A proposito di Re Magi.

A proposito di Re Magi.

«In questo popoloso ed intricato mondo d’angoscia non trovava alcuno da adorare, ma molti da aiutare». Si tratta del Quarto Saggio. Anch’egli vide la stella e partì per seguirla, ma né alla capanna di Betlemme né altrove poté mai raggiungere il Re annunciato nei segni del cielo. Questa storia, pubblicata cento anni fa negli Stati Uniti, tradotta per la prima volta in italiano da Elena e Luigi Giario, fu ideata da Henry Van Dyke, scrittore molto popolare negli Usa grazie a questo libro, oppositore della guerra e amante della natura.
Artaban è il nome di questo quarto «re mago», rimasto fuori dalla tradizionale compagnia dei tre. Perché? Come gli altri sapienti, egli è discepolo di Zoroastro, nella città persiana di Ecbatana. Come Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ha compreso le profezie e i segni che indicano nella Giudea il luogo in cui è nato un uomo nuovo, un principe degno di essere seguito. Per partire, ha venduto tutto ed ha comprato tre preziosissimi gioielli da portare come tributo al Re. Egli deve raggiungere entro una data notte i tre che lo attendono. Il suo viaggio è rallentato da poveri esseri umani che hanno bisogno del suo aiuto, e i tre partono senza di lui. Li segue, ma deve spendere anche i tre gioielli per soccorrere altri bisognosi. Si chiede se mancherà all’incontro con Dio per avere indugiato a usare misericordia agli uomini: «Ho speso per l’uomo ciò che era destinato a Dio. Sarò mai degno di vedere la faccia del Re?».
Per tanti anni vaga nella ricerca, vivendo quello che crede essere «il conflitto fra le esigenze della fede e l’impulso dell’amore».
La parabola ha un finale drammatico e sorprendente. Artaban capirà (scrive Adriana Zarri nella postfazione) che «chinarsi sull’uomo sofferente è chinarsi su Dio», e che dimenticare la ricerca ossessiva di lui per soccorrere gli uomini è trovarlo. Questa storia intensa e bella ripete un tema spirituale mai abbastanza compreso: amare e servire gli esseri umani è amare e servire Dio. Se non crediamo in lui, è certamente fare la cosa migliore possibile: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi». Lo scrisse un giornalista e politico[1], che certamente dà molta importanza all’agire nelle dinamiche storiche collettive. Eppure sta dicendo che, se la malattia di un familiare o un ferito sulla strada ti interrompono la più importante attività politica, il chinarti su di loro è ancora più importante.
E’ questo, infatti, che dà senso all’azione politica. La quale non è altro, quando è vera politica, che organizzare il chinarsi di tutta la società su chi non può rialzarsi da solo. Se imparassimo a valutare così la politica, le diverse proposte, le decisioni economiche, gli uomini di potere, le nostre scelte politiche! Se non misurassimo tutto sul nostro utile particolare, o di categoria, nazione o regione, tanto più grettamente quanto più siamo ricchi! Se non corrompessimo la nobile politica in una meschina contabilità, come fanno quasi tutti i partiti e i politici per ricavare consenso dai moventi umani più bassi, più facili e diffusi! Se capissimo finalmente che la rinuncia a qualcosa perché un altro viva e sia libero è vera realizzazione di noi, come persone e come società! Infatti, se la politica non rialza chi è caduto e debole, è delinquenza, non politica! Quegli eminenti giuristi americani liberisti, che dichiarano che «la legge deve imitare il mercato» e non regolarlo, parlano come corsari e banditi, non come giuristi! Di politici che propongono se stessi per gestire e assecondare i vizi umani, ce ne sono molti. E più assecondano e corrompono, più piacciono. Nei casi migliori, si limitano a contenere quei vizi, arginarli, incanalarli al meglio. C’è un politico, un partito, che ha oggi il coraggio di proporre la politica nobile del rialzare i deboli?
Rialzare il caduto, esercitare la misericordia è più importante anche della cultura, che o coltiva la nostra umanità, o è commercio. Ed è più importante della religione, la misericordia. Perché è il compimento della religione. La parabola del Quarto Saggio ce lo dice direttamente, come quella del Samaritano nel vangelo di Luca 10 e la profezia del giudizio in Matteo 25. Non c’è «conflitto fra le esigenze della fede e l’impulso dell’amore». Molti nella vita «non trovano alcuno da adorare», e hanno ragione perché cercano Dio e non idoli. Ma nessuno può dire di non trovare nessuno da aiutare. E se Dio c’è, avranno aiutato lui.


[1] Luigi Pintor, giornalista e uomo politico comunista