Commercio armi. Una legge per nascondere
G.Beretta (ROCCA)

COMMERCIO ARMI
Una legge per nascondere
Giorgio Beretta[1] (Rocca 1 marzo 2024)

Lo scorso 21 febbraio è stato appro­vato al Senato il Disegno di legge (Atto Senato n. 855) di iniziativa governativa che modifica la legge n. 185 («Nuove norme sul control­lo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento»), leg­ge che dal 1990 regolamenta le esporta­zioni italiane di armamenti. Col pretesto di apportare «alcuni aggior­namenti» per «rendere la normativa na­zionale più rispondente alle sfide deri­vanti dall’evoluzione del contesto inter­nazionale», il governo Meloni intende porre sotto il proprio controllo e limita­re l’applicazione dei divieti sulle espor­tazioni di armamenti, ridurre al minimo l’informazione al parlamento e alla so­cietà civile eliminando, tra l’altro, dalla Relazione ufficiale annuale tutta la do­cumentazione riguardo alle operazioni svolte dagli istituti di credito nell’import-export di armi e sistemi militari italiani.
La legge sull’export di armamenti.
La legge 185/90 è stata una conquista del­le associazioni cattoliche e laiche che ne­gli anni Ottanta con la campagna «Contro i mercanti di morte» hanno promosso un’ampia mobilitazione nazionale denun­ciando gli scandali del commercio italia­no di armamenti: mobilitazione che ha portato il parlamento a definire norme ri­gorose per impedire l’esportazione di ma­teriali militari non solo agli Stati sottopo­sti a misure di embargo, ma anche a Paesi coinvolti in conflitti armati, a governi re­sponsabili di gravi violazioni dei diritti umani e verso Paesi la cui politica contra­sta con i principi dell’articolo 11 della Co­stituzione. Prima, per cinquant’anni, era rimasta in vigore la legge fascista promul­gata col Regio Decreto n. 1161 dell’11 luglio 1941, firmato da Mussolini, Ciano, Teruzzi e Grandi, con cui l’intera materia delle esportazioni di armamenti era vin­colata al «segreto di Stato» e sottratta al­l’esame del Parlamento.
Il veto del Governo sui divieti.
Con la riforma prospettata dal Disegno di legge l’applicazione di questi divieti viene sottoposta alla discrezione del Governo attraverso il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd) presieduto dal Presidente del Consiglio. Un simile Comitato era pre­visto in origine dalla legge, ma successi­vamente era stato cancellato. Adesso vie­ne reintrodotto per «assicurare un coordi­namento adeguato al massimo livello po­litico delle scelte strategiche in materia di scambi di armamento», si legge nella rela­zione della Relatrice, la senatrice Stefania Craxi (Forza Italia). Ma, di fatto, con un’unica funzione: porre il veto ai divieti alle esportazioni di armi che il Ministero Affari Esteri e Cooperazione Interna­zionale (Maeci), su proposta dell’Autorità nazionale Uama (Unità Autorizza­zioni Materiali Armamento), può de­cidere in applicazione delle norme stabili­te dalla legge e, soprattutto, delle decisio­ni votate dal Parlamento. Il  Comitato Interministeriale Scambi Difesa (Cisd) avrà, infatti, quindici giorni di tempo per esa­minare i divieti proposti dal Maeci e da Uama e potrà annullare ogni loro propo­sta di divieto senza che nessuno, nemme­no il Parlamento, ne sappia nulla. È, in concreto, la nuova formula del «segreto di Stato» del governo Meloni che si attua an­che attraverso un’ampia serie di ulteriori modifiche alla legge. Ciò che si vuole evitare è il ripetersi di casi come quello del gennaio 2021 in cui Uama e il ministero degli Esteri, a seguito di una “soluzione parlamentare votata ad ampia maggioranza, hanno revocato le licenze di esportazione di «bombe e missili» ad Ara­bia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per il loro coinvolgimento nel conflitto in Yemen: un conflitto che ha causato più di 20mila vittime tra la popolazione civile innescan­do una gravissima catastrofe umanitaria tuttora in corso. La decisione di Uama e del ministero degli Esteri ha creato fibrillazioni nell’industria militare che per la prima volta, nei trent’an­ni dall’entrata in vigore della legge, si è vi­sta revocare alcune licenze in base alle pre­scrizioni della legge.
Ridurre l’informazione al Parlamento.
Ma ciò a cui il Governo mira con il disegno di legge è soprattutto ridurre l’informazione al Parlamento e alla società civile. Informa­zione che è già stata erosa negli anni, ma che è tuttora garantita dalla Relazione che la Presidenza del Consiglio deve inviare ogni anno alle Camere riportando tutte le opera­zioni autorizzate e svolte riguardo alle espor­tazioni di armamenti. Oggi la Relazione deve, infatti, contenere «indicazioni analiti­che – per tipi, quantità e valori monetari – degli oggetti concernenti le operazioni con­trattualmente definite indicandone gli stati di avanzamento annuali sulle esportazioni, importazioni e transiti di materiali di arma­mento e sulle esportazioni di servizi oggetto dei controlli e delle autorizzazioni previste dalla presente legge» (Art. 5). Nel disegno di legge, il governo si era però limitato a chiedere di «rafforzare la piena leggibilità della relazione» ( … ) «preferendo, laddove possibile, la presentazione di sinte­si esplicative delle attività esaminate alla mera produzione di allegati documentali». Il colpo di grazia è arrivato, invece, da un emendamento (emendamento 1.15 testo 2) presentato in Commissione al Senato che modifica radicalmente la Relazione annua­le. Se verrà approvato anche alla Camera non sarà più richiesto, come previsto fin dall’en­trata in vigore della legge 185/90, che la Re­lazione annuale contenga le succitate «indi­cazioni analitiche», ma soltanto – come già avviene – «i Paesi di destinazione con il loro ammontare suddiviso per tipologia di equi­paggiamenti» e «con analoga suddivisione, le imprese autorizzate» e «l’elenco degli ac­cordi da Stato a Stato».
Sparisce la lista delle «banche armate».
Ma soprattutto dalla Relazione verranno eliminati tutti i dati sulle singole auto­rizzazioni ed esportazioni per tipo di armi, quantità e valore e tutte le infor­mazioni riguardo alle attività delle ban­che. Sono proprio queste informazioni che hanno finora permesso di ricostrui­re e documentare numerose esportazio­ni di materiali d’armamento a Paesi ari­schio e di conoscere gli istituti di credito che le hanno appoggiate. I correntisti non sapranno più dalla Relazione annuale quali sono le banche, nazionali ed este­re, che traggono profitti dal commercio di armi in particolare verso regimi auto­ritari e Paesi coinvolti in conflitti arma­ti. Grazie alla costante e meticolosa azione della Campagna di pressione alle «banche armate», dal 2000 tutte le banche hanno adottato delle direttive di responsabilità sociale di impresa per definire la loro po­sizione riguardo non solo alla produzio­ne e alla commercializzazione di armi nu­cleari, mine anti-persona, bombe a grap­polo ma anche riguardo agli armamenti convenzionali. Con l’emendamento appro­vato al Senato viene cancellato l’obbligo di riportare nella Relazione governativa tutte le informazioni sugli istituti di cre­dito e quindi di poter avere dalla fonte ufficiale informazioni precise sulle atti­vità bancarie. Un favore all’Aiad, l’Asso­ciazione nazionale che raduna tutte le 214 principali aziende del settore della dife­sa, che ha ripetutamente accusato le ban­che di «voler fare le etiche» limitando fi­nanziamenti e sevizi all’industria milia­re. La legge 185/90 non è mai stata accettata dall’industria militare e dai centri di infor­mazione e di ricerca ad essa collegati. Con queste modifiche, promosse dal governo Meloni, ma sostenute anche da alcuni rap­presentanti dell’opposizione, si vogliono mettere a tacere le associazioni attive nel controllo dell’export militare. In vista del­l’esame alla Camera la Rete italiana pace e disarmo ha predisposto una mobilitazio­ne nazionale per impedire che il commer­cio italiano di armi torni ad essere oggetto di una pericolosa opacità che non favori­sce la promozione della pace e della sicu­rezza comune, ma alimenta guerre e vio­lenze, sostiene le violazioni dei diritti e provoca morti innocenti in tante zone del mondo. Tutte le informazioni sono dispo­nibili su sito: www.retepacedisarmo.org


[1] Giorgio Beretta è analista del com­mercio interazio­nale e nazionale di sistemi militari e di armi comuni. Svol­ge la sua attività di ricerca per l’Osserva­torio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurez­za e difesa (Opal) di Brescia che fa parte della Rete italiana pace e disarmo (Ripd).




Papa Francesco: a Messa oltre l’abitudine
F.Ognibene (Avvenire)

Oltre l’abitudine: la lezione del Papa. A Messa per lasciarci sorprendere ancora.
Francesco Ognibene (Avvenire. sabato 21 gennaio 2023)

Con la Messa ognuno di noi ha un rapporto personalissimo, che col tempo diventa naturale, spontaneo, persino irriflesso. E una pratica che resta – Concilio alla mano – «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» può anche trasformarsi in una routine. È possibile che andiamo in chiesa senza pensarci, credendo di sapere già ampiamente cosa ci aspetta, presumendo di conoscere ormai fin troppo bene le nostre attese, e cosa porteremo via da quel gesto. Liturgie grigie come atti burocratici possono poi consolidare la convinzione che si tratti di una pratica da sbrigare, senza riporre tante aspettative.
Ma l’abitudine finisce per smorzare l’effetto di un appuntamento di per sé in grado sempre di rimetterci a nuovo. Eppure ne abbiamo bisogno, non possiamo vanificare un’esperienza rigenerante per la fede e per la stessa vita. Per questo è utile ogni tanto prendere le distanze dalla consuetudine e renderci ancora consapevoli di cosa cerchiamo quando entriamo in chiesa la domenica (o anche nei giorni feriali, per i più assidui). Vale per noi laici, vale anche per i celebranti: che quota di meraviglia, di commozione, di raccoglimento c’è nelle nostre liturgie? Cosa ci trasmette la Messa, e come la attendiamo, la viviamo, la ricordiamo una volta conclusa?
La fede è niente senza le opere, ma la sua proiezione prevalente sul fare finisce col persuaderci che il contenuto del credere sia il compimento efficiente di qualche attività pastorale o sociale, per quanto encomiabile, lasciando la fede come una variabile eventuale. La Messa è lì, in mezzo, nel crocevia tra religione e vita, a intrecciare tutto ciò che ci costituisce come credenti. Pensare a come la si vive può far capire che cristiani siamo. Ci aiuta il Papa, che rivolgendosi ai partecipanti a un corso del Pontificio Istituto Sant’Anselmo[1] ha ricordato ieri che le «ritualità», pur «belle», sono vane se «non toccano il cuore e l’esistenza del popolo di Dio». Non si tratta di un fatto emotivo, a destare l’anima non è una coreografia ben congegnata, o uno stato d’animo più incline a farsi coinvolgere: perché «è Cristo che fa vibrare il cuore, è Lui che attira lo spirito». È come se ci chiedesse: ti è ancora chiaro? Con un filo di humour Francesco parla dell’insidia di dar vita a «un bel balletto » che «non è autentica celebrazione». Intrattenimento a sfondo spirituale, che assomma stratagemmi per tener desto l’interesse dei partecipanti. Tutto qui? Certamente no.
È una questione di spazio interiore, che va creato perché possiamo udire una voce che chiede di noi. Ma quanto margine resta nell’agenda della nostra vita, satura di impegni, pensieri, ansie, distrazioni? Pur con le migliori intenzioni, la Messa può trovarci “tutti esauriti”, nei fatti indisponibili a metterci da parte anche solo per qualche decina di minuti, dai riti d’ingresso all’«andate in pace». Come lasciarci sorprendere dall’inatteso, senza credere di aver già visto tutto, di pensarci in fondo immuni da sorprese? Mettendoci da parte una buona volta, e riaprendo occhi mente e anima. Perché – dice Francesco – «soltanto l’incontro con Dio ti dà lo stupore». Ecco, appunto: può essere che la Messa non sia più un vero «incontro», non in questi termini spirituali, almeno. Andare in chiesa considerandola l’occasione per «un incontro sociale» – nota il Papa – porta a deprezzare un’esperienza indispensabile alla vita cristiana eppure così difficile nella nostra “società del rumore”: il silenzio, che invece «aiuta l’assemblea e i concelebranti a concentrarsi su ciò che si va a compiere». Si può far rumore anche con le troppe parole di omelie che quando vanno oltre i pochi minuti – «otto, dieci» – necessari perché «la gente si porti qualcosa a casa» diventano «una conferenza», e si risolvono in un vero «disastro». In realtà abbiamo sete di silenzio, «prima e dopo le celebrazioni», perché «il silenzio apre e prepara il mistero».
Che bello sentircelo dire da un padre che mostra di conoscerci così bene e sa quanto ci è necessario poter incontrare Dio – e noi stessi, così come siamo –in un silenzio che ridà vita, aprendoci a una presenza che ci stava aspettando. Per sperimentare una volta ancora la meraviglia di rinascere. Altro che abitudine: a Messa è una sorpresa continua.


[1] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-01/papa-liturgia-riforma-maestro-celebrazioni-formazione-parrocchie.html




31 marzo 2024. Pasqua di risurrezione
STUPORE E MOVIMENTO

PASQUA DI RISURREZIONE di Gesù di Nazaret

 Dal Vangelo secondo Giovanni 20,1-9
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Dal Vangelo secondo Marco 16,1-7
Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”».
Da Vangelo di Luca 24,13-35
 Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro.  Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

STUPORE E MOVIMENTO. Don Augusto Fontana

La parola libertà in ebraico, contiene la radice hfsh (חֹפֶשׁ) che vuol dire cercare. Un uomo è libero se continua a cercare. Le crisi, che sembrano bloc­carci, in realtà aprono spazi, rompono gusci di comodità e creano le condizioni per mettersi di nuovo in marcia, in ricerca. Sono questi momenti di vuoto, di sospensione, di attesa, che rinnovano il mondo. Non dovrei temerli, ma viverli. Ciò che mi dovrebbe preoccupare, oggi, non è la crisi in quanto tale, ma l’indisponibilità a viverla. Non mi fido del futuro, dell’inedito che con­tiene, e mi abbarbico al presente per tratte­nerlo. Questa crisi ha lo stato d’animo degli apostoli i quali, dopo le apparizioni di Gesù, si rinchiudono in casa, intimoriti sul da farsi, o, peggio, è la crisi di Giuda appeso alla corda, incapace di guardare oltre. Il timore di perderci rallenta qualsiasi movimen­to di crescita. La vera crisi è dunque nell’assen­za di fiducia, nella cecità verso l’impossibile di oggi, che sarà possibile domani. Questa situazione può sbloccarsi solo riaprendo­ci al movimento naturale della vita, quel movi­mento del quale la crisi è parte, perché annullan­do le nostre sicurezze, ci apre al cambiamento.
Rileggendo i testi biblici di Pasqua possiamo riconoscere, fra altre infinite ricchezze e stimoli, almeno tre parole incandescenti che illuminano e ustionano i discepoli di ieri e noi, presunti discepoli di oggi: fermarsi,  guardare/ascoltare,  camminare.

 Fermati!
Il primo movimento che ci occorre è in realtà un non-movimento. Una sosta. Shabbat, così gli ebrei (non guerrafondai!) chiamano il giorno del riposo. È il giorno in cui si cancella ciò che si crede di sapere, in cui si abbandona quello che si crede di avere. Questa sosta è necessaria per liberarci dal condiziona­mento mentale di ciò che siamo, per aprirci gli occhi. Shabbat è il tempo liberato dalla costri­zione del fare, dai vincoli del già visto, già cono­sciuto; per questo ci permette di vegliare su ciò che non si vede, di andare al di là del visibile, di inventare nuove strade, di ricreare e ricrearsi.
Vorremmo trovare un immediato benessere per uscire dalla crisi, scoprire quel farmaco che possa cancellare il male. Ma la fretta, del credere o del vivere, è il demone della «felicità senza sforzo» e ci porta a non affrontare i problemi che stanno dietro le crisi e che, rimossi troppo velocemente, sono come veleni non smaltiti. La fretta non permette alle ferite di guarire, ane­stetizza solo la parte dolente, nega il vissuto, ci priva del diritto alla convalescenza. Chi si rialza troppo in fretta da una malattia sa che è destina­to a ricadute. Quello che ci serve è altro: accogliere le domande che ci salgono dal cuore e dal mistero della vita degli uomini, delle guerre a pezzi, delle migrazioni, della delinquenza. Tutti i discepoli della Pasqua e tutti i loro racconti sono pieni zeppi di soste, di Sabati, di stop.

Guarda dentro (Ascolta).
Il nostro punto di partenza è il luogo da cui vor­remmo fuggire, come i discepoli di Emmaus in fuga dalla comunità e da Gerusalemme. Il luogo del nostro quotidiano, dei sogni falliti e delle speranze deluse. È nel groviglio d’ogni giorno, nel piccolo fram­mento di pane spezzato, nella umile striscia di tela deposta nei nostri sepolcri, che si nasconde il senso della nostra esistenza. Dare valore al quo­tidiano o agli umili segni sacramentali, o alla Parola piccola come un seme, o al fratello che ci sfiora e a volte ci ferisce con gli artigli della sua impertinente debolezza: tutto questo ci permette di toccare la vita, di starci dentro senza scappare. Occorre uno sguardo profondo o almeno progressivo che faccia legge­re la realtà (“Vide e si fidò”; “lo riconobbero”) e porti alla luce ciò che sta dentro. Occorre un cuore attento e duttile che riesca a ve­dere fra i crepacci del presente il fiore che nasce o trasformare le ferite in feritoie.

Riprendi il cammino.
Nella vita noi avanziamo per scoperta di tesori: “Dov’è il tuo teso­ro, là sarà anche il tuo cuore“. Occorre quindi che io mi rimetta in cam­mino, consapevole che la vita ha dinamiche di resistenza, ma che queste non mi devono bloc­care. In tutti noi c’è la capacità di ribellarsi e affrontare questa realtà. E allora dobbiamo avere il coraggio di percor­rere strade che nessuno ha ancora percorso, di pensare idee che nessuno ha ancora pensato. La crisi del mondo non deve trascinarsi dietro la crisi della nostra speranza.

Angelo Silesio (mistico del XV° sec.) scrisse: «Cammina dove non puoi. Guarda dove non vedi. Ascolta dove nulla risuona: così sarai dove Dio parla»[2].

Pare che il Vescovo brasiliano Hélder Câmara abbia detto o scritto: « É grazia divina cominciare bene; è grazia più grande resistere nel cammino, ma è grazie delle grazie non smettere mai». (É graça divina começar bem. Graça maior persistir na caminhada. Mas graça das graças é não desistir nunca).


[1] Rielaborazione da Luigi Verdi NON FUGGIRE, E’ SOLO CRISI  (Fraternità di Romena, Marzo 2012)
[2] Fonte: J.T. Mendonça, Padre nostro che sei in terra, Qiqajon, 2013, pag. 64




Da sempre ti ho amato
Testo e canto

https://www.bing.com/videos/riverview/relatedvideo?&q=da+sempre+ti+ho+amato+youtube&&mid=5C32CCA755F5FD6731CE5C32CCA755F5FD6731CE&&FORM=VRDGAR

DA SEMPRE TI HO AMATO

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio,

io, la tua guida, il tuo Pastore.

Contempla il mio volto, il cuore trafitto,

e credi all’amore del tuo Signore.

Per te ho preparato la mensa della vita

e tu mi versi ancora un calice di morte.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho moltiplicato il pane del mio cielo

e tu mi sazi ancora col pane del dolore.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio………

Per te ho rinnovato il vino delle nozze

e tu ricambi ancora rompendo l’alleanza.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho pronunciato parole di perdono

e tu mi insulti ancora colpendo il mio cuore.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio…

Per te ho liberato oppressi e prigionieri

e tu mi inchiodi ancora al legno della croce.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho risanato i figli tuoi lebbrosi

e tu ricopri ancora di piaghe il mio corpo.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio…

Per te ho ridonato la vista a molti ciechi

e tu rispondi ancora spegnendo i miei occhi.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho ridonato parola ai sordomuti

e tu ricambi ancora togliendomi la voce.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio…

Per te ho risvegliato i morti dal sepolcro

e tu decreti ancora di togliermi dal mondo.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te, per liberarti, ho dato la mia vita

e tu nei miei fratelli rinnovi la mia morte.




24 marzo 2024. Domenica della Passione
Perchè tutto questo spreco?

Passione di nostro Signore Gesù Cristo dal Vangelo secondo Marco (14-5)

 Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui con inganno, per ucciderlo. Dicevano infatti:  «Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo».

Lettore 1: La donna discepola dell’amore e della risurrezione

Gesù si trovava a Betània nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro:  «Perché tutto questo spreco di olio profumato?»

Lettore 2: «Perché tutto questo spreco di olio profumato?»

Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri!».  Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse:  «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Lei ha compiuto verso di me un’opera buona;

Lettore 2: Lei ha compiuto verso di me un’opera buona

i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto».

Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici,

Lettore 2: uno dei Dodici

si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù. Quelli all’udirlo si rallegrarono e promisero di dargli denaro. Ed egli cercava l’occasione opportuna per consegnarlo. Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero:  «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?».  Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro:  «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo [14]e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, gia pronta; là preparate per noi».  I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua.

Lettore 1: “Mangiare la Pasqua” in un clima di amore e tradimento

Venuta la sera, egli giunse con i Dodici. [18]Ora, mentre erano a mensa e mangiavano, Gesù disse:  «In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà».  Allora cominciarono a rattristarsi e a dirgli uno dopo l’altro:  «Sono forse io?».

Lettore 2: «Sono forse io?».

Ed egli disse loro:  «Uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito! Bene per quell’uomo se non fosse mai nato!».  Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo:  «Prendete, questo è il mio corpo».  Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse:  «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti.  In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio».

Lettore 1:Getsemani: preghiera, solitudine, tradimento, consegna

E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro:  «Tutti rimarrete scandalizzati,

Lettore 2: «Tutti rimarrete scandalizzati,

poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse. Ma, dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea».  Allora Pietro gli disse:  «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò».  Gesù gli disse:  «In verità ti dico: proprio tu oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte».  Ma egli, con grande insistenza, diceva:  «Se anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò».  Lo stesso dicevano anche tutti gli altri.

Lettore 1: Pietro e noi discepoli del sonno.

Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli:  «Sedetevi qui, mentre io prego».  Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro:  «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate».  Poi, andato un pò innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva:  «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu».  Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro:  «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?

Lettore 2: Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?

Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole».  Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne la terza volta e disse loro:  «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».  E subito, mentre ancora parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Chi lo tradiva aveva dato loro questo segno:  «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta».  Allora gli si accostò dicendo:  «Rabbì»  e lo baciò.

Lettore 2:  e lo baciò.

Essi gli misero addosso le mani e lo arrestarono. Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l’orecchio. Allora Gesù disse loro:  «Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi. Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato. Si adempiano dunque le Scritture!».  Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo.

Lettore 1: Pietro rinnega, si ricorda della Parola, piange.

Allora condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote; e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. Intanto i capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti attestavano il falso contro di lui e così le loro testimonianze non erano concordi. Ma alcuni si alzarono per testimoniare il falso contro di lui, dicendo:  «Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo».  Ma nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde. Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo:  «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?».  Ma egli taceva e non rispondeva nulla.

Lettore 2: Ma egli taceva e non rispondeva nulla.

Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli:  «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?».  Gesù rispose:  «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».   Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse:  «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?».  Tutti sentenziarono che era reo di morte. Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli:  «Indovina».  I servi intanto lo percuotevano.  Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una serva del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo fissò e gli disse:  «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù».  Ma egli negò:  «Non so e non capisco quello che vuoi dire».  Uscì quindi fuori del cortile e il gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti:  «Costui è di quelli».  Ma egli negò di nuovo. Dopo un poco i presenti dissero di nuovo a Pietro:  «Tu sei certo di quelli, perché sei Galileo».  Ma egli cominciò a imprecare e a giurare:  «Non conosco quell’uomo che voi dite».

Lettore 2: «Non conosco quell’uomo ».

Per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto:  «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte».  E scoppiò in pianto.

Lettore 1: Processo e condanna di Gesù innocente. E noi, solidali con Barabba.

Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato. Allora Pilato prese a interrogarlo:  «Sei tu il re dei Giudei?».  Ed egli rispose:  «Tu lo dici».  I sommi sacerdoti frattanto gli muovevano molte accuse. Pilato lo interrogò di nuovo:  «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!».  Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato. Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio. La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva. Allora Pilato rispose loro:  «Volete che vi rilasci il re dei Giudei?».  Sapeva infatti che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i sommi sacerdoti sobillarono la folla perché egli rilasciasse loro piuttosto Barabba. Pilato replicò:  «Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».  Ed essi di nuovo gridarono:  «Crocifiggilo!». Ma Pilato diceva loro:  «Che male ha fatto?».  Allora essi gridarono più forte:  «Crocifiggilo!».  E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba

Lettore 2:  volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba

e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo:  «Salve, re dei Giudei!».  E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui. Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.

Lettore 2: lo condussero fuori per crocifiggerlo

Lettore 1: Il Cireneo, discepolo della croce. Il centurione pagano, discepolo della fede. Gesù ama, prega e muore da Figlio di Dio

Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce. Condussero dunque Gesù al luogo del Gòlgota, che significa luogo del cranio, e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. E l’iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei. Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano:  «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, [30]salva te stesso scendendo dalla croce!».  Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano:  «Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo».  E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano. Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Lettore 2: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano:  «Ecco, chiama Elia!».  Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna, gli dava da bere, dicendo:  «Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce».  Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso. Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse:  «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!».

Lettore 2: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!».

Lettore 1: Le discepole e i discepoli della “vigilia”e dell’attesa

C’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme. Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro. Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto.




17 marzo 2024. Domenica 5a Quaresima
ALLEATI

Domenica 5a di Quaresima

Preghiamo: Padre, ascolta il grido del tuo Figlio che, per stabilire la nuova ed eterna alleanza, ci ha amati fino alla morte di croce; fa’ che nelle prove della vita partecipiamo intimamente alla sua passione redentrice, per avere la fecondità del seme che muore ed essere accolti come tuo raccolto nel Regno dei cieli. Per Cristo nostro Signore.

GLI ALLEATI. Don Augusto Fontana

Se volessimo dare un titolo un po’ provocatorio a questa 5a Domenica di Quaresima, potremmo intitolarla la Domenica degli Alleati. Se la storia ci insegna tristemente che le alleanze umane sono passeggere e spesso determinate da interessi di parte o paura del nemico, l’alleanza tra Dio e l’umanità viene rivelata e proposta, nelle Letture bibliche di domenica, così:

  1. Nella prima lettura: la promessa di questa alleanza.
  2. Nella seconda: il suo prezzo.
  3. Nel Vangelo: la sua realizzazione.

UNA PROMESSA PAGATA E MANTENUTA DA DIO.
La pagina di Geremia è talmente bella che alcuni sposi la scelgono come prima lettura per il loro matrimonio.

Dal libro del profeta Geremia (Ger 31,31-34)
Ecco verranno i giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri , quando li presi per mano per farli uscire dall’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio e essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri , dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non i ricorderò più del loro peccato”.

Nell’afflizione del vedere Gerusalemme distrutta e i giudei divisi tra coloro che restarono e quelli che vennero deportati, si odono le parole del profeta Geremia come un canto al perdono e alla speranza. Dio vuole ricominciare con il suo popolo, proponendogli di siglare una “nuova alleanza” non più scritta sulle tavole ma nel cuore stesso dell’uomo. E l’altro regalo che Dio ci fa, è quello di farci accedere gratuitamente alla sua conoscenza. Non bisogna pagare, non bisogna essere grandi o piccoli, di una razza o dell’altra: Dio si rivela nella storia di ciascun popolo, senza discriminazioni, senza dimenticare nessuno. Si promette un patto nuovo (che è come dire “qualcosa di simile non si era mai visto prima”) e stabile (durerà fino alla fine, senza pentimenti e ripensamenti), che Dio realizzerà con il suo popolo: questo patto viene preso come punto di riferimento dagli sposi cristiani, che si impegnano in un amore simile a quello di Dio: “Prometto di esserti fedele sempre…e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Tutto questo, sulle labbra di un giovane, che stringe la mano di una ragazza, non è forse qualcosa di nuovo e (con l’aiuto di Dio) stabile?
Questa alleanza nuova e stabile, di cui parla il profeta Geremia, ha tre caratteristiche chiare:

  1. Sarà scritta nel cuore degli uomini.
  2. Sarà tale che gli uomini “non dovranno più istruirsi gli uni gli altri”.
  3. Sarà caratterizzata dalla remissione dei peccati.

1)  “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore”
Questo patto tra Dio e l’uomo sarà scritto “non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori”   (2 Cor 3,3). Ci sono parecchie differenze tra una cosa scritta sulla pietra e una cosa scritta sulla carne del cuore. La pietra è fredda, il cuore è caldo. Possiamo mettere in pratica “le dieci Parole” di Dio con freddezza, sentendone magari il peso e le privazioni, senza calore e gioia. La pietra è fuori dell’uomo, il cuore dentro. Possiamo sentire ciò che Dio ci chiede come una costrizione esterna, che non fa presa con convinzione nel nostro intimo.
Geremia ci dice che “verranno giorni” in cui Dio renderà l’uomo capace di mettere in pratica i suoi “comandi” senza rigidità ma con entusiasmo, come frutto di una scelta libera e convinta. Qualcuno potrà dire: «possibile?». Se Dio lo promette nella Bibbia, evidentemente vuol dire che è possibile. Stiamo parlando, è chiaro, di qualcosa che non viene dall’uomo, ma è un dono di Dio. Ezechiele ci dà una mano nella comprensione: “Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36,27).
Va sottolineato però che occorre anche la nostra cooperazione e generosità.
I “giorni” di cui parla il profeta Geremia sono il nostro oggi, i giorni che seguono l’evento della Pentecoste. Con la discesa dello Spirito Santo è iniziata una nuova fase nella storia dell’umanità: Dio è presente stabilmente tra noi con il suo Spirito, e ci guida in un cammino nuovo e personale.
2)  “Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri”.
Questo secondo aspetto della promessa è strettamente connesso al primo.  Direbbe S. Giovanni “L’unzione che avete ricevuto da Lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna” (1 Gv 2, 27). L’unzione è la presenza dello Spirito Santo. E’ come avere un maestro interiore, che nel cuore ti guida verso ciò che senti giusto e santo per te. Nessuna imposizione, nessuna violenza: ma la sobria presenza di Dio, lo Spirito Santo è capace di convincere la coscienza meglio di qualsiasi predicatore o catechista, meglio di qualsiasi discussione o controversia.
3) “Io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato… (Ma quanto  mi costi!)”
 “Questo è il calice del mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati” dice il celebrante durante la Messa, ripetendo le parole di Gesù.  Lo scopo di Dio, nell’istituire questa alleanza, è di avvicinare a sé gli uomini. Per portarci vicino a sé, Dio deve rimuovere gli ostacoli, quelli che il linguaggio biblico chiama “peccati”. Tutto questo è avvenuto grazie all’amore crocifisso di Cristo. Quanto sia “costato” a Dio questo “sgombero” è ben espresso nella seconda lettura odierna.

Dalla lettera agli ebrei (Eb 5,7-9)
Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Gesù rivela così il suo lato più umano e più vicino alle nostre sofferenze. “Per le sue piaghe noi siamo stati guariti”   (Is 53, 5). Potremmo dire: per il suo amore crocifisso siamo stati attirati al Padre: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”.

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 12,20-33)
In quel tempo  tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!”. La folla che era presente e aveva udito diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. Rispose Gesù: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire.

Questa brevissima parabola del “seme che muore” presenta una volta in più la lezione fondamentale del Vangelo intero e del messaggio di Gesù: l’amore che offre se stesso, e per questo si perde, e morendo a se stesso, genera vita. Siamo di fronte ad uno dei tipici paradossi del Vangelo. Il paradosso è una figura letteraria che consiste in una contraddizione apparente: perdere-guadagnare, morire-vivere, offrire-tenere, dare-ricevere… Sembrano dimensioni o realtà contraddittorie, ma non lo sono nella realtà. Rendersi conto che non esiste tale contraddizione, cogliere la verità del paradosso, significa scoprire il Vangelo. In Gesù si esprime una volta di più l’accesso dell’umanità alla comprensione e alla possibilità di questo paradosso. In natura, nel mondo animale soprattutto, il principale istinto è quello dell’autoconservazione. L’essere umano, al contrario, si caratterizza per essere capace di uscire da se stesso e offrire la propria vita per amore. L’umanizzazione consiste proprio in questo “de-centramento” da se stessi, che è un con-centramento sugli altri. In fondo, questa parabola corrisponde al comandamento nuovo: “questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni e gli altri come io vi ho amato; non c’è amore più grande di chi da la vita” (Gv 15,12-13).  




10 marzo 2024. Domenica 4a quaresima
ALLEANZA: DISGRAZIA O GRAZIA?

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA  B 

Preghiamo. Dio, buono e fedele, che mai ti stanchi di richiamare chi sbaglia verso una vera conversione e nel tuo Figlio innalzato sulla croce ci guarisci dai morsi del maligno, donaci la ricchezza della tua grazia perché rinnovati nello spirito possiamo corrispondere al tuo eterno e sconfinato amore.
Dal secondo libro delle Cronache 36,14-16.19-23
In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
 Sal 136.  Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia.
Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.
Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre.
Perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato,
allegre canzoni, i nostri oppressori: «Cantateci canti di Sion!».
Come cantare i canti del Signore in terra straniera?
Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra.
Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo,
se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni 2,4-10
Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Dal Vangelo secondo Giovanni 3,14-21
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

ALLEANZA: DISGRAZIA O GRAZIA? DIO E’ CON NOI ANCHE QUANDO E’ CONTRO DI NOI?

I due libri delle Cronache, con il Libro di Esdra e il Libro di Neemia, formano una unità letteraria da leggersi insieme. Furono scritti circa nel 300-250 a.C., e cioè 3 secoli dopo la fine dell’esilio Babilonese. Il loro Genere Letterario può definirsi “meditazione storica” per sostenere le riforme politico-religiose di Esdra e Neemia e per giustificare la nuova teocrazia installata al Sud, a differenza di quella fallita al Nord. Preoccupazione principale fu quella di affermare che l’esilio babilonese non aveva interrotto le promesse di Dio in quanto sia il babilonese Nabucodonosor (che deporta Israele) e sia il persiano Ciro (che lo libera nel 538 a.C.) sono ambedue strumenti nelle mani di Dio per esercitare un amore esigente e tenero.
Il popolo ebraico (residente nella Giudea, al Sud di Israele), dopo 2 secoli dal ritorno in patria, di fatto è ancora ridotto ad una piccola e povera comunità, perseguitata dai samaritani del Centro-Nord a cui l’autore del Libro delle Cronache vuol dimostrare che il popolo del Sud è “il piccolo resto, la piccola assemblea” fondata da Dio. Sono, sotto sotto, richiami alla speranza per tempi difficili e sono parole di consolazione per un popolo che vive in situazione minoritaria e di povertà. Se la riforma religioso-politica di Giosia non ha portato cambiamenti radicali è perché occorre una vera conversione, un cambiamento di rotta. Dio si dimostra «Totalmente diverso», imprevedibile e, umanamente parlando, contrario alle nostre attese.
Osserviamo l’andamento del rapporto conflittuale tra il popolo e il suo Dio e l’andamento alternato dell’amore esigente e tenero di Dio:  [14]Anche tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà…[15]Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo …[16]Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti… al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine[21]attuandosi così la parola del Signore, predetta per bocca di Geremia…[22]…a compimento della parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro…
Immaginate un ebreo schiavo seduto sui fiumi di Babilonia a sentir parlare dell’amore di Dio; immaginate i discepoli che scrutano da lontano il cadavere del loro Gesù appeso sulla croce: questi annientamenti non vanno nella direzione del benessere atteso come segno di amore di Dio. Dio opera nella croce di Cristo uno stratagemma di incredibile forza: il crollo delle sicurezze storiche, umane, religiose, istituzionali non trascinano con sé il crollo dei progetti di Dio né lo allontanano da noi perché Dio va in esilio con il suo popolo ed è lì su quella croce.
Noi siamo abituati ad una fedeltà gregaria, quella del portaborse che dice sempre di sì al capo. La fedeltà di Dio a noi non è di questo tipo; è una fedeltà critica. Dio sembra entrare nelle nostre sicurezze con le parole profetiche disturbanti, le critiche acute, i fallimenti del progressismo vincente da primi della classe, la ribellione dei poveri e degli esclusi. E’ difficile credere in un Dio che non viene a tutelare le nostre soddisfazioni spirituali, le elevazioni mistiche, l’ottimismo decadente e che invece mi dà la croce come unico luogo di lettura della storia. Dio, fonte di insicurezza giusta per i sicuri e fonte di sicura speranza per tutti gli smarriti. (Salmo 146, 6-10).
Tu mi dai la caccia come si fa con un leone!” grida Giobbe a Dio, dal suo tormento. E aveva ragione: Dio inizia a ricercarci tra gli alberi dell’Eden fin dal giorno del suo primo grido “Adamo, dove sei?”. Questo  grido non si è più spento nella foresta della nostra storia. Dio ci rimane fedele, ci cerca in tutte le nostre fughe e alibi, come uno sposo che va a cercare la moglie sui viali, come un padre/madre che aspetta il figlio scappato o come un pecoraio che va a prelevare una pecora sbandata.
Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unico; chi crede il Lui ha la vita eterna”. Pare che questa frase (GV 3,16) costituisca il centro di tutto il Vangelo di Giovanni. Ma questo annuncio costituisce un  “Mistero”, nel senso che la cosa non è poi tanto evidente; è una testimonianza che viene proposta alla mia fede e non alla mia rilevazione immediata. Qualunque osservazione che  facciamo ci fa chiedere: ma c’è davvero questo amore che presiede a tutto?
Padre Ernesto Balducci[1] ha scritto, al riguardo, una pagina interessante: «Noi vorremmo poter arrivare alla certezza dell’amore di Dio a partire dall’esperienza. Se noi entriamo in una casa dove tutto è squallido, in disordine, polveroso diciamo: qui non c’è un amore che governa, una maternità che provvede. Ebbene noi siamo in un mondo di questo tipo. Per questo dobbiamo stare attenti a non compromettere la nostra fede con facili slogan della devozione. Questo è detto anche a chiare lettere nel Vangelo di oggi: il luogo e il momento in cui l’amore di Dio si è manifestato al mondo in maniera eccellente è proprio un momento e un luogo dove la nostra osservazione constata il contrario. La crocifissione di un uomo giusto, abbandonato da tutti anche dagli amici, non è un segno dell’amore di Dio, ma dell’assenza di Dio. Siamo nel cuore del paradosso cristiano: da una parte affermiamo che il principio di tutto è l’amore di Dio per il mondo e dall’altra sappiamo che questo amore viene rivelato proprio là dove tutte le categorie dell’intelletto umano sono portate a constatare l’assenza dell’amore. Tenendo uniti questi due estremi ci è possibile entrare in un’intelligenza di fede che è un’intelligenza nell’oscuro e non nella chiarezza. Facciamo un esempio. Immaginiamo un padre di famiglia che, seduto a tavola con moglie e figli, dica: “Davvero il Signore ci ha voluto bene; non ci manca niente, gli affari vanno bene, la salute non manca. Dobbiamo ringraziare Dio che ci ha voluto bene”. Sarebbe un discorso di falsa fede. Considerare come segno dell’amore di Dio le cose che vanno bene è stabilire un rapporto di immediatezza che è spezzato dalla croce di Cristo. Non c’è immediatezza tra la nostra esperienza e questo amore. Basta una coscienza critica perché ci si renda conto che il nostro benessere, familiare o collettivo, è basato sulla più iniqua espropriazione di innumerevoli altre creature. Sarebbe strano questo Dio che manda felicità in una famiglia costruendola sull’iniquità e l’ingiustizia. Ecco perché il nostro tempo ci chiama a ripulire la fede dalle ideologie di comodo. Del resto la lezione ci viene confermata anche dal brano forte della prima lettura biblica. Immaginate un ebreo seduto sui fiumi di Babilonia, schiavo, a parlare dell’amore di Dio! Eppure in quella schiavitù c’era l’amore correttivo e critico di Dio,  un amore che non andava d’accordo con le aspettative del popolo quando, precedentemente, si trovava nel benessere. La descrizione di questo popolo di Giuda che vive nell’infedeltà, accetta le idolatrie di altri popoli, uccide i profeti, costruisce ricchi palazzi e case eleganti, ci fa pensare ad un certo mondo in cui viviamo. Quando le cose vanno così bene probabilmente – dice il testo biblico – c’è un’infedeltà. Quel che conta non è che le cose vadano bene, ma che si viva con fedeltà. Dio opera allora uno stratagemma di incredibile forza, tale cioè da inserire per sempre un sospetto, un  dubbio, in tutta la storia della nostra fede cristiana: cioè Dio, proprio perché amava il suo popolo, lo lascia preda degli avversari. Tutto viene distrutto: Tempio, palazzi, organizzazione politica. L’esilio è amore di Dio per il popolo. E Dio realizza la salvezza attraverso Ciro, un pagano. Questo modo di procedere di Dio è assolutamente contrario alle nostre comode strategie della provvidenza. Dio è con noi anche quando è contro di noi. La correzione, amante, di Dio cade su di noi spesso nel momento in cui siamo nella massima sicurezza. Non dobbiamo disprezzare le parole profetiche, le parole disturbanti, le critiche acute perché in esse si annida la speranza di uscita dalle nostre micidiali e false sicurezze. Torniamo alla domanda iniziale: Dio ama il mondo? Certo che lo ama, ma non per ratificarlo, non perché gli diciamo “Grazie, Dio, perché tutto ci va bene e tu lo confermi”. Noi crediamo nel Dio-amore perché mette in crisi le nostre sicurezze e quando diciamo “Siamo arrivati” lui ci rimette in cammino. Credo nell’amore di Dio: non perché viene a tutelare le mie soddisfazioni spirituali, le mie elevazioni mistiche, il mio ottimismo decadente, ma perché sento che mi mette in crisi, mi obbliga a vivere con respiro universale per farmi solidale con l’ultimo degli uomini all’ombra della Croce, unico luogo di lettura del suo terribile amore che afferra gli ultimi degli uomini per sollevarli al cospetto dei potenti per convincerli a proclamare la fine delle loro false sicurezze. Mentre gli altri grideranno soddisfatti che le cose vanno bene ci renderemo scomodi contestatori che dicono: no! Le cose vanno male. E quando gli altri dicono che le cose vanno malissimo, avremo la strana gioia di gridare che invece vanno bene. Questa stranezza turba anche chi la vive e lo rende valido segno della permanenza dell’amore di Dio, fonte di insicurezza giusta per i sicuri e fonte di sicurezza per gli smarriti, perché non c’è ragione di essere smarriti»[2].


[1] Fu una delle personalità di maggior spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II. Fu legato a Giorgio La Pira, David Maria Turoldo, Lorenzo Milani e molti altri cattolici democratici. Morì nel 1992 all’età di 69 anni, a seguito di un grave incidente stradale.
[2] E. Balducci, Il mandorlo e il fuoco, Vol. II° anno B, Ed. Borla




La domenica senza lavoro
F.Riccardi(AVVENIRE)

La domenica senza lavoro, un presidio di libertà per tutti.
Francesco Riccardi
AVVENIRE. Venerdì 1 marzo 2024
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-domenica-senza-il-lavoro-un-presidio-di-liberta-per-tutti

Sì, lo sappiamo, è una battaglia che sembra ormai persa. Basta osservare i grandi centri commerciali brulicanti di consumatori nei giorni festivi. L’idea della domenica come giorno di riposo per la gran parte dei lavoratori – almeno quelli non impiegati nelle attività essenziali – è un’idea che oggi appare utopica. Romantica per i più benevoli, irrealistica e passatista per la maggior parte delle persone. In particolare, quelle che vedono con favore la possibilità di fare acquisti e divertirsi nel tempo libero domenicale. Eppure, arrendersi a questa realtà senza neppure più “combattere” significa accettare come inesorabile una deriva che, pezzo a pezzo, rischia di renderci meno solidali, più soli, di fatto meno umani e sempre più ridotti invece alla sola dimensione di mercato, alla dicotomia produttore/consumatore. A ricordarci del valore della domenica come giorno di festa per tutti è la giornata europea che si celebra il 3 marzo. È la campagna che la European Sunday Alliance (l’Alleanza europea della domenica) lancia in questa occasione per “sensibilizzare i cittadini e i leader politici nazionali e dell’UE sugli effetti positivi di un giorno di riposo settimanale sincronizzato”. L’Alleanza è un’ampia rete di oltre 100 “cartelli” nazionali, sindacati e datori di lavoro, associazioni, Chiese cristiane. Nel direttivo siedono anche i rappresentanti della Comece (Commissione Conferenze Episcopali Comunità Europea), i vescovi cattolici della Comunità europea, ma il cuore del messaggio non sta nella difesa delle esigenze di culto (che pure hanno la loro importanza). Quanto nel valore universale della domenica per l’uomo, al di là dell’aspetto religioso. A spiegarlo bene è l’enfasi posta su quell’aggettivo: “sincronizzato”. Sono infatti i concetti stessi di festa e di comunità ad essere messi in discussione dalla cultura del lavoro a ciclo continuo. Con la frammentazione del tempo della festa in tanti tempi liberi “asincroni”: chi al lunedì, chi al venerdì, al sabato o alla domenica. La logica sottesa mira ad avere sempre in equilibrio chi lavora e chi consuma il prodotto degli altri in tempo reale. Si va affievolendo, invece, la percezione della domenica e della festa come occasione per ritrovarsi tutti insieme in famiglia, per coltivare rapporti sociali autentici, appassionarsi ai bisogni della propria comunità, impegnarsi nel volontariato, con una visione di bene comune da perseguire. La domenica e le diverse festività hanno invece proprio questa natura e fondamentale funzione: permettere alle persone di godere non solo di una generica pausa – che appunto si può svolgere in un qualsiasi giorno della settimana – ma vivere un tempo di libertà, verità e pienezza collettivo, sincrono rispetto alla libertà, verità e pienezza degli altri uomini, in un giorno che è veramente libero proprio perché è libero per tutti. Un tempo di gratuità sottratto alla mera logica dello scambio di mercato. Può essere che la battaglia culturale per circoscrivere all’essenziale il lavoro festivo sia già persa. Certamente lo diventa se noi stessi, per primi, non ci rendiamo conto di che cosa rischiamo di perdere – tutti – abbandonando al declino l’idea della domenica libera e sincrona, di un autentico “fare festa” insieme.




3 marzo 2024. Domenica 3a di Quaresima
 UN’ALLEANZA IN DIECI PAROLE. ANZI IN UNA: GESU’

III DOMENICA DI QUARESIMA B

Preghiamo. Signore, nostro Dio, santo è il tuo nome; piega i nostri cuori ai tuoi comandamenti e donaci la sapienza della croce, perché, liberati dal peccato che ci chiude nel nostro egoismo, ci apriamo al dono dello Spirito per diventare tempio vivo del tuo amore. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro dell’Èsodo 20, 1-3.7-8.12-17  In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole:
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile.
Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai adulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
 Salmo 18.  Signore, tu hai parole di vita eterna.
La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi.
Il timore del Signore è puro,  rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti.
Più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1,22-25
Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
Dal Vangelo secondo Giovanni 2,13-25
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete[1]. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 UN’ALLEANZA IN DIECI PAROLE. ANZI IN UNA: GESU’. Don Augusto Fontana

Il Tempio nel corpo.
Il testo di Esodo 20 è collocato tra l’annuncio della Alleanza (Esodo 19) e la sua celebrazione (Esodo 24).  Vengono rivelate (donate) Dieci Parole: «E parlò ‘Eloim tutte queste parole». Parole di libertà appartenenti alla “Legge” (Torah), un termine che, nel linguaggio occidentale contemporaneo, non rende giustizia alla densità significativa, coinvolgente e amante attribuitagli dagli uomini giusti dell’ebraismo; basta rileggersi il lungo e mistico salmo 119 o i versetti del salmo 18 di oggi.
Più che di leggi, precetti e comandi si tratta di istruzioni, insegnamenti e parole convincenti. Ancora oggi mi resta il dubbio che l’esperienza “religiosa” instauri con Dio una sottomissione servile, moralistica, giuridica, mercantile che uccide il sogno del nostro fidanzamento con Lui, come ci dicono i profeti Osea (Cap.2) ed Ezechiele (Cap. 16).  Un Rabbino, a chi gli faceva notare che il Decalogo conteneva troppe proibizioni (7 “non” …), disse: “Nelle Dieci Parole c’è una sola proibizione fondamentale: non tornate indietro, non tornate in Egitto, alla casa di schiavitù”. Infatti si trascura che le Dieci Parole incominciano così: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù». Non un liberatore “spirituale”, ma “integrale”; uno a cui sta a cuore oltre che la giustizia sociale, anche la liberazione dalla tentazione di intorbidare lo stile di vita una volta entrati nella Terra Promessa: non avrai altro Dio all’infuori di me e non vi opprimerete a vicenda,  né con le cose né nei rapporti. Le Dieci Parole non interpellano solo il singolo: sono i rapporti comunitari che vengono liberati. Gesù dirà che tutta la Legge si riassume nell’amare[2] e per evitare equivoci si presenta con le Beatitudini.
La “Trasfigurazione” del Tempio.
In tutte le culture il Tempio rappresenta l’ombelico che congiunge divino e umano, ma anche divide il tabernacolo dal cortile, ritma il tempo con le celebrazioni e organizza tramite la legge la convivenza sociale. Senza Tempio, il cosmo è come una ruota senza mozzo. Buono o perverso, liberante o schiavizzante che sia, senza un suo Tempio l’uomo non può esistere. L’animale è condotto dall’i­stinto, l’uomo è mosso dal desiderio di raggiungere un fine che dà senso al suo vivere, al suo desiderio di felicità. Il Tempio offre questo ed è il luogo del senso della vita, della festa e della comunione. Ma tende sempre a diventare anche luogo di mercanteggio con Dio, giustificazione di oppressione dell’uomo in nome di Dio. Al centro delle antiche città c’è sempre il Tem­pio, diventato nella cristianità il «duomo» (domus=casa), la casa di tutti. Oggi al centro troviamo la Borsa, con il culto del libero mercato e della new economy, nel cui nome si con­duce una fanatica guerra santa, senza guardare in faccia a nessuno, distrug­gendo la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti (cf. Sal 24,1). L’operazione è condotta in modo indolore, grazie al narcotico prodotto in altri tem­pli: del consumo, del divertimento, dello sport.
Dio, Tempio e uomo sono tre realtà che si rispecchiano; ma soprattutto l’uomo e il tempio hanno un volto diver­so secondo l’immagine che si ha di Dio. Se Dio è colui che ha in mano tutto e domi­na tutti, il suo fedele tende a scimmiottare il Potente; il Tempio allora diventa lo strumento di giustificazione di ogni oppressione. Se Dio è uno che si consegna e serve, l’uomo vero è colui che serve e il Tempio diventa luogo di comunione e amore.
Il Figlio dell’uomo, vero Tempio, sarà ucciso proprio da chi si è ingannato su Dio e sul Tempio e quindi anche sull’uomo. Questa visita di Gesù al Tempio visita la nostra idea di Dio e di uomo.
«Ma egli parlava del tempio del suo corpo»: il Tempio, chiamato da Gesù «casa del Padre mio» e poi «santuario», è infine identificato con il suo «corpo». La carne della Parola è ormai la «tenda» di Dio in mezzo a noi, dove noi stessi siamo di casa con lui. In Gesù il tempio diventa ciò di cui è segno: è cielo aperto sulla terra, terra aperta su Dio.
Gesù non ce l’ha col Tempio, né col Sabato, né con la Legge. Ma sa che in agguato si annida in noi la strumentalizzazione del Nome di Dio, l’abuso della religione in atti privati, il mercanteggiamento tra favori, sacramenti, benedizioni e opere buone. Ci si è messo in mezzo: prima di entrare nel Tempio, nel Sabato e nella Legge passerete su di Me, sul mio corpo, scandalo per la religione e stupidità per filosofie, economie e politiche. Nella preghiera iniziale abbiamo chiesto il dono di diventare TEMPIO DEL SUO AMORE. Difficile oggi trovare il tempo di “andare in chiesa”, ma più difficile e raro è “essere Chiesa in Lui”.
Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire voi stessi come sacrificio gradito a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pietro 2, 4-5).


[1] Nel Tempio potevano entrare solo le monete giudaiche e i pellegrini dovevano cambiare le monete romane con le monete giudaiche. I cambiavalute chiedevano un cambio molto alto. Inoltre pare che i sacerdoti rifiutassero gli animali portati da lontano, in modo che i pellegrini dovevano comprare, e caro prezzo, un animale dai venditori nel Tempio. Pare che cambiavalute e mercanti condividessero il guadagno illecito con i sacerdoti del Tempio.
[2] Matteo 22, 36-39: «Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?». Gli rispose:  «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».




L’inverno demografico una questione scottante.
P. Montesperelli (Rocca)

L’inverno demografico una questione scottante.
Paolo Montesperelli[1] (Rocca 04/02/2024)

Il cosiddetto «inverno demografico», cioè il calo e l’invecchiamento della popolazione italiana, raggela il san­gue … di fronte a un problema che si sta arroventando. È una rivoluzione silenziosa, senza botti, clamori, barricate; eppure è dirom­pente la sua portata attuale e, forse ancor più, quella futura.
Non dare torto ai fatti.
Partiamo da qualche dato. Dagli anni ’90 fino al 2014 la quantità della popolazione in Italia è rimasta sostanzialmente stabi­le: la diminuzione degli italiani veniva compensata dall’ingresso degli stranieri. Dal 2015 il totale della nostra popolazione (italiani e stranieri) diminuisce sensibil­mente. Secondo le previsioni dell’Istat, nel 2070 saremo 10 milioni in meno; è come se ogni anno perdessimo una città come Trieste. Nell’ipotesi peggiore ci ritrovere­mo con 20 milioni di persone in meno. Diminuisce la popolazione complessiva, ma aumenta la proporzione degli anziani. Questo progressivo invecchiamento è mol­to evidente se consideriamo la classe di età più numerosa nel corso degli anni. Nel 1861 prevaleva la categoria da 0 a 4 anni di età; nel 2003 il primato passava alla clas­se 34-39 anni; nel 2023 la maggioranza ri­guarda i 55-59enni; nel 2050 probabilmen­te quella più estesa sarà la classe dei 70-74enni. Ma già prima di quella data po­tremmo scalare la classifica: potremmo non essere uno dei Paesi più vecchi al mondo, ma in assoluto il più vecchio. Perché la popolazione italiana invecchia? Per almeno due ragioni: la vita si è pro­lungata; e nascono meno bambini. Partia­mo dal primo grande processo. Viviamo più a lungo, il che, naturalmente, è un gran bene che ci rende tutti più sicuri e più sod­disfatti. Anche qui può essere utile guar­dare alle nostre spalle. Per chi nasceva nel 1861, vi era un’alta probabilità di morire intorno a 30 anni; ovviamente molti supe­ravano quella soglia, ma la mortalità in­fantile era molto diffusa. Chi nasceva nel 1921 poteva fondatamente sperare di so­pravvivere fino a 50 anni. Nel 2021 siamo passati a 82 anni. Oggi, rispetto a quanto accadeva in passato, è come se ogni anno guadagnassimo 3-4 mesi di vita in più. Las­senza di guerre, i progressi della medici­na e della qualità della vita spiegano que­sto importantissimo miglioramento. Passiamo ora al secondo grande proces­so, il calo delle nascite. Nel 1952 per ogni donna in età fertile nascevano in Italia cir­ca 2,5 bambini; nel nostro Meridione qua­si 3,5 bambini. Oggi il rapporto è dimez­zato, siamo all’1,2; inoltre dal 2004 sono praticamente sparite le differenze fra ter­ritori; sicché anche il Meridione si è alli­neato al ribasso, con tutte le altre aree ita­liane. Se nascessero 2 figli per coppia di genito­ri, il ricambio generazionale garantirebbe la stabilità della popolazione. Invece, come abbiamo visto, siamo ben al di sotto di quella soglia e ciò spiega in gran parte per­ché la nostra popolazione si riduce a gran­di passi. Un paio di altri dati conferma questo andamento: nel 1964 è nato più di un milione di bambini; nel 2021 appena 400mila, meno della metà.
Demografia, lavoro: due trappole.
Ciò sta innescando quella che gli esperti chiamano «la trappola demografica», cioè una specie di spirale in caduta: avere meno figli oggi significa meno genitori domani; il calo dei genitori determinerà la riduzio­ne del totale dei figli; quando questi pochi figli diventeranno genitori, essi genereran­no ancor meno figli e così di seguito. In­somma, se non scardineremo quella trap­pola, se non subentreranno interventi pro­fondi, gli italiani saranno sempre meno e con sempre più anziani. Gli effetti negativi dell’invecchiamento sono molti: aumentano le necessità legate alla sanità, alla previdenza e all’assistenza e ciò fa crescere il debito pubblico. A pari­tà di risorse, se lo Stato spendesse di più per gli anziani, spenderebbe meno per i giovani, che oggi rappresentano una nuo­va emergenza sociale.
Un’altra «trappola» riguarda il mercato del lavoro, che incide sullo scenario che sto richiamando. In estrema sintesi, gli occu­pati regolari versano i contributi che finan­ziano le pensioni degli anziani; ne versa­no relativamente pochi, solo perché sono molto bassi i salari, fra i più bassi di Euro­pa. Ma se non aumenterà di molto l’occupa­zione e se la popolazione continuerà a di­minuire, decresceranno anche i lavorato­ri regolari e quindi si ridurranno ulterior­mente le risorse per le pensioni. Insomma lo scenario è grigio scuro sia per i pensio­nati, nel timore di ulteriori tagli alle pen­sioni; sia nei giovani, per il rischio di esse­re oggi disoccupati e domani pensionati poveri. In alcune regioni già oggi ci sono 3 occu­pati ogni 4 pensionati. E evidente lo squi­librio. Allora bisognerebbe aumentare gli occupati e regolarizzare quelli che già la­vorano: il lavoro nero e precario sono uno spreco per la comunità, oltre a rappresen­tare una forma vergognosa di sfruttamen­to. Il nostro mercato del lavoro è avaro, sì, ma anche «maschilista», perché sfavorisce le donne: rispetto alle opportunità degli uo­mini, poche, mediamente, riescono a tro­vare un’occupazione; se vi riescono, soven­te il lavoro è meno qualificato e le possibi­lità di carriera sono più ridotte.
Qualcosa di analogo capita a tanti giova­ni. Il 23% di loro è «scoraggiato», cioè non studia più, non lavora né cerca lavoro. An­che questa è una risorsa dispersa, dilapidata: il nostro Welfare avrebbe molto bisogno di immettere nel mondo del lavoro tanti lavoratori giovani, per rispondere all’invec­chiamento progressivo e rapido della no­stra popolazione. Purtroppo alcuni dati anche recenti ci dicono che aumenta l’oc­cupazione ma non quella dei giovani.
Per riequilibrare il rapporto fra gli anziani e le altre classi di età, dovrebbero aumen­tare in maniera consistente le nascite, che invece sono in forte calo, come abbiamo visto. Su questo argomento fino a poco tem­po fa era facile incontrare giudizi trancian­ti e moralistici: «le coppie sono egoiste», «le donne non vogliono più rispondere alla loro più importante vocazione che è l’essere madri» e amenità del genere. Ora i dati resi pubblici sono talmente eclatanti da ridurre fortemente le spiegazioni semplicistiche.
Urgenze, prospettive …
In altri Paesi il calo delle nascite è stato ri­dotto solo grazie a interventi sociali ade­guati. Una seria politica per la natalità deve saper guardare molto avanti, giacché i pro­cessi demografici non possono essere inter­rotti dalla sera alla mattina e i loro effetti si riproducono in un ampio lasso di tempo prima di tornare indietro. In altre parole, dobbiamo porre in campo politiche «strut­turali», stabili nel tempo, dotate di una grande capacità programmatoria; non pan­nicelli caldi, o interventi-tampone che cam­biano col passaggio da un governo all’altro, tanto per rastrellare un po’ di consenso in vista delle prossime elezioni.
Sarebbero auspicabili vari interventi corag­giosi: politiche di supporto (non risicato) al reddito delle famiglie; politiche fiscali di sostegno alle coppie giovani; congedi geni­toriali di vario tipo; la diffusione di asili nido pubblici e di altri servizi per bambini (oggi molto scarsi, soprattutto al Sud). E poi do­vremmo smettere di frapporre ostacoli de­rivanti dal tipo di famiglia o dalla cittadi­nanza dei genitori e dei loro figli: fosse solo perché non ce lo possiamo più permettere. Però su questo scenario non si allungano solo ombre. La presenza di tanti anziani compor­ta anche alcuni vantaggi, che però spesso sono sottovalutati. Le loro pensioni, per quanto spesso magre, garantiscono entrate regolari ai pensionati stessi, ai loro figli e ai loro nipoti. Insomma, le pensioni sono un’importante forma di «welfare familiare». Un tempo essere anziani comportava mag­giori rischi di fragilità economica rispetto invece ai giovani. Ora il rapporto è invertito, non perché la situazione degli anziani sia migliorata, ma soprattutto perché quel­la dei giovani è peggiorata. Ad esempio, se consideriamo le famiglie che versano in condizioni di povertà assoluta, quelle con almeno un anziano sono il 5,6%, mentre le famiglie giovani con almeno un figlio minore sono ben il 13,4%.
Un altro vantaggio derivante dall’invec­chiamento della popolazione è rappresen­tato dall’incremento di prodotti e servizi destinati alla terza età; secondo alcuni eco­nomisti, ciò determina l’aumento del 5% annuo della nostra crescita economica. Alcuni importanti settori e attività produt­tive si giovano proprio del fatto che si estende la «silver economy». Pensiamo ad alcuni servizi oggi molto rilevanti: il turi­smo per anziani; la ristrutturazione delle case per renderle più agevoli; la mobilità assistita; la telemedicina; i centri di riabi­litazione, ginnastica o danza; la ristorazio­ne capace di garantire una migliore salu­brità degli alimenti; e molto altro ancora.
. . . e una nuova «terza età».
Ciò che più colpisce anche un osservatore distratto è il fatto che gli attuali anziani sono molto diversi da quelli di ieri e del­l’altro ieri. Oggi la loro salute è mediamente assai migliore, tanto che un settantenne di oggi è molto più giovanile di un settanten­ne di ieri. Il livello di scolarizzazione è ben più alto. L’attuale «terza età» è più esigen­te nella domanda di cultura e di prodotti (materiali e immateriali) di elevata quali­tà. Ormai non è affatto difficile trovare anziani «smanettoni», abili col computer, naviganti di lungo corso nei mari di inter­net (il 40% degli anziani usa regolarmente internet, una percentuale impensabile fino a pochi lustri fa).
Particolare non da poco: la maggiore du­rata della vita consente agli anziani di avere più tempo da progettare e investire per il futuro, non solo a favore proprio e dei pro­pri familiari e parenti; ma anche per la comunità circostante. Pensiamo al volon­tariato, all’associazionismo, alle parroc­chie, ai comitati di quartiere, ad altre isti­tuzioni basate sulla condivisione: sono tut­te occasioni che vedono una forte parteci­pazione di anziani, animati dal desiderio di contribuire al bene comune e alla de­mocratizzazione della vita civile. Come a dire: esiste un rapporto fra demografia e democrazia e tale rapporto implica anche qualche risvolto positivo.


[1] Professore ordina­rio di sociologia all’Università di Roma «La Sapien­za»