Un pastore capace di commuoversi
P. Ermes Ronchi

Un pastore capace di commuoversi
Padre Ermes Ronchi – Avvenire (20 Luglio 2003)

Gesù si commosse per loro. Questa parola “si commosse” bella come un miracolo, è il filo conduttore del racconto. All’inizio Gesù si commuove per i discepoli: li aveva mandati a due a due, sono tornati carichi d’umanità toccata, di umanità guarita, diventati creatori di comunione al punto che per la folla non hanno neanche più il tempo di mangiare.

Gesù mosso a compassione dice: Venite in disparte, in un luogo solitario e riposatevi un po’. Israele è pieno di vedove di Naim che piangono figli morti, pieno di adultere colte in flagrante e di mani pronte a lapidarle, pieno di lebbrosi e di urgenze, e Gesù, invece di buttare subito i suoi dentro i campi sterminati del mondo, li attira nel deserto. Quasi a perdere tempo. Ma come sempre nella bibbia, il deserto è per parlare al cuore (cf Osea 2). Il “riposo in disparte” non è la pausa tra due lavori, un’occasione per riprendere fiato, è molto di più. È vivere il settimo giorno di Dio, “quando vide che tutto era bello e si riposò“. La vera terra promessa non è un luogo, ma un tempo. Questo tempo è il settimo giorno, e ogni festa è un’altra cattedrale elevata non più nello spazio ma nel tempo. Là Egli parlerà al cuore, là attirerà a sé: rivelazione e presenza. Nel giorno del riposo e della festa, il Signore concede ciò che ha veramente promesso: se stesso. E spiega il segreto del Regno.

Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro. Gesù è preso fra la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. Ed in questo conflitto egli insegna agli apostoli, e a noi, l’arte più difficile: quella di dimenticarsi. Era partito con un programma, ora è pronto a modificarlo. Partiti per restare soli, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell’uomo, sempre. Gesù dice: prenditi del tempo. E subito aggiunge: ma il tuo tempo non è tuo. Appartiene alla commozione per l’uomo, alla compassione.

 Gesù si commosse: egli non è mai se stesso come quando può essere misericordioso e mostrare pietà. E quanto più siamo feriti dalla vita, tanto più il suo cuore si commuove per noi, e segue le nostre tracce, lungo tutti i sentieri in cui ci smarriamo, vite senza pastore. Non per rimproverarci, ma per offrirci riposo, parlare al cuore, dare se stesso.

Si mise ad insegnare loro molte cose. Ma la prima cosa che i discepoli imparano da Gesù è quella di semplicemente, divinamente commuoversi. Il tesoro che porteranno con sé dalla riva del lago è il ricordo dello sguardo di Gesù che si commuove. Lo stesso tesoro che i cristiani devono salvare oggi: il miracolo della compassione.




21 luglio 2024. Domenica 16a
CELEBRARE TEMPI DI RESPIRO. INSIEME.

16 domenica B

Preghiamo. Dona ancora, o Padre, alla tua Chiesa, convocata per la Pasqua settimanale, di gustare nella parola e nel pane di vita la presenza del tuo Figlio, perché riconosciamo in lui il vero profeta e pastore, che ci guida alle sorgenti della gioia eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Geremia 23,1-6
“Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo”. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio di Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: “Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io mi occuperò di voi e della malvagità delle vostre azioni. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una”. Oracolo del Signore. “Ecco, verranno giorni – dice il Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con cui lo chiameranno: ‘‘Signore-nostra-giustizia’’”.
Salmo 22. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 2,13-18
Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.
Dal Vangelo secondo Marco 6,30-34
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’». Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

CELEBRARE TEMPI DI RESPIRO. INSIEME.  Don Augusto Fontana

«Anche gli animali avevano preteso da Domineddio il diritto alla domenica. “Cosa volete?” chiese il Signore. “Per me la domenica – disse il leone – è un gran bel mangiare la preda che afferro”. Il ghiro: “Per me è un gran bel dormire”. La scimmia: “Un gran bel ballare di ramo in ramo”. Il pavone: “Un grande sfoggio della mia ruota passeggiando in su e in giù”. E il maiale: “ Rigirarmi nella pozzanghera e poi asciugarmi al sole”. Furono accontentati. Ma poche domeniche dopo si presentarono tutti col muso lungo davanti al Creatore: “Queste domeniche non ci accontentano…”. “Sapete perché? – disse il Signore – Perché non avete capito che per fare domenica occorre qualcuno con cui stare insieme e parlare cuore a cuore”»[1].  Le favole sono il sorriso della sapienza innocente. O sogni di terre senza luogo? L’ho narrata a un giovane, di quelli che a fine settimana lavora con un “contratto week-end”, part-time verticale: 20 ore settimanali concentrate al sabato e alla domenica per uno stipendio di 600 euro al mese. Ultima ed estrema formula di lavoro flessibile. La favola franò in un silenzio senza sorriso, eloquente di perplessità. Forse – pensai – non si era sentito troppo onorato nel trovarsi classificato tra scimmie e maiali. O forse sognava un’improbabile domenica, una distesa sconfinata di tempo per un riposo sabbatico tra gente riunita a danzare la vita, a celebrare silenzi e memoriali di Dio, futuri cieli e terre nuove. Entrai in quegli occhi. Gli stessi dell’amico medico in turno di guardia dal sabato sera al lunedì mattina; stessi occhi delle lavoratrici con famiglia, casalinghe della domenica per condanna o per amore; stessi occhi dell’assonnato doppio-lavorista che incontro al bar mentre vado all’assemblea del Giorno del Signore.
In quegli occhi la domenica fa problema; per necessità indotte, fittizie, reali, invincibili. Problema di chiesa, ma non meno che di vissuto collettivo: siamo rassegnati in attesa che giunga da chissà quale Messia la saggezza di salvare, anche per noi preti, dei tempi di riposo per “essere” e per “stare insieme”. Attesa di celebrare il nostro fiato all’unisono con il solido respiro Pasquale del Signore: «In sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo giorno ha cessato e ha ripreso fiato» (Esodo 31,17. In ebraico: nefesh non significa “riposo” ma “fiato, respiro”). Riposarsi, prendere fiato (Spirito), respirare profondo: non è un’oziosa eccezione per divinità borghesi, ma vocazione universale per creature interpellate dal Qoelet: «Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?»[2]. Il profeta Amos (8,11)  gridava: «Verranno giorni, dice il Signore, in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane nè sete di acqua, ma di ascoltare la Parola del Signore».
Il Catechismo della Chiesa cattolica ricorda:«Le necessità familiari o una grande utilità sociale costituiscono giustificazioni legittime di fronte al precetto del riposo domenicale[3]. I fedeli vigileranno affinchè legittime giustificazioni non creino abitudini pregiudizievoli per la religione, la vita di famiglia e la salute».
Si riunirono attorno a Gesù.
«Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro:  «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’».  Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare» (Marco 6, 30-31). Il testo di Marco appartiene ai Sommari; brevi passaggi di testi che servono a concentrare i temi precedenti e lanciare le pagine successive. Il testo della liturgia odierna nasce dall’invio in missione e si concluderà con la sezione dedicata al deserto, al pane donato in abbondanza, al gregge disperso che morirebbe sfinito senza l’efficace compassione di Gesù pastore.
Una missione, dunque, si è compiuta; da Marco non si sa come sia andata. Per Luca, invece[4], pare che sia andata bene, visto che ha voluto annotare la gioia dei discepoli, che contagia anche Gesù. Marco, più sobrio, mette in bocca a Gesù l’invito a seguirlo nel riposo. E’ una vocazione: “Venite!”. Ha bisogno di ripetere alla sua comunità di non illudersi delle masse che si accalcano: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode. Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore» (Salmo 127,1). Già nel suo primo capitolo l’evangelista Marco aveva annotato che Gesù, di fronte alla pressante ricerca delle folle, adotta due scelte: non lasciarsi  “catturare” (Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava) e non lasciarsi “addomesticare” in un cortile (Andiamocene altrove per i villaggi vicini). Inoltre Gesù spesso sente il bisogno di formare la sua comunità, di permetterle di sondare meglio la sua vita e le sue parole. In queste annotazioni di Marco c’è spazio per i mistici, ma anche per chi, come me, molto più prosaicamente ha bisogno di essere allertato sul rischio di diventare vedette o robot. E forse c’è posto anche per noi condannati dal rumore e dal lavoro. Pecore senza pastore, degne più di una compassione profetica («Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»[5]) che di una staffilata moralistica. Mosè aveva chiesto al Signore di mettere a capo della comunità di Israele «un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore» (Numeri 27,17). Eccolo questo pastore. Non come i pastori demagoghi che Geremia individua nel suo capitolo 23: succubi di alleanze scriteriate e di interessi privati in pubblica pastorale. Non mi sottraggo al fastidio di essere stato smascherato dal veggente profeta.  Eccolo dunque questo pastore carismatico capace di empatia e di sorprendente operosità.
Danza seppur con la schiena piegata!
Diastole e sistole, espansione e concentrazione, vita e celebrazione: sono sfide che hanno albe lontane. «Mosè disse a faraone: «Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio!». Il re di Egitto disse : «Perché, Mosè e Aronne, distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri lavori! Fannulloni siete; fannulloni! Per questo dite: Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al Signore. Ora andate, lavorate! Non vi sarà data paglia, ma voi darete lo stesso numero di mattoni» (Esodo 5,3-18)….Il Signore disse: «Per sei giorni si lavorerà, ma il settimo sarà per voi un giorno santo, un giorno di riposo assoluto, sacro al Signore» (Esodo 35).
Triplice è l’alienazione del lavoro che altera i lineamenti dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio: la schiavitù, l’idolatria (del lavoro e dei suoi prodotti), il parassitismo.
Gli uomini della Bibbia, a cui non si può certo rimproverare un eccessivo spiritualismo o ideologismo, hanno spesso collegato il lavoro alla festa e alla gioia. Accostamento per noi, oggi, troppo ardito e incomprensibile. Il lavoro aveva le sue soddisfazioni e comunque era innervato di feste religiose: festa degli azzimi, festa delle settimane, festa delle capanne. L’uomo che lavora con la schiena piegata è anche un uomo che danza e celebra eretto davanti al suo Dio. Dopo l’Esodo, le feste assumeranno un valore celebrativo di eventi meno naturali e più storici. La festa è speranza che apre uno squarcio su terre e cieli nuovi che, dopo aver valorizzato la laboriosità dell’uomo, mostreranno la gratuità di Dio allo stato puro: «O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti» (Isaia 55, 1-2; cf. Isaia 65, 17-23).
La richiesta del popolo, avanzata tramite Mosè, è limitata nel tempo e nello spazio: chiedono solo un breve tempo per celebrare, per riposare. Una liberazione totale non riescono neppure a sognarla e tanto meno ad esigerla. Ma in quella richiesta aleggia una religiosità «pericolosa», una turbolenza nello scorrere indiscusso di un’organizzazione economico-politica. Il faraone adduce motivi religiosi per mascherare la sua insicurezza politica: «Chi è JaHWeH perchè io debba obbedirgli?» (Es.5,2). Mosè ed Aronne vengono denunciati come agitatori che incitano allo sciopero. Il faraone interpreta il culto degli ebrei come ozio, mancanza di produttività, frode. Il riposo connesso con il culto viene dichiarato un’intollerabile scardinamento dell’organizzazione produttiva. Inizia così una fase più dura di sfruttamento. Il capitolo 26 del libro del Deuteronomio potrebbe aiutarci a cogliere il rapporto tra liturgia e lavoro, tra i sei giorni e il settimo. Mosè si rivolge ad Israele nella sua situazione di benessere, nella sua vita normale quotidiana, nella sua vita di comunità pasquale e di liturgia vissuta intorno al Tempio.  Il capitolo 26 regolamenta il dono delle primizie e delle decime dei frutti del lavoro. E’ una catechesi che fa risaltare lo spirito profondo che il Signore vuole da Israele: spirito religioso, ma anche sociale, spiritualità ma anche giustizia distributiva, spirito imprenditoriale ma anche di amore espansivo. La fede celebrata nella liturgia nasce dalla fede sperimentata nella storia. Le primizie devono essere consegnate al levita e allo straniero attraverso un rito liturgico e non come semplice atto amministrativo, fiscale, burocratico. Si dichiara così che la vita è possibile solo perché Dio ha donato la sua terra: «Ho portato le primizie dei frutti del terreno che Tu, Signore, mi hai donato». L’adorazione a Dio è strettamente legata ad un godimento dei beni, ma non egoistico: «Di ogni bene che il Signore ti ha dato ne godrai tu, la tua famiglia, il Levita e lo straniero che abita fra voi».  Anche la decima parte dei beni o dei guadagni veniva portata ogni anno al tempio e ogni 3 anni veniva deposta fuori dalla porta di casa e messa a disposizione di leviti, immigrati, orfani e vedove; viene considerata «cosa sacra» per cui se fosse trattenuta in casa per egoismo produrrebbe un sacrilegio[6]. Il Signore ha posto una tensione inarrestabile e progressiva in questa dinamica di dono, terra, suolo, lavoro, frutti, liturgia, giustizia-carità, comunione, gioia festosa: è vera storia e storia della salvezza il cui centro e fonte è la Liturgia che rimane veramente il luogo privilegiato del farsi continuo della giustizia-carità attraverso il dono divino ed il lavoro umano in sinergia ed ininterrotta cooperazione.
E’ la logica del sabato oggi (2024) violentato da massacri di civili, da odio e sangue. Un ebreo aveva scritto: Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele. La nostra contraddizione è che ci lamentiamo di non avere più tempo, che i nostri rapporti si sono imbarbariti, che non troviamo più il senso di ciò che facciamo e che abbiamo perso la qualità della vita. Di fatto ci è stato donato un giorno per tutto questo. Giorno per stare con il Signore, giorno della assemblea, giorno del riposo, giorno del senso. Più che un luogo (la chiesa) ci è stato donato un tempo (un giorno). Donare tempo è donare vita. Gli ebrei vivevano il sabato come dono di una “decima del tempo” a colui che viene celebrato come Signore della vita e Pastore della Chiesa. Tempo di rivelazione che “Dio è in mezzo a noi”, tempo di recupero della coscienza di appartenere ad un popolo.  “Come è bello e gioioso che i fratelli stiano insieme” (Salmo 133). In giorno di sabato veniva chiamato “esodo settimanale”, Menuchah cioè armonia, quiete, felicità, shalom, delizia, gloria. Come cura contro le nostre nevrosi. Giorno in cui si scopre che Dio abita la sua creazione. E’ giorno di santificazione. Giorno di “anima supplementare”. Giorno di scoperta che l’uomo ha un limite: sta qui il senso della proibizione di non andare oltre una distanza di 1 Km appunto per recuperare un nuovo rapporto con gli oggetti e le persone che lo circondano. Giorno per eccellenza dell’ascolto della Parola del Signore. Giorno della convivialità: tutti, il giorno prima, dovevano aiutare la donna a pulire e cucinare perchè anche la donna fosse libera di godere il piacere del riposo e della convivialità. Stare in riposo e celebrare insieme è un’arte da imparare. Non c’è domenica senza assemblea: non gli uni senza gli altri, non qualcuno al di sopra degli altri, non gli uni contro gli altri, ma gli uni per gli altri.  Nel 1998 veniva pubblicata la Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II,  “Il Giorno del Signore”: «Il legame tra il giorno del Signore e il giorno del riposo nella società civile ha una importanza e un significato che vanno al di là della prospettiva propriamente cristiana.  L’alternanza infatti tra lavoro e riposo, inscritta nella natura umana, è voluta da Dio stesso: il riposo è cosa «sacra», essendo per l’uomo la condizione per sottrarsi al ciclo, talvolta eccessivamente assorbente, degli impegni terreni e riprendere coscienza che tutto è opera di Dio. … Resta anche nel nostro contesto storico l’obbligo di adoperarsi perché tutti possano conoscere la libertà, il riposo e la distensione che sono necessari alla loro dignità di uomini, con le connesse esigenze religiose, familiari, culturali, interpersonali, che difficilmente possono essere soddisfatte, se non viene salvaguardato almeno un giorno settimanale in cui godere insieme della possibilità di riposare e di far festa.  Ovviamente, questo diritto del lavoratore al riposo presuppone il suo diritto al lavoro. Attraverso il riposo domenicale, le preoccupazioni e i compiti quotidiani possono ritrovare la loro giusta dimensione: le cose materiali per le quali ci agitiamo lasciano posto ai valori dello spirito; le persone con le quali viviamo riprendono, nell’incontro e nel dialogo più pacato, il loro vero volto.  Le stesse bellezze della natura – troppe volte sciupate da una logica di dominio che si ritorce contro l’uomo – possono essere riscoperte e profondamente gustate. Dato poi che il riposo stesso, per non risolversi in vacuità o divenire fonte di noia, deve portare arricchimento spirituale, più grande libertà, possibilità di contemplazione e di comunione fraterna…  In breve, il giorno del Signore diventa così, nel modo più autentico, anche il giorno dell’uomo. La domenica deve anche dare ai fedeli l’occasione di dedicarsi alle attività di misericordia, di carità e di apostolato.  L’Eucaristia domenicale, dunque, non solo non distoglie dai doveri di carità, ma al contrario impegna maggiormente i fedeli a tutte le opere di carità, di pietà, di apostolato, attraverso le quali divenga manifesto che i fedeli di Cristo non sono di questo mondo e tuttavia sono luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini».
San Bernardo ai monaci che volevano darsi a pieno ritmo nella dire­zione spirituale, affermava: «La differenza tra un serbatoio e un canale è la seguente: mentre il canale scarica tutte le sue acque appena le riceve, il serbatoio attende fino a quando è colmo; dà ciò può dar via senza impoverirsi. Ora nel­la Chiesa ci sono molti canali, ma pochissimi serbatoi».

Se Israele osservasse perfettamente un solo sabato, il Messia verrebbe subito” (Midrash Esodo Rabbah).


[1] Giuseppe Piozzi Il giorno del Signore, Edizioni S.Paolo, Cinisello Balsamo 1997,  pag. 8-9.
[2] Qoelet 1, 3.
[3] Il riposo domenicale nasce da un processo di sabbatizzazione del Primo Giorno dopo il Sabato (la Pasqua di Gesù) che, inizialmente, rimase giorno di lavoro. La legge del riposo fu introdotta ufficialmente da Costantino nel 321. Ma i Padri della Chiesa non furono molto entusiasti: «E’ lo spirito che deve riposare astenendosi dal peccato».
[4] Luca 10, 17-20.
[5] Matteo 11, 28
[6] Cfr. anche Malachia 3,7-9




14 luglio 2024. Domenica 15a
DUE SANDALI AL VANGELO

15 domenica B

Preghiamo. Donaci, o Padre,  di non avere nulla di più caro del tuo Figlio,  che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Amos 7,12-15
In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».
 Salmo 84  Mostraci, Signore, la tua misericordia.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni1,3-10
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.
 Dal Vangelo secondo Marco 6,7-13
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. 

DUE SANDALI AL VANGELO. Don Augusto Fontana

«I cristiani devono essere poveri – pare che abbia detto un noto presule polemista – ma la chiesa deve essere ricca». Che è come dire: frate povero in ricco convento. Legittimo richiamo a chi è costretto come me alla protesi del portafoglio; ma non è un convincente sdoganamento per la chiesa. Paradossi. Sarebbe come dire, invertendo i fattori: chiesa povera per cristiani ricchi. Qualche volta accade. Per mia colpa, mia grandissima colpa.
«Cammina davanti a me».
«Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E comandò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche» (Marco 6, 7-9). E’ il nostro breviario di viaggio, come lo definisce Silvano Fausti[1]. Sembra un ordine più che un consiglio. L’apostolo Pietro, ricordandosi di questo comando, non s’era organizzato l’8 per mille e aveva detto ad un paralitico: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (Atti 3,6). C’era abituato fin dalle campagne di evangelizzazione che Gesù faceva sperimentare ai suoi come un’aquila che insegna ai piccoli a volare. I Dodici non sono depositari unici di quella missione “ed incominciò a mandarli a due a due”. Il Vangelo è affidato alle mani di tutti e non solo di pochi preti o catechisti. L’evangelista Luca, infatti, allarga la platea: «Il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Luca 10,1).
Camminare davanti a lui. Gesù li aveva chiamati perché “stessero con lui” e “camminassero dietro di lui. Ogni passo in meno o in più avrebbe portato i discepoli alla deriva. Ora li manda avanti come battistrada. C’è una pedagogia del Signore, in tutto questo? La tradizione rabbinica direbbe di sì, come mi pare sostenga Alberto Mello[2]. I genitori camminano “con i figli” più piccoli assumendone gli stessi passi senza anticipi o ritardi, ma poi viene il tempo di invitare i figli a “camminare davanti a loro” come segno di raggiunta maturità. Così nell’interpretazione rabbinica si mette in evidenza la diversa posizione di Noè e di Abramo; del primo si dice che «camminava con Dio» (Genesi 6, 9), del secondo si ricorda l’invito di Dio: «Cammina davanti a me e sii integro» (Genesi 17,1). «Abramo cammina non solo “con” Dio, ma perfino “davanti” a lui: lo precede, gli apre la strada…Al più piccolo (cioè a Noè) il padre dà la mano e gli cammina insieme. Ma al più grande (cioè ad Abramo) il padre dà tutta la libertà di corrergli davanti, di trovare da sé la sua strada»[3].  Il Concilio Vaticano II° stimola i battezzati a vivere la fede non solo come obbediente intimità, ma anche come partecipata missione: «L’apostolato dei laici, che nasce dalla stessa vocazione cristiana, non può mai mancare nella chiesa…Si abituino i laici a lavorare nella parrocchia intimamente uniti ai loro sacerdoti, ad esporre alla comunità della chiesa i propri problemi e quelli del mondo e le questioni che riguardano la salvezza degli uomini perché siano esaminati e risolti con il concorso di tutti; diano, secondo le proprie possibilità, il loro contributo ad ogni iniziativa apostolica e missionaria della propria famiglia ecclesiale… Questa evangelizzazione o annuncio di Cristo, fatta con la testimonianza di vita e con la parola, acquista una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni di vita quotidiana»[4].
I Dodici, dunque, insieme ai discepoli. Il pubblico si sta assottigliando, ma Gesù non demorde; chiama alcuni senza smettere di invitare i molti, anche le folle. Il Regno di Dio non è una partita di Champions League, pochi campioni che giocano incitati dal tifo di molti. Chi lo vuol seguire non può stare in panchina: «Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”» (Marco 8, 34). Tutti ad evangelizzare. E senza attrezzi o, meglio, con quei soli attrezzi compatibili con il suo, una croce. La croce che chiede di portare non è, a dispetto di certa predicazione doloristica, l’accettazione stoica di un mal di pancia o di un collega fetente o di una moglie petulante. È invece l’accettazione di una “fede a caro prezzo”, quella che ci trasferisce da una condizione di consumatori del supermarket della religione a testimoni coscienti. È la croce di una compromessa passione per il Regno di Dio, di una fede pasquale che sia attiva e responsabile, narrabile e seducente. La missione conosce i rifiuti spesso dovuti alle nostre colpevoli presunzioni e deficienze. Qualche volta il fallimento o l’indifferenza nascono dall’innocente fedeltà al messaggio: il profeta Amos, narra la prima lettura (Amos 7,10-17), va in rotta di collisione con Amasia, sacerdote del santuario di Betel, un santuario nato sano e imbastarditosi lungo la sua storia. Lì, in origine, Abramo aveva costruito un altare al Signore, compagno del suo viaggio di fede (Genesi 12, 8). Su quell’altare, più tardi, il re Geroboamo costruirà una copia del vitello d’oro asservendo altare, sacerdoti e culto alla propria politica espansionistica (1 Libro dei Re, 12, 28-33). La miscela di religione e potere è sempre micidiale; il profeta Amos resta vittima del loro patto mafioso: «Vattene, veggente, va a mangiare il pane altrove, ma non profetizzare più a Betel perché questo è il santuario del re e il tempio del regno». Amos scuote la polvere dai sui sandali dichiarando così che il santuario è terra pagana e impura. Anche il santuario può essere territorio da evangelizzare e luogo di sofferenza per la profezia.
Comunque non si va per piazzare una merce, non per scimmiottare managerialità aziendalistiche, ma per liberare, per penetrare fin là dove si annida il male profondo: «E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Marco 6, 12-13).  Gesù non vuole operare da solo e non intende creare una comunità stanziale, statica e isolata. Chiede una comunità che viva tra la gente, entri nei villaggi, stia tra i peccatori, frequenti gli incroci delle città. Oggi i crocicchi e gli incroci tagliano trasversalmente non solo le planimetrie urbane. Nuove sfide e nuovi confini  si aprono per una chiesa di cristiani invitati a non fare della propria fede un party esclusivo dove, tra l’altro, l’importante sia arrivare ad allungare le mani per primo e poi chi s’è visto s’è visto, come si usa dire.
Papa Francesco, nel suo discorso alla recente Settimana Sociale a Trieste (3-7 luglio 2024), ha anche esemplificato: “Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. Dobbiamo essere voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte».
Bastone, sandali e un vestito.
Un parrocchiano mi suggerì, un giorno, di installare, con la collaborazione di una banca locale, un terminale per il bancomat presso la porta della chiesa. Tutti avrebbero potuto collaborare economicamente nel più severo anonimato e con tanto di ricevuta. Non è vero che una scelta vale l’altra. C’è uno stile nella missione e nella testimonianza; un equipaggiamento che parrebbe la versione in prosa delle Beatitudini: «E comandò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche». Esistono versioni diverse da parte dei vari evangelisti. E’ segno dell’incontro dialettico tra le parole del Signore e le diverse situazioni di organizzazione delle prime comunità. Marco ammette i sandali, che invece sono esclusi dalla versione di Luca, e vi aggiunge un bastone forse simbolo del Signore a cui appoggiarsi o, forse, come strumento di cammino e memoria di Esodo. Luca ci tiene a ricordare che Gesù ha ammesso la legittimità, per i suoi missionari, di godere senza scrupoli della riconoscenza dei fratelli: «Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede» (Luca 10, 7).  E’ una dignità di cui Paolo non intende avvalersi, lavorando con le sue mani per non essere di peso ad alcuno[5]. «L’operaio è degno del suo salario; ma il salario non è l’oggetto della sua fatica[6]».  Padre Alex Zanotelli, missionario nella bidonville di Korogocho in Kenya, alcuni anni fa, rifiutava  500 milioni di lire del premio Feltrinelli assegnati dall’Accademia dei Lincei «per imprese di eccezionale valore morale e umanitario». Una radicalità non condivisa da molti di noi. Forse era convinto che il denaro non si decontamina automaticamente per il fatto che passa nelle mani di un prete o è destinato “a fare del bene”. Di qui sorgono le domande: il Vangelo ci chiede nuda imitazione o fondamentale obbedienza? Come restare fedeli alla immagine di chiesa degli Atti degli apostoli, immagine fantasiosa, utopica, anacronistica e impraticabile? I profeti hanno sempre avuto una propria “mimica”, una eloquente gestualità della vita, come Francesco d’Assisi che si denuda davanti al Vescovo in pubblico e Giovanni Battista «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? – chiede Gesù – Una canna agitata dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano vesti sontuose e vivono nella lussuria stanno nei palazzi dei re. Allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta» (Luca 7, 24-26).
Il testo evangelico di oggi non esplicita, a dire il vero, il perché dell’austero equipaggiamento raccomandato. Possiamo supporre che una delle ragioni principali sia il desiderio di manifestare la prioritaria importanza del messaggio; il predicatore attrezzato con l’essenziale affida la sua autorevolezza al valore di quello che dice. Forse significa che la condizione propria degli uomini è quella di non avere né perfezione né autosufficienza, di essere in una condizione creaturale, di aver bisogno gli uni degli altri e di essere dipendenti gli uni dagli altri[7]. Forse c’è qualcosa di più: «di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta» (Luca 12, 30-31).
«Quale è il prezzo del gratuito?» si chiese la Rivista Liturgica nell’ormai lontano 1997. «Il denaro – scrive Italo de Sandre[8] – non è solo una cosa economica che qualcuno ha in tasca, un  dato staccabile da un contesto, ma il segno di un’interazione, di un rapporto sociale prodotto da diversi tipi di strutture e di azioni, causa o frutto di rapporti economici spesso disuguali e di conflitti…Il denaro costituisce anche un codice simbolico di comunicazione». Tra una condanna manichea dei mezzi e uno spudorato e acritico uso, ci sta la misericordia del perdono e la forza ermeneutica di questo vangelo per il nostro agire personale ed ecclesiale. «Gesù si mostra preoccupato di ciò che bisogna essere, più che di ciò che bisogna dire. E’ vero che la parola di Dio è efficace di per sé: non è la mia testimonianza a renderla credibile. Tuttavia la mia controtestimonianza ha il potere di renderla incredibile. Nel male ho sempre un potere maggiore che nel bene: non so creare un fiore; so però distruggerlo[9]».


[1] Silvano Fausti, Ricorda e racconta il Vangelo, Editrice Ancora, Milano, pag. 188.
[2] A.Mello, La passione dei profeti, Ed Qiqajon, Bose, 2000.
[3] A.Mello, op. cit, pag. 96.
[4] Apostolicam actuositatem n.1, 6 e 10.
[5] «Voi ricordate fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio:  lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo  annunziato il vangelo di Dio» (1 Tessalonicesi 2, 9).
[6] T.W. Manson, I detti di Gesù nei vangeli di Matteo e Luca, Paideia, Brescia 1980.
[7] Raniero la Valle, Per una politica dalla parte dei poveri, in HOREB 1/1996, pag. 75
[8] Riti e denaro, in Rivista Liturgica, Ed. Messaggero n. 2/1997, pag 36 e 41.
[9] S.Fausti, op. cit. pag. 188




7 luglio 2024. Domenica 14a
Profeta, Rabbi e falegname. Praticamente Dio.

14° Domenica ord. B

Preghiamo. O Padre, togli il velo dai nostri occhi e donaci la luce dello Spirito, perché sappiamo riconoscere la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. Per Cristo Gesù il nostro Signore.
Dal libro del profeta Ezechiele2,2-5
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: Dice il Signore Dio. Ascoltino o non ascoltino – perché sono una discendenza di ribelli – sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”.
Salmo 122. I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni.
Come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi, siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti, del disprezzo dei superbi.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 12,7-10
Fratelli, perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.
Dal Vangelo secondo Marco 6,1-6
In quel tempo, Gesù andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi, insegnando.

 

PROFETA, RABBI E FALEGNAME. PRATICAMENTE DIO. Don Augusto Fontana

«Nemo propheta in patria» ripeteva spesso in perfetto latino mio padre ciabattino; si riferiva ai suoi beniamini cantanti lirici, adorati in oltralpe e fischiati in patria. Il proverbio è popolare; mite vendetta per farsi e fare coraggio nei fallimenti di routine, con quel pizzico di rischio che si corre appellandosi alla Sacra Scrittura senza tanti distinguo o mediazioni. Nessuno è profeta in patria: magra consolazione per il dipendente frustrato in azienda, per il prete incompreso in parrocchia, per la donna in carriera trattata come serva in casa. Aforisma sussurrato, forse, da molti compagni di strada, in tempi di ripudio, a don Milani, don Zeno, don Mazzolari, P. Balducci, P. Turoldo, d. Dossetti, Fr. Carretto, Mons. Romero, memorie simboliche, non solo clericali, della fatica quotidiana di noi conformisti a discernere, ascoltare e difendere la profezia vestita di stracci. Ancora oggi, come ieri per la santa città, Gesù si commuove: «Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te…» (Luca 13,34). Tocqueville chiudendo il suo saggio “Della democrazia in America” ci definisce «folla innumerevole d’uomini tutti uguali, terribilmente somiglianti l’uno all’altro, che girano su se stessi, senza sosta, per procurarsi piccoli e volgari piaceri dei quali rimpinzarsi l’anima». Ammesso e non concesso che tali siamo noi, è plausibile il fastidio per quegli uomini del Regno di Dio che Gesù chiama beati. Sono gli «uomini impossibili» che la ragione istituzionale e conformista dichiara falliti o non fruibili. A loro si concede, al massimo, un compenso nell’al di là, mal interpretando la promessa di Gesù: «Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti» (Luca 6,22-23).
Il mistero di Gesù appartiene a queste storie ed è il caso più clamoroso di ripudio di un uomo autentico,  profeta, rabbi e falegname, praticamente Dio, fatto simile a noi in tutto eccetto che nel peccato.
Per quanto mi riguarda non posso invocare l’alibi che io non c’ero alla fiera del ripudio. Devo riconoscere che nei miei anni di cammino verso la fede è accaduto un fatto strano e, forse, comune;  anch’io, come fanno gli artificieri, ho accostato questo Gesù con prudenza e circospezione, l’ho studiato nella sua conformazione, ho conosciuto i lati dirompenti, l’ho maneggiato con cura ed ora me lo trovo “disinnescato” tra le mani. Ho neutralizzato la sua carica esplosiva. Se fossi stato là a Nazaret sarei anch’io inciampato nello scandalo, dopo una breve stagione di stupore curioso, di quesiti pour parler, di delusione cocente per il suo look indistinguibile in uno stile di vita inavvicinabile: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Luca 9, 58). Come tutti i segugi di Dio anch’io annuso la sua scia e quando mi pare di percepirne la vicinanza ne sono deluso per il suo forte odore di fango e di quotidianità. Il Libro del Tao narra: «Un discepolo vide che il maestro si era alzato per uscire di casa. Era l’ora in cui normalmente il Maestro si dedicava alla contemplazione. Gli disse: “Maestro, state preparandovi a compiere qualcosa di sublime!”. “Sì – disse il Maestro – vado a spalare la neve davanti al cancello”. Allora il discepolo incalzò: “Maestro, vi prego insegnatemi la dottrina dell’illuminazione!”. “Hai mangiato la tua parte di riso? – disse il Maestro – Bene, ora vai a lavare la ciotola!”. Il discepolo andò. E, lavando la ciotola, fu illuminato[1]». Il mistero di Gesù, profeta e rabbi e falegname, praticamente Dio, appartiene a queste storie.
Tutti rimarrete scandalizzati.
La seconda sezione del Vangelo di Marco si chiudeva con la decisione da parte del potere religioso e civile di sopprimere Gesù: «tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Marco 3,6).
Questa terza sezione (3,7-6,6a) si chiude con un fallimento ancora più drammatico e in progressione: prendono le distanze da lui i parenti e i concittadini. Quelli che il vangelo chiama “i suoi” manifestano i primi dubbi sul suo equilibrio mentale quando vanno a prelevarlo «poiché, dicevano,“E’ fuori di sé”» (3, 21). Poi sono i compaesani a mostrare incredulità (6,3).
Ma non basta. In seguito saranno gli stessi discepoli ad essere coinvolti in questa incomprensione tanto da suscitare una domanda dolce e forte di Gesù: «Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?»  (8, 17). C’è una cecità che non risparmia proprio nessuno verso questo Gesù Cristo che è scandalo per i giudei che dicono «Costui bestemmia» ed è stupidità per tutte le persone di buon senso (1 Cor. 1,22ss) che dicono «E’ fuori di sé». Fuori di sé, cioè impraticabile, esaltato, esagerato, imprudente, sbilanciato, decentrato. E avevano ragioni teologiche da vendere, senza saperlo: il suo baricentro era il Padre. Sento sibilare dietro l’orecchio la sua domanda: «La gente cosa dice sul mio conto?…E voi chi dite che io sia?».
L’evangelista Marco, da bravo narratore e catechista, sviluppa i suoi temi attorno a parole che sono come ritornelli: fede, incredulità, meraviglia…
Nei capitoli precedenti Marco registra spesso la reazione della gente: «tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo:  Non abbiamo mai visto nulla di simile!» (2,12). Anche quelli di Nazareth si meravigliano, ma si tratta di due tipi opposti di meraviglia. Quella dei primi nasce dalla gioia, quella dei secondi dalla delusione che la potenza di Dio si riveli in questo falegname. E’ uno stupore che si ferma alla soglia della fede che, invece, è anche adesione. Questo è il punto discriminante di tutto il Vangelo: accettare o no che Dio si riveli nell’uomo Gesù. Si può toccare l’uomo Gesù, opprimerlo intorno (“Tutti ti comprimono da ogni parte” 5,31) senza cogliere il suo mistero e senza fare la scelta di seguirlo. Marco aveva già ricordato un detto di Gesù: «Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre»(3,35). Sembra che non ci sia scampo per chi presume di appartenergli nel sangue e nel clan, per chi sa tutto di lui e lo può maneggiare a piacere: «Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità!» (Luca 13,26).
Temo il momento in cui potrebbe dirci di scostarci da lui. E non meno temo l’attimo in cui rischiamo di dirgli, in qualche modo, di fare le valigie. Un giorno – narra il vangelo – nella regione dei Geraseni una legione di oscuri demoni teneva vincolato un uomo tra sepolcri putridi dove i cosiddetti sani lo avevano relegato per incomprensibili convenzioni sociali. Per quei sani un porco valeva più di un uomo colpito dal male oscuro. Gesù libera l’uomo, ma un branco di porci si perde nei dirupi. Abbasso l’uomo e viva il prosciutto, gli mandano a dire senza complimenti: «Tutta la città allora uscì incontro a Gesù e, vistolo, lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio» (Matteo 8,34). E Dio fa le valige. Ma lì, a Gerasa, questo piccolo trasgressivo Dio, non era di casa. A Nazaret, invece, non lo si poteva proprio dire “extracomunitario”: lì c’era vissuto e, come dice Marco nel vangelo di oggi (Marco 6,1-6), tutti si ricordavano, seppur malamente, di lui e dei suoi parenti. Eppure tra stupori e incredulità «tutti si scandalizzavano di lui». Gesù non ha trattamento migliore di tutti gli out-sider, i fuori-posto di quella cultura che Paulo Freire chiama «cultura depositaria» costituita cioè da valori codificati e trasmessi come intangibili, di generazione in generazione. Una cultura dominante infettiva che si insinua tra i molti, senza risparmio né sconti per piccoli, poveri, schiavi. Praticamente un’epidemia: la paura che questo Gesù venga a rimescolare le carte e ricominciare i giochi magari svelando il baro.
E’ il rischio dell’ovvietà religiosa che provoca la sclerocardia, la durezza di cuore: «e si scandalizzavano di lui». Siamo al naufragio della fede. I discepoli nell’ora della prova si scandalizzeranno: «Gesù disse loro: “Tutti rimarrete scandalizzati…Allora Pietro gli disse: «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò» (Marco 14,27). Forse si ricordava di una delle Sue micidiali beatitudini: «E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!» (Luca 7,23). L’ovvietà è ostacolo alla fede. C’è un modo di percepire e vivere le situazioni della vita e le relazioni con le persone che si chiama «ovvio». Consiste nel vivere come ordinario, scontato e previsto quello che si incontra. In base ad uno schema precostituito si incasellano gli eventi in un orizzonte che già conosciamo. Il diverso, il nuovo, che spesso si presenta in modo non eclatante e sintomatico, sfugge alla percezione, non acquista rilievo, non viene preso in considerazione, non mette in discussione. L’ovvietà favorisce la conservazione, il già noto, il garantito. Si tende a interpretare la realtà anziché “riceverla” per non dover cambiare le proprie idee, per non convertirsi davanti al profeta. Gesù si pone nella linea dei profeti rifiutati: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria». Anche i parenti del profeta Geremia tramano contro di lui (Ger.11, 18-29). «Quelli a cui ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito» dice il Signore al profeta Ezechiele (2, 2-5). Il popolo a cui si rivolge il profeta si sente protetto dal suo culto e dal suo tempio ed è lo stesso popolo «dalla testa dura» (Esodo 32,9) che si era costruito il vitello d’oro perchè voleva sicurezze religiose in alternativa alla presenza evanescente della Parola di Dio. Ora si fa proteggere dalla potenza politico-militare dell’Egitto. Il profeta denuncia il compromesso e l’abbandono della fede. La sua vita stessa oltre che le sue parole diventano un ammonimento e un fastidioso richiamo. Ma nonostante l’opposizione, Ezechiele deve rimanere al suo posto: «Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta è in mezzo a loro » (Ez. 2,5). Non mi resta che contare su questa fedeltà: «Se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2 Timoteo 2, 13).
Kaj Munk, pastore protestante, ucciso dai nazisti nel 1944, scriveva: “Cosa dovrà dunque annunciare il predicatore oggi? Dovrei rispondere: la fede, la speranza e la carità? Sembra una bella risposta. Ma vorrei piuttosto dire: il coraggio. Ma neppure questo è abbastanza provocatorio per costituire l’intera verità. Il nostro compito oggi è la temerarietà, perchè ciò di cui noi, come Chiesa, manchiamo non è certamente nè di psicologia nè di letteratura; quello che a noi manca è una santa collera. I simboli della Chiesa cristiana sono sempre stati il leone, l’agnello, la colomba, il pesce, ma mai il camaleonte.
Ripassa da noi, Signore Gesù di Nazareth….
Trovo nella Storia di Cristo di Giovanni Papini una sua invocazione da neofita neo convertito. Lucida, ansimante, lunga preghiera  di cui non posso che riportare pochi sospiri: «Sei ancora, ogni giorno in mezzo a noi. E sarai con noi per sempre. Ma è giunto il tempo che devi riapparire a tutti noi e dare un segno perentorio e irrecusabile a questa generazione. Tu vedi, Gesù, il nostro bisogno. Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa subito seguita da un’improvvisa scomparsa; un’apparizione sola, un arrivare e un ripartire, una parola sola nel giungere, un segno solo, un avviso unico, un’ora sola della tua eternità, una parola sola per tutto il tuo silenzio Abbiamo bisogno di te, di te solo e di nessun altro. Non chiediamo, noi, la grande discesa nella gloria dei cieli. C’è tanta umiltà, tu lo sai, nella nostra irrompente tracotanza. Noi vogliamo soltanto te, la tua persona, il tuo povero corpo trivellato e ferito, colla sua povera camicia d’operaio povero; vogliamo vedere quegli occhi che passano la parete del petto e la carne del cuore e guariscono quando feriscono con lo sdegno e fanno sanguinare quando guardano con tenerezza. E vogliamo udire la tua voce che sbigottisce i demoni per quanto è dolce e incanta i bambini per quanto è forte. Noi ti preghiamo dunque, Cristo, noi, i rinnegatori, i colpevoli, i nati fuori tempo, noi che ci rammentiamo ancora di te e ci sforziamo di vivere con te, ma sempre troppo lontani da te. Ti aspetteremo ogni giorno a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore»[2].


[1] F. Pasqualino Gli orecchini di Dio ,SEI, Torino, pag 46.
[2] Domenico Porzio (a cura di), Incontri e scontri con Cristo, Ferro edizioni, Milano, 1971, pagg. 342-351.




RACCONTO Lo spaventapasseri 
B. Ferrero

RACCONTO

Lo spaventapasseri
Bruno Ferrero, Cerchi nell’acqua, Elledici

Una volta un cardellino fu ferito a un’ala da un cacciatore. Per qualche tempo riuscì a sopravvivere con quello che trovava per terra. Poi, terribile e gelido, arrivò l’inverno.
Un freddo mattino, cercando qualcosa da mettere nel becco, il cardellino si posò su uno spaventapasseri. Era uno spaventapasseri molto distinto, grande amico di gazze, cornacchie e volatili vari. Aveva il corpo di paglia infagottato in un vecchio abito da cerimonia; la testa era una grossa zucca arancione; i denti erano fatti con granelli di mais; per naso aveva una carota e due noci per occhi.

  • Che ti capita, cardellino?“, chiese lo spaventapasseri, gentile come sempre.
  • Va male. – sospirò il cardellino – Il freddo mi sta uccidendo e non ho un rifugio. Per non parlare del cibo. Penso che non rivedrò la primavera“.
  • Non aver paura. Rifugiati qui sotto la giacca. La mia paglia è asciutta e calda“.

Così il cardellino trovò una casa nel cuore di paglia dello spaventapasseri. Restava il problema del cibo. Era sempre più difficile per il cardellino trovare bacche o semi. Un giorno in cui tutto rabbrividiva sotto il velo gelido della brina, lo spaventapasseri disse dolcemente al cardellino:

  • Cardellino, mangia i miei denti: sono ottimi granelli di mais”.
  • “Ma tu resterai senza bocca”.
  • “Sembrerò molto più saggio”.

Lo spaventapasseri rimase senza bocca, ma era contento che il suo piccolo amico vivesse. E gli sorrideva con gli occhi di noce. Dopo qualche giorno fu la volta del naso di carota.

  • “Mangialo. E’ ricco di vitamine”, diceva lo spaventapasseri al cardellino.

Toccò poi alle noci che servivano da occhi.

  • “Mi basteranno i tuoi racconti”, diceva lui.

Infine lo spaventapasseri offrì al cardellino anche la zucca che gli faceva da testa.
Quando arrivò la primavera, lo spaventapasseri non c’era più.
Ma il cardellino era vivo e spiccò il volo nel cielo azzurro. 

“Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo” (Matteo 26,26).




DRAMMA CARCERI, SVUOTARLE ORA
Glauco Giostra (AVVENIRE)

DRAMMA CARCERI SVUOTARLE ORA
Glauco Giostra (AVVENIRE 28 giugno 2024)
Provvedimento non più differibile
I numeri che provengono dal pianeta carcere, anche a volersi fermare a quello dei suicidi, sono agghiaccianti. Ma sono tempi, questi, in cui gli orrori raccontati quotidianamente dai media hanno indotto ad alzare le difese dell’indifferenza per evitare di precipitare nello sconforto. Questi numeri, pur drammatici, sono diventati emotivamente neutri. Se almeno potessero gridare il dolore straziante e il senso di totale abbandono di chi ha deciso di farla finita, se potessero portarci il pianto sommesso della sua disperazione, se ci potessero contagiare la sua angoscia di non poter neppure salutare le poche persone al mondo che piangeranno la sua morte, se ci potessero far vedere i suoi occhi vuoti di futuro e di speranza mentre si toglie la vita – perché non ha più una sola ragione per protrarla – probabilmente ci soffermeremmo con desolazione infinita e con vergogna senza requie su questi numeri.
Allora, forse, coloro che possono fare qualcosa capirebbero che neppure un giorno in più di inerzia sarebbe giustificabile. E fare qualcosa in una situazione di così drammatica emergenza non può consistere nel progettare nuove carceri, nel prevedere ulteriori assunzioni, nell’immaginare trasferimenti di detenuti stranieri. La promessa del domani non può assolvere la colpevole inerzia dell’oggi. Se in un pericoloso tratto di strada si verifica un incidente gravissimo, prima di assicurare che sarà rivista la segnaletica, che verrà rafforzato il guardrail, che sarà imposta una riduzione del traffico, bisogna soccorrere chi, vittima dell’incidente, sta rischiando la vita. Nell’attuale girone penitenziario ogni intervento in grado di rendere meno insopportabile la soffocante e degradante quotidianità carceraria potrebbe risultare prezioso al di là di ogni aspettativa. Ma non c’è dubbio che in questo momento il principale fattore dell’invivibilità detentiva è il sovraffollamento, moltiplicatore esponenziale di tutti i fattori di deprivazione della dignità, che ormai è tornato al livello di quello che poco più di dieci anni fece condannare il nostro Paese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante.
Non è più differibile (da tempo, per la verità) uno strumento di rapido decongestionamento. Un’amnistia e/o un indulto – strumenti ai quali sono stato contrario quando venivano usati come semplici, periodici provvedimenti di “sfioro” del “troppo pieno” penitenziario, non accompagnati da rimedi strutturali che impedissero il puntuale ripresentarsi dell’incivile fenomeno – potrebbero nella drammatica situazione penitenziaria rivelarsi provvidenziali. E sarebbe confortante vedere una volta tanto tutte le forze politiche convergere su soluzioni condivise, tanto più che nessuna di esse può dirsi del tutto esente da responsabilità. Ma, essendo facilissimo immaginare gli allarmistici slogan (“Svuotacarceri, sicurezza a rischio”) con cui si boicotterebbe qualsiasi tentativo in tal senso, almeno si provveda secondo la proposta Giachetti, attualmente in esame (della ripetutamente annunciata iniziativa del ministro Nordio, parleremo quando ad essa il Governo darà disco verde e corsia di urgenza, come avvenne in occasione dell’improcrastinabile introduzione del reato di rave-party): aumento della riduzione di pena per i detenuti che con il loro positivo percorso ne sono già stati o ne saranno dichiarati meritevoli dalla magistratura di sorveglianza. L’atteggiamento negativo sinora espresso al riguardo, non solo dalle forze di maggioranza, non consente ottimismi. La deprimente spiegazione sarebbe che pure in tal caso (come, a maggior ragione, per amnistia e indulto) lo Stato si dimostrerebbe debole. Dunque, piuttosto che ammettere la necessità di porre rimedio ad un proprio errore, lo Stato preferisce che gli venga addebitata una delittuosa condotta omissiva: sì, perché ciò a cui assisteremo durante l’incipiente estate (da sempre stagione insopportabilmente feroce con i detenuti) sarà una raccapricciante progressione del numero di suicidi, che chiamare omicidi colposi non sarà purtroppo forzata metafora.
Ovviamente, qualora si riuscisse a intervenire con provvedimenti di emergenza – almeno per contenere questo insostenibile rosario di suicidi: veri j’accuse, che persone affidate allo Stato gli rivolgono non per averle private della libertà, ma della dignità di uomo – si dovrebbe immediatamente cominciare a ragionare su tutte le provvidenze normative, strutturali e di personale specializzato in grado di evitare il riproporsi di una situazione indegna di un Paese civile, dando preliminarmente risposta ad alcune ineludibili domande. Come mai l’attuale popolazione penitenziaria supera le 60.000 unità nonostante un indice di criminalità decrescente (per restare ai reati più gravi: 300 omicidi all’anno), mentre trent’anni fa la popolazione penitenziaria era di circa 40.000 con una criminalità molto più preoccupante (1.000 omicidi all’anno)? Come mai si è ritenuto di ignorare i già pronti progetti di riforma penitenziaria di cui sono inutilmente ingombri i cassetti ministeriali? Come mai, per contro, gli unici, significativi propositi di intervento normativo in materia riguardano l’abolizione del delitto di tortura (per non privare “i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro”); l’introduzione del reato di rivolta carceraria (“ a tutela dell’ordine pubblico negli istituti penitenziari”); il ridimensionamento in chiave securitaria della funzione rieducativa assegnata alla pena dall’articolo 27 della Carta (perché “l’art 27 della Costituzione è stato il grimaldello culturale di chi ha lentamente eroso la certezza della pena facendo leva su gargarismi garantistici”)? Non sappiamo se temere più il silenzio o le risposte.




La fede superstiziosa ti arriva in casa

La fede superstiziosa che abita i social network

https://www.retesicomoro.it/fede-superstiziosa-abita-social-network/

27 Giugno 2024

Pagine apparentemente cristiane diffondono post che hanno a che fare più con il magico che con il sacro.

Sui social network capita di imbattersi in pagine che promuovono un cristianesimo dai risvolti superstiziosi. Queste, talvolta parecchio seguite, pubblicano post con immagini sacre rielaborate per attirare l’attenzione e accompagnate da frasi, come quello del profilo su Facebook “Dio è con Noi” in cui a fianco di un’immagine del Cristo della Misericordia c’è un cuore, sormontato da delle rose, con sopra scritto in modo minaccioso: «Tu, che adesso hai il telefono in mano, se passi senza ringraziare Gesù, domani potrebbe essere troppo tardi». Come fare per rendere grazie il Signore? Sotto c’è l’indicazione, accanto al disegno di una mano che tiene un cellulare: «tocca il pulsante di whatsapp e dichiara Amen». Il post è seguito appunto da un tasto della diffusa app di messaggistica che serve per iscriversi a una chat della community della pagina.
Come spiega su Vino Nuovo Paola Springhetti, che insegna Giornalismo alla Pontificia Università Salesiana, questo invito serve a «far aumentare il numero delle interazioni con il post e quindi a far sì che l’algoritmo di Facebook lo ritenga interessante e continui a farlo vedere nelle bacheche virtuali». Ma dal punto di vista religioso il problema è il tono imperioso e superstizioso della frase, analogo a quella in un altro post dove si vede santa Rita in un letto di rose: «Santa Rita verrà a trovarti oggi. Porterà via tutto il tuo dolore, le preoccupazioni e le paure, e benedirà tutti coloro che toccano l’immagine e scrivono Amen». Insomma, si combina la devozione con il ricatto digitale.
Un altro esempio segnalato nell’articolo mostra una raffigurazione retrò della Madonna, con vestiti rosa e azzurro e occhi chiari, accanto alle scritte «Madonna delle Lacrime, in questo momento difficile per il mondo, asciuga le nostre lacrime. Amen» e «Non scorrere senza condividere la Madonna delle Lacrime. Porta solo bene». Una manifestazione di pietà popolare viene dunque usata per alimentare la credenza che condividere un’immagine su un social network porti “solo bene”. Sostanzialmente, la Madonna viene equiparata alle coccinelle e ai quadrifogli. Il pensiero superstizioso che sta alla base di questi meccanismi è lo stesso di quello delle catene di sant’Antonio, degli oroscopi, dell’astrologia, dell’usanza di gettare una moneta in una fontana o in un pozzo.
D’altronde, i social sono lo specchio di una parte della realtà e, quindi, vi rientrano anche queste espressioni magiche con cui la gente cerca consolazione, sicurezza, speranza. Le migliaia di like e condivisioni ci ricordano come nella fede, come nella vita, molte persone si lascino guidare da istinti irrazionali e irragionevoli. Nel rapporto del 2021 del Censis sulla situazione sociale del Paese si legge: «Di fianco alla maggioritaria società ragionevole e saggia, si leva un’onda di irrazionalità, un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà circostante». Per credere nel Dio della Sacra Scrittura non bisogna lasciare spazio alle superstizioni.




30 giugno 2024. Domenica 13a
CREDERE PER TOCCARE

13° domenica B

Preghiamo. O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso hai voluto arricchirci di ogni bene, fa’ che non temiamo la povertà e la croce, per portare ai nostri fratelli il lieto annunzio della vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Libro della Sapienza  1,13-15; 2,23-24
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.
Salmo 29. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza, Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
2 Corinti 8,7.9.13-15
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
Dal Vangelo secondo Marco 5,21-43
In quel tempo, essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Mentre ancora parlava, [dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad aver fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.

CREDERE PER TOCCARE. Don Augusto Fontana

La compagnia dei cercatori…
Chi presiede alla morte e alla malattia? Una divinità, un demone, il destino, l’uomo? Mettere le mani sui codici della vita appartiene all’umanamente divino o alla trasgressione? Come classifichiamo le devote carezze a piedi marmorei di Madonne consunti da mani rinsecchite e da esaurite speranze umane? Dove collochiamo questi corpi infragiliti e questi spiriti incupiti dal male che inseguono santi e santoni ondeggiando come sciami d’api dietro un profumo di nettare salvifico? Sono illusi superstiziosi che toccano per credere o sono poveri di Dio che credono per poter finalmente toccare? Io non ho mai chiesto a Dio per la mia vita e dintorni, pur avendone bisogno, la manutenzione straordinaria di un miracolo; sto forse scivolando sulla china dello scetticismo o sono ancorato sul nudo pavimento della fede? Mi conforta questo Dio che “conosce le mie parole prima ancora che escano dalla bocca” (salmo 139). Mi consola il fastidio di Gesù: «Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione» (Marco 8, 12).
Dio non ha creato la morte – dice la prima lettura della liturgia odierna – e non gode per la rovina dei viventi. La morte dunque c’è, ma non doveva esserci. La Parola di Dio insiste a dare sulla morte quel tocco di illegittimità che è fondamentale per una visione della vita che sia conforme alla fede. E’ lecito simpatizzare con Paolo:«Chi libererà me, povero disgraziato, da questo corpo votato alla morte? Gesù Cristo nostro Signore, grazie a Dio![1]». Ovunque c’è istinto della vita, da quella parte c’è Dio, sembra ribadire anche l’evangelista Marco con quella sua quasi maniacale ossessione di narrare i miracoli di Gesù. Ben due miracoli in un colpo nel brano evangelico di oggi e 18 miracoli in tutto il suo vangelo[2]. Senza dimenticare che per Marco anche la morte di Gesù in croce è paradossalmente un miracolo, anzi «il miracolo vero».
Il testo evangelico di oggi contiene due racconti di miracoli disposti a sandwich: la rianimazione della figlia di Giairo e la guarigione della donna colpita da inguaribile emorragia.
Marco prosegue così nella sua catechesi battesimale. La fede è un toccare in profondità Cristo e lasciarsi toccare in profondità.
I due episodi si illustrano a vicenda e sono legati tra loro dalla ricorrenza di alcuni verbi: salvare, credere, toccare[3]. Ma sullo sfondo dell’attenzione dell’evangelista fanno capolino i due quesiti a cui Marco, dal primo all’ultimo capitolo, tenta di dare risposta: «Chi è Gesù?» e «Chi è il discepolo?». Nel contesto di tali quesiti sviluppa i suoi temi teologici[4].
La nuca e il volto di Dio.
I giudei non credevano nella risurrezione; la morte era un viaggio verso lo Sheòl, luogo dei morti, senza ritorno. La preghiera ebraica poteva osare chiedere solo che Dio ritardasse la morte[5]. Giairo, capo della sinagoga, osa una rottura della tradizione religiosa del proprio popolo. Chiede una guarigione così radicale da sembrare una risurrezione. Giairo sospetta che Gesù riveli un Dio imprevedibile. Resiste a chi lo invita a desistere: «Tua figlia è morta. Non disturbarlo più!». Matteo esplicita meglio di Marco: «Signore mia figlia è morta, ma tu vieni». E’ in questo “ma” che consiste la fede. «Ma tu, Dio misericordioso, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore e di  fedeltà, volgiti a me e mostrami la tua grazia: dona al tuo servo la tua forza, salva la figlia del tuo servo». (Salmo 86,15-17). Il “Ma” serve a distinguere. La storia della salvezza è la storia dei “macon cui reciprocamente si incontrano e si contraddicono Dio e gli uomini.
Anche la donna viene presentata come donna di fede, benchè nel suo gesto i confini tra fede e feticismo abbiano lo spessore di un filo da equilibrista: «Mi basta toccare la sua veste…». Costa poco giocarsi gli ultimi brandelli di speranza toccando simulacri, reliquie, lembi di taumaturghi. O la va o la spacca. L’intreccio tra credere e toccare è problematico, come ce lo potrebbe ricordare l’apostolo Tommaso, quello che non sa credere se non ci mette il naso. Per 3 volte oggi risuona la parola “toccare”. Pare che Marco punti molto su almeno tre significati.

Il primo: la donna mestruata, secondo le prescrizioni di Levitico 15, era impura e trasmetteva impurità religiosa a chiunque venisse in suo contatto. Lei sa dunque di commettere una trasgressione grave. Ma le prescrizioni valgono meno della vita e molto meno di un rapporto di fiducia con il giovane Rabbi Gesù.
Il secondo: toccare suppone vicinanza. Forma prima e fondamentale di conoscenza è il contatto con l’altro. Le cose e i corpi diventano luoghi di comunione; il toccare è reciproco. Esiste un tocco epidermico e un tocco profondo che trasforma il cuore; al tocco delicato del rapporto interpersonale si contrappone l’improduttivo schiacciare delle folle oceaniche.
Il terzo: la veste di Gesù è quella che ci ha lasciato in eredità ai piedi della croce, denudato. Forse è bene che il discepolo non lasci a terra quella Sua tunica sacerdotale e regale, il suo mantello profetico: occorre prendere più che toccare, rivestirsi più che sfiorare.
Anche Giairo aveva chiesto a Gesù di “stendere le mani perché la figlia sia salva e viva”. Chiede una liturgia del corpo, più che una scaramantica benedizione a distanza. E Gesù, quando prende sua figlia per mano, non vuole intorno folle di piagnoni strepitanti; li “caccia fuori”, come aveva malamente estromesso i commercianti dal tempio. Con lui entrano solo i tre discepoli della Trasfigurazione e del Getsemani insieme al piccolo gruppo di catecumeni. «Talità kum! Alzati!» dice. Non è l’abracadabra della magia.  E’ la parola creativa che i discepoli sentiranno sussurrare nel cuore tra la croce e la tomba. E’ liturgia pasquale. Mi spiacerebbe davvero, venutone il momento, essere tra quelli cacciati fuori.
 La fede di questi due catecumeni ha delle tappe: dalla periferia al centro.
Anche la fiducia che nasce nel nostro bisogno estremo e che ci fa toccare il calcagno di Dio è pur sempre fede, benchè incipiente, acerba. Quanti storpi e lebbrosi e oppressi dai faraoni hanno gridato: Signore, pietà! restando in attesa che Dio mantenesse le sue promesse. Anche davanti al depresso e fuggiasco Elia nella caverna dell’Oreb «si presentano tre fenomeni (vento, sisma e fuoco) che sembrano rivelare il Signore, ma che in realtà non lo rivelano, o meglio: non lo rivelano come il quarto (la voce di un silenzio). Non è questione di tutto o niente, di sì e no. La prospettiva adottata è relativa: nella quarta esperienza il Signore è molto più presente che nelle prime tre. Si tratta di gradi diversi. Anche la rivelazione del Sinai era consistita in questo: «Voi non vedevate alcuna figura: soltanto una voce» (Deut. 4, 12). Che significa “vedere una voce?”. L’essenziale nell’incontro con Dio è una voce che parla silenziosamente[6]». E’, forse, per questo motivo che gli evangelisti costruiscono le narrazioni dei miracoli attorno ad un perno concentrico: le parole di Gesù.
La donna parte da una posizione di fede anonima e ad alto rischio di superstizione (“tra la folla, alle sue spalle, toccò….”) lentamente viene condotta ad una esposizione pubblica (“gli disse tutta la verità”), all’ascolto della Parola e ad una relazione (“figliava in pace”).  C’è un itinerario della fede: dalle spalle di Dio al suo faccia a faccia, dalla sua nuca al suo volto.
Miracolo si, miracolo no!
Il miracolo, per gli uomini dell’epoca pre-cristiana e del primo secolo cristiano, era un evento possibile, atteso, narrabile[7]. La natura e la storia erano concepite costantemente come campo aperto dove Dio continuamente agiva e dove tutto, ogni volta, era frutto della sua azione. Dio agiva nel miracolo straordinario, ma non meno nella crescita del seme, nella nascita, vita e morte degli uomini. La gente del popolo era particolarmente soggetta ad epidemie o malattie spesso di origine oscura le cui cure erano possibili solo a chi aveva soldi. Accanto a Dio potevano agire anche altre forze angeliche o demoniache per cui ogni miracolo era da discernere. Anche i miracoli di Gesù sono stati attribuiti a Beelzebul. Esorcismi, guarigioni, miracoli sulla natura: il corpo, la psiche, l’ambiente sono attori che esprimono il dramma umano in cui Dio, in qualche modo, non è estraneo. Forse sorridiamo. La scoperta della sequenza del DNA ha lacerato residue verginità teologiche. Ci sentiamo adolescenti cresciuti. O forse siamo vecchi senza più stupore negli occhi, con quel velo di cataratta che appiattisce tutto, meno quando contiamo i soldi. Per noi quelle erano generazioni di creduloni: anche quei rabbini per i quali la Toràh, la Parola del Signore, conservava sempre un valore più grande di ogni miracolo.
Nel ricordo dell’attività taumaturgica di Gesù emerge un’interessante contraddizione: Gesù ha compiuto segni, prodigi, miracoli (comunque li vogliamo chiamare), ma si è mostrato perplesso circa il loro valore. Sono stati spesso il frutto della sua commozione per la debolezza umana, della sua irritazione per la durezza di cuore, del suo pianto, del suo stupore per la fede di pagani, donne e piccoli. I suoi miracoli si saldano sempre, sempre, con la sua predicazione. Gesù intende parlare all’uomo “in situazione”. Predicazione e miracoli fanno parte dello stesso movimento. Sono i segni del bisogno di salvezza che c’è nell’uomo e del potere liberante di Dio in Cristo. Il termine greco che Marco usa preferibilmente per indicare questi eventi è “dynamis”, atto di potenza, ma a volte li chiama anche “insegnamenti”. A noi che attendiamo i miracoli come prova certificante, fa un po’ meraviglia sapere dai vangeli che attorno ai miracoli circola un’evidente incomprensione dei discepoli e soprattutto l’ordine perentorio di Gesù di non dire nulla, non divulgare, fino alla grande rivelazione della passione. I miracoli sono insufficienti a condurre alla fede, sono inaffidabili. Il vento che scuote, il sisma che abbatte, il fuoco che ustiona, il cieco che vede, il pane che si duplica, l’acqua che è vino, la mummia che si rianima sono segni, come dice l’evangelista Giovanni. Ma solo la croce è, come direbbe Lévinas, voix de fin silence, voce di sottile silenzio (in ebraico: Qôl demamâ daqqâ).

«Dio si rivolge ad ognuno in modo diverso: a qualcuno attraverso un segno, a qualcun altro a voce alta. Tutto dipende da quanto si è lontani da Dio» (Rabbi Nachman di Breslav).


[1] Romani 7, 24-25
[2] Su 661 versetti del vangelo secondo Marco ben 180 sono dedicati ai  miracoli: il 25% dell’intero suo vangelo.
[3] AA.VV. Una comunità legge il vangelo di Marco, Dehoniane,  pag. 179.
[4] Servizio della parola, Queriniana, n.138/1982, pag. 85-87.
[5] Salmo 16,10; 49,16.
[6] Alberto Mello La passione dei profeti, Qiqajon, 2000, pag. 42.
[7] “La sezione dei miracoli e delle parabole nel vangelo di Marco” in Servizio della parola,138/1982, pagg. 35-55.




Anche per la politica il metodo sinodale
Don Bruno Bignami (Avvenire)

«Il leaderismo fa sempre terra bruciata. Anche per la politica il metodo sinodale»
Marco Iasevoli (Avvenire 23 giugno 2024)

 È iniziato il conto alla rovescia verso la 50esima Settimana sociale di Trieste: il risveglio della partecipazione e l’impegno per la buona politica si candidano a fare da filo rosso tra “laboratori della partecipazione”, “villaggi delle buone pratiche” e “piazze della democrazia. L’appuntamento è dal 3 al 7 luglio. Ad avviare i lavori sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nella domenica conclusiva invece sarà presente papa Francesco che presiederà la celebrazione eucaristica.
Intervista a don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il Lavoro della Cei. È un osservatorio speciale quello di don Bruno Bignami. Un osservatorio sulla politica e sulle istituzioni, alla luce di una “delega” che chiede di dialogare con i decisori pubblici e riflettere sullo stato della salute della democrazia nel Paese. Dall’incrocio tra le due prospettive don Bignami ha dato alle stampe “Dare un’anima alla politica” (Edizioni San Paolo, pp. 142, euro 24).

Don Bruno, la politica vive una crisi espressa da disaffezione e astensionismo: c’è una cura?
La politica domanda partecipazione, che non piove dal cielo. Esige cura e impegno. Per capire cosa c’è che non va potremmo partire da esperienze in crescita come il Terzo settore. Chi si è impegnato in questi anni si è accorto che poteva contribuire al cambiamento sociale, che si poteva migliorare la vita delle persone, che si poteva incidere… Non è avvenuta la stessa cosa in politica, dove il leaderismo, l’autoreferenzialità e le logiche di potere hanno fatto terra bruciata intorno. Molti che si sono avvicinati alla politica sono usciti delusi e scottati. A meno di rassegnarsi a vivere da comparse.

Nel suo libro lei indica la strada della spiritualità e della fraternità: come si traducono nell’agone sociale e politico?
Serve coraggio. Un credente non può fare politica mettendo tra parentesi la fede. Detto altrimenti: il mistero dell’incarnazione e quello pasquale di morte e resurrezione non sono tangenziali alla vita cristiana, ma ne costituiscono il midollo. L’incarnazione comporta la condivisione della storia, la capacità di servire il popolo, di abitare i conflitti. Il mistero pasquale ricorda che non c’è vittoria senza croce. Non c’è bene comune attraverso l’affermazione di sé. Come insegnava il teologo De Lubac, incarnazione, morte e resurrezione dettano il ritmo della spiritualità cristiana in tre tempi: radicamento, distacco e trasfigurazione. Altro che affogare nel dibattito sulla rilevanza o irrilevanza dei cattolici in politica… Lo spirito umano per sbocciare ha bisogno di condizioni che non siano sempre favorevoli.

A Trieste è possibile aspettarsi svolte sul fronte dell’impegno sulla sfera pubblica?
Alla 50esima Settimana Sociale di Trieste si cercherà non solo di tastare i battiti del cuore democratico del nostro Paese, ma si intenderà fare esperienza di partecipazione. Saranno gli oltre mille delegati a tracciare sentieri e percorsi futuri. Serve un di più di ascolto perché ci possa essere una base di proposta. Si può essere fiduciosi…

Tra riforme e questioni sociali e ambientali urgenti non manca lo spazio per uno specifico contributo dei credenti. Manca un metodo?
Sicuramente manca un metodo, ma il Cammino sinodale della Chiesa ha contribuito ad acquisirlo: abbiamo imparato ad ascoltare, a partire dal basso, a esercitarci nel discernimento comunitario, a raggiungere la profondità della conversazione spirituale. Ma non basta. Forse occorre creare luoghi di confronto stabile tra laici sulle grandi questioni sociali del nostro tempo, liberi da ideologie di ritorno. Senza percorsi condivisi è difficile che nascano sogni.

La strada della fraternità come può aiutare anche nel gran caos globale?
Un altro modo per dire la fraternità è la responsabilità circa il bene comune. La Bibbia mostra in Caino e Abele la tragedia della fraternità, che può giungere all’uccisione dell’altro. Il testo sacro non illude. Il samaritano, però, vive la fraternità non tanto di sangue ma per il sangue, ossia per la vita dell’altro. Romano Guardini sosteneva che la democrazia poteva stare in piedi solo sulla fiducia che tutti vogliono davvero il bene comune. Oggi sembra prevalere il sospetto che l’altro cerchi solo il proprio interesse. Si può cambiare paradigma attraverso uno sguardo limpido. Ha ragione papa Francesco: ci salverà la tenerezza, non il potere.

IL LIBRO

Dare un’anima alla politica

Il nuovo lavoro di don Bruno Bignami, “Dare un’anima alla politica” (Edizioni San Paolo, pp.142, euro 24) parte dall’immagine evangelica del lievito, non preoccupato della propria visibilità e tuttavia capace di far fermentare la pasta, simbolo di una presenza allo stesso tempo serena e ferma, pacifica ed efficace. È al lievito che pensa l’autore quando pensa anche oggi, al ruolo dei cristiani in politica. Il libro è diviso in due parti. La prima è fondativa e mostra come il cristianesimo tocca e forma le coscienze. La seconda parte raccoglie alcune testimonianze di vissuto o di pensiero sulla spiritualità in politica: Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e David Sassoli “raccontano”, attraverso la loro esperienza in epoche diverse, differenti sfumature del rapporto tra spiritualità cristiana e politica. La prefazione è del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana.




Dio non interviene al posto mio, ma con me
P.Ermes Ronchi

Dio non interviene al posto mio ma con me
 Ermes Ronchi (Avvenire18/06/2015)

XII Domenica Tempo ordinario Anno B

Una notte di tempesta e di paura sul lago, e Gesù dorme. Anche il nostro mondo è in piena tempesta, geme di dolore con le vene aperte, e Dio sembra dormire.
Nessuna esistenza sfugge all’assurdo e alla sofferenza, e Dio non parla, rimane muto.
È nella notte che nascono le grandi domande: Non ti importa niente di noi? Perché dormi? Destati e vieni in aiuto! I Salmi traboccano di questo grido, riempie la bocca di Giobbe, lo ripetono profeti e apostoli. Poche cose sono bibliche come questo grido a contestare il silenzio di Dio, poche esperienze sono umane come questa paura di morire o di vivere nell’abbandono.
Perché avete così tanta paura? Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.
Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza. Non interviene al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.
L’intera nostra esistenza può essere descritta come una traversata pericolosa, un passare all’altra riva, quella della vita adulta, responsabile, buona. Una traversata è iniziare un matrimonio; una traversata è il futuro che si apre davanti al bambino; una traversata burrascosa è tentare di ricomporre lacerazioni, ritrovare persone, vincere paure, accogliere poveri e stranieri. C’è tanta paura lungo la traversata, paura anche legittima. Ma le barche non sono state costruite per restare ormeggiate al sicuro nei porti.
Vorrei che il Signore gridasse subito all’uragano: Taci; e alle onde: Calmatevi; e alla mia angoscia ripetesse: è finita. Vorrei essere esentato dalla lotta, invece Dio risponde chiamandomi alla perseveranza, moltiplicandomi le energie; la sua risposta è tanta forza quanta ne serve per il primo colpo di remo. E ad ogni colpo lui la rinnoverà.
Non ti importa che moriamo? La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti:  Mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore. E sono qui. A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime, come mano forte sulla tua, inizio d’approdo sicuro.