanno domande, ma subito vanno in fretta, esor­tandosi l'uno con l'altro: andiamo a Betlemme, a vedere questa parola che il Signore ci ha fatto conoscere! «Vedere la parola» è un' espressione intensissima che dice esperienza e testimonianza insieme, che non si capisce se non si tiene conto del duplice significato di dabar in ebraico (a cui l'evangelista pensa, anche se scrive in greco), parola ed evento. Vanno, vedono, raccontano ciò che è stato detto loro; e poi tornano, pieni di gioia, glorificando e lodando Dio.

Un Dio indifeso.
Gesù ci ha raccontato Dio con la sua vita in ogni momento, con parole e gesti e silenzi, con la sua nascita e con la sua morte e la sua vittoria sulla morte. Pensiamo a due frasi, sempre nel quarto Vangelo: «Nessuno può andare al Padre se non attraverso me ... Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,6.9). Parole che d'istinto recepiremmo come un po' trionfalistiche e magniloquenti, accettabili solo perché chi parla è Gesù ... (Davvero è forte il peso delle nostre cattive abitudini in fatto di religione e di potere!). Il senso può essere quasi opposto: solo chi vede me uomo, la mia vita nella carne, soggetta a ogni fragilità, può comprendere Dio, Dio per noi, Dio in cerca degli uomini, Dio fedele. La nostra fede è adesione a questa umanità integrale e indifesa, e adesione a Dio per questa via.
Quasi tutti abbiamo visitato la Basilica della Natività a Betlemme. Ricordiamo com'è bassa l'unica porta di accesso (poco più di un metro, e così stranamente priva di solennità rispetto all'insieme della chiesa, che è simile a una fortezza). Forse ricordiamo anche la spiegazione logica e storica di questo fatto: evitare che i nemici assalitori vi entrassero dentro a cavallo. Oppure i beduini sui loro cammelli. Ma la logica non esaurisce il senso. Quella porta troppo bassa, per cui si può passare solo inchinandosi, ha per noi un altro significato simbolico inesauribile. Nel mistero della Natività non possiamo entrare se non ci chiniamo profondamente; per venerazione e per scoprirci piccoli.  Cioè miti e umili di cuore, ma vigilanti; capaci di meravigliarci, di aver paura e di esultare, pronti a correre prima per 'vedere', a correre di nuovo per recare l'annuncio. Perché l'esperienza della salvezza è un dono da ri-donare.