22 dicembre 2024. Domenica avvento 4a
TU

4° domenica di Avvento 2024

Preghiamo.
O Dio, che hai scelto l’umile figlia di Israele per farne la tua dimora, dona alla Chiesa una totale adesione al tuo volere, perché imitando l’obbedienza del Verbo, venuto nel mondo per servire, esulti con Maria per la tua salvezza e si offra a te in perenne cantico di lode. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Michea 5,1-4
Così dice il Signore: E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità; dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace.
Salmo 79. Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu
, pastore d’Israele, ascolta, seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci.
Dio dell’universo, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Dalla lettera agli Ebrei 10,5-10
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”».  Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
Dal Vangelo secondo Luca 1,39-48
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

QUANDO DARSI DEL TU” È IMPEGNATIVO[1]

Le tre letture della Messa odierna, iniziano tutte in modo molto diretto:
Tu Betlemme di Efrata, non sei il più piccolo dei capoluoghi di Giuda!”
“(Tu) Padre, mi hai preparato un corpo!”
“Benedetta Tu tra le donne, Maria!”
Nel linguaggio biblico, l’uso della seconda persona singolare non è tanto un segno di confidenza, come per noi oggi. Al contrario. Dare del tu è spesso una cosa abbastanza seria.
Tu sei sacerdote per sempre”…“Tu sei Pietro”…“Tu sei il mio figlio prediletto”.
Nella Bibbia il “tu” non è accorciamento della distanza. Anzi. È franchezza. È incarico dato e responsabilità da assumere. La Bibbia non ha bisogno di convenevoli. Va dritta. Ci interroga in seconda persona e ci chiede in modo molto diretto e franco una risposta. La Parola di Dio ci dà sempre del “tu”, perché parla personalmente.
 TU BETLEMME –  TU PADRE –  TU MARIA.
 Ora, i tre “tu” della quarta domenica di Avvento mi portano una domanda seria: Dio ha ancora un progetto su questo piccolo formicaio umano sperduto su in piccolo pianeta che vaga dentro 170 miliardi di galassie?
I teologi usano oggi un linguaggio strano, per descrivere il piano di Dio nella storia: dicono che esso è “economia della salvezza”. Non so cosa capiamo, udendo la frase “economia della salvezza”: inconsciamente forse pensiamo alla legge finanziaria, ancora in alto mare, più che alle cose di Dio. Ma nell’economia della salvezza, cioè nel “tempo umano visitato dalla tenerezza di Dio” sono sempre necessari tre “tu”, tre coordinate, affinché le cose vadano per il verso giusto:
Occorre il “Tu, Betlemme”, cioè uno spazio.
Occorre il “Tu, Padre” cioè un progetto di Dio.
Occorre il “Tu Maria” cioè la disponibilità umana.
Se tolgo uno dei tre “tu”, mando in malora l’economia della salvezza.

Lo spazio che Dio sceglie per il compimento dell’economia di salvezza è quello di un borgo con quattro case, che si chiama “Beit-lehem”, cioè “casa del pane”, cittadina detta anche “Efrata” cioè “feconda”. Feconda agli occhi di Dio: “Tu, Betlemme Efrata, la più piccola tra le città di Giuda, da te mi uscirà Colui che regnerà su Israele”. Dio non ama gli spazi grandi, le cornici plateali: preferisce partire dalla periferia dello spazio. Qual è il mio SPAZIO, il mio ambiente vitale, entro cui intendo accogliere il Signore in questa eterna Incarnazione che si materializza nella liturgia di quest’anno?

Il progetto divino  è contro la logica umana: “Tu non hai gradito sacrificio (al tempio) o oblazione (sull’altare): un corpo mi hai preparato”. Finora gli uomini avevano offerto sacrifici cruenti o incruenti a Dio, per accattivarsi il suo favore. Pensavano che Dio amasse i sacrifici e le offerte. Ma il progetto di Dio richiede disponibilità e la disponibilità collaborativa è meglio dei sacrifici. “Sia fatta la tua volontà come in cielo, così in terra”: messo in pratica davvero, vale più di tutte le candele che possiamo accendere in Chiesa o le ritualità senz’anima. Una delle Preghiere Eucaristiche celebra così: «Lo Spirito Santo faccia di noi un’offerta perenne a te gradita». Di qui la domanda: sono cosciente che non solo il prete o la suora rispondono ad una vocazione progettuale di Dio, ma anche i battezzati, la sposata, il lavoratore, sono chiamati a rendere visibile almeno un frammento di Vangelo e di vita di Gesù?

La risposta umana è quella di una ragazza sconosciuta. “Tu sei benedetta tra le donne!”. Benedetta.  Dio si è compiaciuto di guardare alla “piccolezza della sua serva”. Anche questa scelta umana mi sorprende. Ma “L’uomo guarda l’esterno, mentre Dio guarda il cuore” (1 Samuele, 16,7).

Sulla soglia della Festa dell’Incarnazione io e te ascoltiamo un TU!, rivolto proprio a me e te. Non ci sono alibi, sembra dirci la liturgia di domenica.

«Proprio io? Proprio a me?».

E Dio disse: «Tu!».


[1] elaborazione da commento di Alvise Bellinato




PER STARE BENE L’UOMO DEVE DARE
P.Ermes Ronchi

PER STARE BENE L’UOMO DEVE DARE.
Ermes Ronchi (Avvenire 10/12/09)
Domenica 3a Avvento 2024.  Dal libro del profeta Sofonìa 3,14-18; Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési  4,4-7; Dal vangelo secondo Luca 3,10-18

«Esulterà, si rallegrerà, griderà di gioia per te, come nei giorni di festa». Nelle parole del profeta, Dio danza di gioia per l’uomo. Sofonia racconta un Dio felice il cui grido di festa attraversa questo tempo d’avvento e ogni tempo dell’uomo e ripete, a me, a te, ad ogni creatura: «tu mi fai felice».
Tu, festa di Dio.
Dio seduce proprio perché parla il linguaggio della gioia, perché «il problema della vita coincide con quello della felicità» (Nietzsche).
Mai nella Bibbia Dio aveva gridato.
Aveva parlato, sussurrato, tuonato, aveva la voce dei sogni; solo qui, solo per amore Dio grida. Non per minacciare, solo per amare.
Mentre il profeta intuisce la danza dei cieli e intona il canto dell’amore felice, il Battista risponde alla domanda più feriale, che sa di mani e di fatica e incide nei giorni: «che cosa dobbiamo fare?».
E Giovanni, che non possiede nemmeno una veste degna di questo nome, risponde: «chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l’ha».
Colui che si nutre del nulla e che offre il deserto, cavallette e miele selvatico, risponde: «chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha».
Nell’ingranaggio del mondo Giovanni getta un verbo forte, «dare». Il primo verbo di un futuro nuovo. In tutto il Vangelo il verbo amare si traduce con il verbo dare (“non c’è amore più grande che dare la vita….chiunque avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca…. c’è più gioia nel dare che nel ricevere”). È legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare.
Vengono pubblicani e soldati, pilastri del potere: «e noi che cosa faremo?».
«Non prendete, non estorcete, non accumulate».
Tre risposte per un programma unico: tessere il mondo della fraternità, costruire una terra da cui salga giustizia. Il profeta sa che Dio si trasmette attraverso un atteggiamento di rispetto e di venerazione verso tutti gli uomini, e si trasmette come energia liberatrice dalle ombre della paura che invecchiano il cuore. L’amore rinnova (Sofonia), la paura invecchia il cuore.
«E io, che cosa devo fare?». Non di grandi profeti abbiamo bisogno ma di tanti piccoli profeti, che là dove sono chiamati a vivere, anche non visti, giorno per giorno, siano generosi di giustizia, di pace, di onestà, che sappiano dialogare con l’essenza dell’uomo, portando se non la Parola di Dio almeno il suo respiro alto dentro le cose di ogni giorno. Allora, a cominciare da te, si riprende a tessere il tessuto buono del mondo.




15 dicembre 2024. Domenica 3a avvento
GIOIA COME RESISTENZA.

TERZA DOMENICA DI AVVENTO

Dal libro del profeta Sofonìa (3,14-18)
Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: “Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa”.
Salmo (Is 12,2-6) Canta ed esulta, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.
Ecco, Dio è la mia salvezza;  io avrò fiducia, non avrò timore,
perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza.
Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere,
fate ricordare che il suo nome è sublime.
Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose eccelse, le conosca tutta la terra.
Canta ed esulta, tu che abiti in Sion, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési  4,4-7
Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.
Dal vangelo secondo Luca 3,10-18
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: “Che cosa dobbiamo fare?”.
Rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”.
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: “Maestro, che dobbiamo fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”.
Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?”. Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”.
Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile”. Con molte altre esortazioni evangelizzava il popolo.

GIOIA COME RESISTENZA. D. Augusto Fontana

La logica mondana del pessimismo, della rassegnazione e del malcontento spesso mi fa accodare alle varie cassandre di turno per cui non so di fatto trovare e mostrare vie d’uscita, alternative al tono grigio e tragico della mia rassegna-stampa quotidiana, alle ombre cupe che mi si allungano sul cuore per la vecchiaia e la malattia. I tempi del profeta Sofonia non erano migliori dei miei: si erano diffusi culti stranieri e sincretismo religioso, i monarchi erano collusi con culture idolatre, si diffondeva nel popolo uno stile di vita pagano e il paese era devastato da violenze e ingiustizie. Certo la gioia, come il coraggio, uno non se la può dare, mi direbbe don Abbondio. E allora mi trovo oggi imbarazzato e inappetente davanti al piatto che mi ha preparato la Parola di Dio: «Gioisci, esulta e rallegrati… Non temere, non lasciarti cadere le braccia… Rallegratevi nel Signore, in ogni situazione… Non angustiatevi per nulla». Preso da una poco invidiabile anoressia dell’animo, fisso la portata e non mi decido a ficcarci dentro la bocca. E mi riappaiono, come folletti, i contadini poveri del Brasile o gli indios Shuaras della foresta amazzonica ecuadoregna che ho visto accesi da un’insolita musicale allegria che faceva da controcanto alla loro endemica, dignitosa e resistente povertà. Ma allora di quale gioia si tratta? Dovrò assumere anfetamine spirituali per dopare la mia cristiana performance giornaliera?
Non penso che Paolo, data la sua situazione di prigioniero, pensasse a fare salti di gioia quando scrive alla comunità di Filippi: «Gioite nel Signore in ogni situazione». Forse pensava ad una serena resistenza; l’accento del duplice invito (kàirete, gioite!) è posto sulla continuità della gioia (in ogni situazione), che non può essere l’emo­zione di un momento, ma deve attraversare tutte le situazioni, anche quelle di prova, sempre (avverbio greco pàntote). Paolo esorta ad una gioia capace di permanere anche nell’espe­rienza delle contrarietà. È un invito ai limiti del  mio possibile. Per Paolo la fonte di questa resistente serenità non è nella capacità della psiche, ma «nel Signore». E questa serenità resistente non può restare nascosta nell’interiorità della per­sona, ma deve trasparire anche nelle relazioni: «La vostra amabi­lità sia nota a tutti gli uomini». Il termine «amabilità» usato da Paolo (tà epiei­kés) contiene in sé molte sfumature, quali quella della modera­zione, della benevolenza, della dolcezza, del rispetto e della cor­tesia. In definitiva, è la capacità di cercare il benessere dell’altro. Ci sembra per­tanto che la traduzione ‘amabilità’ riesca a riassumere bene la ric­chezza del termine greco e indichi uno stile moderato, non violento, realmente affabile, che caratterizza la relazione con le altre persone. Non basta amare: bisogna essere amabili. La motivazione di questo atteggiamento è indicata dall’Apo­stolo con un’espressione che ricorre più volte nel suo epistolario: «Il Signore è vicino». Qui Paolo pensa che il ritorno di Cristo sia immi­nente. Il fatto che il Signore debba tornare fa assumere alle cose un valore diverso, le relati­vizza e insieme le apre alla speranza, alla dimensione dell’attesa. La vicinanza del Signore riguarda non solo l’attesa del suo ritorno glorioso, ma la sua presenza misteriosa che so­stiene nelle prove. Perciò anche le relazioni interpersonali, pur in un con­testo di tribolazione e di ostilità, possono essere ‘diverse’, improntate ad un’amabile benevolenza. La vicinanza del Signore motiva anche l’esortazione alla fidu­cia, che si manifesta in particolare nel momento della preghiera e nel non lasciarsi schiacciare dagli affanni. Si tratta di affidarsi totalmente a Dio per superare l’ansietà generata dalle preoccu­pazioni. La fiducia non è semplice rassegnazione, ma è un espor­re a Dio i propri bisogni e la propria via («Manifesta al Signore la tua via, confida in lui: compirà la sua opera» Salmo 37,5). L’in­vito di Paolo riecheggia gli insegnamenti di Gesù nella tradizio­ne evangelica, quando invita i suoi discepoli a non preoccuparsi eccessivamente per i problemi e le necessità del vivere quotidiano (cfr. Mt 6,25.31.34; Lc 10,41; 12,22). Paolo nella lettera ai Romani: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada?» (Romani 8,31-35).
Conosco un testo di Isaia (41, 14.19) dove il Signore mi definisce con termini apparentemente fastidiosi, ma che lentamente sono diventati musica dolce: «Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto, tuo redentore è il Santo di Israele». Io, questo piccolo verme nudo, questo bruco peloso che striscia a cercare sul terreno arido una qualche foglia che si renda appetibile, sono invitato a guardarmi intorno e scoprire sette tipi di alberi che Lui ha fatto crescere attorno a me: «Pianterò cedri nel deserto, acacie, mirti e ulivi; porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti». Ma ancora il mio animo non si è lasciato smuovere dalla sua atonica inappetenza. Allora il testo liturgico di Sofonia pare narrare ciò che accade in ogni famiglia quando un bambino imbronciato non ne vuol sapere di mangiare: papà o mamma si mettono a fare i pagliacci, a danzargli intorno e cantare e sorridere, nel tentativo di strappargli uno stupore che gli sblocchi l’umor nero del momento: « Il Signore danzerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa». In Luca 15, 5-7 il pastore si mette la pecora sulle spalle «contento» e invita tutti a «rallegrarsi» perché c’è più «gioia» per un peccatore che si pente che per 99 giusti. Lui gioisce quando trova la moneta perduta (Lc. 15, 9), quando fa festa per il figlio tornato (Lc. 15,23-24).
Dio Padre-Madre, mettiti a danzare attorno a me, porta il mio sguardo, perso nel vuoto, a guardarti saltellare e cantare attorno a me e trascinami in quella gioia di cui abbiamo perso l’indirizzo: «Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza» (Salmo 117, 14). Tu, Dio, vieni a danzare attorno a me e fammi sorridere.
CHE DOBBIAMO FARE?
Due sono gli orizzonti della serena resistenza: uno derivante dalla liberazione sociale e l’altro dalla guarigione interiore. Giovanni Battezzatore dice che non c’è bisogno che tutti vengano nel deserto: basta che ognuno viva nella giustizia e nella solidarietà lì dove si trova; quello che conta è il cambiamento della vita quotidiana.
La gioia messianica non può essere scambiata per superficialità infantile o per irresponsabile fuga dal presente: «Che cosa dobbiamo fare?». Ci viene suggerita una carità audace, accorta, attenta a capire i fenomeni complessi della società attuale e a sperimentare gli strumenti più idonei. Questo si misura in modo particolare nell’etica professionale: dalla prospettiva del guadagno illimitato alla coscienza di una retribu­zione equa, da un clima pesante di lamentele e di rassegnazione, di protesta e di rabbia, all’impegno di compiere bene il proprio mestiere. In una lettera pastorale (Sto alla porta. Anno pastorale 1992­-1993) il card. Martini si domandava: «Perché un imprenditore de­ve ribellarsi alla richiesta di pagare una tangente? Perché un gior­nalista deve affrancarsi dal conformismo? Perché un infermiere deve trattare bene i pazienti scomodi e noiosi? Perché questi e al­tri atteggiamenti devono essere la regola, non ‘eroismo’ di un sin­golo?». Come cristiani e cittadini abbiamo il compito di dare forza ed amabilità ad un’esistenza onesta e giusta, con una vita rispettosa delle leggi e delle regole, estranea al­le prepotenze. E siamo chiamati a fare la nostra parte per il bene del Paese in cui viviamo, disposti a pagare le tasse per contribui­re al funzionamento di servizi essenziali. Una nota pastorale dei vescovi italiani (Educare alla legalità, 1991, n. 2) ci ricorda: «la legalità, ossia il rispetto e la pratica delle leggi costituisce una condizione fon­damentale perché vi siano libertà, giustizia e pace tra gli uomini».




8 dicembre 2024. Domenica avvento 2.
IMMACOLATA.CHI?

Immacolata. Chi?

Dal libro della Genesi  3,9-15.20.
[Dopo che l’uomo (adam) ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio chiamò Adam e gli disse: «Dove tu (sei)?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna (ishah) che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna (ishah): «Che hai fatto? ». Rispose la donna (ishah): «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna (ishah), fra la tua discendenza e la sua discendenza: essa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». L’uomo (adam) chiamò sua moglie Eva (hawah) , perché ella fu madre di tutti i viventi.
Salmo 98/97,1-2; 2-3ab; 3bc-4Rit. Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie
1Cantate al Signore un  canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo. Rit.
2Il Signore ha fatto conoscere  la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
3Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele. Rit.
Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio.
4Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni! Rit.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini Ef 1,3-6.11-12
Traduzione interconfessionale in lingua corrente.
3Benedetto sia Dio Padre di Gesù Cristo nostro Signore. Egli ci ha uniti a Cristo nel cielo, ci ha dato tutte le benedizioni dello Spirito. 4Prima della creazione del mondo Dio ci ha scelti per mezzo di Cristo, per renderci santi e senza difetti di fronte a lui. Nel suo amore 5Dio aveva deciso di farci diventare suoi figli per mezzo di Cristo Gesù. Così ha voluto nella sua bontà. 6A Dio dunque sia lode, per il dono meraviglioso che egli ci ha fatto per mezzo di Gesù suo amatissimo Figlio.11 Anche noi, perché a Cristo siamo uniti, abbiamo avuto la nostra parte nel suo progetto. Dio ha scelto anche noi fin dal principio. E Dio realizza tutto ciò che ha stabilito. 12Così ha voluto che fossimo una lode della sua grandezza, noi che prima degli altri abbiamo sperato in Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38
L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo tua parola». E l’angelo si allontanò da lei. 

SCELTI IN CRISTO PER ESSERE SANTI E IMMACOLATI NELLA CARITA’ (Efesini 1). D. Augusto Fontana

Oggi è festa di Gesù, santo, immacolato nella carità, figlio di Dio fin da prima della creazione del mondo. Ugo di San Vittore si esprime così: “Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (De arca Noe, 2, 8). Noi oggi, come scriveva l’evangelista Giovanni (1,14), contempliamo “la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
Noi oggi celebriamo la nostra liturgia con Gesù, uomo come noi “escluso il peccato”(Eb 4,15-16). Sì, il mio occhio si ferma su Gesù, concepito uomo immacolato, figlio santo, fratello giusto.
Oggi, nel pieno dell’Avvento, l’occhio si deve fermare sul Santo dei Santi, San Gesù di Nazareth, stella incandescente della nostra fede, prima ancora che fare l’elogio di luna Maria che vediamo brillare di luce indiretta nelle nostre notti, colpita dalla luce di Gesù mentre viaggia negli spazi siderali della Storia della salvezza.
Un po’ di storia di questa festa[1].
L’8 dicembre 1854, dopo un’ampia consultazione dell’episcopato di tutto il mondo, Pio IX definiva il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria con la Bolla Ineffabilis Deus: « … dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina la quale ritiene che la beatissima Vergine Maria, per singolare grazia e privilegio di Dio Onnipotente a lei concesso in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, sia stata preservata da ogni macchia di colpa originale fin dal primo istante della sua creazione, è stata da Dio rivelata, ed è perciò da credere fermamente».
Nel XII secolo i monasteri benedettini di Inghilterra celebravano questa festa l’8 dicembre. Da questo momento la sua diffusione è rapida: Normandia, Lione, Belgio, Spagna, Francia, Italia e in alcuni monasteri della Germania. San Bernardo (1091-1153), un grande devoto di Maria, contestò la legittimità della festa sostenendo che tutte le creature, nessuna esclusa, hanno bisogno della redenzione di Cristo. Anche Tommaso di Aquino (1228-1274) è sulla stessa linea. Nella sessione VI del Concilio di Trento del 1546 alcuni padri conciliari chiesero la promulgazione di una definizione dogmatica dell’immacolata concezione. Alessandro VII (1655-1667) l’8 dicembre 1661 precisava: l’anima della Vergine era stata preservata dalla colpa originale «a causa dei meriti di Gesù Cristo suo figlio, Redentore del genere umano». Dunque questo dogma nasce dalla Rivelazione biblica implicita; e dalla devozione popolare.
Il peccato originale[2].
Molto di questa festa lo si deve alla teologia del “peccato originale” secondo Agostino (+430) un po’ manicheo,…. ma solo un po’. Il teologo Pelagio (+420) affermava che ogni uomo nasceva innocente, ma con la capacità di compiere il male, grazie al dono del libero arbitrio. Agostino gli si opponeva sostenendo che il peccato dei progenitori era ereditario per tutti i secoli dei secoli come un DNA. Nel 418 il concilio di Cartagine si schierò con la posizione di Agostino e condannò come eretici i pelagiani. E noi restammo inchiodati lì fino ai giorni nostri.
Il dogma dovrebbe crescere e lievitare dall’interno, come afferma il Concilio Ecumenico Vaticano II (Dei Verbum, n. 8): «Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse».
Dopo il Concilio Vaticano II° molti teologi, Vescovi e Papi hanno fatto barriera attorno alla dottrina del “peccato originale” con tenue aperture sul complesso dei dogmi. Dovremmo dare per scontato che una dottrina fondata su racconti così remoti come quelli della Genesi e sulle riflessioni dell’Apostolo Paolo (Rom. 5,12-21) contengano ‘rivestimenti’ culturali oggi improponibili e che la Chiesa si trovi nella necessità «di presentare, difendere ed illustrare le verità della fede divina con concetti e parole più comprensibili alle menti formate alla odierna cultura filosofica e scientifica» (Paolo VI, discorso del 11 luglio 1966 ai partecipanti al Simposio sul peccato originale tenutosi a Nepi).
Il Papa Benedetto XVI nella Catechesi del 10 dicembre 2008 aveva detto, tra l’altro: «Se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’ orizzonte della giustificazione in Cristo».
Ogni creatura nasce con i limi­ti, le debolezze e le insufficienze causate dalle violenze, dalle idolatrie e dagli errori delle generazioni precedenti. La responsabilità degli umani è che molti diventino testimoni efficaci della potenza del Bene e della fecondità dell’Amore in modo che la Vita prevalga sulla morte. Anche Gesù fatto in tutto simile a noi “eccetto che nel peccato” è stato tentato e ha dovuto fare delle scelte continue; come si può supporre che anche Maria, battezzata nella benevolenza originaria di Dio, abbia vissuto nella fatica della fede, come quando Gesù a 12 anni viene smarrito dai genitori:«Ma essi non compresero le sue parole… Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,43-50). I tre giorni di smarrimento anticipano la fatica di Maria nello smarrimento della croce e della tomba vuota.
Per trovare la Chiesa in Maria.
Per trovare la donna Maria di Nazareth occorre scavare perché è stata seppellita sotto una montagna di dogmi, leggende, visioni e devozioni.
A Nazaret. Dio si manifesta a una giovane donna, in una casa a Nazareth lontano da Gerusalemme, cuore religioso del paese. È forte il contrasto con l’annuncio al sacerdote Zaccaria nel tempio. “Dio sceglie quello che è stolto per il mondo… quello che è debole per il mondo… quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla…” (1Cor 1,27-29). Nazareth, “un paesino senza storia della meticcia Galilea. Il cristianesimo non inizia al tempio, ma in una casa” (E.Ronchi).
A una donna. Gesù la chiamerà sempre Donna. È il nome che Adamo ha dato ad Eva: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta» (Gen 2,23). La chiesa è “donna” ricavata dal lato di Adamo, nata dal lato del crocifisso.
Rallegrati. In greco è Kaire! che vuol dire rallegrati! Non è un educato “buongiorno”, ma un saluto profetico. Il profeta Zaccaria, annunciando la venuta del re Messia, aveva esclamato: Rallegrati, figlia di Sion, esulta, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re (Zc 9,9). Maria ascoltava le Sante Scritture e i racconti del suo popolo; intuisce dunque che il saluto la risucchia come protagonista dell’Ora del Messia.
Piena di grazia. (ebr. Hesed. Greco Karis=amore gratuito e performante). Papa Giovanni Paolo II aveva osservato che per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco (kekaritomene), non si dovrebbe dire semplicemente “piena di grazia”, bensì “colmata di grazia“, il che indicherebbe chiaramente che non si tratta di bellezza o fascino personale ma di un amore gratuito e performante di Dio che è “ricco di grazia e di fedeltà” (Esodo 34,6). Nella Lettera agli Efesini oggi abbiamo ascoltato: « In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Maria è il concentrato di una destinazione universale per battezzati e non. “Non è piena di grazia perché ha detto “sì” a Dio, ma perché Dio ha detto “sì” a lei prima ancora della sua risposta. E lo dice a ciascuno di noi: ognuno pieno di grazia, tutti amati come siamo, per quello che siamo; buoni e meno buoni, ognuno amato per sempre, piccoli o grandi ognuno riempito di cielo” (E. Ronchi).
Il Signore è con te. Maria, forse, sa a chi erano state rivolte prima di lei: “Non temere io sarò con te” dice il Signore a Mosè, l’uomo dell’Esodo (Esodo 3, 12), a Giosuè, l’uomo che fa entrare Israele nella terra promessa (Giosuè 1, 15), a Gedeone quando sconfigge i Madianiti (Giudici 6,12). Maria, forse, capisce che non sta ascoltando un complimento ma una vocazione e una missione a diventare una colonna della lunga storia di salvezza.
Eccomi. “Maria con la sua ultima parola rivela il nostro vero nome. Il nome dell’uomo è: «Eccomi!»”. (E.Ronchi).

Il Concilio Vaticano II° afferma: «In Maria la Chiesa ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione e in lei contempla ciò che essa desidera e spera di essere» (Sacrosantum Concilium 103).


[1] Mi riferisco ad appunti di don Paolo Farinella
[2] Mi riferisco a studi del teologo Carlo Molari (articoli vari in ROCCA, Pro civitate Christiana, Assisi, anni 2012, 2013, 2014, 2016)




1 dicembre 2024. Domenica AVVENTO1
LIBERIAMO I SENTIERI DA PIETRE DI INCIAMPO

Prima domenica avvento 2024

Preghiamo. Padre santo, che mantieni nei secoli le tue promesse, rialza il capo dell’umanità oppressa da tanti mali e apri i nostri cuori alla speranza, perché sappiamo attendere senza turbamento il ritorno glorioso del Cristo, giudice e salvatore. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Geremia 33,14-16
Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia; egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla. Così sarà chiamata: “Signore-nostra-giustizia”.
Salmo 24.  A te, Signore, innalzo l’anima mia. In te confido
Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua verità e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza
Buono e retto è il Signore, la via giusta addita ai peccatori;
guida gli umili secondo giustizia, insegna ai poveri le sue vie.
Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi osserva il suo patto e i suoi precetti.
Il Signore si rivela a chi lo teme, gli fa conoscere la sua alleanza.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 3,12- 4,2
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come abbonda il nostro amore verso di voi, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
Dal Vangelo secondo Luca 21,25-28.34-36
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande. Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”.

 Liberiamo i sentieri dalle pietre di inciampo. D. Augusto Fontana

 Colui che mi viene incontro o contro.
Viviamo il futuro come tempo carico di destino irriformabile e di fortuna cieca, ma anche come possibilità per l’uomo di costruirsi il futuro nel progresso e nella previdenza. Per il cristiano il tempo futuro é anche tempo di avvento (dal latino AD-VENTUS=venuta da…verso…).
Io, mentre cammino verso il mio ormai corto futuro, incrocio Dio che mi viene addosso, mi viene incontro, mi viene contro. Vivere il futuro anche come avvento é, per me, tentare di credere che Dio, in Gesù, é protagonista primario di ciò che costruiamo e desideriamo. Allora: dove finisce la commedia e dove incomincia la verità della mia attesa? Si narra che i rabbini ogni mattina, aprendo la finestra, amassero dire: «No. Il Messia non é ancora venuto: il mondo é ancora lo stesso». Scriveva l’ebreo Paolo de Benedetti: «Il mondo è stato inventato da Dio perché non rimanesse identico a quello dei giorni della creazione. Sulle trasformazioni apportate dall’uomo si possono e si devono dare giudizi diversi. Ma il cattivo uso della trasformazione non deve far dimenticare quella spinta al mutamento, insita nella benedizione della Genesi[1]». Per noi cristiani é difficile attendere il Messia con ansia vigilante e gioiosa, perché l’Incarnazione già realizzata può averci spento ogni tensione. Per noi la trama é senza suspence perchè ne conosciamo la conclusione. Inoltre, al termine del periodo di avvento c’é una festa detta “Natale” che é tra le feste più ambigue, imbastarditasi dall’incesto tra regime di cristianità e ragioni commerciali. Il sussurro dell’Avvento, soffocato dall’ubriacatura pre-natalizia, non riesce a movimentare attese vere nè esaudire attese profonde, a meno che non introduciamo significative obiezioni di coscienza ed inversioni di rotta personali. Il rischio che corriamo é di fare un po’ finta di attendere. Quando si attende? Normalmente attendiamo quando si é presa sul serio la promessa di una persona affidabile, quando é fissato un appuntamento con persona cara o evento decisivo, quando si coltivano utopie e speranze, quando si nutre indignazione per l’intollerabile.
Che attendiamo? E soprattutto: chi?
Due “princìpi” si intrecciano nel nostro Avvento: il principio-catastrofe e il principio- Alleanza.
Il “principio-catastrofe”. Abbiamo capito che se il mondo finirà, ciò avverrà più per causa umana che per colpa dell’esplosione cosmica. La fine collettiva é iniziata con il collasso ecologico, con la morìa di massa per guerre e per fame, con le infezioni del benessere, con le droghe del malessere, con le stragi dei nazionalismi e degli integrismi. Ma le generazioni sono coinvolte da una catastrofe peggiore: la caduta di certezze interiori. Il principio-catastrofe crea paura: i potenti diventano cinici e gaudenti mentre i deboli diventano apatici, malinconici o disertori. La crisi del futuro porta ad enfatizzare il presente come orizzonte dominante: questo lo si ritrova soprattutto analizzando i valori e i comportamenti dei giovani che sono stati definiti come “la generazione della vita quotidiana”. Alcuni accettano la paura per ciò che essa ha di giusto e razionale, altri la esorcizzano con false sicurezze e rimozioni o si lasciano consolare da “dissipazioni” che mettono tra parentesi la catastrofe che ci riguarda.
Il “principio-alleanza”. «Alzate il capo perchè la vostra liberazione é vicina» : é un modo per vivere dentro la catastrofe e nella sua lucida e impaurita coscienza. Vivere nella speranza e nella attesa é vivere da uomini a testa alta. Lutero diceva:«Se sapessi che domani il mondo andrà in rovina, continuerei anche oggi a piantare un melo». Ecco, allora, il cristiano che si impegna a discernere le cose nuove che veicolano le promesse di Dio e, più ancora, il Dio delle promesse, alleandosi con i nuovi segni di vita mediante una speranza purificata (Geremia 33,14-16), una speranza orientata da una strategia (Luca 21, 25-28. 31.34-36) ed una speranza produttrice di amore (1 Tessalonicesi 3,12-13).
Geremia: una speranza purificata.
Dentro ogni speranza delusa può nascere una delusione che spera. San Paolo interpreta bene questo stile di attesa messianica:” Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; colpiti, ma non uccisi; moribondi, ma sempre vivi; puniti, ma non messi a morte” (2 Cor.4, 8; 6, 9). Nella vita di ogni cristiano la delusione ha un suo posto: delusione nel matrimonio, nel lavoro, nella società, nella Chiesa, in me stesso. Sta a me decidere se abbandonare con rassegnazione questo tronco tagliato oppure investire sulle promesse di Dio e innaffiare ancora il tronco tagliato coltivando il germoglio che spunta forse nella parte dove meno ce lo aspetteremmo e nel momento meno programmato.
Luca: speranza orientata da una strategia.
            Per questo discernimento occorre una strategia: alzatevi-levate il capo, state attenti-vegliate, non appesantite (non indurite) i cuori , non distraetevi in cose futili,  non lasciatevi stordire da angosce esistenziali, pregate per non lasciarvi intrappolare. Una strategia suggestiva, per questa situazione del cristiano, viene offerta da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti (7,29-31): «D’ora in poi , quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; quelli che piangono come se non piangessero; quelli che sono contenti come se non lo fossero; quelli che comprano come se non possedessero e quelli che usano di questo mondo come se non ne godessero». «Come se non…»: il cristiano é occupato nelle realtà della vita, ma ne é distaccato. Vi mette dentro le mani ma non vi ci incolla il cuore. La finalità di questa strategia è duplice: “per avere la forza di sfuggire…di comparire”. Sfuggire non significa essere esentati, tirarsi fuori dalle prove, ma perseverare in esse pregando per poter restare a testa alta nel momento dell’incontro definitivo.
Paolo: una speranza operativa.
La prima lettera ai Tessalonicesi é il testo più antico del Nuovo Testamento (50-51 d.C.) e precede addirittura i Vangeli. Vi si risente una problematica allora viva: si credeva davvero che da un momento all’altro avvenisse il ritorno definitivo di Cristo sulla terra. Paolo sollecita una operatività dell’attesa: l’amore é la grande virtù escatologica ed é il carisma che anticipa la rivelazione finale quando Dio si rivelerà a tutti come Amore:«Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti».


[1] Paolo de Benedetti Ciò che tarda avverrà,Qiqajon, Bose, pag. 95.




Festival ECONOMIA E SPIRITUALITA’

AL VIA A PRATO IL «FESTIVAL DI ECONOMIA E SPIRITUALITÀ»
Il capitalismo è una nuova religione popolare. Come svincolarsi?
Avvenire 23/11/24

PROGRAMMA IN: Festival economia e spiritualita

Il “Black friday” come festoso rito di consumo prenatalizio, la spesa al supermercato la domenica mattina, i pellegrinaggi verso gli outlet o quei templi votati allo shopping infinito che sono i centri commerciali… Nelle singole azioni quotidiane possiamo non rendercene conto, ma con uno sguardo più ampio è difficile non vedere nel capitalismo, come nella sua trasposizione giornaliera che è il consumismo, una nuova religione popolare. Un culto che ci accompagna nel passaggio da una dimensione all’altra della vita, si tratti della casa che abitiamo, del luogo di lavoro con le sue dinamiche aziendali, delle attività nel tempo libero. Come svincolarsi? Come attraversare il mondo contemporaneo con un passo adeguato alla natura più autentica dell’essere umano? Parlandone, innanzitutto. Riflettendo e discutendo insieme. È l’obiettivo del Festival di Economia e Spiritualità che si tiene da sabato 23 novembre a domenica 1° dicembre in alcune città toscane e il cui tema per questa nona edizione è, appunto, “Capitalismo come religione”. «L’argomento scelto è frutto dell’intuizione dell’economista Luigino Bruni – spiega padre Guidalberto Bormolini, antropologo e ideatore del Festival insieme a un altro economista, Francesco Poggi -. Le ricerche dicono che più del settanta per cento delle persone ha un bisogno inespresso di spiritualità. Questo vuoto è però occupato da capitalismo e consumismo, capaci di offrire solo cliché religiosi e surrogati dei riti autentici». Gli esempi non mancano, come ricorda padre Bormolini, dalle promesse di paradisi delle agenzie di viaggio all’illusione che il desiderio di infinito possa essere appagato da consumi infiniti, abbandonando tuttavia gli esseri umani a un’insoddisfazione permanente. Lo spiega bene Bruni: «Il capitalismo, sul crepuscolo degli dèi tradizionali, è di fatto diventato la sola vera religione popolare del XXI secolo. La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere un’esperienza globale, un culto, una cultura onnicomprensiva e avvolgente. Per superare la religione/ idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze. Non basta scrivere libri o articoli, non è sufficiente costruire teorie, perché anche la nuova cultura economica, che in tanti vogliamo più umana, più inclusiva, circolare, nascerà dalla prassi e dal pane quotidiano». È con questa ambizione, di incidere nel concreto, che l’edizione 2024 del Festival di Economia e spiritualità porterà testimonianze ed esperienze nelle città ospitanti – Prato, Capannori, Lucca, Scandicci, Vaglia, Pistoia e Pisa. Tra i molti ospiti il sociologo Mauro Magatti, gli economisti Stefano Zamagni e Leonardo Becchetti, madre Noemi Scarpa, il poeta Davide Rondoni, il teologo Massimo Faggioli, il cantautore David Riondino, vari esponenti religiosi (il programma è sul sito festivaleconomiaespiritualita. it). «Abbiamo voluto mettere insieme l’economia, che è al centro delle grandi scelte politico culturali contemporanee, alla spiritualità, per un modello in cui l’homo oeconomicus lasci spazio all’homo integralis, cioè a una visione dell’essere umano in equilibrio nelle componenti di corpo, psiche e spirito – spiega padre Bormolini -. Oggi il mercato pretende di soddisfare anche la sete di spiritualità, nel momento in cui l’invito è principalmente a “stare bene con sé stessi”, mentre il diritto alla felicità si declina insieme, nella dimensione della comunità, ovvero della relazione, della cura, dell’amore». (M.Ca.)




Dalla cella alla recidiva zero: così il lavoro salva
F.Fulvi (Avvenire 22/11/24)

Dalla cella alla recidiva zero: così il lavoro salva.

Fulvio Fulvi (Avvenire 22/11/24)

 Il caso delle 30 persone rinate dall’esperienza detentiva. Il cappellano don David Maria Riboldi: uno solo ha commesso nuovi reati. Decisivo l’incontro con imprenditori avveduti. La It’s Right: paghiamo i detenuti quanto gli altri dipendenti

Anche dal carcere si può ripartire per una nuova vita a “recidiva zero”. Con il lavoro è possibile. Lo dimostrano le 30 persone rinate dalla dura esperienza detentiva in istituti di pena lombardi, grazie a progetti di inclusione promossi, in quattro anni di attività, dalla Cooperativa La Valle di Ezechiele di Fagnano Olona, nel Varesotto. «Uno solo di questi ha commesso nuovi reati una volta uscito, ma gli altri conducono una vita da onesti cittadini », racconta il cappellano della Casa circondariale di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi, tra i fondatori della società non profit che dal 23 novembre del 2020, stabilendosi in un capannone dell’ex cotonificio Candiani, è impegnata sul fronte del recupero umano e sociale dei detenuti. Un esempio tra tutti è quello di E. L., 46 anni, recluso di origini albanesi che, da lunedì scorso, è stato autorizzato a uscire dall’istituto penale di Bollate perché ammesso all’articolo 21, che consente di lavorare all’esterno: tutte le mattine parte, va in ufficio e la sera ritorna in cella. L’uomo, ricordano i volontari della cooperativa, è stato sempre un gran lavoratore, anche quando stava dentro 24 ore al giorno: ha fatto il falegname nel laboratorio del carcere, poi lo “spesino”, cioè il detenuto che raccoglie le richieste dei compagni per la spesa nello spaccio del penitenziario e, ultimamente, il manutentore della macchinetta per i caffè. Si è dato sempre da fare per gli altri. Adesso è stato assunto con regolare contratto dalla “It’s Right” di Milano che si occupa dei diritti musicali per musicisti e cantanti: a lui spetta il compito di inserire nel computer, e organizzare in un apposito sistema, i dati sugli artisti che deve trattare l’azienda. A fianco a lui, per svolgere lo stesso lavoro, c’è un suo compagno di detenzione, P. D., un coreano, con il quale, negli otto anni trascorsi insieme dietro le sbarre, è diventato molto amico. Finalmente, con uno stipendio dignitoso, il detenuto albanese può aiutare la moglie e i figli a mantenersi. «Ringrazio soprattutto don David che sin dall’inizio ha creduto in me», commenta. La fiducia, infatti, è il primo ingrediente necessario se si vuole intraprendere un serio cammino di riscatto. Ma non è mai scontata. Bisogna meritarsela. «Servono impegno, volontà da parte di tutti e tanto sostegno della Provvidenza», precisa don David. I progetti di recupero sociale della cooperativa Valle di Ezechiele sono sempre individuali, ritagliati su misura per chi è nelle condizioni, umane e giudiziarie, di poterli sostenere. Ma è necessario trovare la disponibilità di imprenditori del territorio che hanno la mente aperta e comprendono l’utilità di questa “forza lavoro”. Sono vite che possono essere salvate. C’è la “legge Smuraglia” che favorisce l’assunzione di detenuti all’interno delle carceri, con sgravi di tipo contributivo e previdenziale ma, nel caso della Valle di Ezechiele, che opera in provincia di Varese, essenziale è stato l’apporto del prefetto Pasquale Salvatoriello, che ha reso possibile la stipula di protocolli specifici con la locale Camera di Commercio e le associazioni di categoria. Le 30 persone prese in carico finora dalla coop presieduta da Anna Bonanomi (che dopo 26 anni di lavoro in banca con ruoli di responsabilità, si è licenziata per poter svolgere questo impegno sociale a tempo pieno), hanno avuto opportunità in ristoranti, pizzerie, in un birrificio e una ditta importante che produce sacchetti per alimenti, panetterie e pasticcerie. Insomma, la ruota gira nel verso giusto. Il progetto che fa capo alla It’s Right, che ha sede in piazza Fontana a Milano, è partito da sei mesi e potrà essere sviluppato per altri cinque anni, anche per altri detenuti. « La nostra è una società benefit che gestisce, in Italia e all’estero, i compensi per i diritti connessi, dovuti per la pubblica diffusione di musica registrata ad artisti e produttori – spiega il titolare, Gianluigi Chiodaroli –; ad oggi rappresentiamo più di 280.000 artisti e oltre 6.600 produttori discografici italiani e internazionali. Abbiamo costituito un’unità di lavoro nella sede della Valle di Ezechiele, per offrire loro una formazione base legata all’attività lavorativa d’ufficio per l’acquisizione di competenze nella gestione di grandi banche dati. Il nostro obiettivo – conclude Chiodaroli – è arrivare a creare una organizzazione integrata tra i nostri dipendenti e i detenuti che sono retribuiti con uno stipendio parificato a quello applicato ai nostri dipendenti ». Inoltre, per questi progetti, l’impresa di servizi non ha usufruito di alcuna agevolazione statale. «Lo facciamo perché crediamo nella funzione sociale che un’azienda come la nostra può svolgere».




Amerai il tuo Dio in tutto il tuo cuore…
Erri De Luca

AMERAI IL SIGNORE TUO DIO IN TUTTO IL TUO CUORE, IN TUTTO IL TUO FIATO, IN TUTTE LE TUE FORZE.

Erri De Luca ( da “Penultime notizie circa Ieshu/Gesù”. La caloria pulita.  Ed. Messaggero, Padova)

 Cosa aveva di speciale la divinità della scrittu­ra sacra che irrompeva in margine al Mediterraneo, nel tempo e nel luogo più politeista della storia dell’umanità? Sulle coste fumanti di altari dedicati alle più innumerevoli schiere divine, spuntava la notizia di una divinità unica e sola che escludeva tutte le altre. Cosa aveva di più il monoteismo per cancellarle dalla superficie del suolo e dalle profondità dei riti?
La sua notizia non si appoggiava su un popolo potente che poteva imporla con le armi, né impie­gava la lingua dominante, l’inglese dei suoi tempi. La differenza stava e resta in questo: l’uso del verbo amare. Amava e chiedeva di essere riamata. Bussa­va alla più forte delle risorse umane. Nessuna delle divinità precedenti pretendeva tanto.
«E amerai Iod[1] tuo Elohìm» la formula ebraica è un imperativo al futuro. È meno perentoria di un imperativo presente. «E amerai» è un programma di perfezione, da realizzare con l’esperimento, con allenamento. Così forzerai i limiti delle capacità, allargherai dentro di te la produzione della caloria pulita dell’amore, che arde senza consumarsi.
Amerai Iod tuo Elohìm: ma come? Qui la di­vinità non lascia alla discrezione personale, ma impone una formula: «In tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze».
Nelle traduzioni si legge più spesso: «con tut­to il…», «con» e non «in». L’ebraico dice «in», dentro il cuore, dal suo interno e non con lo strumento del cuore. È una differenza che misura la distanza di oggi da quella notizia sacra. Per noi og­gi il cuore è un organo di servizio, un meccanismo che la chirurgia manipola, restaura con bypass e pacemaker, perfino sostituisce. Per noi moder­ni il cuore è un organo sprovvisto d’intenzione, tutt’al più è l’eterno fanciullo che s’innamora a ogni età. Perciò traduciamo «con» il cuore, per mezzo di quest’organo meccanico. Per gli ebrei di quelle scritture, il cuore è il centro di comando, la capitale della persona umana. Dentro di essa, «in», si sprigiona la forza centrifuga dell’amore per la divinità.
Allora amerai in tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze. Tre volte qui è richiesta la totalità delle energie fisiche, il loro sac­cheggio e svuotamento. E intanto, a prima vista, cosa manca all’elenco? Manca, perché inservibile, la richiesta di ricorrere all’intelligenza della mente, alla sua ricerca e alla sua indagine. Qui, in queste faccende dell’amore per la divinità, non sta nem­meno in coda all’elenco una scienza, uno studio, una teologia. Qui l’amore rastrella tutt’altre forze, quelle piantate in ogni creatura come linfa in un albero. Qui si chiede alla linfa di salire.
In tutto il tuo cuore. Per l’ebraico antico il cuore è come un re nella battaglia, sta al centro delle decisioni e delle pron­tezze. La nostra civiltà mette al governo la testa, relegando il cuore a pentola di emozioni. Per noi la testa è adulta, il cuore è infanzia. Dobbiamo risalire al primo tempo, all’urto del monoteismo in mezzo al mondo, per ridare peso al cuore e così intendere la richiesta di Salomone. Quando riceve in sogno l’offerta di un dono da parte della divinità, rispon­de senza esitare: «un cuore che ascolta» (1 Re 3,9). Salomone il saggio per eccellenza, il leggendario sapiente esperto in tutte le conoscenze, il principe degli intellettuali di ogni tempo, chiede e ottiene un cuore che ascolta. Perché è quello l’organo del­l’intelligenza. L’antico ebraico sapeva che la cono­scenza si radica nel cuore, non nel remoto cervello, sede di organi di superficie, naso, occhi, orecchie, gusto. Sa che senza uno scatto di cuore, non si fissa esperienza. Solo il cuore conosce la profondità e non si concede pausa, a differenza della testa che ha bisogno di spegnersi nel sonno. Di questo sta parlando la divinità quando chiede di essere amata «in tutto il tuo cuore». Come misurare questo tutto? Non si dà scale di valori, non va a litri, a chili. Misura è il riempi­mento dei bordi, sentire che tracimano. L’esperien­za di avere superato la capienza del proprio cuore è l’unità di misura. La certezza di essere arrivati al colmo della capacità di amare è l’esperienza ri­chiesta. È estremista la divinità che la richiede. Ma essa sa che l’amore è una strana provvista: solo quando è al suo colmo ed è tutta versata fino allo svuota­mento, solo a quel punto aumenta. Chi dà tutto in amore non si ritrova sul lastrico, ma più fornito di prima. È misteriosa ma certa la sua legge: esige il consumo totale per aumentare. «O siate men soave o ingrandite il mio cuore», chiede santa Caterina per poter reggere la piena del suo amore per la divi­nità. E la divinità non ci pensa nemmeno a essere da meno, perciò tocca al cuore di allargarsi. Rimesso il pezzo al centro, non suona più estremista la richiesta di amare «in tutto il tuo cuore».
«E in tutto il tuo fiato»? Pure. Con la pienezza di voce e di polmoni, con parole e con canti, con so­spiri e singhiozzi e sorrisi, con tutta la varietà degli strumenti a fiato, con tutte le sfumature di volume dal bisbiglio al grido. La divinità vuol essere chia­mata. Serve l’intera scorta di fiato fino all’apnea per poi riempire di nuovo gli alveoli. Ogni sportivo sa che la sua riserva è accumulata dall’allenamento che forza i limiti di tenuta e di resistenza. Così è la richiesta di amore «in tutto il tuo fiato»: ogni volta svuotato fino al bisogno violento di inghiottire al­tra aria da naso e bocca per proseguire, sollevando il torace per accogliere la nuova scorta, il fiato è forza di vita indipendente dalla volontà. Chi ama così, in tutto il fiato, non ha resto per altri pensieri, altre mosse. Chi ama così è intero, un’unica intenzione. È uno, come una è la divinità. Questo modo di amare, è il suo «uno a uno», che non è una x sulla schedina, non è pareggio, è sac­cheggio di ogni risorsa. In matematica uno per uno dà risultato uno. In amore uno per uno fa avvenire lo scambio, l’andata e ritorno da uno a uno.
«In tutte le tue forze»: anche il resto del corpo, nervi, ossa, muscoli, organi, tessuti sono coin­volti dalla piena d’amore. Dopo cuore e fiato, fornitori d’ossigeno, tocca alle forze far reagire il corpo all’unisono. È un coro il corpo umano e solo nell’amore raggiunge la stesa nota, tonalità e volume. È strano come sia così esperta di fisiologia la notizia sacra. Esercita la sua presa sul corpo intero, lo coinvolge non come strumento, ma come fine dell’esperimento dell’amore, massimo sentimento estrai bile dal giacimento delle risorse umane. Qui le forze del corpo sono luci accese tutte insieme, qui c’è irradiazione dall’interno che si sprigiona fuori e niente resta spento, inerte, in ombra. La no­tizia sacra implica una risposta atletica del corpo, e ne è capace anche il più ferito, il più malato.
A differenza di cuore e di fiato, le forze dipen­dono da una volontà, da un’intenzione. Arrivano perciò in fondo alla lista delle tre totalità. Dopo cuore e fiato arriva il turno di prontezza del resto della persona. Le sue forze vanno ad aggiungersi spontaneamente alle altre due indipendenti.
Non so se la teologia cristiana si sia già im­padronita di questa trinità del corpo impegnata nell’amore. Dal mio punto di vista la somiglianza è fatta: padre è il cuore, figlio il fiato, spirito santo le forze riunite. Sono tre punti di un’unità tenuta insieme dal comando di amare. Senza questa energia che li concentra; cuore, fiato e forze si disperdono nei loro circuiti separati.
«E amerai Iod tuo Elohìm»: il verbo imperativo è al futuro perché il traguardo di questa perfezione è fuori portata, ma chiama lo stesso in quella dire­zione. La divinità chiede amore perché esso colma chi lo dà, non chi lo riceve. Chiede amore non per riceverlo, ma per addestrare la creatura a darlo. Così il monoteismo ha fatto breccia nel fitto degli idoli e ha sbaragliato la loro concorrenza accam­pandosi in cuore, fiato e forze della persona.
Ma non è solo affare tra divinità e creatura, questo amore. «E amerai il tuo compagno come te stesso», è scritto in Levitico/Yaikrà (19,18). È ope­ra difficile. Qui per compagno s’intende il vicino, anzi il prossimo che è superlativo di vicino, cioè il più vicino a te. Perché non ti è imposto di amare tutta l’umanità, però quella che sta nel tuo raggio, che inciampa un metro avanti, quella persona sì. Nel comandamento c’è un tu e c’è una persona da amare, perché l’amore avviene da uno a uno.
L’ordine della frase: «E amerai il tuo compagno come te stesso», dice: prima amerai il tuo compa­gno. Così conoscerai l’amore per te stesso. La quan­tità di amor proprio sarà quanto l’amore dato al prossimo. Lo amerai, così amerai te stesso. L’egoista è scarso perché sviluppa poco amore, ama se stesso ma non quanto potrebbe, se sviluppasse attraverso l’amore per il prossimo. L’egoista si esclude dal cir­cuito di arricchimento dell’amore, che passa attra­verso l’amore per il prossimo. L’egoista è anemico.
Invece più ami il prossimo, più amerai te stesso. La scrittura sacra conosce notizie che sembrano nuove a ogni generazione che le sperimenta.
Infine c’è in questo comandamento la racco­mandazione di amare anche se stessi. Amare l’al­tro non più di se stessi, ma come. Non si deve esagerare per entusiasmo, non si deve guastare il meccanismo sano dell’amore per il prossimo, che poi ricade sopra se stessi. La persona è importante, non deve annullarsi per l’altro e per l’altrui. Deve tenerli in pari, l’amore per il prossimo e quello per se stessi.


[1]  la lettera Jod  è la prima lettera del nome impronunciabile JaHWeH. Per non pronunciare il NOME lo si sostituisce pronunciando solo la prima lettera JOD.




La regalità di Cristo è pienezza d’umano
Ermes Ronchi

La regalità di Cristo è pienezza d’umano
Ermes Ronchi (Avvenire 22/11/2012)

Due uomini, Pilato e Gesù, uno di fronte all’altro. Il confronto di due poteri opposti: Pilato, circondato di legionari armati, è dipendente dalle sue paure; Gesù, libero e disarmato, dipende solo da ciò in cui crede. Un potere si fonda sulla verità delle armi e della forza, l’altro sulla forza della verità. Chi dei due uomini è più libero, chi è più uomo? È libero chi dipende solo da ciò che ama. Chi la verità ha reso libero, senza maschere e senza paure, uomo regale.
Dunque tu sei re?
Il mio regno però non è di questo mondo.
Gesù rilancia la differenza cristiana consegnata ai discepoli: voi siete nel mondo, ma non del mondo. I grandi della terra dominano e si impongono, tra voi non sia così.
Il suo regno è differente non perché riguardi l’al di là, ma perché propone la trasformazione di «questo mondo». I regni della terra, si combattono, i miei servi avrebbero combattuto per me: il potere di quaggiù ha l’anima della guerra, si nutre di violenza. Invece Gesù non ha mai assoldato mercenari, non ha mai arruolato eserciti, non è mai entrato nei palazzi dei potenti, se non da prigioniero. «Metti via la spada» ha detto a Pietro, altrimenti la ragione sarà sempre del più forte, del più violento, del più crudele. Dove si fa violenza, dove si abusa, dove il potere, il denaro e l’io sono aggressivi e voraci, Gesù dice: non passa di qui il mio regno.
I servi dei re combattono per i loro signori. Nel suo regno no! Anzi è il re che si fa servitore dei suoi: non sono venuto per essere servito, ma per servire.
Un re che non spezza nessuno, spezza se stesso, non versa il sangue di nessuno, versa il suo sangue, non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso per i suoi servi. Pilato non può capire, si limita all’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei. Che io ho sconfitto. Ed è stato involontario profeta: perché il re è visibile proprio lì, sulla croce, con le braccia aperte, dove l’altro conta più della tua vita, dove si dona tutto e non si prende niente. Dove si muore ostinatamente amando. Questo è il modo regale di abitare la terra, prendendosene cura.
Pilato poco dopo questo dialogo esce fuori con Gesù e lo presenta alla folla: ecco l’uomo. Affacciato al balcone della piazza, al balcone dell’universo lo presenta all’umanità: ecco l’uomo! l’uomo più vero, il più autentico degli uomini. Il re. Libero come nessuno, amore come nessuno, vero come nessuno. La regalità di Cristo non è potere ma pienezza d’umano, accrescimento di vita, intensificazione d’umanità: «il Regno di Dio verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci).
(Letture: Daniele 7, 13-14; Salmo 92; Apocalisse 1, 5-8; Giovanni 18, 33-37)




24 novembre 2024. FESTA PASQUALE di CRISTO SIGNORE.

FESTA PASQUALE di CRISTO SIGNORE.

Preghiamo. O Padre, che hai mandato nel mondo il tuo Figlio, Signore e salvatore, e ci hai resi partecipi del sacerdozio regale, fa’ che ascoltiamo la sua voce, per essere nel mondo fermento del tuo regno di giustizia e di pace. Per Gesù Cristo il nostro Signore.
Dal libro del profeta Daniele 7,13-14
Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo  uno simile a un figlio d’uomo;  giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.  Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai,  e il suo regno non sarà mai distrutto.
Salmo 92. Il Signore regna, si riveste di splendore.
Il Signore regna, si riveste di maestà:  si riveste il Signore, si cinge di forza.
È stabile il mondo, non potrà vacillare.  Stabile è il tuo trono da sempre,  dall’eternità tu sei.
Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti!
La santità si addice alla tua casa  per la durata dei giorni, Signore.
Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo 1,5-8
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.  A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.  Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!  Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!
Dal Vangelo secondo Giovanni 18,33-37
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».  Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

QUESTO CROCIFISSO E’ IL SIGNORE. Don Augusto Fontana

Senza re, regine, cavalli e fanti.
L’ultima Domenica dell’Anno liturgico ha tutte le connotazioni della festa di Pasqua. La festa, di fatto, celebra in sintesi tutto il mistero di Cristo nel tempo: «Cristo ieri, oggi e sempre; a lui gloria e potenza nei secoli in eterno[1] ». La festa fu istituita da Pio XI nel 1925 per reagire al laicismo: se Cristo è Re, vuol dire che la chiesa è Regina! Ciò è avvenuto sia in epoche di clericalismo e sia in epoca laicista quando la Chiesa rivendicò leadership per il traino di legislazioni a favore delle proprie strutture e per la salvaguardia di valori ritenuti irrinunciabili. E’ anche vero che con il franare del regime di cristianità, la società rischia di mettere in causa una giusta concezione della regalità di Cristo relegandola al puro ambito dello spirito e delle sacrestie, ma ciò non giustifica nostalgie bigotte ed integraliste; semmai spinge i cristiani ad inventare nuove forme dolci e convincenti di presenza nella convivenza sociale evitando forme di massoneria o di lobbys cattoliche. I delegati alla Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia[2] in San Paolo fuori le Mura: «Chiesa esci dalla comfort zone! Negli anni Settanta del secolo scorso uno slogan in voga era “Cristo sì, la Chiesa no”. Oggi il no si è esteso anche a Cristo. Di qui la necessità di puntare tutto nuovamente sulla centralità di Gesù, dando valore ai germogli che già ci sono».
Scrive Olivier Clément in “IL POTERE CROCIFISSO”[3]:  «A poco a poco capiremo che il cristianesimo non è un’ideologia che aspira ad essere imposta con la forza dello Stato. I mezzi del potere sono estranei al cristianesimo che sarà sempre più un fermento, una luce, una profezia, un esempio che non impone nulla e si presenta nell’umiltà».
Il monaco Enzo Bianchi nel suo “LA DIFFERENZA CRISTIANA”[4]  scrive: «La fede è così mondanizzata e la chiesa politicizzata, a tal punto da essere ferita nella sua qualità comunionale. Emerge ormai un cristianesimo senza fede intesa come quella adesione a Gesù Cristo che si traduce in una sequela, in una vita totalmente coinvolta nella sua vita fino, diciamolo chiaramente, alla croce. Ciò che invece conta ed è determinante non è più la sequela – questa faticosa, esigente, perseverante condotta di vita secondo il vangelo. Non importa più la coerenza tra quel che si vive, personalmente e comunitariamente, e le esigenze poste da Cristo ai suoi discepoli in materia di sessualità, di matrimonio, di capacità di condivisione, di giustizia, di riconciliazione e di pace. In una parola: non si guarda più se in una persona sono presenti quelle «obbedienze» al vangelo che «fanno» il cristiano, nonostante e al di là delle fragilità umane che sempre lo accompagneranno; si guarda invece alla capacità di assumere il cristianesimo come identità culturale, come istanza religiosa nel pluralismo delle fedi, come possibilità di coesione in un mondo frammentario e diviso».
Gesù: la sua prassi messianica nel contesto del suo tempo[5].
Gesù non si attribuì mai il ruolo di Re e quando qualcuno volle farlo Re si rese irreperibile. Imponeva anche il “silenzio messianico” a coloro che avevano fretta di annunciare, prima della croce, la sua prassi messianica. Aveva detto di essere il Pastore, la Via, la Verità, la Vita, lo Sposo, il Maestro, il Figlio del Padre, la Vite. Per quale reato allora arrivano a processarlo? Ricostruiamo alcuni tratti della prassi messianica di Gesù all’interno del sistema di organizzazione sociale e religiosa del suo tempo.  Tutta la Legge giudaica può essere suddivisa in sistemi di proibizioni. Erano considerati impuri alcuni cibi, il sangue animale e umano, il sangue mestruato e lo sperma, alcune malattie infettive come la lebbra. Gli animali destinati ai sacrifici non dovevano avere difetti ed i sacerdoti ciechi o rachitici non potevano salire sull’altare del sacrificio. La circoncisione definiva l’area di appartenenza al popolo di Jahwè, Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Con il rispetto del Sabato, del Tempio e del culto si doveva, in un certo senso, saldare i debiti con Dio che donava vita, cibo, Legge e perdono. Il Tempio era anche una specie di banca per il finanziamento delle opere pubbliche e religiose. Poichè queste prescrizioni erano spesso disattese, si era formata una “setta” detta dei farisei, osservanti di interminabile serie di casistiche e precetti, in contrapposizione ai sadducei più materialisti e lassisti. Chi trasgrediva palesemente le interdizioni legali era considerato pubblicano (peccatore pubblico) o, se malato di mente, veniva considerato indemoniato. Alla base della piramide di tutto il sistema stavano i pagani incirconcisi che non potevano entrare nelle case degli Israeliti nè sposare le loro figlie. In ogni villaggio o città la sovrastruttura politica era composta dal consiglio degli anziani costituito da membri puri di razza e ricchi; dovevano risolvere i litigi ed emettere le sentenze. Questo apparato veniva controllato da lontano dal Procuratore romano che risiedeva al Nord (Galilea). Sommi sacerdoti, grandi proprietari e commercianti collaboravano con il potere invasore. Il proletariato e la piccola borghesia, angariati dall’apparato giudaico, negli anni 66-70 si unirono ai guerriglieri zeloti nella ribellione contro Roma. Gli zeloti erano composti da lavoratori agricoli e schiavi fuggiaschi che si organizzavano in bande armate, rifugiandosi sulle montagne della Galilea, compiendo incursioni e, in caso di cattura, venivano crocifissi. Gesù diventa una minaccia a tutto questo sistema: “Il Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato. Il Figlio dell’uomo è Signore anche del sabato” (Mc.2,27). La lacerazione inizia puntualmente: “Appena usciti, i farisei si riunirono immediatamente con i seguaci di Erode per tramare contro di lui e decidere di eliminarlo” (Mc. 3,6). Gesù si sottrae ad ogni populismo ambiguo ed adotta una strategia di semi-clandestinità: si ritira spesso da solo a pregare o si sottrae alle folle in luoghi deserti. Il vero rischio che Gesù teme non è quello della vita, ma quello dell’interpretazione del suo messianismo in termini trionfalistici. Il pericolo di questa ambigua interpretazione non veniva solo dalle folle, ma anche dall’interno del suo gruppo di discepoli tra i quali c’era Simone il cananeo e Giuda il sicario (chiamato abitualmente Iscariot): forse due zeloti. Quando, come scrive il Cap.11 di Marco, Gesù arriva a Gerusalemme il grido popolare è uno slogan abitualmente usato nelle manifestazioni zelote: «Hosanna! (Salvaci!). Benedetto sia, nel nome del Signore, colui che arriva! Benedetto sia il regno che viene, il regno del nostro padre Davide». Ma Gesù aveva già adottato una strategia che non lasciava dubbi: era entrato seduto su un asinello che serviva per il trasporto quotidiano, mentre le incursioni zelote venivano fatte con i cavalli. Tuttavia, affermare che Gesù non volle essere considerato un Messia secondo le aspettative del tempo, non significa ridurlo ad un Messia delle anime o fuori della storia. Di fatto Gesù adotta una prassi messianica: con la prassi delle mani si dedica alla creazione di rapporti economici nuovi, per la condivisione e il servizio, per la riammissione, nel circuito sociale e religioso, degli esclusi; con la prassi dei piedi e del camminare va incontro e cerca. Gesù fu un rabbi itinerante anche in territori impuri. Egli si fa vicino e prossimo invitando a fare altrettanto; con la prassi del cuore Gesù dissequestra Dio dal culto formalista e dalla preghiera esteriore per farlo diventare un Padre con cui entrare in rapporto filiale da parte di chiunque ed in qualsiasi momento o luogo.
Celebrare e vivere Cristo-Signore.
Riconoscere che Cristo è mio-Signore «significa – come dice il Card. Martini[6]  – che Dio è imprevedibile, che la sua azione nei nostri riguardi è libera e sovrana, che non possiamo mai calcolare niente in anticipo».
Riconoscere e celebrare Cristo-Signore significa ridare anche consistenza al ruolo Sacerdotale e liturgico di ogni battezzato. Benchè piccola e balorda che sia, ogni assemblea liturgica anticipa nel tempo la liturgia finale del regno.
Riconoscere e celebrare Cristo-Signore significa che ogni battezzato dovrà scoprire il valore cristiano della sua prassi messianica nel lavoro, in famiglia, nel volontariato, nel rispetto della creazione e della vita, nell’accoglienza dei piccoli, nella riammissione degli esclusi.
Riconoscere e celebrare Cristo-Signore significa mantenere vivo il sospetto contro le multiformi idolatrie. L’indimenticabile monaco Carlo Carretto dedicò a questo tema un capitolo del suo CIO’ CHE CONTA E’ AMARE[7]: «Mi sono chiesto sovente dove risiede il pericolo dell’idolatria. Io penso che il pericolo è in noi e che il peccato di idolatria sia un peccato di tutti i tempi. L’uomo dell’Antico Testamento aveva la tentazione di farsi un idoletto di legno o di avorio o di argento per metterlo penzoloni alla sella del suo cammello e l’uomo d’oggi ci prende gusto a mettere un santino in tasca al posto di Dio. E’ la stessa cosa, più o meno. L’uomo vuol fuggire allo sforzo di pensare Dio nella sua pura Trascendenza, nel suo Mistero e trova più comodo dargli un volto a buon mercato che rimpiazzi la sua intoccabilità con qualcosa che si possa toccare e che stia vicino e che soprattutto abbia tanti poteri taumaturgici da guarire quando si è malati e da arricchirci quando si è poveri. Qui non sto parlando male del culto dei santi. Tale culto è una cosa seria quando fa parte ed è tutt’uno con l’altro culto che gli è centrale: il culto e l’adorazione di Dio. In origine erano oggetti cristiani degni di culto, ora in mano agli idolatri sono diventati idoli. Quanti idoli fatti di medaglie, immagini, crocette. Non temo di dire che quanto più scade la fede autentica, illuminata, forte in un popolo, più aumentano le botteghe dei santini. Io ne ho trovato ovunque di questi altari dell’idolatria moderna, perfino in chiesa. Immaginiamo fuori! E’ certo che l’idolatria e la superstizione sono ancora forme religiose anche se deteriori e accompagnano sovente l’uomo non più illuminato dalla fede».
Scrisse Bonhoeffer, pastore luterano impiccato dai nazisti: «Dio non deve essere riconosciuto solo ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita».


[1] Lettera agli Ebrei 13,8; Apocalisse 1,6.
[2] AVVENIRE sabato 16 novembre 2024
[3] Ed,Qiqajon, Bose, 1999, pag. 64
[4] Ed. Einaudi
[5] Mi avvalgo di F.Belo “Una lettura politica del vangelo” Ed. Claudiana.
[6] C.M.Martini, Il Dio vivente, PIEMME, 1991, pagg. 59-61.
[7] Ed. Fondazione Apostolicam actuositatem, 2004