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 NATALE. L’APOSTASIA DELLA CIVILTA’ SECOLARIZZATA
Giancarlo Zizola
(ROCCA 15/12/03)

Sul presepe di questo buio inizio del Terzo Millennio incombe la guerra globale, non più solo un focolaio regionale. Persino a Betlemme, tagliata dal Muro di Sharon, e non solo a Kabul, a Baghdad, a Istanbul, il Natale è divenuto impossibile, oppure insensato, se ridotto a folklore analgesico, ad una festa dell'oblio, nella quale le luminarie infantili e le canutiglie colorate sugli alberi natalizi si frantumano sui lampi delle bombe e gli schizzi di sangue. Che il luogo della nascita di Cristo e terre euroasiatiche, spazzate dalla guerra esportata dell'Occidente, siano uniti in questo presepe, dal quale sem­bra assente il Dio Bambino, è una metafora dell'apostasia di una civiltà secolarizzata che ha deciso di immolare sacrifici umani all'Idolo Giallo, un culto laicissimo, eppur padre di ogni fondamentalismo. Là come altrove, non vi è continuità possibile tra il messaggio di pace del Natale cri­stiano e la situazione reale del mondo. Se non è pensabile un Dio della guerra, allora ogni invocazione religiosa per giustificare la violenza è inesorabilmente un atto ateo, anzi blasfemo: che sia George W. Bush a pregare per la riuscita della «guerra preventiva» o che siano i kamikaze di Al Qaida a mescolare Dio alla nitroglicerina, è un fatto che l'ateizzazione globale avanza con l'avanzare della guerra come strumento della dominazione imperiale. Da questo punto di vista, si può ammettere che la guerra come norma della storia ha di rado messo sotto assedio più strettamente il Natale (il suo senso teologico e politico di un Dio nonviolento) come in questo inizio del Terzo Millennio. Così anche la tradi­zione popolare del presepe, che si ispira ai valori più delicati della comunità umana e persino ai miti più remoti sopravvissuti nella coscienza dei popoli, subisce il contraccolpo di una antinomia tra natura e grazia, tra storia ed evento di salvezza. La stessa antinomia erompe tra il Presepe di Betlemme e il presepe dei Cristiani: il primo si colloca nella storia degli esclusi, il secondo, spesso, nelle vetrine dei negozi. Di nuovo, con crudeltà calendariale, come se il Natale fosse celebrabile fuori del tempo, la nascita di Gesù è festeggiata dall'eccesso dell'opulenza, dall'ostentazione del danaro, dallo spettacolo di un mondo che attraverso la festa del Natale, gestita a suo modo, tende di fatto a dimenticare i valori reali del Natale. Il Cristo era nato per costruire un nuovo ordine, una nuova creazione del­la storia, riprendendo il filo originario della creazione quando i beni della terra erano stati affidati all'uomo non per l'accumulazione di alcuni, a discapito degli altri, ma «per l'utilità comune», come ripete San Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi. Dif­ficile non assumere l'interrogativo suscitato da suor Emmanuelle Marie: «Natale, una festa cristiana?». Secondo la domenicana di Betania, «l'ironia della storia di Gesù, nato a Betlemme sulla paglia di una stalla, sta proprio nell' aver suscitato una civiltà che si dice cristiana ma che festeggia la sua na­scita con riti pagani, radicalmente opposti alla sua missione».

Un'oscurità diversa da ogni altra.

Se la denuncia è fondata, allora è plausibile il dubbio se non stiamo perdendo uno dei simboli fondatori di ciò che osiamo ancora definire «civiltà cristiana», un simbolo comunque radicato nell'inconscio collet­tivo. Sappiamo che questa festa rappresenta uno dei più riusciti prodotti della strategia culturale della Chiesa del quarto secolo, basata non sulla distruzione ma sull'as­similazione delle culture, secondo il metodo del dialogo. Il Natale come festa è tardivo. I cristiani cominciarono a celebrarlo solo nell'anno 330, quando Costantino si trasferì a Bisanzio. Ormai la religione dei cristiani era chiamata a prendere il posto della religio societatis ed a provvedere, in quanto tale, al culto pubblico. Era naturale che si desse un senso nuovo ai riti pagani dedicati al Sole, il 25 dicembre, subito dopo il solstizio d'inverno, quando le giornate cominciano a farsi più lunghe. E così la fede in Gesù, «Luce del mondo», assorbì e volse a proprio vantaggio una costumanza creata dalla religiosità naturalistica. Fu proprio nell' età costantiniana che la Chiesa, con sapiente realismo e pur non ignara del ri­schio, avviò una inculturazione del messaggio evangelico nelle culture dei popoli e nei moduli sociali in cui essi esprimevano concretamente il senso del Sacro proprio di ciascuna delle loro tradizioni. Questa operazione di mediazione ha avuto i suoi vantaggi, nel tempo della civiltà contadina, ma ha posto un problema di compatibilità non solo per il senso vero del Natale, ma anche per i valori civili che ne scaturiscono nella civiltà borghese: il vecchio mondo dei Greci e dei Romani era pieno di superstizioni, ma non di incredulità, dal momento che essi credevano nella direzione morale del mondo e i loro principi fondamentali erano gli stessi che i nostri. Ma siamo arrivati ad un tempo che, come diceva il cardinale Newman, «ha una oscurità diversa da ogni altra oscurità dei tempi passati». Il cristianesimo non aveva ancora sperimentato un mondo semplicemente a-religioso. Ed è questo il tempo critico in cui il mondo non riconosce più alcuni principi fondamentali: il monito di Alexis de Tocqueville, «le democrazie che non credono, periscono», potrebbe figurare nel referto della crisi delle società liberali nella versione finora sperimentata in Occidente, versione che pretende di essere, specie dopo il crollo del Muro di Berlino, un paradigma valido universalmente. Ma trova dinanzi alla propria espansione delle visioni del si­stema politico che fondano proprio sul re­ligioso, talora integralisticamente interpretato, la loro differenza.

 Due facce dell' alienazione umana.
 La divaricazione tra il Natale della fede e il Natale della cultura si imprime proprio sull'anima dell'Occidente, quasi a presagire che per il Vangelo questa storia occidentale stia per esaurirsi e che sia matura per esso l'ora di altre patrie, una volta ammesso che il cristianesimo «può avvenire sempre solo come nuova nascita» (J. Ratzinger). Come pretendere del resto una qual­siasi continuità tra il Natale del povero Cristo - che incita a un ordine mondiale basato sulla pace, sull'amore del prossimo, sull'apertura all'Altro, al Diverso, sulla pro­tezione dei più deboli, su un' economia di condivisione e le buone volontà di tutti gli uomini -, e il Natale dell'ateismo della Merce, del culto del più forte, del sospetto globale, dell'odio, del terrorismo globale, del fanatismo ferino, della vendetta e della Guerra? Non a caso il Natale della fede si trova spiazzato persino dal rigurgito di neo-paganesimi, e di culti celtici, considerati più omogenei al materialismo religioso dominante. Il delicato connubio antico fra fede cristiana e religiosità naturale sembra essersi infranto da quando il sistema basato sul potere dell'Idolo Giallo è penetrato così profondamente nella struttura antropologica dei figli della modernità da costituire una nuova natura dell'Occidente, fino ad eroderne, e secolarizzarne i valori primordiali; di più, fino a naturalizzare l'essenza stessa del cristianesimo, che non era di questo mondo. Come aveva previsto Pier Paolo Pasolini, questo sistema si ostina a ridurre la religione a folklore, e la coscienza umana in servitù: due facce di un'identica alienazione umana. La realtà è che abbiamo costruito un Natale a immagine e somiglianza della nostra sedicente civilizzazione. Nel passato era il senso cristiano ad assumere e qualificare i miti religiosi e le abitudini sociali. Oggi è la reli­gione del profitto che assume e utilizza ai propri fini i simboli del mistero cristiano, e ne plasma i riti nell' ordine sociale. Nessuno si aspettava Dio in una stalla, nel letame, fra i marginali dell'economia del tempo, e fuori della città. Il Dio del Natale dei Vangeli non era, per così dire, al posto di Dio. Era fuori posto. Non c'era un buco per lui negli alberghi. Prese la figura del senzatetto, del non garantito, del marginale. Aveva insomma la carne di un Dio inutile. Nella civiltà «cristiana», abbiamo invece ridotto Dio a funzionario del mercato. Egli è assimilato ad una figura feticistica del mercato, punto di sfogo dei nostri bisogni e dei nostri desideri. Per l'ideologia religiosa dominante nel sistema, questo Dio è il coronamento celeste dell'utilità terrestre. Il sistema ha fatto di tutto per eliminare ciò che San Paolo ben a ragione definiva «follia» e «scandalo». Il Natale è in sé folle e scandaloso in quanto si costituisca come memoria dell'originaria inversione della figura del divino nelle forme umiliate, e inutili, della debolezza e dell'impotenza, all'inverso delle categorie abituali del Dio potente delle religioni politiche. Ricordare a Natale Gesù come Bambino significa riflettere dunque sul più spericolato paradosso cristiano, quello dell'impotenza e della "Inutilità" di Dio. Al grande Zeus della metafisica greca i Vangeli dell'Infanzia sostituiscono l'immagine di un bambino «accolto in fasce e deposto in una mangiatoia». Sono elementi semplici di ordine naturale, ma ne determinano il capovolgimento. La lezione che scaturisce perpetuamente da Betlemme è quella di una discontinuità, di un rovesciamento, una storia di umiliazione, di sangue, di immigrati in fuga, di senzatetto, di innocenti sgozzati dal terrore di Stato di Erode, di un male portato all'eccesso dell'incomprensibile e dell'irrazionale: il dolore innocente. È di tutto questo che realmente si avvolge nelle sue origini la storia cristiana, e per quale strana deviazione, o forse eresia gnostica, la cristianità oggi potrebbe sopportare di attenuarla e di manipolarla, riducendola ad una bella favola rosa, gradevole, sentimen­tale, persino commerciale e spettacolare, senza rischiare di tradirla nel suo significa­to sia simbolico che reale?

  Teologia della parentesi .
In quel primo vagito c'è tutta la novità che, infatti, per essere troppo nuova, troppo forte, sarà presto impacchettata nel cellophan del patto costantiniano tra Chiesa e Impero dei primi secoli. Così, un addomesticamento dopo l'altro, essa arriva fino a noi, al nostro Natale naturalizzato dall' economia, la nostra vera, nuova natura. Ciò che essa ci offre è un Natale da celebrare nel quadro di una «teologia della parentesi». Grazie ad essa, possiamo convincerci che è normale, è anzi edificante celebrare la festa e insieme lasciare priva di correzione una prassi nutrita dall'individualismo, dal rifiuto dell'Altro, dall'attaccamento esasperato alla ricchezza, dalla diffusione in tutte le salse di un bellicismo oltranzista: altrettanti indizi di come i fasti della società produttiva abbiano oscurato i solstizi invernali e gli idilli pastorali e abbiano fatto del Natale l'etichetta addomesticata da applicare sulle bottiglie stappate per la celebrazione del Mercato e della Bomba. Così la liturgia del consumo ha cominciato ad alluvionare le flebili liturgie delle chiese. L'obolo per i poveri, ultima spiaggia dell'utopia della società solidale, resiste per rimettere a posto la buona coscienza, in attesa di trasformarsi, chissà quando, e se, in una cultura responsabile delle cause strutturali del «peccato sociale». Il buon cuore è come raggelato dall' eviden­za della contraddizione tra l'improvviso straripamento della fraternità, che concede ai fratelli in povertà, emarginazione, debolezza i cinque minuti del tempo produttivo, e la massa degli investimenti mirati a ingolfare la diseguaglianza tra chi spreca e chi muore di fame, tra chi getta bombe termiche e chimiche da 5 tonnellate e gli straccioni maciullati nei villaggi in nome «di una libertà duratura». Dov'è finito il Natale cristiano? Quello che mette in trono gli Ultimi? Quello che mette giustizia per preparare la pace, disarma i violenti attraverso politiche dell' eguaglianza e adempie in questo modo all' ordine di Gesù a Pietro, che voleva difenderlo all'arma bianca dall'aggressione dei nemici: «Rimetti la spada nel fodero»?

 Se avessimo dei beni...
Tallonato da questa inquietudine, San Francesco d'Assisi, che aveva inventato un presepe vivente a Greccio, nel 1233, aveva capito che non resta ai cristiani che una sola via: recuperare nella sua radicalità l'evento che la fede commemora. Egli sceglie la via della Croce «sine glossa». Abbraccia la povertà perché intuisce che essa sola è la condizione della riforma della Chiesa, che gli appare pericolante, e persino indifferente alla crisi che la minaccia, all'apogeo del suo potere mondano. Ma la povertà ha per lui anche un enorme valore civile, e non solo religioso. La «Leggenda dei Tre compagni» racconta cosa dicesse Francesco al riguardo: «Se avessimo dei beni dovremmo anche disporre di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti e così viene impedito in molte maniere tanto l'amore di Dio quanto l'amore del prossimo». Nella sua visione, lo spossessamento materiale è la condizione della coscienza, della nonviolenza e della libertà. Ed è la con­dizione della pace. Quando il Natale risveglia anche solo in un baleno le diversità radicali delle Beatitudini, il loro irriducibile carico alternativo, il loro senso critico per gli assetti del presunto ordine costituito, allora forse potremo dire che la capanna di Betlemme non sarà sbattuta sulle nuvole celesti, dove non morde e non costa nulla, ma accolta nel cuore della nostra storia, per liberarla dalla violenza strutturale e avviarne il cambiamento, nell'unica modalità che anche storicamente possa essere alla lunga efficace: quella della nonviolenza. È da lì che germoglia la possibilità di un mondo diverso da quello imprigionato dalla logica della potenza e della Bomba. È la folla sterminata dei poveri, dei miti, degli artigiani di pace, degli afflitti, degli assetati di giustizia, dei perseguitati per la giustizia, degli straccioni della storia, che restituirà al Natale di Cristo il senso che molti cristiani dell'Occidente non sono stati in grado di dargli, o hanno addirittura tradito.