Lascia dormire il tuo cuore nella tempesta
Don Angelo Casati

Lascia dormire il tuo cuore nella tempesta
di don Angelo Casati[1]

La traversata della vita come metafora del progetto divino, nello sforzo e nel sogno di tendere continuamente verso l’altra riva.
In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che moriamo?”. Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”. (Marco 4, 35-41)
Rileggendo il brano di Marco, il brano della tempesta sedata, mi veniva spontaneo pensare come ci capiti a volte di riandare a questo brano quando celebriamo un matrimonio e anche quando accompagniamo qui per l’ultimo saluto uno dei nostri cari; forse potremmo leggerlo anche nel giorno di un Battesimo.
E mi chiedevo: perché? Perché il dilagare di questo brano in situazioni così diverse della nostra vita?  Forse perché tutta la nostra vita può essere evocata sotto il simbolo della traversata, del passare all’altra riva. Quel giorno verso sera Gesù disse: «Passiamo all’altra riva».
La vita che sta davanti a un bambino è una traversata; il matrimonio, questa avventura a due, è una traversata; ogni vocazione è una traversata; la morte è una traversata. Ma forse ogni giorno, ogni giornata è arrivare a sera a un’altra riva. Traversata è ogni progetto; ogni progetto del cuore è sognare e tendere all’altra riva.
«Nel frattempo si sollevò una grande tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena».
E anche questa è condizione comune, condizione comune di ogni traversata: la tempesta, le bufere, le bufere della vita.  Non è che ce le mandi Dio.  A volte abbiamo uno strano modo di ringraziare Dio e lo ringraziamo di averci salvati dalle inondazioni. Ma, allora, dovrebbero imprecare contro Dio quelli che hanno la barca inondata?  La bufera fa parte della vita. E non ci sono solo le bufere esteriori. A volte le più terribili sono quelle interiori.
Un teologo, profondo conoscitore dei labirinti dell’inconscio, scrive: «Abbastanza spesso, proprio quando smettiamo di affaccendarci esteriormente, il nostro cuore comincia a rimbombare come un oceano sferzato da raffiche di vento e noi piombiamo nella paura di noi stessi, non ci raccapezziamo più, e vorremmo proteggerci senza sapere in che modo, come se incappassimo nell’occhio di un ciclone, che ci risucchia irresistibilmente nel profondo con sempre maggiore rapidità» (E. Drewermann, Il Vangelo di Marco, pp. 144-145).
Ecco, il Vangelo di Marco sembra suggerirci che sarebbe sogno vano pensare di non avere a che fare con questo mare, e invece è da sapienti imparare a conviverci. È suggestivo, fino quasi a diventare un simbolo, l’esempio di Gesù che dorme sulla barca.
Se, sull’esempio di Gesù, cercheremo di raggiungere una calma più profonda nel nostro intimo, allora le onde si acquieteranno e il vento si placherà.
«È importante» scrive Drewermann «raggiungere, al di là della zona dell’angoscia psichica, il luogo nel quale la tempesta si placa. Bisogna ancorare profondamente la barca della nostra vita e confidare nel punto in cui, al di sotto del mare agitato, più abissale ancora dell’abisso, un solido fondale ci fornisce l’appiglio».
Questo Dio, che dorme sulla barca scossa dalla tempesta, dal vento, sembra dirci: confida nella mia presenza, anche se ti sembro assente, io ho il potere di placare la bufera e di avvicinare l’altra riva, lascia dormire il tuo cuore nella pace. Ancorarsi in Dio e imparare a «dormire» nella tempesta. Ancorarsi in Dio e imparare a dormire anche per l’ultima tempesta.
Senza scampo un bel giorno verrà il momento in cui né medici, né preti, né consiglieri, né altri interventi esterni potranno più aiutarci, il momento in cui noi saremo arrivati alla fine dell’esistenza, dove ad attenderci sarà la morte.
E allora per l’ultima volta sarà importante trovare quiete contro l’angoscia; allora sarà ancora più decisivo ancorarsi in Dio e imparare a dormire nella tempesta.


[1] nato a Milano nel 1931, è licenziato in sacra teologia. E’ sacerdote dal 1954. Ha insegnato nei seminari diocesani ed è stato parroco della comunità di San Giovanni in Laterano a Milano




23 giugno 2024. Domenica 12a
UNA TRAVERSATA TEMPESTOSA

12° domenica B

Preghiamo. Rendi salda, o Signore, la fede del popolo cristiano, perché non ci esaltiamo nel successo, non ci abbattiamo nelle tempeste, ma in ogni evento riconosciamo che tu sei presente e ci accompagni nel cammino della storia. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Giobbe 38,1.8-11 (da traduzione interconfessionale)
1Il Signore, avvolto da un forte vento, disse a Giobbe:
[2«Chi sei tu? Perché rendi oscuri i miei piani con ragionamenti da ignorante? 3Invece, da persona matura, preparati, dovrai rispondere alle mie domande».4«Dov’eri tu quando gettavo le fondamenta della terra? Rispondi, se sei così sapiente! 5Lo sai chi ha deciso le sue dimensioni e ha tracciato i suoi confini?6Su che cosa si fonda la terra? Chi ha posto la sua prima pietra?7Dov’eri quando le stelle del mattino cantavano in coro e le creature celesti gridavano di gioia?].
8Chi ha racchiuso il mare entro i suoi confini, quando erompendo venne alla luce? 9Dov’eri quando lo fasciavo con la fitta nebbia, lo vestivo di nuvole, 10gli fissavo i confini, e lo rinchiudevo entro porte sbarrate? 11Gli ho detto: “Tu arriverai fin qui e non oltre, qui si fermerà l’impeto delle tue onde”».
Salmo 106 Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.

Coloro che scendevano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque,
videro le opere del Signore e le sue meraviglie nel mare profondo.
Egli parlò e scatenò un vento burrascoso, che fece alzare le onde:
salivano fino al cielo, scendevano negli abissi; si sentivano venir meno nel pericolo.
Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li fece uscire dalle loro angosce.
La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare.
Al vedere la bonaccia essi gioirono, ed egli li condusse al porto sospirato.
Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini.
2 Corinti 5,14-17
Fratelli, l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.
Marco 4,35-41; 5,1
In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». Intanto giunsero all’altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni.

 UNA TRAVERSATA TEMPESTOSA. Don Augusto Fontana[1].

PER ENTRARE NEL VANGELO.
«Quello stesso giorno».
Non è una notizia cronologica. Lo «stesso giorno» è quello in cui i discepoli non hanno «capito» la Parola e il messaggio delle Parabole (inizio cap. 4). Scrive il biblista Fausti: «Questo racconto è un’esercitazione battesimale per vedere se la Parola ha prodotto il suo frutto. Lo stesso giorno delle parabole, i discepoli falliscono l’esame. Ma l’esperimento non è inutile; fa uscire le difficoltà del loro cuore lento a credere. La parola dovrà entrare in tutte le loro paure. Ma prima deve evidenziarle, anzi suscitarle e farle uscire allo scoperto, per poterle vincere. La Parola, caduta «sulla via», non è attecchita. È entrata superficialmente; sotto ha trovato la pietra del loro cuore, che impedisce loro di affidarsi al Signore. Questa diffidenza può dissolversi solo quando si risponde alla domanda: “chi è costui?”. L’apparente inattività del suo sonno è la massima azione in nostro favore: dorme per essere con noi anche nella valle oscura».
«Fattasi sera». Marco per cinque volte usa questa frase ( 1,32; 4,35; 6,47; 14,17; 15,42) sempre in un contesto negativo; nel caso che stiamo analizzando il negativo consiste nell’incomprensione delle parabole appena pronunciate da Gesù.
«Passiamo all’altra riva… nella regione dei Gerasèni ». Proprio in questa notte si compie il contro-esodo, dalla terra dei circoncisi al territorio dei non-circoncisi, Gerasa nel territorio della Decapoli; oggi diremmo: dalla chiesa parrocchiale alla moschea musulmana o al mandir induista. Il verbo greco usato da Marco è dierchomai che di solito si usa per indicare il “cammino a piedi”. Marco usa esattamente il verbo usato da Deuteronomio 2,7 per indicare l’attraversata del popolo nel deserto: “vi ho seguiti nel vostro cammino attraverso questo deserto sconfinato”. Il Signore invita la sua chiesa a “lasciare una spiaggia” e fare un esodo verso un’altra sponda. Si tratta prevalentemente del problema dell’evangelizzazione pastorale prima ancora che fare riferimento ai problemi della vita (che effettivamente ci offre tempeste oscure di malattie, morti, crisi coniugali, fallimenti professionali, delusioni politiche, amicali e chi più ne ha più ne metta). Questi eventi tempestosi della vita non sono esclusi dall’intenzione della pagina evangelica; ma occorre rispettare l’orizzonte primario che l’evangelista aveva quando parlava alla sua comunità e scriveva per loro e per noi. La sua e nostra chiesa è in crisi di performance, di audience, di tenuta («la barca si stava riempiendo d’acqua»).
«Lasciata la folla». A volte nei Vangeli la folla è il contorno normale dell’evangelizzazione; a volte occorre “lasciare la folla”; Gesù spesso “tira in disparte” il soggetto da guarire, si ritira in disparte, chiede ai discepoli di “lasciare la folla”. Certe scelte si maturano nel silenzio ascoltante e nella responsabilità personale, fuori da ogni conformismo di pensiero e di prassi abitudinaria e liberi da lusinghe populiste e modaiole: Domenica scorsa Marco scriveva (4,34) : “in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa”. La traversata, ogni traversata-esodo, comporta il coraggio di “abbandonare una sponda”, un modulo tradizionale sul quale abbiamo bivaccato per anni, un “successo popolare” buono per altri tempi ma non più adeguato alle richieste del Signore: «abbandoniamo questa spiaggia piena di buoni “cattolici” e andiamo verso il territorio di quei brutti, sporchi e impuri abitanti di Gerasa»; per Marco questa è la prima volta che Gesù si avventura in territorio pagano, osando una chiesa aperta all’umanità e non solo a piccoli circoli.
«Lo presero con sé». Altre volte è Gesù che “prende con sé”. Il verbo greco usato da Marco (paralambanô) indica una specie di sottrazione possessiva ed escludente: i discepoli vogliono fare un viaggio esclusivo con il leader. E’ una chiesa che sequestra, “cattura per sé” il Signore, lo sottrae ad altri.
«così com’era». Scrive Fausti:  la frase «indica forse la fretta della notte di Pasqua decisiva per la salvezza (Esodo 12, 11: Ecco in qual modo mangerete l’agnello: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. E` la pasqua del Signore!). Ma com’era Gesù? Era come è il grano che va sotto terra, come la luce che entra nella notte, come il seme che germoglia nel sonno, come il chicco di senape che è piccolissimo. È importante prenderlo così com’è, non come lo vorremmo noi».
«Si sollevò una grande tempesta di vento». Le tempeste, improvvise e furiose, sono un elemento caratteristico di questo lago. Il linguaggio ebraico (e quello arabo) ha un’espressione tipica: il vento non urla, come diciamo noi, ma abbaia quasi fosse un cane. In questo contesto, acquista un rilievo particolare il verbo usato da Gesù «Calmati!» (v. 39), che andrebbe tradotto letteralmente: ammutolisci, metti la museruola. Tuttavia sembrerebbe che la tempesta sia causata non solo da eventi atmosferici, ma anche comportamentali. Sono i discepoli a provocare la mareggiata. Per capirlo occorre avere come sfondo il racconto del libro di Giona, un profetucolo pauroso e gretto che se la fa sotto quando sente che Dio osa mandarlo tra gente considerata nemica della religione[2]. La sua fuga, il suo rifiuto pauroso dell’universalismo della salvezza, “provocano” la tempesta. Pare che qui i discepoli facciano la parte di Giona e che Gesù venga descritto da Marco come l’anti-Giona. Guarendo i discepoli dal loro animo gretto, toglie la causa della tempesta. Il “grido” di Gesù dunque non è rivolto agli elementi della natura, ma all’animo gretto dei discepoli, al loro conformismo.
«Egli se ne stava a poppa su un cuscino e dormiva». A Gesù hanno messo sotto il capo un cuscino (v. 38). E’ strano l’accenno a questo cuscino: qualche studioso fa notare che il termine usato potrebbe far riferimento anche al guanciale che veniva posto sotto la testa dei morti; dunque rappresenterebbe Gesù nella tomba, nella fase di risurrezione incipiente.  È l’unica volta, nel vangelo, in cui viene presentato Gesù mentre dorme. Il sonno potrebbe essere la conseguenza normale di una giornata faticosa come quella trascorsa, ma anche la sua serena fiducia nelle capacità dei «suoi». Lui ha esaurito il suo compito e adesso tocca a loro/noi.  Ma il sonno di Gesù richiama anche il salmo 4,9: “in pace mi corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare”.
«e lo svegliano». L’invocazione e la domanda dei Salmi e la nostra legittima domanda è: «Svegliati, perché dormi, Signore?». Salmo 28,1 «A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa» (Salmo 44,24; 83,2). In realtà è la nostra fede che dorme.
«Maestro, non t’importa che moriamo?» (v. 38).  «Non ti importa?»: dubitano del suo amore, sospettano di non essere cari a Dio.
«Svegliatosi, sgridò il vento e disse al mare… » (v. 9). Gesù si rivolge agli elementi inanimati quasi interpellasse delle persone. La cosa non deve stupire. Teniamo presente che, allora, il mare veniva considerato come «il ricettacolo delle forze del male che solo Dio può domare» (J. Radermakers). Quindi il gesto di Gesù sta a indicare la potenza di Dio che esorcizza la forza infernale che è racchiusa nel mare/male[3]. Gesù  si sta dirigendo verso il territorio pagano della Decapoli, abitato da non-giudei e quindi considerato dai giudei un territorio demoniaco. E’ interessante notare come Marco usi le stesse espressioni (sgridò, taci! Calmati!) impiegate nella liberazione dell’indemoniato/pazzo nella sinagoga di Cafarnao (l, 25). Al di là del simbolismo impiegato, i discepoli registrano la lezione: l’evangelizzazione passa necessariamente attraverso le tempeste, le opposizioni, i rifiuti. E anche la comunità primitiva, squassata dalla bufera della persecuzione, viene invitata a riflettere che è «portatrice» di una forza che, pur rivestita di debolezza (il sonno di Gesù), può superare tutte le forze ostili.
«Poi disse loro: Perché siete cosi paurosi? »(v. 40). Dopo aver sgridato la tempesta, adesso Gesù rimprovera i discepoli: «Non avete ancora fede?» (v. 40). Marco gioca sull’effetto-contrasto: gli apostoli rimproverano Gesù per la sua estraneità al dramma che li sta travolgendo. Lui capovolge il rimprovero e denuncia la loro estraneità rispetto all’abbandono fiducioso al Padre, «quello che Gesù invece dimostrava quando dormiva tranquillamente sul cuscino» (V. Taylor).
«Chi è costui?». E’ la domanda di tutto il Vangelo di Marco, tema della sua catechesi. Le mie angosce e le paure nascono dal non aver capito nella mia vita “chi è costui”.
«Ma essi furono presi da grande timore» (v. 41).  Quando si viene sfiorati dall’azione di Dio si è come percorsi da un brivido. E’ un timore in cui si mescolano lo stupore, il senso della propria indegnità, il rispetto, l’amore. Gesù risolve una situazione critica all’esterno per provocarne una «dentro».
PER ENTRARE NELLA VITA.

  1. Avere Gesù sulla nostra barca significa essere convinti che si arriva in porto attraverso la burrasca. Gesù non ci assicura contro i rischi del viaggio, non ci garantisce il «tempo sereno stabile». Ci chiede un posto («lo presero con sé nella barca, così com’era»), e basta…. Forse dimentichiamo che la destinazione del nostro viaggio è Lui. Gli apostoli non sono arrivati quando hanno toccato l’altra riva, ma nel momento stesso in cui hanno preso Gesù sulla barca.
  2. L’episodio della tempesta placata ci rimanda alla lotta sostenuta da Gesù nella sua passione. Sarà quella la vera tempesta che minaccerà di inghiottire lui e i suoi apostoli paurosi e vacillanti. Allora si capovolgeranno le parti: saranno i discepoli a dormire un sonno colpevole[4], mentre Cristo veglia e lotta. Il sonno di Cristo significa un’assenza-presente. Il mio sonno, troppo spesso, è una presenza-assente.
  3. Attraverso tutto l’Antico Testamento (oltre che nel racconto del Vangelo di oggi) si può ricavare una «teologia del sonno di Dio». Ci aiuta a purificare l’idea che ci facciamo di Dio. La fede richiesta non è una qualsiasi fede, ma solo quella fede che perde a poco a poco le pretese di imporre a Dio i modi di intervento legati ai nostri schemi. Sono invitato a fidarmi di un Dio che «veglia» ma anche di un Dio che «dorme».

[1] Elaborazione da: Pronzato Un cristiano comincia a leggere il Vangelo di Marco Gribaudi Vol. 1°; S.Fausti Ricorda e racconta il Vangelo Ed Ancora; Mateos Camacho Il Vangelo di Marco Ed Cittadella.
[2]Giona 1– Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Alzati, và a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me».  Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. A Giaffa trovò una nave diretta a Tarsis. S’imbarcò per Tarsis, lontano dal Signore. Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e ne venne una tempesta tale che la nave stava per sfasciarsi. I marinai impauriti invocavano ciascuno il proprio dio. Intanto Giona si era coricato e dormiva profondamente. Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse:  «Cosa fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo». 
[3] 5 Cfr. Sal 76, 17-21; Sal 103, 25-26; soprattutto è bene leggere il Salmo 106,23-30: alcune espressioni sono la cornice più puntuale per inquadrare questo episodio.
[4] Matteo  26 [40]Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro:  «Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Marco  14 [37]Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro:  «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?




16 giugno 2024.
P.Ermes Ronchi. Nel cuore di tutti il seme di Dio

Nel cuore di tutti il seme di Dio
padre Ermes Ronchi (17-06-2012)

Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno. Gesù parla delle cose più grandi con una semplicità disarmante. Non fa ragionamenti, apre il libro della vita; racconta Dio con la freschezza di un germoglio di grano, spiega l’infinito attraverso il minuscolo seme di senape. Perché la vita delle creature più semplici risponde alle stesse leggi della nostra vita spirituale, perché Vangelo e vita camminano nella stessa direzione, che è il fiorire della vita in tutte le sue forme. Accade nel regno di Dio come quando un uomo semina. Dio è il seminatore infaticato della nostra terra, continuamente immette in noi e nel cosmo le sue energie in forme germinali: il nostro compito è portarle a maturazione. Siamo un pugno di terra in cui Dio ha deposto i suoi germi vitali. Nessuno ne è privo, nessuno è vuoto, perché la mano di Dio continua a creare.
La prima parabola sottolinea un miracolo di cui non ci stupiamo più: alla sera vedi un bocciolo, il giorno dopo si è aperto un fiore. Senza alcun intervento esterno.
Ecco: Che tu dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Com’è pacificante questo! Le cose di Dio fioriscono per una misteriosa forza interna, per la straordinaria energia segreta che hanno le cose buone, vere e belle. In tutte le persone, nel mondo e nel cuore, nonostante i nostri dubbi, Dio matura. E nessuno può sapere di quanta esposizione al sole, al sole della vita, abbia bisogno il buon grano di Dio per maturare: nelle persone, nei figli, nei giovani, in coloro che mi appaiono distratti, che a volte giudico vuoti o senza germogli.
La seconda parabola mostra la sproporzione tra il granello di senape, il più piccolo di tutti i semi, e il grande albero che ne nascerà. Senza voli retorici: il granello non salverà il mondo. Noi non salveremo il mondo. Ma, assicura Gesù, un altro è il nostro compito: gli uccelli verranno e vi faranno il nido. All’ombra del tuo albero, dei fratelli troveranno riposo e conforto. Guardi un piccolo seme accolto nel cavo della mano, lo diresti un grumo di materia inerte. Ma nella sua realtà nascosta quel granello è un piccolo vulcano di vita, pronto a esplodere, se appena il sole e l’acqua e la terra…
Il seme ci convoca ad avere occhi profondi e a compiere i gesti propri di Dio. Mentre il nemico semina morte, noi come contadini pazienti e intelligenti, contadini del Regno dei cieli, seminiamo buon grano: semi di pace, giustizia, coraggio, fiducia. Lo facciamo scommettendo sulla forza della prima luce dell’alba, che appare minoritaria eppure è vincente. Qui è tutta la nostra fiducia: Dio stesso è all’opera in seno alla terra, in alto silenzio e con piccole cose.




16 giugno 2024. Domenica 11a
DIO NON PIANTA ALBERI, MA GETTA SEMI

11° Domenica ord. B-
Preghiamo. O Padre, che a piene mani semini nel nostro cuore il germe della verità e della grazia, fa’ che lo accogliamo con umile fiducia e lo coltiviamo con pazienza evangelica, ben sapendo che c’è più amore e giustizia ogni volta che la tua parola fruttifica nella nostra vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 17, 22-24)
Così dice il Signore Dio:  «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
Salmo 91 È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte.
Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi  (5, 6-10)
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
Dal Vangelo secondo Marco (4, 26-34)
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che ha gettato il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto si concede, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».  Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

DIO NON PIANTA ALBERI, MA GETTA SEMI. Don Augusto Fontana

 La vita.
Bambini che lavorano come schiavi, che vengono prostituiti, che imbracciano armi. Corpi dilaniati tra fango e macerie; torture; esecuzioni capitali; stupri, folle immense che migrano; fame, scontri etnici; corpi dilaniati dalla malattia; la finanza speculativa che affama e ruba risorse e democrazia ai popoli; il gioco d’azzardo è la quinta industria in Italia; adolescenze criminali, mattanza di donne che chiedono libertà affettiva;  corruzione e politici ladroni.
Ce n’è da farsi mancare il respiro. Qualcuno ha detto: « Ma almeno in chiesa si tacciano queste cose; vogliamo respirare un momento!». La liturgia però non ci educa a depositare per un attimo lo zaino fuori dalla porta per poi doverlo riprendere, ma anzi a trovare i criteri per traghettare questo zaino verso il suo scopo e con un senso ed una energia diversa. Ascoltando la Parola di questa domenica il tema fondamentale che si presenta è quello di un forte invito alla speranza.
D’altra parte le letture bibliche di oggi nascono da situazioni concrete depresse e deprimenti, ma lette e vissute nella coscienza che Dio vi abita dentro e che nulla potrà impedire all’amore di Dio di portare a compimento la sua volontà di salvezza: «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia…».
La parola. Ezechiele.
Il brano di Ez. 17,22-24 fa seguito ad una grande allegoria con la quale il profeta indica ai suoi contemporanei il significato degli avvenimenti che hanno coinvolto il Regno di Giuda culminati con la drammatica deportazione in Babilonia in due ondate successive (anni 597 e 587).
Nabucodonosor, chiamato “grande aquila” (Ez 17,2), ha strappato la cima del cedro e ha piantato un suo germoglio in terra di mercanti: è la chiara allusione alla prima deportazione dei notabili del popolo con il re Ioachim e la sua famiglia. Nabucodonosor lascia lo zio di Ioachim nel paese di Giuda e lo mette come reggente con il nome di Sedecia nella speranza di avere un collaboratore. Invece Sedecia ben presto si rivolge ad un’altra aquila (Ez 17,7), l’Egitto, nella speranza di essere liberato dal vassallaggio babilonese. Pura illusione che provoca la reazione di Nabucodonosor con il totale annientamento di Giuda e la deportazione in massa a Babilonia. Di fronte a speranze e illusioni tramontate, Ezechiele scrive le righe che sono risuonate in questa assemblea. Dio interviene come restauratore. Prenderà un ramoscello e lo pianterà in Gerusalemme; diventerà un cedro magnifico e ospiterà ogni volatile che avrà bisogno di riposo. I potenti saranno abbattuti e i deboli saranno ricostruiti. A fare la storia non sono i potenti di turno. Anche se, oggi più che mai, non sembra che Dio abbia totalmente il controllo degli avvenimenti drammatici creati da noi.
La parola. Marco.
Anche nel Vangelo di Marco il Cap. 4 costituisce una svolta: fino a questo capitolo, Marco ci ha detto che Gesù insegnava e ci ha informato delle reazioni contrastanti: da una parte l’entusiasmo della folla (1,27; 2,12), e dall’altra l’opposizione delle autorità religiose (3,6; 3,22). Ora Marco cerca di rispondere a chi, vedendo incrinata la popolarità di Gesù, incomincia a chiedersi se ciò che Gesù ha seminato avrà un seguito oppure se tutto finirà come per altri che si erano presentati come messia (es. Teuda e Giuda il galileo: Atti 5, 36-37).
Marco fa un’affermazione coraggiosa: le opposizioni che il regno di Dio incontra non sono un’eccezione, ma la normalità e comunque non fermeranno l’azione di Dio. Il regno di Dio, di cui Gesù è l’inizio, ha una logica diversa. Non è appariscente, non fa rumore; Dio ha parametri diversi e in contrasto spesso con i nostri. Marco riferisce la parabola del seminatore dove l’attenzione è posta più sulle disposizioni interiori del discepolo. Poi narra la parabola del seme, riferita nella liturgia odierna, dove l’accento è messo sulla fecondità irrefrenabile del seme, della terra e del sole, dopo che l’agricoltore, il missionario, ha lavorato. Allora la parabola non è un invito al disimpegno o alla smobilitazione. L’intento è quello di infondere fiducia a chi trova risultati deludenti o catastrofici.
La breve similitudine descrive la storia del seme e del Regno in tre tempi: la semina, la crescita e la raccolta.
Il primo tempo è il momento dell’azione del contadino, espressa con un solo verbo (“ha gettato”) che indica un fatto concluso. Per il contadino è solo un tempo che passa («dorme e veglia, notte e giorno»), durante il quale ignora ciò che sta accadendo ( «come, egli stesso non sa»).
Il secondo tempo è dedicato alla descrizione del tempo del seme e della terra. Il narratore invita l’ascoltatore a fermarsi su questo tempo.  Per il seme è il tempo importante della crescita («germina e si allunga»).  E per la terra è il tempo in cui essa opera – per forza propria (automàte) – straordinarie trasformazioni: lo stelo, la spiga, il grano nella spiga.
Nel terzo tempo ricompare, il contadino.
«Appena il frutto si concede». E’ il frutto stesso che si dona all’uomo. L’uomo non fa, ma accoglie. È il seme che in realtà fa tutto: germina, cresce, matura, si offre all’uomo per la raccolta.
Il contadino diventa in qualche modo il custode del seme che cresce.
La similitudine, dunque, indugia sul tempo intermedio, tanto lungo da costituire per molti un problema: «perché, dopo che è caduto nella terra, il seme tarda a manifestarsi? Che significato ha questo tempo che si protrae tanto e in cui tutto pare inerte, nulla si vede e Dio sembra tacere?».
Questo tempo intermedio è tempo di crescita e di impensabili trasformazioni, tempo decisivo, tempo dell’azione di Dio, non della sua assenza. E’ inattivo il contadino, non il seme o il terreno. Che tutto avvenga invisibilmente, misteriosamente, non è segno della assenza di Dio, ma del suo modo mite di parlare e agire.
Non delusione, dunque, né turbamento né inutili impazienze, bensì attesa fiduciosa. Ma è una fiducia non facile. I credenti hanno sempre la pretesa di ‘vedere’: «Signore, mostraci il Padre!»…«perché Dio non si manifesta apertamente?»  (Gv 14,8; 7,4).
Oltre al contrasto tra il tempo dell’azione visibile e dell’azione nascosta, c’è n’è un secondo tra l’inerzia del contadino e l’incessante lavoro del seme e della terra. La terra fruttifica automàte, cioè da sé e senza causa visibile.
La parabola non è un invito al disimpegno o alla smobilitazione. L’intento è quello di infondere fiducia a chi, come me, constata risultati deludenti o catastrofici.




ORIGINI DELLA FESTA DEL CORPUS DOMINI.

ORIGINI DELLA FESTA DEL CORPUS DOMINI.
don Maurizio Ceriani
Da Il Popolo settimanale della diocesi di Tortona del 22 giugno 2006

La festa del Corpus Domini è stata estesa alla chiesa universale da Papa Urbano IV, l’ 11 agosto 1264, con la Bolla “Transiturus”. Il Papa incaricò San Tommaso d’Aquino di comporre i testi liturgici della nuova festa e promulgò la Bolla da Orvieto, ove risiedeva e dove, l’anno precedente, aveva accolto il lino che, si diceva, fosse intriso del sangue miracolosamente sgorgato dall’ostia consacrata, durante una celebrazione eucaristica nella chiesa di Santa Cristina di Bolsena. Comunemente si afferma che fu il miracolo eucaristico di Bolsena ad indurre Urbano IV ad istituire la festa del Corpus Domini. Ma a monte di questa celebrazione liturgica c’è la determinazione di tre donne del medioevo. Urbano IV (Giacomo Pantaléon) era un francese, nativo di Troyes. Per lunghi anni, prima della sua elezione al soglio pontificio avvenuta nel 1261, era stato arcidiacono della cattedrale di Liegi in Belgio. In questa veste conobbe e apprezzò Giuliana di Mont Cornillon, l’eremita Eva di Liegi e la beghina Isabella. Tre donne tenaci dalla cui alleanza spirituale nacque una nuova sensibilità verso l’eucaristia nella Chiesa del 13° secolo, percorsa dal rifiorire delle idee eterodosse di Berengario di Tours e dalla eresia albigese. Berengario, morto nel 1088, aveva insegnato sulla scorta di Scoto Eriugena che la trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo durante la messa era da intendersi in senso simbolico. Le sue teorie, erano vive più che mai, nonostante la definizione dogmatica della transustanziazione al Concilio Lateranense IV nel 1215, cioè della reale trasformazione della sostanza del pane e del vino in quella del Corpo e Sangue del Signore. Gli Albigesi o Catari, riprendendo le teorie dei Manichei persiani passate in occidente attraverso i Bogomili bulgari e diffuse rapidamente nell’Italia settentrionale e nella Francia, vedevano la storia come il teatro della guerra eterna tra il Bene e il Male, alla cui origine stavano due principi divini eterni. La materia era considerata come l’opera del principio perverso; di conseguenza l’Incarnazione e i Sacramenti, Eucaristia in primis, altro non erano che inganni diabolici. Il Cristianesimo ne usciva sovvertito nel suo cuore stesso. Contemporaneamente però un movimento di radicamento della spiritualità eucaristica nel popolo cristiano prendeva vita nelle Fiandre e velocemente si diffondeva in Francia e in Germania.  Giuliana entrò tra le monache cistercensi di Mont Cornillon nel 1207 a quindici anni di età. Fu presto privilegiata da fenomeni mistici. Verso i diciott’anni ebbe la sua prima visione; in seguito ne ebbe molte altre. Per diverse volte al momento della preghiera le apparve il globo della Luna attraversata da una misteriosa striscia buia; dopo due anni le fu rivelato il senso simbolico della visione: la “luna incompleta” raffigurava la liturgia, al cui pieno splendore mancava l’essenziale: una festa che onorasse il Corpo di Cristo sacrificato per l’umanità. Bisognava istituirla per tre ragioni: “Perché la fede diminuisce; perché gli uomini che cercano la verità ne siano istruiti e attingano forze nuove a questa sorgente di vita; perché l’irriverenza e l’empietà contro questo sacramento siano riparate”.
Per vent’anni Giuliana tenne per sé questa visione, e infine la confidò solo all’eremita Eva e alla beghina Isabella, infermiera dei lebbrosi. Un’alleanza a tre, che riassume la spiritualità della vita religiosa femminile dell’epoca: vita comune in preghiera, penitenza eremitica, carità nel servizio di malati e pellegrini. Un’alleanza a tre per dare forma precisa a una religiosità eucaristica già ben presente in Liegi, nelle comunità religiose, nella predicazione e negli scritti di sacerdoti famosi, a cominciare dal X secolo con Raterio, futuro vescovo di Verona.
Le tre donne iniziano la loro “battaglia” per l’istituzione della festa eucaristica coinvolgendo sacerdoti, monaci, comunità religiose, parrocchie. Vengono a parlare con Giuliana i vescovi di Cambrai e di Liegi. A quest’ultimo, Roberto di Thourotte, lei chiede di istituire subito in diocesi quella festa, che si chiamerà del Corpus Domini. Molti però sono contrari, il vescovo esita. Allora Giuliana, che nel frattempo era diventata badessa, ruppe ogni indugio; con l’incoraggiamento di un canonico di S. Martino di Liegi, del teologo Giovanni da Losanna, profondamente convinto della verità delle sue rivelazioni, fece comporre i testi liturgici per la festa del Corpus Domini e ne promosse la diffusione. I testi per la nuova celebrazione, che saranno chiamati “Animarum cibus” per via delle parole latine con cui iniziano, appassionano molti fedeli e sacerdoti, tra cui l’Arcidiacono della cattedrale di Liegi, Giacomo Pantaléon (il futuro Urbano IV) che diventerà subito uno strenuo promotore dell’iniziativa di Giuliana.
Forzato dagli eventi e dalla determinazione di Giuliana, Eva e Isabella, il 1246 il vescovo di Liegi istituì la festa diocesana del Corpus Domini. Giuliana lasciò la carica di badessa nel 1248 per ritirarsi nella clausura di Fosses, presso Namur, dove morì dieci anni dopo, consolata dalla notizia che la festa del Corpus Domini si era estesa anche alla Renania, al Palatinato e alla Baviera per l’intervento del legato papale per la Germania Ugo da San Caro, cardinale di Santa Sabina. Ugo da San Caro, già priore e provinciale dei Frati Domenicani, era stato fra quelli che, consultati da Giovanni di Losanna, ne avevano favorito il progetto. Il 29 dicembre 1253 confermò il decreto del vescovo di Liegi e lo estese a tutte le terre di sua giurisdizione, concedendo una indulgenza di cento giorni a tutti coloro che, contriti e confessati, avessero visitato devotamente le chiese in cui si celebrava l’Ufficio della festa, il giorno stesso oppure durante l’Ottava.
Giuliana non riuscì a vedere, invece, il compimento del suo sogno nel 1264, grazie al Papa che da giovane la conobbe e la apprezzò in terra belga e che fu membro della commissione diocesana che esaminò e approvò il contenuto delle sue visioni. Vi assistette invece Eva dal suo eremo presso la chiesa di San Martino a Liegi. Quando, il 29 agosto 1261, Giacomo Pantaléon divenne Papa, Eva vide l’atteso segno della Provvidenza e tanto insistette che il nuovo vescovo di Liegi, Enrico di Gueldre, dovette scrivere all’eletto Papa per congratularsi con lui e per pregarlo di confermare con la sua sovrana approvazione la festa del Corpus Domini. Proprio a Eva di Liegi lo stesso Urbano IV inviò una bolla in data 8 settembre 1264 per informarla dell’istituzione della festa del Corpus Domini per la Chiesa universale.
Alla Reclusa di San Martino il Papa chiedeva di diffondere il nuovo ufficio della celebrazione, in sostituzione dell’ “Animarum cibus” modellato sull’antica liturgia gallicana di Francia. Da questo documento sappiamo inoltre che Urbano IV celebrò in Orvieto per la prima volta tra l’11 agosto e l’8 settembre 1264 la liturgia del Corpus Domini secondo l’ufficiatura composta da San Tommaso d’Aquino. Sia Giuliana di Mont Cornillon che Eva di Liegi furono subito venerate come Sante; il loro culto fu approvato nel 1902 con il titolo di Beate. Anche la beghina Isabella ebbe un culto locale che si fuse presto con quello della coeva Isabella di Francia, sorella di San Luigi IX, Beata che sta all’origine del ramo delle Clarisse chiamate “Urbaniste”, perché adottarono una regola mitigata rispetto a quella di Santa Chiara, stesa dalla stessa Isabella e approvata nel 1263 da Urbano IV».
Ebbene, «il motivo apologetico che de­terminò il sorgere della festa ne ha costitui­to anche il limite del contenuto: l’attenzione alla presenza reale considerata in modo trop­po indipendente dal mistero eucaristico tota­le» (A. Bergamini, Cristo festa della Chiesa).
Questo limite è stato, almeno nell’inten­zione, superato dalla riforma liturgica pro­mossa dal concilio Vaticano II mediante il cambiamento della denominazione (Solennità del Corpo e Sangue del Signore) e l’arric­chimento del numero delle Preghiere Eucaristiche e dei testi biblici. Il risultato è che oggi la festa del corpo e san­gue di Cristo non è più la festa della presen­za reale, ma del mistero eucaristico nei suoi vari aspetti. La solennità del corpo e sangue di Cristo, pertanto, può essere un’occasione unica, dal punto di vista pastorale, per pro­porre una catechesi organica del mistero del­l’eucaristia.




2 giugno 2024. Corpo e sangue del Signore
PATTO DI SANGUE. PROMESSA SERIA.

CORPO E SANGUE DEL SIGNORE

Preghiamo. O Padre, che nella Pasqua domenicale ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal cielo, aiutaci a spezzare nella carità di Cristo anche il pane terreno, perché sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro dell’Èsodo 24,3-8
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Sal 115  Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.
Che cosa renderò al Signore, per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.
Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: tu hai spezzato le mie catene.
A te offrirò un sacrificio di ringraziamento e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore davanti a tutto il suo popolo.
Dalla lettera agli Ebrei 9,11-15
Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Dal Vangelo secondo Marco 14,12-16.22-26
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

UN PATTO DI SANGUE, UNA PROMESSA SERIA. Don Augusto Fontana

«Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: “Questo sangue segna l’alleanza che il Signore conclude con voi mentre vi dà tutti questi comandamenti”» (Esodo 24,8). Lo stretto rapporto “sangue-alleanza” non è un motivo marginale nelle letture bibliche di questa domenica, festa del “Corpo e Sangue del Signore”.
Per 9 volte nelle letture bibliche risuonerà la parola “sangue”. Questo è importante per noi ormai assuefatti a certi termini liturgici o disposti a trangugiare tutto, o quasi, di ciò che passa il convento. Il linguaggio narrativo dell’Alleanza non va tanto per il sottile: vitelli e capretti sgozzati, sangue spruzzato in faccia ai presenti. Il sangue di questi animali, da noi è uscito da tempo dalle scenografie rituali; compare invece quello umano, a strisciare nelle nostre quotidiane mattanze. Il più delle volte oggi il sangue narra di alleanze infrante, di patti traditi, di rapporti distrutti. Vedi i femminicidi, la mafia, le guerre. Ma c’è anche altro sangue, quello che dà la vita, e che si versa ancora generoso nelle trasfusioni di vena in vena o da utero a feto senza volgari protagonismi di scena.
I “patti di sangue” restano solo in occulte sedute mafiose.: «Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato» (Lettera agli ebrei 12,4).
Grazie a Dio le nostre assemblee liturgiche amano ancora lasciarsi sfiorare dallo sguardo del Signore che ridà vita ai nostri amen perduti, come per Pietro nel cortile del Sinedrio. E, ancora grazie a Dio, ciascuno può narrare storie di uomini e donne, laici, religiosi, sposi, volontari che nella fatica e nella gioia fedele vivono dentro patti solidali antichi e sempre nuovi. Gesù, sacerdote primogenito e capofila di questa scia di Servi del Signore, cercherà – come narra il Vangelo (Marco 14, 12-26) – “uomini della brocca” per chiedere in prestito “la sua stanza ove mangiare la sua Pasqua con i discepoli”, con noi, esangue gente tiepida, “né calda né fredda”, come osa etichettarci l’Apocalisse (3,15).Il sangue collauda la qualità di un impegno, di un’amicizia, di un dono unilaterale. Quando Gesù dice: «Eccomi…prendetemi…mangiate e bevete…fate questo in memoria di me» non intendeva (forse) consegnarci una reliquia né intendeva (mi pare) sottoporsi alla devozione di una adorazione per Lui, prigioniero divino nel piccolo carcere del Tabernacolo o del cuoricino dell’ostia. Egli fa e celebra una Pasqua. La stipulazione di un’alleanza con Dio era fondata sul gesto liberatore di Dio, gesto considerato unilaterale, («Io sono il tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto e dalla sua casa di schiavitù». Esodo 19, 2) e comprendeva un documento e un atto liturgico.

Il documento conteneva:

  • la convocazione dell’assemblea dei contraenti; ogni singolo individuo beneficiava dell’alleanza solo in quanto appartenente al popolo;
  • gli obblighi reciproci con le relative benedizioni e maledizioni («Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme.» Esodo 24,3; « Il Signore tuo Dio conserverà per te l’alleanza, ti amerà, ti benedirà, ti moltiplicherà» Deuteronomio 7, 12-13).

L’atto liturgico consisteva:

  • nella lettura pubblica del documento a cui facevano seguito delle promesse («Tutto il popolo rispose insieme e disse:“Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo! » Esodo 24, 3).
  • nel rito del sangue del “sacrificio di comunione” (o “di shalom”) che era come la firma e il giuramento: la vittima era in parte bruciata, come dono a Dio, e in parte mangiata dal sacerdote e dagli offerenti. Diventava così rito di incontro tra Dio e il popolo. Non un incontro qualsiasi, ma “nel sangue”. Il sangue è vita e dove è donato o sparso è come se si volesse donare la vita. Condividere il sangue è condividere la vita. Entrare nello spruzzo del sangue significava accettare di entrare nell’economia del dono. A questo punto il Signore poteva confermare il suo patto di sangue («Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» Esodo 19, 5-6).

La storia biblica ci induce a pensare che il legame possedeva un carattere totalizzante e chiedeva un rapporto assorbente, unico, decisivo. Nulla di devozionale, dunque, ma una proposta che attende una risposta. E’ qui dove la nostra fede diventa un caso serio: di fronte ad un partner che dichiara di metterci l’anima, la vita e il sangue non sembra possibile l’alibi di palliativi, di appartenenze anagrafiche, di dolci sentimenti: «Tu amerai il Signore tuo Dio e metterai in pratica le sue decisioni, i suoi giudizi, i suoi comandamenti: ogni giorno» (Deuteronomio 11, 1). Ecco perché non riesco ad immaginare, per esempio, Paolo, impegnato in una devota adorazione dell’ostia, mentre gli invidio quel suo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me…Per me vivere è Cristo» (Galati 2,20; Filippesi 1,21). Scrive S. Agostino: «Perciò se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero risiede nella mensa del Signore: voi accettate il vostro mistero. A ciò che siete voi rispondete Amen, e rispondendo cosí voi l’approvate. Infatti tu senti: «Il Corpo di Cristo»; e rispondi Amen. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia vero quell`Amen» [1].
Tutto questo diventa per noi realtà e speranza in Gesù: il suo sangue versato parla di tutta la potenzialità maligna annidata nell’umanità e nelle mie follie; nel suo sangue si rivela anche tutta la fedeltà e vitalità messa a disposizione per noi che, da quel momento in poi, possiamo chiamarci “gli amati”, come Paolo ci definisce nelle sue lettere. Così recuperiamo un’identità e un mandato:« Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Giovanni 15, 12). Salvare l’uomo d’oggi, a partire dalla Cena pasquale, dal sangue versato di questo Gesù/Abele, può richiedere di scontrarsi con i custodi di Caino, di pagare di persona. E’ interessante rileggere la parabola del banchetto del regno secondo la versione di Luca (cap. 14):« All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: Venite, è pronto. Ma tutti, all’unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, scusami. Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, scusami. Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi». L’eucaristia è scomoda proprio per questo: ci obbliga a collocare le nostre attività, i nostri affari, il nostro tempo e cioè le molecole di sangue da cui è composta la nostra esistenza, nella profondità dell’eterno, nell’unità dell’amore, nell’economia del dono che è il nuovo culto: «Che m’importa dei vostri innumerevoli sacrifici? dice il Signore. Chi vuole che veniate a calpestare inutilmente i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, non posso sopportare che stiano insieme delitto e culto. Quando stendete le mani in preghiera, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete dalla mia vista il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Isaia 1,11).


[1] Agostino, Sermo 272




Settimana sociale
Zamagni. Cattolici in politica (Avvenire)

Fondamenta comuni della democrazia. Il grande compito per i cattolici italiani
Stefano Zamagni (AVVENIRE 23 maggio 2024)

 Verso la Settimana Sociale: nella realtà plurale di oggi va restituita centralità al metodo democratico, non lasciando che sia ridotto a mera procedura o a monopolio dei partiti E i cristiani devono tornare a “immischiarsi”. Dibattito aperto sul tema dell’appuntamento in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio, tra società civile, istituzioni ed economia. A poco più di 40 giorni dalla 50esima Settimana Sociale dei cattolici italiani a Trieste il professor Stefano Zamagni, economista, già presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, offre la sua riflessione sul tema della manifestazione – la democrazia – aprendo il dibattito sull’evento.


 A metà degli anni ’90 si svolse a Torino una Settimana Sociale dei Cattolici in Italia sul tema della democrazia. A distanza di quasi quaranta anni, il medesimo tema sarà oggetto della 50esima Settimana Sociale a Trieste nei giorni 3-7 luglio 2024, il cui titolo – assai evocativo – è “Al cuore della democrazia”. Ancora una volta, il mondo cattolico si ritrova per interrogarsi sul fondamento del principio democratico in un contesto socio-politico affatto differente per mettersi, come sempre, in cammino. Le considerazioni che seguono vanno lette su tale sfondo.
Conviene iniziare da un paio di chiarimenti. Il principio democratico è molto antico. Risale alla Grecia di Aristotele. Demos kràtos significa “potere al popolo”. Aristotele e altri furono molto chiari nell’indicare i due pilastri del principio democratico. Eppure si tende a identificare la democrazia con la pratica delle elezioni, le quali appartengono alla categoria dei mezzi e non già dei fini. Infatti si possono avere elezioni anche in Paesi non democratici. Due – dicevo – i pilastri del principio democratico. Per un verso, coloro i quali esercitano l’azione di comando sono tenuti a dare conto delle azioni da essi compiute. Non solo narrare, cioè raccontare quel che si è fatto, ma dare le ragioni in forza delle quali certe decisioni sono state prese – ragioni che possano essere comprese dal cittadino. Per l’altro verso, coloro i quali non si riconoscono in quelle ragioni devono poter avere il diritto di protestare, ovviamente in modi civili, ed eventualmente devono essere liberi di lasciare la comunità (è il cosiddetto “ voting by feet”).
Questi principi basilari sono stati implementati nel corso del tempo secondo due diverse tradizioni di pensiero. L’una è la tradizione Hobbesiana; l’altra è quella Rinascimentale. La tradizione Hobbesiana si rifà al pensiero di Thomas Hobbes (Leviathan, 1651), secondo cui è lo Stato che invera la società civile; idea che verrà poi perfezionata da Hegel. Allo Stato, spetta dunque il compito di dire come la società civile deve organizzarsi e quali sono i criteri in forza dei quali una società si definisce civile. Per la tradizione rinascimentale, invece, è vero esattamente il contrario: è la società civile che dà senso e forza allo Stato e non viceversa. La ripresa in tempi moderni della tradizione neo-rinascimentale è uno dei grandi meriti di Jacques Maritain e dei pensatori del personalismo cristiano (si veda di Maritain L’uomo e lo Stato e pure Umanesimo integrale). È sempre bene ricordare che la nostra Costituzione pone il suo fondamento nella tradizione neo-rinascimentale. All’articolo 1 si legge: «L’Italia è una Repubblica democratica (non uno Stato) fondata sul lavoro». Lo Stato è parte della Repubblica. E nell’articolo 2 si legge che la Repubblica è fondata, e tenuta in piedi, anche dai corpi intermedi della società (società civile organizzata, Terzo settore ecc.). Fino a un trentennio fa il principio democratico accolto dal mondo cattolico è stato quello della tradizione neo-rinascimentale. Dopo di allora, ha iniziato a prendere corpo una sorta di slittamento semantico: senza quasi accorgersene, si è andati verso la tradizione di pensiero neo Hobbesiana. A ben considerare, è questa una sorta di tradimento dello spirito del Codice di Camaldoli. Un secondo chiarimento, concerne la confusione di pensiero tra politica e partitica. La Politica, termine che deriva da polis (città), appartiene, per il pensiero greco, alla ragion pratica; la partitica, invece, nasce nel XIX secolo dopo l’illuminismo e la rivoluzione francese e il suo ambito è piuttosto quello della ragion tecnica. Perché è importante questa distinzione? Perché ci aiuta a capire che si sbaglia sia quando si dice che i partiti sono diventati irrilevanti sia quando si pensa che la politica possa ridursi totalmente alla partitica – quanto a significare che l’unico modo di occuparsi di politica, sia quello di iscriversi a un qualche partito politico. Il che è falso. Al tempo stesso va detto che l’espressione “pre-politica” è priva di senso. Nessuno che viva in società può affermare di non interessarsi di politica. I partiti sono bensì uno strumento essenziale per fare politica ma non sono l’unico strumento. Forse quando si dice “non mi occupo di politica” si intende significare: “non mi occupo di partitica”.
Il celebre teologo Henry De Lubac ha scritto che il cristiano che non si interessa di politica – non certo di partitica – non è fedele al Vangelo. Sulla medesima posizione si collocano tre dichiarazioni recenti di altrettanti Pontefici. «La politica come servizio è una via della Carità: volete amare gli altri? Fate politica» (Paolo VI). «Sogno il ritorno diretto in politica dei laici cattolici» (Benedetto XVI). «Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé» (Francesco). Non v’è bisogno di commenti, se non per suggerire due conseguenze che sono derivate dalla non presa in considerazione di tali ammonimenti. Per un verso, il babelismo (per usare la felice espressione di Maritain) del mondo cattolico; per l’altro verso, il fatto che i cattolici sono spesso percepiti come una sorta di lobby a difesa di determinati obiettivi, e non invece come una comunità di persone portatrici di un progetto di trasformazione della società che pone la sua ispirazione nella Dottrina sociale della Chiesa. Si tenga presente che le lobby – di “destra” o di “sinistra” che siano – se possono ottenere vantaggi nell’anticamera della partitica, sono sempre perdenti nelle competizioni elettorali, per la semplice ragione che non sono in grado di organizzare i canali di trasmissione degli interessi della cittadinanza verso la politica vera e propria. Ciò precisato, di quali trasformazioni – non parlo di mere riforme – il nostro Paese ha oggi grandemente bisogno, trasformazioni per l’attuazione delle quali l’apporto del mondo cattolico non può mancare? Ne indico solo alcune per ragioni di spazio.
Primo, il passaggio dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e Mercato, e quindi sulle due categorie del pubblico e del privato, al modello tripolare Stato, Mercato, Comunità, un modello che alle categorie di pubblico e privato aggiunge quella del civile. Solamente attuando una tale trasformazione è possibile dare ali al principio di sussidiarietà, secondo quanto contemplato dall’articolo 118 della Carta costituzionale, dal Codice del Terzo settore (D. Lgs. 117/2017) e della innovativa sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale. Quella finora applicata non è la piena sussidiarietà: è la sussidiarietà orizzontale, che si limita alla co-progettazione e non si spinge fino alla co-programmazione. Per attuare quest’ultima occorre dare ali alla sussidiarietà circolare, il cui fondamento è negli scritti di Bonaventura da Bagnoregio, di fine XIII secolo. Si badi che il passaggio, da tutti invocato, dall’obsoleto modello di Welfare State a quello di Welfare Society mai potrà essere realizzato restando entro lo schema Stato-Mercato. Un welfare delle capacità di vita, in sostituzione dell’attuale welfare delle condizioni di vita, esige la messa al centro del variegato mondo del Terzo settore e della Business Community, con compiti di co-programmazione.
Secondo, l’impianto del nostro assetto economico-istituzionale è ancora prevalentemente di tipo estrattivo. È di istituzioni economiche inclusive ciò di cui l’Italia ha urgente bisogno, se si vuole ridurre significativamente l’area della rendita che, nell’ultimo quarantennio, si è andata espandendo a danno sia del profitto sia del salario. La stanchezza della cultura imprenditoriale (e il declino dei livelli di produttività), oltre che il nanismo del sistema di impresa, trovano in questo la loro causa principale. Lo stesso dicasi della condizione di sofferenza delle famiglie, soprattutto di quelle numerose, ingiustamente penalizzate. Se si crede che il lavoro, nella sua duplice dimensione acquisitiva ed espressiva, è fattore decisivo di libertà, oltre che di benessere, allora occorre dire che è l’impresa che crea lavoro. Ma l’impresa nella molteplicità delle sue forme: capitalistica, cooperativa, sociale, benefit. Non è accettabile né una prosperità senza inclusione né una inclusione senza prosperità.
Terzo, va trasformato il sistema scuola-università. Cosa c’è da trasformare? Il fondamento stesso del sistema: scuola e università devono tornare a essere in primis luoghi di educazione e in secundis luoghi di istruzione. All’origine della crisi della scuola vi è l’abbandono, nel corso dell’ultimo secolo, del concetto aristotelico di con-azione – parola che deriva dalla crasi di conoscenza e azione – e il cui significato è quello di porre la conoscenza al servizio dell’azione e di non consentire che l’azione abbia luogo se non a partire da una base di conoscenza. Le nostre scuole e università veicolano bensì conoscenza, pure di buon livello, grazie alle riforme dell’istruzione dei passati decenni, ma non aiutano i giovani a inserirsi “nella realtà totale”. Non si può continuare a tenere in piedi la obsoleta dicotomia tra cultura umanistica e cultura tecno-scientifica. È al pensiero della complessità che occorre oggi educare, superando vetusti riduzionismi.
Infine, occorre porre mano alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo. Come noto, il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica unica. Al tempo stesso, la vita associata – e soprattutto la politica – esige una comunanza (la koinotes di Aristotele) fondata su princìpi etici condivisi se non vuole ridursi a mero proceduralismo e se si vuole scongiurare il conflitto sociale. Ci si rifugia nel relativismo nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di beffarda illusione dovrebbe essere compresa da tutti, perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si fa né fa mai domande, da cui il relativismo oggi dilagante. Ebbene, la ricerca di una via attenta al rispetto del pluralismo e al tempo stesso capace di suggerire una comunanza etica significativa è la grande missione del mondo cattolico in questo tempo. Una società del pluralismo non può essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare a una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa civitas. Invero, la comunanza che si deve cercare non può essere né quella propria di una comunità culturale né quella propria di una comunità religiosa – mai si dimentichi che è stato il Cristianesimo ad affermare per primo il principio di laicità – ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge) secondo cui l’agire politico è solamente quello concentrato dentro le istituzioni rappresentative. Vediamo che il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre ruoli di sistema. Si tratta allora di avviare, in modo sistematico, una riflessione sull’uomo (la cosiddetta quaestio de homine) che è certamente desunta dalla fede cristiana ma che può essere esibita anche come ragionevolmente condivisibile perché razionalmente dimostrabile.<

Per chiudere. Pensare a nuove forme di impegno politico è, oggi, un compito di primaria rilevanza da assolvere, se il mondo cattolico vuol continuare a offrire un messaggio di speranza. Le certezze che ci offre l’esaltante progresso tecnico-scientifico non ci bastano, perché la questione odierna non è tanto decidere cosa fare per ottenere ciò che vogliamo, ma decidere cosa è bene che si voglia. Di qui l’esigenza di una nuova speranza. È comprensibile che la speranza di chi non ha sia diretta sull’avere. Continuare a crederlo oggi sarebbe un grave errore. Se è vero che lasciar cadere la ricerca dei mezzi più efficaci sarebbe stolto, ancor più vero è riconoscere che la nuova speranza va diretta ai fini.

Avere dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti a una soluzione credibile di quel  trade-off[1]. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non c’è felicità in quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione stato-centrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui iper-globalizzazione e quarta rivoluzione industriale stanno mettendo a dura prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione. Restituire un’anima alla politica. Ci vogliono grandi cause, ancorché talvolta deviate dal loro alveo originale, per mobilitare le persone in gran numero. Non esiste forza politica, degna di questo nome, che non si rifaccia a un’ispirazione. Senza di essa, un partito si riduce a una mera aggregazione di interessi, sia pure legittimi. È culturalmente attrezzato il nostro mondo cattolico per una missione come quella sopra abbozzata? Penso proprio di sì, purché se ne voglia prendere atto. Un antico proverbio tibetano dice che quando c’è un grande traguardo anche il deserto diventa una strada. Se il grande traguardo è riportare la categoria di bene comune – il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo – al centro dell’agenda politica, il deserto della crisi attuale può diventare una grande opportunità. A patto che mai ci si dimentichi della sorgente. La quale è né solo origine né solo inizio. Origine e inizio si possono anche dimenticare col tempo, ma non ci si può dimenticare della sorgente, perché da essa lo “zampillo d’acqua” fuoriesce in modo continuo.


[1] Scambio, compromesso (ndr)




26 maggio 2024. Trinità
IL NOME CHE NON C’E’

PadreFiglioSpiritoSanto nella Chiesa

Preghiamo:  Dio, che nelle acque del Battesimo ci hai fatto tutti figli nel tuo unico Figlio, ascolta il grido dello Spirito che in noi ti chiama Padre, e fa’ che, obbedendo al comando del Salvatore, diventiamo annunciatori della salvezza offerta a tutti i popoli. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Deuteronomio 4,32-34.39-40
Mosè parlò al popolo dicendo: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità dei cieli all’altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore vostro Dio in Egitto, sotto i vostri occhi? Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti dò, perché sii felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore tuo Dio ti dà per sempre”.
Salmo 32  Beato il popolo scelto dal Signore.
 Retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra.
Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
Perché egli parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.
Lettera ai Romani 8,14-17
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Matteo 28,16-20
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato.Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. 

IL NOME CHE NON C’È. Don Augusto Fontana

Il prof. Cacciari intervistato da AVVENIRE (22 maggio 2024) ha detto, tra l’altro: «La Chiesa non è più di fronte a un ateismo militante, ma a un’indifferenza radicale. Non si trova più di fronte a un Nietzsche che dice “Dio è morto”, ma a chi dice “di Dio che me ne importa”. È un salto pazzesco». E noi continuiamo a dire: “Trinità…PadreFiglioSpiritosanto”.
I novantanove Nomi di Dio…
Nella mia Bibbia tascabile tengo un consunto foglietto su cui campeggia il titolo: “I 99 Nomi di Allàh”. Incredibilmente ogni tanto ne vengo attratto e, in comunione con l’Islam, lodo Dio con la splendida litania dei 99 Nomi: AR-RAHAMAN (il Misericordioso), AL-MALIK (il Signore), AL-MUMIN (il Fedele), AL-FATTAH (il Vincitore)… La litania non varca la soglia del centesimo attributo che rappresenta quell’inconoscibile e indicibile Nome che solo Lui conosce e che sarà rivelato quando Lui vorrà, se vorrà (Esodo 20,7). Su quel novantanovesimo Nome mi viene spontaneo stendere la mano sulla bocca e stare davanti a Lui con il silenzio. Il salmo 65,1 dice “Per il Signore anche il silenzio è lode”. Su questa soglia deve essersi trovato Mosè quando si tolse i sandali davanti al cespuglio, luogo impenetrabile e adorabile del grande Nome di Dio. Io prete, abituato a parlare (e a straparlare) di Dio con i punti esclamativi, oggi ho l’opportunità di lasciarmi attrarre dal fascino del punto interrogativo di questo centesimo e impronunciabile Nome e di sospettare che «Il timore del Signore è sapienza e istruzione» (Siracide 1,24). Un timore che non è paura bensì affettuoso rispetto dovuto al mistero presente in ogni evento o persona o linguaggio[1]. Parlare o tacere di Dio? Ma se decido di parlarne non posso farlo inducendo una mortifera noia, ma solo con gioia nei confronti di Uno che, lo so, incenerirà ogni volta le parole che ho faticosamente trovato per capirlo, annunciarlo, lodarlo. «Non possiamo parlare di Dio e tuttavia l’evangelo ci impone di farlo» (Karl Barth). Il mistero di Dio è scritto nelle mie piccole parole, è affidato alla teologia del nostro piccolo quotidiano vivere nell’amore, si lascia prendere in ostaggio ed impigliare dalla ragnatela dei miei ragionamenti, pur di metterci in contatto con Lui, Dio nascosto («Veramente tu sei un Dio nascosto» Isaia 45,15), ma sempre prossimo («Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» Giovanni 1,18), incartato nella nostra storia ma avvolgente l’universo[2]: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28).
Il Mistero e i luoghi comuni di una fede pigra.
Trinità: è un territorio da calcare con prudenza, curiosità intellettuale e fede itinerante. Nessuno abbia vergogna dei propri dubbi: «Una fede senza il dubbio corre il rischio di spegnersi, come il corpo senza appetito corre il rischio di ammalarsi. La fede infatti non nasce da una verità ingessata e posseduta con saccenteria, ma da una verità dinamica che è sempre oltre ciò che conosco e rivela sempre nuove meravigliose novità[3]». Territorio su cui hanno camminato i maggiori Padri dei primi secoli, teologi, eretici, mistici; S. Agostino ci ha scritto sopra 5 volumi.
Trinità: si tratta di un termine che è ignoto alla Bibbia e alla formula del “Credo” cristiano e non appartiene, in quanto parola, al primitivo annuncio cristiano essendo apparso per la prima volta verso la fine del II° secolo. Noi – battezzati “nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”- fatichiamo a dare risposte che concilino il radicale monoteismo biblico con un arcobaleno di Nomi e di storie di questo Unico e di cui abbiamo un piccolo saggio in una frase di Paolo, molto simile al testo della seconda lettura di oggi: «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre![4]». Nuovo Dizionario di Teologia[5]: «Ai nostri giorni già la stessa parola “Dio” sembra non evocare quasi nulla per un numero crescente di uomini, mentre è diventata per molti praticamente irrilevante. Che cosa può mai suggerire un termine astratto come “trinità”? Non è una tragica ironia affermare che la Trinità è la verità centrale della fede e riconoscere che essa è la dottrina meno incidente sulla vita?». Mi intriga molto la parola di Gesù: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Matteo 11,25). Di questi piccoli conosco volti e nomi e si guadagnano il pane quotidiano senza rinunciare alla obbedienza di scrutare le Sante Scritture e di affidarsi con semplicità di cuore al Dio che è amore, come ha affermato l’evangelista Giovanni che di queste cose se ne intendeva: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Giov 4,8). Ecco trovata una porticina di ingresso in questo misterioso labirinto: «L’umanità non è destinata a perire per mancanza di conoscenza, ma soltanto per mancanza di meraviglia. Quello che ci manca non è la disposizione a credere quanto la disposizione a meravigliarci. La consapevolezza del divino comincia con la meraviglia[6]».
Raccontare Dio con un occhio alla croce e un orecchio ai nostri gemiti e canti.
Mi colpisce una citazione del teologo Bruno Forte[7] che riferisce una frase di Eberhard Jüngel: «Occorre parlare di Dio raccontando l’Amore». Così hanno fatto gli autori della tradizione biblica: giungere a Dio attraverso la lettura di una storia che documenta, ad  occhi vedenti nel chiaroscuro e ad orecchi che sopportano il silenzio, ciò che Dio compie per noi. «Interroga i tempi!» dice il Cap. 4 del Deuteronomio da cui è tratta la prima lettura della liturgia odierna[8].«E’ questa la sfida di Dio che si fa trovare mettendo sul cammino dell’uomo dei richiami precisi (la sua voce, la sua parola), delle azioni concrete (segni, prodigi in vista della liberazione), delle testimonianze inequivocabili della sua sollecitudine paterna. Noi vorremmo scoprire chi è Dio in se stesso. Lui, invece, si fa conoscere mediante ciò che opera per noi. Il Dio-per-noi è l’unica faccia del mistero che ci è consentito vedere. Dio in una certo senso lascia cadere un lembo del suo mistero, scoprendosi attraverso la sua “debolezza” nei confronti dell’uomo[9]». L’unica guancia che possiamo vedere del volto della Trinità è la guancia rivolta verso di noi, quella guancia che soffre e sorride in noi incapaci di sopportare un Dio impassibile. Per noi cristiani questa storia di soffusi incontri con i segni di un Dio che si racconta, incomincia da lontano, nelle nostre origine ebraiche. Le orme di questo Dio sembrano, certo, più orme lasciate sull’acqua e cancellate dalle onde successive degli avvenimenti: «Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili» (Salmo 77, 20). Il baricentro di questo amore narrato è Gesù e all’interno della vita di Gesù tutto il contrappeso si sposta sulla croce pasquale, luogo tremendo di ateismo, laboratorio di disinfestazione dalle illusioni della religione, inusuale santuario dove Dio si rivela chi è per noi: «nessuno ha amore più grande di chi consegna (depone) la vita per i suoi amici» (Giovanni 15,13).
Occorre parlare di Dio narrando l’amore, suo e nostro. «Non basta un milione di sillogismi per dimostrare che uno è innamorato: soltanto l’esperienza dà prova e certezza…La caratteristica della fede secondo l’insegnamento biblico è che essa si fonda, più che sull’intelligenza che specula, sulla memoria che rievoca[10]». E io quando mai ho “visto” e creduto che Gesù e il Padre sono una sola cosa? Quando posso raccontare che a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune? O che io sono mandato da Cristo come lui è mandato dal Padre? Quando potrò dire un Amen detto con la vita affinchè il paradosso trinitario non appaia come un rompicapo matematico, ma come un’opera dinamica di bontà verso il singolo e la comunità umana?


[1] «Se tu comprendessi Dio, non sarebbe Dio» dice S. Agostino (Sermoni, 117, 5). «Dio si onora col silenzio non perché non si debba parlare o indagare di Lui, ma perché prendiamo coscienza di rimanere sempre al di qua di una sua comprensione adeguata» scrive S. Tommaso (Expositio super Boetium de Trinitate)
[2] Bellissimo il Salmo 139 (138).
[3] Averardo Dini, in Servizio della Parola, Queriniana, 287/97.
[4] Lettera di Paolo ai Galati 4, 6.
[5] Andrea Milano, Trinità, in Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, 1988, pagg.1782-1808.
[6] A.J.Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Roma pag. 65.
[7] in AA.VV. Trinità, Città Nuova, Roma, 1987, pag 108.
[8] «Ma guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli» (Deuteronomio 4, 9).
[9] Alessandro Pronzato, Parola di Dio! Commenti alle 3 letture – ciclo B, Gribaudi, Torino, pag. 127-128.
[10] Ernesto Balducci, Il mandorlo e il fuoco, Vol. 2°, Borla, pag. 178 e 180.




19 maggio 2024. Pentecoste
Un soffio che rianima.

Pentecoste 

Preghiamo. O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo, e continua oggi, nella comunità dei credenti, i prodigi che hai operato agli inizi della predicazione del Vangelo. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dagli Atti degli Apostoli 2,1-11
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
Salmo 103.  Manda il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra.
Benedici il Signore, anima mia! Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature.
Togli loro il respiro: muoiono e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.
Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto, io gioirò nel Signore.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati 5,16-25
Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.
 Dal Vangelo secondo Giovanni
15,26-27 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
16,12-15 Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

UN SOFFIO CHE RIANIMA. D. Augusto Fontana

Pentecoste è un sogno, una promessa, ma che tarda sui tempi delle mie attese e dei miei desideri: attese di una fede pasquale sulla mia vita e sulla nostra morte; desideri di una chiesa meno legnosa e più umana e profetica, di una convivenza che abbia almeno un giorno senza conflitti e di un pomeriggio dove tutti possano mangiare, di un popolo di discepoli del Signore che smettano di essere consumatori del supermarket della religione.
Nel mio oggi, Signore, dov’è la tua Promessa?
L’oggi è già invaso da una Pentecoste senza tuoni e fragori, vite di persone semplici percorse dal brivido del perdono, del servizio senza sconti, della fedeltà rocciosa, del martirio di una santità di vita ordinaria vissuta straordinariamente. Ma il mio oggi è anche disegnato coi tratti di Babele, la città confusa. Il mio oggi ha ancora come sfondo la valle delle ossa secche sognate dal profeta Ezechiele quando ancora lo Spirito non aveva gridato con le sue labbra di vita. Ripercorro un saggio di Erich Fromm[1] che individua tre profondi malesseri contemporanei: il narcisismo, l’alienazione, la necrofilia. «Il narcisista non è veramente interessato al mondo esterno, ma pretenderebbe tutto per sé. Molte relazioni danno l’impressione di essere rapporti d’amore, ma in realtà si tratta spesso di rapporti narcisistici. E il narcisismo di gruppo non si distingue troppo da quello individuale. L’alienazione significa che io non mi pongo come soggetto del mio agire. Nell’antico testamento questo si chiamava “idolatria”. L’uomo alienato dipende dagli oggetti che crea: cose, utensili, merci, burocrazia, leader.  La necrofilia è un atteggiamento nel quale la morte, la distruzione, la putredine esercitano un’azione perversa; è la perversione di essere attratti dalla morte quando si è vivi».
In questo contesto desidero meditare alcuni testi biblici pentecostali.
La Toràh: Parole e amore.
La Pentecoste è la festa di Shavu’ôt, la festa delle Settimane che si celebrava, e ancora si celebra tra gli ebrei (quelli non impegnati nella guerra contro la popolazione palestinese), 50 giorni dopo Pasqua; festa della mietitura, ma che già all’epoca di Gesù era diventata la festa del dono della Toràh, della Rivelazione sul Sinai. Pentecoste diventa la festa di un popolo che festeggia il dono dei raccolti tra cui il frutto nutriente e dolce della Toràh: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca» (Salmo 119,103).
Unità plurale.
Il testo di Atti 2 costituisce l’antitesi dello scenario di Babele in Genesi 11,1-9 che riporta la biodiversità delle lingue a Babel: gli uomini intraprendono un’azione con lo scopo di raggiungere Dio per non disperdersi; ma Dio confonde il loro linguaggio che fino a quel momento era stato unitario. Meglio dunque la multiformità dei linguaggi (anche se ciò potrebbe rendere un po’ più difficile la comunicazione), piuttosto che l’uniformità che può generare totalitarismi o conformismo.
Questa narrazione ci porta dunque a cogliere il dialogo possibile non tanto nell’orizzonte dell’omogeneità e dell’uniformità dei linguaggi, ma nella comune volontà di bene che lo deve sorreggere o – come diceva il monaco Enzo Bianchi  – dell’ unità plurale.  Scrive il Midrash della tradizione ebraica[2]: «Il Santo parlava e la sua voce si diffondeva in tutto il mondo: Israele udiva la voce che proveniva dal sud e correva al sud per accogliere la voce di là; allora la voce si spostava a Nord e Israele correva a nord, ma allora la voce si spostava ad oriente e poi ad occidente e gli israeliti si spostavano di conseguenza; poi giungeva dal cielo  e i figli di Israele alzavano gli occhi al cielo, ma allora la voce saliva dalla terra e allora gli Israeliti si chiedevano: “Da dove viene la Sapienza e qual é la sede dell’Intelligenza? Tutto il popolo “vedeva le voci” (Esodo 20,18). Perché dice “le voci”? Perché la voce del Signore si trasforma in sette suoni e da questi si trasforma nelle settanta lingue, affinché tutti i popoli possano comprendere». Dio si manifesta al plurale. La rivelazione di Dio é capace di dividersi e di parlare in molte lingue e la lode a Dio deve essere possibile nel rispetto delle diverse espressività dei popoli. Questo orientamento parrebbe in contrasto con una teologia e una liturgia ancora troppo occidentali, europee e romane, nonostante le sollecitazioni pressanti delle Conferenze episcopali delle periferie del mondo per accelerare una coraggiosa inculturazione nella gestualità e nella cultura locale di ogni popolo.
Da carcasse a viventi.
La visione comunicataci da Ezechiele (37, 1-14) costituisce un altro testo indimenticabile di questa festa: «il Signore mi trasportò mediante lo Spirito e mi depose in mezzo a una valle piena d’ossa. Egli mi disse: “Profetizza su queste ossa, e di’ loro: “Ossa secche, ascoltate la parola del Signore: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e voi rivivrete”. Io profetizzai come mi era stato comandato ed ecco le ossa si accostarono le une alle altre; lo Spirito entrò in essi: tornarono alla vita». Il profeta si rivolge al popolo in esilio che si considera morto e abbandonato da Dio. A questi esiliati Ezechiele promette il dono dello Spirito che li restituirà a vita nuova. Il simbolismo è potente ed evoca ogni spezzone di umanità odierna corrosa dalla delusione e dalla mancanza di prospettive. Occorre lo Spirito per rimetterci “in piedi”. Al momento della creazione c’era il caos, il vuoto, la desolazione (Genesi 1,2); su questo caos, che è immaginato come un gorgo che risucchia, aleggia la Ruah, l’alito di Dio, il suo coraggio.
Profeti senza documenti.
Anche il testo di Gioele 3, 1-5Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito») si adatta bene alla celebrazione della Pentecoste soprattutto a causa di una rilettura fatta da Atti 2, 17-21, all’interno del discorso di Pietro: “questi uomini non sono ubriachi”. Anche oggi l’esercizio di alcune professioni è proibito senza il relativo documento di riconoscimento. Ma a chi spetta il potere di riconoscere la profezia? La risposta non è semplice: nella storia ebraica conosciamo che esistevano gruppi di profeti che si autoproclamavano tali, vivevano presso le corti dei re, ma di fatto erano profeti da strapazzo mentre altri, non riconosciuti tali al loro tempo, furono poi inseriti nella grande rivelazione profetica della Bibbia. E poi è così difficile riconoscere i profeti mentre sono ancora in vita. La promessa di Gioele, e cioè la diffusione dello Spirito di profezia su ogni uomo/donna, è come una risposta al desiderio di Mosè ricordato nel racconto di Numeri 11,29 quando Giosuè si era lamentato con lui perché due strani tipi, Eldad e Medad, stavano profetando nell’accampamento senza averne autorizzazione: «Fossero tutti profeti nel popolo di Dio e volesse il Signore dare loro il suo Spirito». Questo Spirito, durante la Pentecoste, si “effonde” su tutti, rendendo capaci di “visione e sogni” e cioè capaci di guardare dentro se stessi e negli avvenimenti per scorgervi ciò che chiede il Signore.
Come essere profeti pentecostali in un mondo oppresso dal narcisismo, dall’alienazione e dalla necrofilia? Mi ha sempre colpito una poesia orientale che racconta: «Dissi al mandorlo: “Fratello parlami di Dio”. E il mandorlo fiorì». Il testimone profeta, come il mistico, parla poco ma diventa eloquente con la vita come ricorderà Paolo (Galati 5, 22) quando enumera i frutti dello Spirito: «Amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé». Scrive il teologo sudamericano Segundo Galilea[3]: «La spiritualità cristiana assomiglia all’umidità e all’acqua che mantengono irrorata l’erba, perché sia sempre verde e cresca. L’acqua e l’umidità non si vedono; ciò che si vede è il pascolo. Però sappiamo che dobbiamo irrigarlo e mantenerlo umido». I tre simboli dello Spirito (acqua, respiro e fuoco) possono davvero costituire una descrizione di come i laici possono inserirsi come profeti negli ambienti di vita e nelle scelte che sono loro proprie.
Resta la domanda: chi è lo Spirito Santo? Un grande padre della Chiesa – s. Gregorio di Nissa – affermava con linguaggio spericolato: “Se a Dio togliamo lo Spirito Santo, quello che resta non è più il Dio vivente, ma il suo cadavere”. Verrebbe da dire che, a maggior ragione, se alla Chiesa togliamo lo Spirito Santo, quello che resta non è più il santo popolo del Dio vivente, ma un cimitero sterminato di cadaveri, così come si legge nel profeta Ezechiele. Il brano del vangelo è costituito dalla cucitura di due testi: Giovanni 15, 26-27 con 16, 12-15. In un contesto di persecuzione, lo Spirito viene descritto nella sua attività di “Consolatore/Avvocato” e “Testimone”, cioè colui che confermerà dentro di noi le Parole dette da Gesù e gli eventi fondamentali della sua vita (“Spirito di verità che vi guiderà alla verità tutta intera”). La terminologia, dunque, è propria di un contesto giudiziale dove i discepoli sono messi sul banco degli accusati per rendere ragione della loro scelta ed hanno bisogno di chi incoraggia, difende, testimonia a favore, conferma. Noi oggi non siamo trascinati fisicamente davanti ad alcun tribunale, ma la nostra vita evangelica è sottoposta all’insignificanza, al dubbio, alla pressione di conformità, all’omologazione. Indimenticabile  la pagina della Lettera a Diogneto[4]: «I cristiani né per regione, né per lingua, né per abitudini sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. Vivendo in città greche e barbare e adeguandosi ai costumi del luogo, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani».


[1] E. Fromm “I cosiddetti sani. La patologia della normalità”. Mondadori, 1996
[2] Midrash (Ricerca): raccolta ebraica di commenti biblici per rendere la Bibbia accessibile alla gente comune.
[3] S. Galilea, El camino de la espiritualidad, Bogotà, 1985 pag. 8
[4] Questo scritto di un anonimo risale al II° secolo d.C.




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Il movimento di lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere è partito dalle lavoratrici e lavoratori a fine 1800. Ovviamente in questi decenni sembra che stia tornando la necessità di rivedere ancora questo dovere-diritto di lavorare per vivere e non vivere per lavorare. Quindi siamo ancora alla ricerca, come abbiamo sentito dalle interviste, di un’armonizzazione tra tempo di lavoro e di vita È una questione di etica del lavoro che non riguarda solo le organizzazioni imprenditoriali e sindacali ma riguarda anche la coscienza personale ma anche la pastorale stessa. Dove mai si è parlato di questo problema nella catechesi degli adulti o nella formazione dei giovani? Allora è problema etico che riguarda lavoratori e lavoratrici, in particolare con grave ricaduta sulle lavoratrici a causa del loro ruolo genitoriale e anche di cura.

Il tema non è solo di organizzazione di orario ma è culturale su due piani: quello personale e quello collettivo.

Quello personale perché è chiaro che ognuno dei lavoratori rischia di appiattirsi sui ritmi richiesta dall’azienda e anche in nome della produttività. È chiaro che è un modo di coscientizzarsi anche nei confronti del proprio rapporto personale con il tempo di lavoro.

Ma è anche un problema collettivo. Sta già arrivando per le grandi aziende e banche l’occasione di incominciare a pensare alla settimana corta, a parità di salario e di produttività. Potrebbe essere necessaria una legislazione.

Siamo alla ricerca di un lavoro che sia dignitoso ma anche decente dal punto di vita dei lavoratori che hanno bisogno del tempo per la propria cultura, per la propria salute, per il proprio sport, per l’educazione dei figli, per la famiglia.

Occorrono quindi anche delle contrattazioni di secondo livello dove le aziende, i lavoratori e le Organizzazioni sindacali possano sperimentare gradualmente nuove forme, senza indebolire ovviamente la produttività e le performances delle aziende.

Chiudo con una frase di Papa Francesco tra le tante. In una intervista del 2018 diceva così: «Quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà, di schiavitù e di scarto».