Amerai il tuo Dio in tutto il tuo cuore…
Erri De Luca
AMERAI IL SIGNORE TUO DIO IN TUTTO IL TUO CUORE, IN TUTTO IL TUO FIATO, IN TUTTE LE TUE FORZE.
Erri De Luca ( da “Penultime notizie circa Ieshu/Gesù”. La caloria pulita. Ed. Messaggero, Padova)
Cosa aveva di speciale la divinità della scrittura sacra che irrompeva in margine al Mediterraneo, nel tempo e nel luogo più politeista della storia dell’umanità? Sulle coste fumanti di altari dedicati alle più innumerevoli schiere divine, spuntava la notizia di una divinità unica e sola che escludeva tutte le altre. Cosa aveva di più il monoteismo per cancellarle dalla superficie del suolo e dalle profondità dei riti?
La sua notizia non si appoggiava su un popolo potente che poteva imporla con le armi, né impiegava la lingua dominante, l’inglese dei suoi tempi. La differenza stava e resta in questo: l’uso del verbo amare. Amava e chiedeva di essere riamata. Bussava alla più forte delle risorse umane. Nessuna delle divinità precedenti pretendeva tanto.
«E amerai Iod[1] tuo Elohìm» la formula ebraica è un imperativo al futuro. È meno perentoria di un imperativo presente. «E amerai» è un programma di perfezione, da realizzare con l’esperimento, con allenamento. Così forzerai i limiti delle capacità, allargherai dentro di te la produzione della caloria pulita dell’amore, che arde senza consumarsi.
Amerai Iod tuo Elohìm: ma come? Qui la divinità non lascia alla discrezione personale, ma impone una formula: «In tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze».
Nelle traduzioni si legge più spesso: «con tutto il…», «con» e non «in». L’ebraico dice «in», dentro il cuore, dal suo interno e non con lo strumento del cuore. È una differenza che misura la distanza di oggi da quella notizia sacra. Per noi oggi il cuore è un organo di servizio, un meccanismo che la chirurgia manipola, restaura con bypass e pacemaker, perfino sostituisce. Per noi moderni il cuore è un organo sprovvisto d’intenzione, tutt’al più è l’eterno fanciullo che s’innamora a ogni età. Perciò traduciamo «con» il cuore, per mezzo di quest’organo meccanico. Per gli ebrei di quelle scritture, il cuore è il centro di comando, la capitale della persona umana. Dentro di essa, «in», si sprigiona la forza centrifuga dell’amore per la divinità.
Allora amerai in tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze. Tre volte qui è richiesta la totalità delle energie fisiche, il loro saccheggio e svuotamento. E intanto, a prima vista, cosa manca all’elenco? Manca, perché inservibile, la richiesta di ricorrere all’intelligenza della mente, alla sua ricerca e alla sua indagine. Qui, in queste faccende dell’amore per la divinità, non sta nemmeno in coda all’elenco una scienza, uno studio, una teologia. Qui l’amore rastrella tutt’altre forze, quelle piantate in ogni creatura come linfa in un albero. Qui si chiede alla linfa di salire.
In tutto il tuo cuore. Per l’ebraico antico il cuore è come un re nella battaglia, sta al centro delle decisioni e delle prontezze. La nostra civiltà mette al governo la testa, relegando il cuore a pentola di emozioni. Per noi la testa è adulta, il cuore è infanzia. Dobbiamo risalire al primo tempo, all’urto del monoteismo in mezzo al mondo, per ridare peso al cuore e così intendere la richiesta di Salomone. Quando riceve in sogno l’offerta di un dono da parte della divinità, risponde senza esitare: «un cuore che ascolta» (1 Re 3,9). Salomone il saggio per eccellenza, il leggendario sapiente esperto in tutte le conoscenze, il principe degli intellettuali di ogni tempo, chiede e ottiene un cuore che ascolta. Perché è quello l’organo dell’intelligenza. L’antico ebraico sapeva che la conoscenza si radica nel cuore, non nel remoto cervello, sede di organi di superficie, naso, occhi, orecchie, gusto. Sa che senza uno scatto di cuore, non si fissa esperienza. Solo il cuore conosce la profondità e non si concede pausa, a differenza della testa che ha bisogno di spegnersi nel sonno. Di questo sta parlando la divinità quando chiede di essere amata «in tutto il tuo cuore». Come misurare questo tutto? Non si dà scale di valori, non va a litri, a chili. Misura è il riempimento dei bordi, sentire che tracimano. L’esperienza di avere superato la capienza del proprio cuore è l’unità di misura. La certezza di essere arrivati al colmo della capacità di amare è l’esperienza richiesta. È estremista la divinità che la richiede. Ma essa sa che l’amore è una strana provvista: solo quando è al suo colmo ed è tutta versata fino allo svuotamento, solo a quel punto aumenta. Chi dà tutto in amore non si ritrova sul lastrico, ma più fornito di prima. È misteriosa ma certa la sua legge: esige il consumo totale per aumentare. «O siate men soave o ingrandite il mio cuore», chiede santa Caterina per poter reggere la piena del suo amore per la divinità. E la divinità non ci pensa nemmeno a essere da meno, perciò tocca al cuore di allargarsi. Rimesso il pezzo al centro, non suona più estremista la richiesta di amare «in tutto il tuo cuore».
«E in tutto il tuo fiato»? Pure. Con la pienezza di voce e di polmoni, con parole e con canti, con sospiri e singhiozzi e sorrisi, con tutta la varietà degli strumenti a fiato, con tutte le sfumature di volume dal bisbiglio al grido. La divinità vuol essere chiamata. Serve l’intera scorta di fiato fino all’apnea per poi riempire di nuovo gli alveoli. Ogni sportivo sa che la sua riserva è accumulata dall’allenamento che forza i limiti di tenuta e di resistenza. Così è la richiesta di amore «in tutto il tuo fiato»: ogni volta svuotato fino al bisogno violento di inghiottire altra aria da naso e bocca per proseguire, sollevando il torace per accogliere la nuova scorta, il fiato è forza di vita indipendente dalla volontà. Chi ama così, in tutto il fiato, non ha resto per altri pensieri, altre mosse. Chi ama così è intero, un’unica intenzione. È uno, come una è la divinità. Questo modo di amare, è il suo «uno a uno», che non è una x sulla schedina, non è pareggio, è saccheggio di ogni risorsa. In matematica uno per uno dà risultato uno. In amore uno per uno fa avvenire lo scambio, l’andata e ritorno da uno a uno.
«In tutte le tue forze»: anche il resto del corpo, nervi, ossa, muscoli, organi, tessuti sono coinvolti dalla piena d’amore. Dopo cuore e fiato, fornitori d’ossigeno, tocca alle forze far reagire il corpo all’unisono. È un coro il corpo umano e solo nell’amore raggiunge la stesa nota, tonalità e volume. È strano come sia così esperta di fisiologia la notizia sacra. Esercita la sua presa sul corpo intero, lo coinvolge non come strumento, ma come fine dell’esperimento dell’amore, massimo sentimento estrai bile dal giacimento delle risorse umane. Qui le forze del corpo sono luci accese tutte insieme, qui c’è irradiazione dall’interno che si sprigiona fuori e niente resta spento, inerte, in ombra. La notizia sacra implica una risposta atletica del corpo, e ne è capace anche il più ferito, il più malato.
A differenza di cuore e di fiato, le forze dipendono da una volontà, da un’intenzione. Arrivano perciò in fondo alla lista delle tre totalità. Dopo cuore e fiato arriva il turno di prontezza del resto della persona. Le sue forze vanno ad aggiungersi spontaneamente alle altre due indipendenti.
Non so se la teologia cristiana si sia già impadronita di questa trinità del corpo impegnata nell’amore. Dal mio punto di vista la somiglianza è fatta: padre è il cuore, figlio il fiato, spirito santo le forze riunite. Sono tre punti di un’unità tenuta insieme dal comando di amare. Senza questa energia che li concentra; cuore, fiato e forze si disperdono nei loro circuiti separati.
«E amerai Iod tuo Elohìm»: il verbo imperativo è al futuro perché il traguardo di questa perfezione è fuori portata, ma chiama lo stesso in quella direzione. La divinità chiede amore perché esso colma chi lo dà, non chi lo riceve. Chiede amore non per riceverlo, ma per addestrare la creatura a darlo. Così il monoteismo ha fatto breccia nel fitto degli idoli e ha sbaragliato la loro concorrenza accampandosi in cuore, fiato e forze della persona.
Ma non è solo affare tra divinità e creatura, questo amore. «E amerai il tuo compagno come te stesso», è scritto in Levitico/Yaikrà (19,18). È opera difficile. Qui per compagno s’intende il vicino, anzi il prossimo che è superlativo di vicino, cioè il più vicino a te. Perché non ti è imposto di amare tutta l’umanità, però quella che sta nel tuo raggio, che inciampa un metro avanti, quella persona sì. Nel comandamento c’è un tu e c’è una persona da amare, perché l’amore avviene da uno a uno.
L’ordine della frase: «E amerai il tuo compagno come te stesso», dice: prima amerai il tuo compagno. Così conoscerai l’amore per te stesso. La quantità di amor proprio sarà quanto l’amore dato al prossimo. Lo amerai, così amerai te stesso. L’egoista è scarso perché sviluppa poco amore, ama se stesso ma non quanto potrebbe, se sviluppasse attraverso l’amore per il prossimo. L’egoista si esclude dal circuito di arricchimento dell’amore, che passa attraverso l’amore per il prossimo. L’egoista è anemico.
Invece più ami il prossimo, più amerai te stesso. La scrittura sacra conosce notizie che sembrano nuove a ogni generazione che le sperimenta.
Infine c’è in questo comandamento la raccomandazione di amare anche se stessi. Amare l’altro non più di se stessi, ma come. Non si deve esagerare per entusiasmo, non si deve guastare il meccanismo sano dell’amore per il prossimo, che poi ricade sopra se stessi. La persona è importante, non deve annullarsi per l’altro e per l’altrui. Deve tenerli in pari, l’amore per il prossimo e quello per se stessi.
[1] la lettera Jod è la prima lettera del nome impronunciabile JaHWeH. Per non pronunciare il NOME lo si sostituisce pronunciando solo la prima lettera JOD.