Basta coi cattolici sonnambuli
De Rita (Avvenire)

«Basta coi cattolici sonnambuli. Ma per incidere serve una lunga marcia»
De Rita, sociologo e fondatore del Censis
Angelo Picariello (AVVENIRE 18/02/2024)
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Ci sono anche i cattolici fra i “sonnambuli” descritti dall’ultimo rapporto Censis, e questo atteggiamento fra l’impaurito e il rinunciatario caratterizza anche il loro atteggiamento politico. Per Giuseppe De Rita «il sonnambulo è un cattolico che compie una serie di peccati di omissione, un cittadino egoista per paura che tralascia di fare tante cose, dal civile al religioso, dall’andare a votare all’andare a messa». Per il fondatore del Censis, si tratta di ripartire dalle fondamenta, «dalla pre-politica, dalla realtà. Non esiste cristianesimo che non si occupa della realtà. A partire dal tema più pressante, la denatalità ». Affermazione che, proferita dal padre di 8 figli (e nonno di 15 nipoti), assume un senso quanto mai concreto.

Pagnoncelli evidenziava però che anche i cattolici praticanti finiscono spesso per chiedere alla politica solo di migliorare la loro condizione.

È una situazione generalizzata, di una politica che si occupa solo degli interessi singoli e non di mediare con gli interessi collettivi, nella prospettiva del bene comune. Imperversa la politica dei “bonus”, lo Stato che regala, a questo o a quello. Senza una “visione”, una vera proposta politica.

A elaborarla dovrebbero essere i cosiddetti corpi intermedi, voluti proprio dai cattolici in Costituzione.

Ma noi assistiamo alla loro desertificazione. La dottrina sociale della Chiesa nasce con Leone XIII, a fine Ottocento, ma allora c’erano dei sindacati forti, c’era la lega delle cooperative “rosse” e c’erano quelle “bianche”, le casse di mutualità: una boscaglia di cespugli intermedi. Ci sono stati poi i coltivatori diretti, che sono andati oltre la logica di classe dei braccianti, per farsi piccoli imprenditori. La grande intuizione della Dc fu quella di dare voce a queste realtà, creando un interclassismo dinamico e un ascensore sociale che permise a tanti poveri e analfabeti di affrancarsi, o di affrancare i propri figli da quella condizione.

Tutte le sigle che cita ci sono e operano ancora.

Ma è sotto gli occhi di tutti che la politica è diventata un’altra cosa, cerca il rapporto diretto con i cittadini, senza mediazioni. Disancorata dalla realtà, che è costituita anche dai tanti luoghi in cui la dignità dell’uomo si realizza, come stabilisce la Costituzione, dalla famiglia ai partiti, dai sindacati alle associazioni. Manca del tutto una dialettica sociale.

Un cattolico che vuol partecipare oggi, da dove può iniziare?

Bisogna intendersi sul significato di partecipare. Se uno vuol partecipare alla vita politica per sua ambizione non è neanche tanto difficile. Le strutture di partito ci sono e sono anche scalabili facilmente, lo ha fatto Renzi nel Pd, e ora Schlein con l’operazione primarie; lo ha fatto Conte con il M5s, Salvini nella Lega. Il problema si pone per chi ha voglia di dare il suo contributo alla collettività, senza l’ambizione di fare politica in prima persona. Dove va, e come fa, in questa situazione?

Lei ha partecipato a molti incontri in ambito cattolico per una nuova progettualità politica. Realtà che però faticano a rendersi visibili, incisive. Che giudizio ne ha tratto?

Li ho trovati molto “caldi”, interessanti e carichi di passione. Ma poi manca la perseveranza, la consapevolezza di dover fare una lunga traversata per cambiare le cose. Bisogna riprendere l’impegno dal basso, dagli enti locali, dalle comunità montane, dalle parrocchie, dal Terzo settore.

Non è che manchi, in Italia, l’impegno del Terzo settore.

Ma manca la capacità di fare il passo ulteriore, decidendo che cosa fare da grandi per elaborare una proposta politica.

Sta parlando di un partito?

Sarà per inclinazione professionale, ma preferisco parlare di pre-politica. Non in modo astratto. Parlo di proposte politiche chiare e puntuali, su temi specifici, in realtà concrete.

L’arcivescovo Paglia parla anche della necessità di una nuova pastorale.

Ho in mente una mia personale esperienza, nel 1974, quando il cardinale vicario Ugo Poletti mi coinvolse con monsignor Di Liegro, monsignor Clemente Riva e Luciano Tavazza per una riflessione sui “mali di Roma”. Il cardinale, scherzando mi disse che era dai tempi di Federico Barbarossa che un laico non parlava nella Cattedrale di San Giovanni. Due anni dopo, nel 1976, ci fu il convegno “Evangelizzazione e promozione umana”, che aprì una stagione di grande impegno nella Chiesa e di grande rinnovamento politico. Bisogna riprendere a fare questo: promozione umana.

La Settimana sociale di Trieste può essere l’occasione?

Certamente, ma bisogna farsi carico maggiormente di quel che il Papa chiede in continuazione, di uscire dal nostro ambito, non basta parlare fra noi 

Elaborare proposte pre-politiche può essere di aiuto anche a chi ha scelto di fare politica ma, in questo quadro asfittico, fa fatica a incidere?

Sicuramente. Bisogna ripartire del livello parrocchiale e diocesano. Scegliere dei temi, fare delle proposte operative. Il cristianesimo nasce nella realtà, e si è sempre sviluppato nella realtà. Poi, per paura dei protestanti e dei comunisti, abbiamo preso un po’ l’abitudine di limitarci a professare la dottrina, la verità, con una certa astrattezza, Senza più appassionarsi alla realtà.

Intanto i cattolici in politica sono divisi, spesso impegnati a inviarsi scomuniche a vicenda.

Non mi pare saggio. Siamo già pochi, dovremmo almeno cercare di andare d’accordo fra noi…

L’idea di una nuova Camaldoli europea lanciata dal cardinale Zuppi la condivide?

Condivido. Si tratta di riprendere in mano, tutti insieme, una grande profezia di pace e sviluppo. Ma servono uomini e cristiani all’altezza di questa grande sfida.

I giovani, dopo decenni di crisi della politica, hanno un’idea molto vaga dell’impegno il bene comune. Non si rischia di offrire loro una risposta a una domanda che non si pongono?

Bisogna allora lavorare con loro perché questa domanda torni a nascere. Non possono loro rassegnarsi a un cristianesimo che rinunci a incidere, e non noi possiamo trasferire loro un’idea così ridotta, miope e falsata, del cristianesimo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA «Il Terzo settore deve fare un passo in più, elaborare proposte.

Bene l’idea di una “Camaldoli europea”. I credenti smettano di lanciarsi scomuniche reciproche, siamo già pochi, meglio provare a lavorare insieme»

Giuseppe De Rita, 91 anni,




25 febbraio 2024
RESISTERE IN UN UN‘ALLEANZA RESPONSABILE.

 Preghiamo. O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito, perché possiamo godere la visione della tua gloria. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro della Gènesi 22,1-2.9.10-13.15-18
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Salmo 115.  Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Ho creduto anche quando dicevo: «Sono troppo infelice».
Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli.
Ti prego, Signore, perché sono tuo servo; io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.
A te offrirò un sacrificio di ringraziamento e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore davanti a tutto il suo popolo, negli atri della casa del Signore, in mezzo a te, Gerusalemme.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,31-34
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Dal Vangelo secondo Marco 9,2-10
[Dopo sei giorni] Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

PER RESISTERE IN UN UN‘ALLEANZA RESPONSABILE. Don Augusto Fontana

 Sono decisamente imbarazzato di fronte al racconto del Libro della Genesi. Certo, forse dietro c’è la memoria di un mutamento decisivo nel culto che passa dai sacrifici umani a quelli degli animali. Qualcuno dice che il racconto è simbolico; sarebbe una rappresentazione scenica per dire che Dio aveva dato in “dono” Isacco ad Abramo, ma Abramo si era lentamente dimenticato della origine del suo figlio e ne aveva fatto una proprietà privata, un diritto; allora Dio chiede ad Abramo di mollare la preda e compiere un gesto qualsiasi che indichi la restituzione del figlio alla sua origine di “figlio donato da Dio[1]“. Qualcuno si spinge a interpretare le figure di Abramo e di Isacco come storie profetiche di ciò che accadrà in seguito: Dio Padre metterà sull’altare della croce Suo figlio unigenito Gesù e ve lo lascerà morire! Accostamento facile, tradizionale, osceno; non sia fuori luogo ricordare le parole di Gesù ai cupi teologi di tutti i tempi: “Dio vuole misericordia e non sacrificio” (Matteo 9,13). E Lui di Dio se ne intendeva. Effettivamente è un po’ strana l’immagine di un Dio che chiede morte per far procedere i propri piani o per placarsi offese. In questi giorni abbondano notizie di qualcuno che approfitta della religione in modo fanatico seminando morte. Eppure non voglio trovare scuse per fuggire da questa pagina forte e tenera, da questo Abramo, tipo della fede per tutte le generazioni e anche per me abituato a rapporti e impegni light, brevi, semiseri, frizzanti. Oggi celebriamo la resistenza della fede nella oscurità del tunnel con in mano la lampada della promessa e della Parola (“si udì una voce…ascoltatelo”) che non elimina la notte né tutto il tunnel, ma mi consente di camminare, illuminando un metro dopo l’altro: «Lampada ai miei passi è la tua Parola»  (salmo 119,105). Nel Salmo di oggi preghiamo così: «Ho creduto anche quando dicevo: “Sono troppo infelice”». Resistenza e senso di responsabilità: a me resta l’impressione che l’esperienza di fede e di alleanza non sia mai rassicurante, ma sconvolgente; mai soporifera ma responsabilizzante; mai acquietante, ma liberante; mai mortificante, ma energetica. Come un buon matrimonio riuscito. Anche per Lui, Padre, partner dell’amicizia/alleanza, non c’era un altro figlio di riserva e, in Cristo, Dio si è rovinato per noi. Si è impegnato con noi in modo serio; per questo Paolo ha scritto oggi per noi: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”.
ASCENDERE, RIMANERE, DISCENDERE.
Vediamo anzitutto la forza simbolica del racconto[2].
Dopo sei giorni“: questa annotazione di tempo è stata irragionevolmente “tagliata” dal testo ufficiale della Liturgia e non ne capisco il motivo. E’ un tempo che evoca i “sei giorni” della creazione o i “sei anni” di lavoro prima dell’anno sabbatico. E’ quindi un tempo produttivo di semina, di lavoro, di preparazione. Dopo questi sei giorni avviene la Trasfigurazione. Potremmo dire che la Trasfigurazione appartiene ad un “altro tempo” che irrompe nel “tempo ordinario” al fine di produrre un contrasto, un disequilibrio, un richiamo, una correzione. Per la comunità di Marco e per noi, la Trasfigurazione accade di domenica in domenica, di Eucaristia in Eucaristia, dopo i nostri “sei giorni”.
“Tre discepoli + Tre Persone splendenti”: Pietro, Giacomo e Giovanni in rappresentanza di tutta la comunità dei discepoli; Gesù, Mosé ed Elia in rappresentanza della “comunità dei santi”. Comunità maschile bisognosa della correzione che si avrà attorno alla tomba della Pasqua dove le donne discepole attive, curiose e affettuose prevalgono su discepoli maschietti impauriti, paralizzati, tardivi. Forse per questo, l’incontro delle due comunità fa solo “sei”. La pienezza del “sette” avrà luogo mediante l’inclusione della comunità femminile, quando nel Giorno di Pasqua la comunità femminile assumerà una presenza ed un ruolo rilevante anche per gli apostoli e i discepoli maschi “autorità della chiesa”.
“Tre tende: la “tenda” ci porta all’esperienza dell’Esodo. Il tempo delle tende è anche tempo dell’alleanza tribale, di solidarietà, di uguaglianza. Nella festa delle tende (sukkot) ciascuna famiglia costruisce una tenda/capanna e la abita ricordando l’uscita dall’Egitto.  C’è un enfasi nel simbolismo trinitario: tre Esseri splendenti (Gesù, Mosé, Elia), tre discepoli (Pietro, Giovanni, Giacomo), tre tende (Esodo); tre volte tre, insieme alla gloria di Dio. Tre significa comunità, perfezione, pienezza. E’ la proposta comunitaria di Dio per l’umanità. E’ il progetto da costruire una volta che si torna in pianura.
Vestiti splendenti“: lo splendore ed il bianco esprimono la profondità e l’integrità del cambiamento avvenuto. Le prime comunità cristiane usavano vestiti bianchi appena lavati per simbolizzare la nuova vita che si proponevano di vivere. Più che di abito si tratta di “pelle”, qualcosa di organico e non di appiccicaticcio. Sto rovistando da tempo nel cassetto della mia vita ordinaria per cercare dove ho riposto o smarrito questa dignitosa veste battesimale e domenicale: ho trovato solo un certificato cartaceo. Ma non è propriamente ciò che cercavo.
Nube: qui da noi il cielo coperto può rovinare sogni e progetti di viaggi, ferie, feste, manifestazioni. Quando ero in Brasile, in tempo di secca arida e caliente, l’improvvisa apparizione di nuvoloni significava ombra, pioggia, vegetazione fresca, allegria, benedizione. La nube, nella Bibbia, è sempre messa in relazione con Dio. E’ un segno visibile della presenza e della compagnia gratificante di Dio. Lo fu durante la traversata del deserto quando Dio camminava davanti a loro, sotto forma di nube e di voce, indicando la strada.
Salire sull’alto monte“: evoca l’Horeb o il Sinai, luoghi dove Mosé ed Elia fecero una forte e trascinante esperienza di Dio.
“Discendere dal monte” verso la pianura, verso l’incontro e la trasformazione umana e sociale. La chiesa non comprende un messianismo che passi per la croce. Per “correggere” questa situazione vissuta dalla comunità post-pasquale di Marco, il racconto introduce la Trasfigurazione. La comunità non può “ridurre” la fede all’entusiasmo post-pasquale. E’ la tentazione che si esprime sulla montagna illuminata quando i discepoli vogliono piantare le tende molto lontano dalla pianura. La brillantezza dei vestiti vuole sottolineare il fascino che esercita sugli uomini questo tipo di esperienza religiosa “slegata” dalla sofferenza e dal dolore umano che avvengono quotidianamente in pianura; è una religione adorante che vuole controllare la gloria pasquale senza aprirla al lavoro creativo umanizzante. La “chiesa degli Zebedei” rappresenta un’esperienza di resurrezione “chiusa” alle sfide del mondo e che esalta l’aspetto glorioso e trionfante di Gesù risorto senza assumerne la morte sulla croce. Talvolta anch’io mi sento uno dei figli di Zebedeo.
“Questo è il mio figlio amato, ascoltatelo”: il progetto comunitario sottolineato sulla montagna è certificato dalle parole di Dio. Attorno al figlio amato si costituisce la comunità dei discepoli. La sua parola è il cammino che la comunità dei discepoli deve seguire.
Ascesa e discesa sono reciprocamente necessarie. Ascesa per celebrare e godere dei sussurri della fede. Discesa per vivere la fede in mezzo alla conflittualità e alla contraddizione. Il monte per ascoltare il progetto. La valle per costruirlo nella quotidianità e nella diversità. I “sei giorni” di lavoro e fatica hanno bisogno del “settimo” di riposo e adorazione.
LA TENTAZIONE DELLO STRAORDINARIO.
«Camminerò davanti al Signore, nella terra dei viventi». Così potrebbe aver detto Gesù a Pietro che lo voleva trattenere sul monte di quell’ assaggio di risurrezione che noi chiamiamo trasfigurazione. Così abbiamo pregato e promesso nel ritornello del Salmo. La tentazione dell’esperienza religiosa è spesso quella della fuga dalla quotidianità normale (la terra dei viventi) alla ricerca dell’evento straordinario. Nel momento in cui Dio, in Gesù, migra dalla propria divinità verso la nostra normalità, noi a volte lo andiamo a cercare nello straordinario, nel miracolo, nel magico, nella abbreviazione dei tempi feriali, nel candore di “monti” devozionali che crediamo tocchino il cielo. Diciamoci la verità: se Dio ci avesse consultati, prima di fare ciò che ha fatto, lo avremmo abbondantemente smentito, come Pietro: “Per quanto mi riguarda, farò di tutto perché questa crocifissione non ti accada” (Marco 8,31-32). Pietro anziché “lavorare per il Regno”, vorrebbe “vincere al lotto il Regno ”: una giocata, una scommessa e via!, verso una vincita veloce e abbondante.
Appartenere all’alleanza di Dio in Cristo non significa appartenere ad una religione anagrafica che si liquida con qualche sporadico dovere compiuto; il coinvolgimento della fede è qualcosa che brucia, che lascia segni sulla carne perché cerca di toccare la storia. I discepoli hanno paura perché, consciamente o no, temono di essere coinvolti nella vicenda di Gesù. Scenderemo dall’Eucarestia pasquale che celebriamo con il quesito bruciante che i discepoli avevano dentro: “Si domandavano l’un l’altro che cosa significava resurrezione dai morti”. Veramente: cosa tocca ora a noi?


[1] Servizio della Parola, 495/2018 pag.95-96
[2] Elaboro un commento da http://ospiti.peacelink.it/romero/parola.htm




Nel deserto per ritrovare la strada della vita
E.Ronchi

Nel deserto, per ritrovare la strada della vita
Padre Ermes Ronchi
Avvenire   (09 Marzo 2003)

Lo Spirito che protegge e conforta Gesù, lo spinge nel deserto, nel cuore del conflitto. E questo perché «nel deserto un uomo sa quanto vale: vale quanto valgono i suoi dèi» (Saint-Exupèry), quanto valgono cioè i suoi ideali. Il deserto è scuola di monoteismo, lì è nata l’inguaribile malattia israelitica dell’assoluto. Nel deserto Gesù sceglie quale volto di Dio annunciare (se valga di più quello facile di un Dio padrone, o quello impossibile di servo, o quello folle di crocifisso); sceglie quale volto d’uomo proclamare (rivale o fratello?) e nasce la buona notizia. Marco non riporta il contenuto delle tentazioni, ma ci ricorda l’essenziale: che le tentazioni non si evitano, ma si attraversano, perché «sopprimete le tentazioni e più nessuno si salverà» (sant’Antonio Abate). Senza tentazioni non c’è salvezza, perché non esiste scelta, scompare la libertà, è l’uomo stesso che finisce. Anche la mia vita spirituale inizia sempre con un pellegrinaggio verso il mistero interiore che mi minaccia e che mi genera, con il confronto quotidiano con le zone oscure del mio intimo, con il mio caos interiore, con gli spazi di disarmonia, di dissonanza, di durezza, di rifiuto che si contendono il cuore. Ma anche con le radici divine dell’uomo: «cercami in te», dice Dio al mistico Silesius. Per sapere quanto vale per me il mio Dio. Gesù predicava la buona notizia. E diceva: è finita l’attesa; un mondo nuovo è possibile, il nuovo progetto di Dio è qui, convertitevi. Noi percepiamo questo verbo come un imperativo, mentre reca un invito, porta una preghiera. Cambiate strada: non è la richiesta di obbedienza, ma l’offerta di un’opportunità. Cambia strada, io ti indico la via per le sorgenti, di qua attraversi una terra nuova e splendida; di qua il cielo è più vicino e l’azzurro non è così azzurro da nessun’altra parte, di qua è la casa della pace, e il volto di Dio è luminoso, e l’uomo un amico. Convèrtiti, non suona allora come un’ingiunzione, ma come la migliore delle risorse. Hai davanti a te la vita, ti prego, non perderla. Credete nel vangelo. Fidatevi di una buona notizia. E sento la pressante dolcezza di questa preghiera: riparti da una buona notizia, Dio è qui e guarisce la vita, Dio è con te, con amore. La buona notizia che Gesù annuncia è l’amore. Credi; vale a dire: fidati dell’amore, abbi fiducia nell’amore in tutte le sue forme, come forma della terra, come forma del vivere, come forma di Dio. Non fidarti di altre cose, non della forza, non dell’intelligenza, non del denaro. Riparti dall’amore. E allora per capire chi sono, farò mie le parole bellissime di Giovanni che dice: noi, gli uomini di Cristo, altro non siamo che coloro che hanno creduto all’amore (1 Gv 4,16).




18 febbraio 2024. Domenica 1a Quaresima
ALLEANZA

1 DOMENICA Quaresima

PREGHIAMO.  Dio paziente e misericordioso, che rinnovi nei secoli la tua alleanza con tutte le generazioni, disponi i nostri cuori all’ascolto della tua parola, perché in questo tempo che tu ci offri si compia in noi la vera conversione. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro della Gènesi 9, 8-15
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».
Salmo 24(25). Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza.
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre.
Ricòrdati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia, insegna ai poveri la sua via.
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo 3, 18-22
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
Dal Vangelo secondo Marco 1, 12-15
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

ALLEANZA. Don Augusto Fontana

Il racconto del diluvio universale ci ricorda la situazione della nostra vita e della nostra storia: una terra “piena di violenza” (Genesi 6,11-13). Fummo incaricati di “custodire” la terra pur usandola. L’abbiamo violentata.  Sembra che ci sia sempre un legno o un albero che il Signore intromette nei momenti critici della nostra e sua storia. L’albero nell’Eden, l’arca di Noé, il cesto di giunchi che galleggia sul Nilo con il piccolo Mosè, il roveto ardente di Mosè, il bastone con cui Mosè percuote la roccia, il bastone del pastore, l’arca dell’alleanza. Il legno della croce.
E poi c’è questo segno dell’arcobaleno sulle nubi. E’ un arco che parte dalla terra, sale al cielo, ritorna alla terra. Anche il crocifisso è piantato là sulla terra come ponte fra Dio e noi.
Una delle parole-chiave della Bibbia è ALLEANZA, che nella Bibbia risuona 287 volte. Credere è camminare verso l’Alleanza. Ci sono epoche progressive di Alleanza: con Noè, Abramo, Mosè, i profeti, fino alla maturazione della Alleanza realizzata in Gesù. In periodo di patti fragili, di contratti a termine, sentir parlare di Alleanza fedele ci sembra roba dell’altro mondo. Oggi raramente si usa il termine “alleanza“. La traduzione potrebbe essere fatta con sinonimi: amicizia, patto. Alleanza è un mangiare insieme. Alleanza indica “catena”, anello, vincolo: quello che non fai tu lo faccio al posto tuo, purché l’alleanza rimanga in piedi. Alleanza è testamento: sono le disposizioni che IO faccio per te. Tu hai solo la libertà di accettare o rifiutare.
Alleanza in Gesù – Gesù in Alleanza
Il libro della Genesi inizialmente dice che dopo la creazione Dio aveva visto che tutto, uomo compreso, era bello e buono. Al capitolo 6 c’è una meditazione realistica e amara: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni progetto concepito dal loro cuore non era altro che male. E si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo…Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore”. Ma il Signore ordina a Noè di caricare sull’Arca coppie di tutti gli animali (Genesi 7,2). Un’alleanza che sembra una ristrutturazione della creazione del genere umano.
Nell’alleanza unilaterale, simile a un testamento, Dio non detta alcuna clausola per gli uomini. E’ Dio che si impegna senza condizioni. E si impegna a non attuare nessuna forma di violenza. Il segno è l’arcobaleno: l’arco era strumento di guerra. Dio rompe l’arco da guerra e si impegna a non fare più guerra all’umanità.
Marco usa la frase “lo spinse nel deserto”. E’ come se l’Evangelista volesse far ricominciare la storia dal momento del Giardino della creazione affinchè Dio non si penta mai più di averci creato: in Gesù si ricostruisce l’alleanza da capo. In lui, nella sua croce risorta, Dio potrà ancora dire: “Il mio arcobaleno sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra”.
La Lettera agli Ebrei, scrive:“Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza nostra”.
Proviamo adesso ad applicare alcuni di questi spunti alla nostra vita. Siamo ancora all’epoca del diluvio? Non abbiamo bisogno anche noi di ricordarci che c’è un arco di speranza per noi e per l’umanità? Se gratti al di sotto delle incrostazioni, in ogni uomo c’è nascosta almeno una speranza, c’è un desiderio di bello, c’è la voglia di colorarsi dei colori di Dio e dell’universo. Lasciamoci allora guidare dallo Spirito. Questo Spirito porta anche noi nel deserto: ci porta dentro la profondità del nostro cuore. Può essere il luogo più desolato, più arido che ci sia. Lì puoi trovare te stesso, lì puoi trovare Dio e il senso della tua vita. Così ci spinge l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 3) di Papa Francesco: «Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: «Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te. Riscattami di nuovo Signore, accettami ancora una volta fra le tue braccia redentrici». Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada».
Mercoledì scorso, durante la celebrazione eu­caristica del mercoledì delle Ceneri, il ve­scovo di Parma Enrico Solmi nell’o­melia ha sottolineato: «Con­vertire il cuore: è questo il messaggio del mercoledì delle Ceneri, e che accomuna credenti e non credenti, comunità reli­giosa e civile. Il cuore è luogo nel quale risuona la voce dell’umanità più au­tentica, perché lì Dio parla a tutti. Abbiamo feste nazio­nali della repubblica, delle forze arma­te, della liberazione…Perché non fare un giorno del cuore per la città? Guardare al “cuore” della nostra città: l’identità profonda, relazio­nale, includente, e vedere cosa c’è e cosa c’è da rettifi­care, cambiare, crescere. Non chiamiamo esperti, po­litici, ma le mamme e i papà; facciamoci aiutare da chi fa fatica ad andare avanti, dai poveri. Passiamo anche dai carcerati, sentiamo chi cura le malattie del corpo e del­l’anima. Ascoltiamo chi, nella storia. ci ha fatto cre­scere. Diamo parola alla vita di donne e uomini da tutti riconosciuti rifondatori del­la nostra collettività».

Di fronte all’inumana crudele violenza che diluvia oggi sulla terra «L’unica risposta possibile per interrompere il gioco al massacro del terrorismo fondamentalista è provare a non lasciarsi intossicare dal suo veleno. Senza cedere al “non senso” dell’orrore, senza rispondere al ricatto del terrore con altro dolore innocente». (Marco Girardo, Avvenire 10 ottobre 2023).




Sul FINE-VITA in E.R.
D. Menorello (Avvenire)

«Ecco cosa non va nella delibera dell’Emilia-Romagna sul fine vita»

Domenico Menorello   (AVVENIRE martedì 13 febbraio 2024)

https://www.avvenire.it/vita/pagine/l-intervento-ecco-cosa-non-va-nella-delibera-del-emilia-romagna-sul-fine-vita

Incongruenze, errori tecnici, nodi etici: il giurista Domenico Menorello (network “Sui tetti”), del Comitato nazionale per la Bioetica, sull’atto che regola il percorso per il suicidio assistito.

Sul molto complesso tema del cosiddetto “fine vita”, ben venga un dibattito alto e pluralista sulle finalità perseguibili dal Servizio sanitario nazionale, ma allo scopo ogni attore deve interpretare con lealtà la propria parte. Allora, senza entrare in questa sede nel merito delle differenti visioni antropologiche che trascinano differenti concezioni anche del “bene” cui sono preposte le istituzioni (per chi scrive, si rimanda al libello L’eutanasia non è la soluzione, Cantagalli-Tempi, 2023), è necessario attirare l’attenzione su alcune gravi criticità metodologiche contenute nella recente iniziativa meramente amministrativa dell’Emilia-Romagna (dgr 194/24 e determina direttoriale 2596/24), che introducono nel dialogo pubblico anche inaccettabili mistificazioni.
1. Prima premessa: l’art. 97 della Costituzione accoglie il fondamentale principio di legalità, secondo il quale tutti gli atti amministrativi devono essere previsti da una norma legislativa, in quanto nella Repubblica è solo la rappresentanza legislativa l’interprete della sovranità popolare sancita dall’art. 1 della stessa Carta fondamentale. Ciò vale soprattutto per le prestazioni sanitarie erogate dagli ospedali pubblici. Sul punto, la giurisprudenza della Corte costituzionale è granitica nell’affermare che solo «il legislatore nazionale deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (cfr. sentenze Corte costituzionale n. 282/2002, n. 353/2003, n. 338/2003, n. 134/2006, n. 115/2012, n, 231/2017, n. 72/2020, n. 91/2020). Per tale ragione, la legislazione nazionale, fra cui l’art. 1, comma 554, della legge 208/2015 e l’art. 1, comma 7, D. Lgs n. 502/1992, ha affidato la fissazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) a un Decreto della Presidenza del Consiglio (cfr. Dpcm 12.1.2017).
Seconda premessa: molti chiedono che il Servizio sanitario pubblico assicuri una nuova prestazione, quale sarebbe l’assistenza medica e farmacologica a una persona che domandi un farmaco e modalità sanitarie idonee per suicidarsi. La domanda allora è semplice: esiste una legge o un Lea che preveda tale prestazione? La risposta è certamente negativa. Esistono ben due leggi sul cosiddetto “fine vita”, la 219/2017 e la 38/2010, ma nessuna prevede una prestazione sanitaria di procurare la morte. Di qui, i sostenitori del suicidio medicalmente assistito (Sma) hanno proposto 15 leggi regionali, benché le Regioni non abbiano alcuna competenza a legiferare in materia, come acclarato dal parere dell’Avvocatura generale dello Stato del 15 novembre 2023. Lo stesso governatore dell’Emilia-Romagna in un’intervista a Repubblica del 13 febbraio 2024, si dichiara «in attesa della legge nazionale», ritenendo che «fare 20 leggi regionali sul fine vita sarebbe ridicolo». Invece, la determina direttoriale 2596/24, al punto 5, impone alle Aziende sanitarie emiliano-romagnole di «assicura[re] l’attuazione» del suicidio assistito con «l’individuazione di personale adeguato» nonché «fornendo» i farmaci indicati dagli organi consultivi, quindi introducendo una prestazione sanitaria obbligatoria priva di copertura di legge, e quindi illegittima per violazione degli artt. 97 e 117 della Costituzione.
2. Se non esiste alcuna legge che consenta una prestazione sanitaria (Lea) per procurare la morte, questa è forse consentita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, visto che il governatore dell’Emilia-Romagna, nella medesima intervista, giustifica i propri atti amministrativi anche «per dare applicazione alla sentenza della Corte»? Per la verità, se non vogliamo sovvertire le dinamiche costituzionali, mai si potrebbe invocare una sentenza come se fosse una legge-quadro del Parlamento (cfr. Antonio Ruggeri, Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, Giappichelli, febbraio 2024). In ogni caso, non è assolutamente vero che gli atti emiliano-romagnoli siano consequenziali al dictum della Consulta. Anzi, se ne allontanano sensibilmente.
In primo luogo, la sentenza 242/19 della Corte costituzionale è inequivocabile nel precisare che «la declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Quindi, non si può prevedere – come invece accade con una semplice determina in Emilia-Romagna – un obbligo di prestazione sanitaria sulla base di tale pronuncia, che ha un significato del tutto diverso, solamente indicando, cioè, alcuni requisiti in presenza dei quali, e del tutto eccezionalmente, l’aiuto al suicidio non sarebbe penalmente perseguibile.
In secondo luogo, la stessa sentenza della Corte 242/2019 ritiene necessario che la verifica di tali requisiti avvenga a mezzo dell’«intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze» e ha deciso che «nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti», individuati addirittura citandone gli estremi legislativi nazionali di riferimento, cioè «l’art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del 2012» (poi legge 3/2018) e «l’art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013». Ebbene, si tratta dei cosiddetti Cet, Comitati etici territoriali, con competenze anche per il fondamentale profilo farmacologico, da ultimo costituiti in forza del dm 23A00852 del 26 gennaio 23 e che hanno una composizione omogenea sul territorio nazionale, sulla base dell’ulteriore dm 23A00853 del 30.1.23. Invece, la dgr emiliano-romagnola 194/2024 istituisce due comitati totalmente sganciati dalla normativa nazionale. È come se per suonare la Nona di Beethoven anziché un’orchestra sinfonica si incaricasse una rock band… Ne uscirebbe una musica ben diversa. Così, allo stesso modo, se ogni Regione potesse istruire comitati a proprio piacimento per interpretare i requisiti della Corte si otterrebbe esattamente quella babele in tema di prestazioni sanitarie incidenti sulla vita e sulla morte palesemente incostituzionale e che lo stesso Bonaccini bolla come risultato «ridicolo». Quel che è certo è che affidare le valutazioni di cui alla sentenza 242/2019 a organi diversi da quelli indicati dalla stessa pronuncia significa violare e non certo “applicare” i precetti della Corte.
3. Infine, la dgr 194/2024 assume fra i propri presupposti la decisione del Comitato nazionale per la Bioetica (24 febbraio 2023), ma nella propria motivazione non cita quanto effettivamente deliberato dall’organo consultivo del governo bensì la postilla di sette componenti che hanno dissentito non votando la delibera stessa. In effetti, il parere ufficiale del Cnb è esattamente nel senso opposto a quello che si legge nella delibera emiliana, perché, per le valutazioni sui requisiti per l’esimente dal reato ex art. 580 Codice penale indica «i Comitati etici territoriali di cui al decreto del 26 gennaio 2023» (gli stessi prescelti dalla sentenza della Corte). Non solo: lo stesso Cnb «ritiene anche che debba essere fatto ogni sforzo per evitare che vi siano approcci troppo differenziati o addirittura contrastanti nella valutazione delle condizioni indicate dalla Corte costituzionale», il che significa esplicitamente escludere la possibilità che ogni Regione si costruisca Comitati etici a propria immagine. Dunque, che l’Emilia-Romagna sia andata nella direzione opposta a quella auspicata dal Cnb, addirittura facendo intendere di seguire l’orientamento dello stesso organo di indirizzo bioetico, è decisione non solo certamente illegittima ma che costituisce anche un precedente inaccettabile sul piano delle corrette relazioni fra istituzioni.




Nigeria. Cristiani perseguitati.
P.M. Alfieri (Avvenire)

Nigeria. Cristiani perseguitati.
Paolo M. Alfieri (AVVENIRE 7 febbraio 2024)
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/nel-mirino-sono-finite-oltre-duemila-scuole-cristi

In 15 anni 52mila fedeli uccisi, tragedia nascosta in Nigeria. Nel mirino sono finite oltre duemila scuole cristiane e 18mila luoghi di culto. Numerosi i sacerdoti rapiti, alcuni poi assassinati. La lotta per le risorse si mescola al fanatismo religioso. Una vera “guerra” che pochi vogliono definire tale. Da una parte il terrorismo di Boko Haram, dall’altra i pastori nomadi Fulani che razziano anche le terre altrui. Debole la risposta del governo. La Chiesa invita al dialogo.

Quand’è che una guerra si può definire guerra? Servono ancora dichiarazioni formali? Due eserciti contrapposti? O è necessario raggiungere un certo numero di morti per far scattare la definizione? Sono anni che la Nigeria, gigante africano da 200 milioni di abitanti, è in guerra con sé stessa. E se a lungo è stato il terrorismo islamista di Boko Haram negli Stati a maggioranza islamica del Nord a richiamare l’attenzione, da qualche tempo è la fascia centrale del Paese, la cosiddetta “Cintura di mezzo”, la zona in cui il sangue scorre più copiosamente. La lotta per le risorse qui si mischia facilmente alle differenze etniche e religiose, in un contesto che vede crescere la competizione tra i mandriani islamici Fulani in arrivo dalle terre di un nord sempre più arido e gli agricoltori cristiani locali, con questi ultimi da tempo nel mirino.
Basta vedere quanto accaduto a Natale, quando per quattro giorni, nello Stato di Plateau, oltre un migliaio di Fulani ha attaccato circa 25 comunità cristiane, tra le zone di Bokkos, Mangu e Barkin Ladu. I morti sono stati quasi 170, tanto che nello Stato ora vige il coprifuoco. «Molti sfollati hanno cercato rifugio nelle chiese, con le organizzazioni religiose che hanno fornito assistenza primaria, data l’assenza di sostegno da parte del governo», sottolinea la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. Jalang Mandong, un sopravvissuto che ha perso dieci parenti nel massacro, ha riferito che gli attacchi avevano lo scopo di «prendere di mira i cristiani» e «disturbare la celebrazione del Natale», tentando anche di «impossessarsi delle terre di queste comunità». Lotta per le risorse e fanatismo religioso, in un mix sempre più complicato ma facilmente replicabile. Tanto che le violenze si sono ripetute, ancora, la scorsa settimana, con oltre 50 vittime nella stessa zona: scuole, luoghi di culti e case date alle fiamme e il dito puntato, ancora una volta, contro i pastori musulmani Fulani.
Originari del nord della Nigeria, sempre più soggetta a siccità e inondazioni, i pastori nomadi si spostano verso sud in cerca di terra per il loro bestiame, nelle zone agricole dei Berom e di altri gruppi etnici in maggioranza cristiani. «Questi attacchi sono ricorrenti. Vogliono cacciarci dalla nostra terra ancestrale, ma noi continueremo a resistere a questi assalti», spiega Magit Macham, che era tornato dei recenti assalti dalla capitale dello stato, Jos, per festeggiare il Natale con la sua famiglia. Al momento dell’attacco, Macham sta chiacchierando con suo fratello fuori casa quando il rumore di un generatore di benzina viene interrotto da colpi di pistola: «Siamo stati colti alla sprovvista e quelli che potevano scappare sono fuggiti, gli altri sono stati catturati e uccisi con i machete», racconta oggi. Secondo l’arcivescovo emerito di Abuja, cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, «è impensabile che il governo, con tutti i mezzi che ha a disposizione, non sia in grado di identificare chi sono i mandanti, chi sono quelli che comprano le armi» utilizzate in questi attacchi.
Quanto sta accadendo, ha sottolineato nei giorni scorsi il cardinale a “Vatican News”, «è più di una guerra: stiamo ancora aspettando di vedere che cosa fa il nostro governo adesso». A lungo la Chiesa locale e lo stesso cardinale Onaiyekan, dopo i vari attacchi, hanno esortato le comunità cristiane e musulmane a unirsi contro la violenza e l’endemico sistema di impunità, esaltando l’importanza del dialogo interreligioso per la pacifica convivenza. Non c’è alcuna voglia, insomma, di avvalorare la tesi della persecuzione religiosa anche se, di certo, c’è la necessità di fare luce sulle connessioni e le protezioni di cui possono godere gli autori delle violenze e avere giustizia. Il governatore dello Stato di Plauteau, il cristiano Caleb Manasseh Mutfwang, da parte sua non ha esitato invece a usare il termine “genocidio”, nel suo discorso di inizio anno, riferendosi agli ultimi massacri. «Che Dio liberi la Nigeria da questi orrori», le parole di papa Francesco dopo l’Angelus del 31 dicembre scorso.
Non sono mancate, negli ultimi anni, accuse all’amministrazione dell’ex presidente Muhammadu Buhari, in carica fino a maggio dello scorso anno e lui stesso di origine fulani, non solo per l’inefficacia dell’azione dell’esercito nella regione a difesa delle comunità locali, ma anche per il piano presentato, e poi sospeso, delle cosiddette “zone Ruga”. Questi insediamenti per i pastori islamici nomadi avrebbero dovuto comprendere aree di pascolo e villaggi con alcune infrastrutture di base: una scuola, un centro sanitario e un veterinario. In questo modo, ospitando i gruppi di pastori e il loro bestiame, questo sistema avrebbe reso più facile identificare le vie di pascolo, consentendo teoricamente di ridurre i conflitti con gli agricoltori stanziali. Il piano, però, è stato fortemente criticato, e poi rinviato a tempo indeterminato, dalle autorità locali degli Stati coinvolti, perché gli insediamenti avrebbe sottratto acqua e terre alle comunità locali senza compensazioni, legalizzando di fatto un sistema predatorio. Gli attacchi, in parallelo, sono andati crescendo.
Se si considerano anche i morti provocati dai terroristi di Boko Haram (che oggi sono in numero più ridotto, ma rappresentano comunque una fonte di instabilità soprattutto nel Nord del Paese), circa 52.250 cristiani sono stati uccisi da miliziani islamici in Nigeria dal 2009, secondo un rapporto dell’Ong nigeriana Intersociety. Oltre 30mila di queste vittime sono state colpite durante gli otto anni di presidenza Buhari. Nello stesso arco di tempo, anche 34mila musulmani sono morti in attacchi terroristici condotti dagli islamisti. Nel mirino sono finite complessivamente oltre 2.200 scuole cristiane e circa 18mila luoghi di culto, considerando le chiese e le sale di preghiera; oltre 700 i cristiani che sono stati sequestrati e numerosi i sacerdoti uccisi. Le violenze hanno inoltre provocato sfollamenti di massa.
Numeri tragici, da guerra aperta, ma che in pochi, per mille ragioni, osano definire tale. Secondo il direttore di Intersociety, Emeka Umeagbalasi, l’amministrazione Buhari «ha radicalizzato le forze di sicurezza, ha dato loro l’ordine di marciare per proteggere i pastori Fulani e ha aiutato la loro invasione dei terreni agricoli meridionali, delle foreste e della boscaglia». Altri ritengono che il fattore religioso sia solo uno dei motivi dietro agli assalti, sottolineando come anche i musulmani moderati siano vittime dei raid.
L’attuale presidente nigeriano, Bola Tinubu, non ha ancora spiegato come intende affrontare l’insicurezza diffusa, ha descritto gli ultimi attacchi ai cristiani come «primitivi e crudeli» e ha ordinato alla polizia di rintracciare i responsabili. Nel suo messaggio di inizio anno, però, ha ignorato vittime e famiglie dello Stato di Plateau, sostenendo che dalla sua elezione «la sicurezza è migliorata». Il vescovo Hassan Kukah, della diocesi cattolica di Sokoto, ha sottolineato che «il presidente Tinubu deve sapere che la legittimità del suo governo dipende dalla risoluzione di questo problema. I nigeriani stanno gradualmente perdendo la speranza nella capacità del loro governo di proteggerli e metterli al sicuro. Mentre noi leader religiosi abbiamo continuato a usare la nostra autorità morale per incoraggiare le persone a non farsi giustizia da sole, rischiamo di essere spazzati via dalla rabbia e dalla frustrazione del nostro popolo».
Lo sfondo è quello di una Nigeria che compete per il Sudafrica per essere la prima economia del continente africano, ma che vede crescere le disuguaglianze e diminuire il potere d’acquisto dei cittadini. Nonostante gli introiti dovuti alla vendita di petrolio – ma la produzione è scesa a 1,2 milioni di barili al giorno, quasi la metà rispetto a un decennio fa -, oltre 130 milioni di nigeriani vivono in condizioni di povertà, senza accesso a sanità, cibo, servizi. Secondo un recente studio, la Nigeria è il Paese in cui gli abitanti spendono la quota più alta del loro reddito (addirittura il 59%) solo per l’acquisto del cibo necessario a sfamarsi. Non sembra un caso se la sicurezza, in un contesto simile, sia così precaria: è dove ci sono meno risorse che il vento dell’estremismo e dell’intolleranza può soffiare più forte.




Quel ‘se vuoi’ che spinge Dio a guarirci
P.Ermes Ronchi

Quel ‘se vuoi’ che spinge Dio a guarirci

Padre Ermes Ronchi  (16 Febbraio 2003)

Di quel lebbroso non conosciamo né il volto né il nome, perché è l’uomo, ogni uomo, sbalzato a terra dalla carovana troppo rapida e troppo indifferente del mondo. Il rifiutato è stanco di fuggire e di gridare, si avvicina, va’ contro la legge, attorno a lui si crea il vuoto, ma Gesù rimane. E riafferma così che nulla vale quanto la vita di un uomo.

Se vuoi, puoi guarirmi. Il futuro è appeso a un misterioso «se» piantato nel cuore di Dio. E ci pare di vedere Gesù che vacilla di fronte alla domanda umilissima e sommessa di un uomo alla deriva. Il dolore obbliga Cristo a rivelarsi. A nome di tutti noi il lebbroso domanda: ma qual è la volontà di Dio? Che cosa vuole veramente Dio da questa carne sfatta, da questo corpo piagato? Che cosa vuole dall’immenso pianto del mondo? Il profeta (Isaia 1,11) ha detto, a nome di Dio: io non bevo il sangue, non mangio la carne dei vostri sacrifici. Ma ho un dubbio, come tutti i lebbrosi, come tutti i sofferenti: che Dio si disseti al calice delle nostre lacrime; che voglia ancora il sacrificio delle sue creature; che sia il dolore, accettato, a dare gloria a Dio. Ho un dubbio, perché gli scribi d’oggi ripetono che il corpo di lebbra o di dolore è volontà di Dio, suo castigo. Se vuoi… Il lebbroso si appella al desiderio di Dio: tu vuoi quello che dicono gli scribi o vuoi guarirmi? Gesù è costretto a rivelare Dio, a dire una parola ultima e immensa che riveli qual è il cuore di Dio: lo voglio, guarisci! Ripetiamolo con emozione, con pace, con forza: lo voglio. Eternamente Dio vuole figli guariti. A me dice: lo voglio, guarisci! A Lazzaro: lo voglio, vieni fuori! Alla ragazza: talità qum, lo voglio, alzati! Io mi fido del desiderio di Dio. Dio è guarigione, non ha creato la morte, né la lebbra, né la guerra. Non conosco i modi in cui Dio è guarigione. So che non lo farà moltiplicando i miracoli. Non conosco i tempi, ma so che lotta con me, si coinvolge con me, rinnovando goccia a goccia la vita, stella a stella la notte. E mosso a compassione, stese la mano, lo toccò. Da troppo tempo nessuno toccava più il lebbroso e la sua carne moriva per troppa solitudine. Ogni vita muore se non è toccata, muore di silenzi. Il cuore può morire per assenza d’incontri. Gesù tocca, e l’uomo è restituito alla famiglia, torna alle carezze. Gesù tocca. E chiede a ciascuno di partecipare al desiderio di Dio, non ai suoi miracoli. Alle carezze restituite. O forse sì. Ci chiede di partecipare ad un miracolo: avere, come il Padre, viscere di misericordia, che è la perfezione di Dio, che sarà la perfezione dell’uomo.




11 Febbraio Domenica 6
Una trasgressione di Dio

6 Domenica B 

Preghiamo. Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide, e dalle discriminazioni che ci avviliscono; aiutaci a scorgere anche nel volto del lebbroso l’immagine del Cristo, per collaborare all’opera della redenzione e narrare ai fratelli la tua misericordia. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del Levìtico 13,1-2.45-46
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
Salmo 31.  Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia.
Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno.
Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 10,31-11,1
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
Dal Vangelo secondo Marco 1,40-45
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

UNA TRASGRESSIONE DI DIO. Don Augusto Fontana

 C’è un doppio modo di diventare discepoli: o perché si è stati direttamente chiamati o perché si è stati guariti. L’opera di guarigione è una convocazione e un rito di invio in missione. La sequela, dunque, è composta da chiamati e da guariti, da convocati dalla “parola” e da convocati dai “segni”.
Non sia inutile ricordare che il Vangelo di Marco pare rivolto prevalentemente a dei catecumeni: quindi in ogni suo racconto e catechesi è bene tener vivo il sospetto che l’evangelista ci stia informando sulla prassi battesimale della sua comunità. E tornano le domande: Chi è Gesù? Chi è il discepolo? E soprattutto: dove ci porta questo Gesù? Non sarebbe male che queste domande costituissero la griglia di lettura e di ascolto anche del testo evangelico di oggi, sentendoci protagonisti dell’evento. Benchè già battezzati, siamo un po’ ancora “catecumeni”.
Probabilmente Marco si trova anche alle prese con evidenti problemi interni alla sua (e nostra?)  comunità: se siamo “impuri” ed emarginati dalle leggi religiose come veniamo trattati da Gesù? E se invece ci consideriamo gente per bene e integrati, come ci collochiamo davanti agli esclusi, infetti, pericolosi? Ognuno di noi ha la sua categoria di immondi che gli fanno un po’ schifo, che gli fanno storcere la bocca, che non intendiamo toccare per non infettarci.
«Una società che non sa salvare deve ricorrere alla repressione, alla reclusione, alla emarginazione, per difendersi. L’uomo incapace di salvare deve “salvarsi” e la “legittima difesa” può andare anche fino all’uccisione di colui che si ritiene aggressore. Così, incapaci di vincere il male, si “vince” colui che ne è vittima: lo si toglie fuori dai piedi…Il tempo del Messia è il tempo in cui il sano non rifiuta di prendere per mano il malato senza timori né verso di lui né nei confronti della malattia, perché sa di poter vincere il male. Se per tenerci puliti dobbiamo continuare a isolarci sotto la campana di vetro delle nostre istituzioni, a chi testimoniamo? Continueremo a rendere sterile la Parola di salvezza? Ogni volta che in noi prevale l’atteggiamento di difesa o di ostilità, non facciamo altro che accodarci ad una umanità incapace di salvare; le nostre chiese e i nostri gruppi saranno sempre rifugi di “gente perbene”, in cui troppi non avrebbero voglia di entrare per ascoltare la parola che fa vivere, e continueranno a restare esclusi. Chiesa e società rischieranno ancora di ritrovarsi abbinate nell’accettare e avallare le medesime esclusioni»[1].
…velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”…
La società in cui vivevano gli antichi uomini della Bibbia sottolineava molto la gravità della lebbra (sotto questo nome andavano diverse infezioni della pelle); nella prima lettura abbiamo sentito che i lebbrosi dovevano vivere isolati, e segnalare la loro presenza con delle vesti strappate e con il gridare: “Immondo, immondo!“. La lebbra veniva vista come il peggiore dei mali, proprio a causa della concezione che legava il peccato alla malattia: l’idea di fondo è che la lebbra, e in definitiva ogni malattia, sia un castigo di Dio per il peccatore. Il lebbroso perciò era uno scomunicato e bisognava evitare la sua presenza per il contagio fisico e morale. Chi era lebbroso era dunque escluso dalla città dei vivi, “buttato via”, dato per morto. Di fronte a questa disgrazia, le persone sane e religiose erano autorizzati a pensare: “sicuramente quel lebbroso deve aver commesso qualche grave peccato…” (cf. Gv 9,34); addirittura poteva arrivare a dire: “ben gli sta, ci poteva pensare prima… se l’è cercata…”.
…Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse…
Ma ecco che succede qualcosa che è come un terremoto che fa crollare tutti questi ragionamenti come una scossa che fa crollare il muro di separazione che isolava i puri dagli impuri. La prima mossa è quella del lebbroso che aveva sentito parlare di Gesù, di questo profeta che annunciava l’inizio di un nuovo regno, che proclamava il perdono e la guarigione dal male: invece di gridare “immondo, immondo” il lebbroso prende il coraggio a due mani e, trasgredendo le regole stabilite da Mosè, si presenta a Gesù con questa bellissima confessione di fede: se vuoi, puoi purificarmi!
Gesù non gli dice “va’ via, allontanati”, come avrebbe potuto fare un ebreo osservante, e tanto meno, “te la sei cercata…” ma è preso da un misto di collera e commozione [così si può dedurre dall’incertezza dei manoscritti greci, molti dei quali hanno orgistheis, “preso da collera” al posto di splagchnistheis, “preso da commozione”]: Gesù è preso da collera per quella mentalità che aveva portato alla scomunica del lebbroso e, contemporaneamente, è profondamente mosso a compassione per la miseria della condizione umana. Anche Gesù trasgredisce le regole, le buone maniere igieniche, quando servono soltanto a fornire alibi all’indifferenza: stende la mano e lo tocca. Quando si tratta di amare e di soccorrere chi soffre non valgono più le regole dell’ordine civile e religioso…
Il puro tocca l’impuro e prende su di sé la nostra lebbra: “Ecco l’agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo!” (Gv 1,29).  Paolo scriverà in Romani 9,3: «Vorrei infatti essere io stesso anatema (scomunicato), separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne».
E Gesù morirà come uno scomunicato, fuori dalle mura della città, col volto sfigurato come quello di un lebbroso, messo all’indice dai passanti, che potevano pensare: “sicuramente quell’uomo crocifisso deve aver commesso qualche grave peccato…” o addirittura potevano arrivare a dire: “ben gli sta, ci poteva pensare prima… se l’è cercata”. È quello che S. Paolo chiama lo “scandalo della croce” (cf. 1Cor 1,23).
Il Crocifisso resta per sempre la risposta e il rimedio anche ad ogni immagine distorta di Dio: non una divinità pronta a castigare ma un Dio ricco di misericordia che prende su di sé attraverso il Figlio il peccato e il dolore del mondo; per questo Gesù “può anche salvare per sempre quelli che, per mezzo di lui, si avvicinano a Dio, essendo sempre vivente per intercedere in loro favore” (Eb 7,25).
La cultura dello “scarto”.
Papa Francesco nella Evangelii gaudium n. 53 scrive: «Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”».


[1] AA.VV. Omelie nelle comunità Anno B, Marietti editori, 1979 pag. 265




La lotta di Giobbe
Don Angelo Casati.

La lotta di Giobbe (Don Angelo Casati).

Oggi la Liturgia ha accostato alla pagina del vangelo di Marco la pagina del libro di Giobbe, che forse può disturbare la sensibilità delle persone cosiddette devote che, davanti al dolore degli altri, predicano senza troppa fatica, come fanno gli amici di Giobbe, la rassegnazione o la resa.
Giobbe risponde con la lotta. E Dio è dalla parte di Giobbe e non dalla parte dei suoi amici che, bravi loro, hanno un prontuario di risposte teologiche per spiegare i drammi dell’umanità. Dio accetta parole di protesta come quelle di Giobbe che oggi abbiamo ascoltato, parole che parlano della fatica del vivere.
È folgorante e sorprendente il libro di Giobbe, perché noi siamo stati educati a legare Dio e la sua immagine all’insegnamento della rassegnazione e dell’accettazione passiva. E invece il libro di Giobbe -scrivono i monaci di Bose- predica “la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo, quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia. Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici teologi che in realtà si rivelano nemici e medici del nulla“.  Pensate invece quante volte anche noi, come gli amici di Giobbe, ci scandalizziamo di fronte al grido o alla bestemmia di dolore, e quante volte invitiamo al silenzio, o all’attenuazione del grido: «Ma non dire così. Esageri!».
Il libro di Giobbe non legittima la figura del credente come di colui che la dà vinta al male, legittima la figura del credente come di colui che lotta contro il male. Perché questa è anche l’immagine di Dio. Non è forse questa l’immagine di Dio, che, come per una fessura, intravediamo in Gesù di Nazaret?
Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo.
Gesù istruisce i suoi discepoli e istruisce noi oggi con il suo esempio. Ci istruisce con i suoi verbi, i verbi di Gesù nella casa di Simone, che dovrebbero diventare i nostri verbi oggi nelle case di questa umanità. Ricordiamoli: “si accostò, la prese per mano, la sollevò”. Quasi a suggerire che se noi ci teniamo a debita distanza, se noi rifuggiamo dal contatto fisico, non solleviamo nessuno. Chi soffre, per sentirsi in qualche modo rivivere, “risorgere”, come allude il verbo greco, ha bisogno di vicinanza, di mani che accarezzino, che stringano.
Non faremo miracoli. Nemmeno a Gesù fu possibile fare miracoli a tutti. È scritto: “gli portarono tutti i malati e gli indemoniati… guarì molti“. Tutti… molti! C’è uno scarto. Ma sollevò tutti. Non faremo miracoli, ma solleveremo qualcuno, accostandoci, prendendo per mano.
Vorrei aggiungere che Marco, se da un lato registra l’immergersi di Gesù in questa umanità dolente, dall’altro registra l’andarsene, un duplice andarsene. Esce quando ancora è buio di casa e si ritira in un luogo deserto e lì prega. E così scopriamo nelle pieghe della pagina di Marco da dove Gesù attingesse quella sua forza, l’energia dello Spirito che faceva di lui l’uomo della compassione, della vicinanza, della cura, della dedizione assoluta. Così per lui, così anche per noi. C’è una sorgente, una sorgente segreta.
Ma nel brano di Marco è accennato anche un altro “andarsene”. I discepoli lo scovano, gli dicono: “tutti ti cercano“. Dice: “Andiamocene altrove… per questo sono venuto“. È venuto per andare altrove: la Galilea non è un solo villaggio.
C’è sempre questo pericolo di voler fare di Gesù il proprio cappellano, un cappellano di corte, il cappellano del proprio gruppo, del proprio movimento e non il Salvatore di tutti i villaggi. E Gesù se ne va. Chissà se l’abbiamo capito. Essere nel mondo e diventare uomini e donne di un villaggio solo significherebbe spegnere e tradire il vero movimento, quello del vangelo. Vangelo che ci mette in guardia dalla tentazione di rinchiudere noi stessi in un solo villaggio e dalla pretesa di rinchiudere Dio in un solo villaggio.




4 febbraio 2024. Domenica 5a ord
UNA GIORNATA DI GESU’

5 Domenica B –

Preghiamo. O Dio, che nel tuo amore di Padre ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini e li unisci alla Pasqua del tuo Figlio, rendici puri e forti nelle prove, perché sull’esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro di Giobbe 7,1-4.6-7
Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricòrdati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».
Salmo 146. Risanaci, Signore, Dio della vita.
È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode.
Il Signore ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi d’Israele.
Risana i cuori affranti e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome.
Grande è il Signore nostro, grande nella sua potenza; la sua sapienza non si può calcolare.
Il Signore sostiene i poveri, ma abbassa fino a terra i malvagi.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 9,16-19.22-23
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
 Dal Vangelo secondo Marco 1,29-39
Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».  E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

UNA GIORNATA DI GESU’.  Don Augusto Fontana

Marco vuole presentarci una “giornata tipo” del Signore, le sue scelte, le sue priorità, i suoi tempi.
Provo ad esaminare la mia giornata, quali sono i miei orari, i miei appuntamenti fissi, gli impegni inderogabili e le mie pigre infedeltà. In questa pagina dell’evangelista Marco sembra che il Dio eterno e senza tempo si sia incarnato anche nel nostro orologio, nei cicli orari. Le ore scandiscono anche la sua giornata fatta di mattini, sere, notti, ore, perfino nei racconti della passione, morte e risurrezione. Il tempo è entrato nell’eterno senza tempo.
Quante volte ci diciamo (o sentiamo dire): per questa cosa (per la preghiera, per la mia formazione, per la condivisione), proprio non ho avuto tempo. A volte non sta qui il problema. Perché neanche domani ci sarà il tempo, se quella scelta non è una priorità. L’affermare che manca il tempo, a volte vuol dire semplicemente affermare che quella cosa non è ancora importante. La vera domanda è sempre: quali sono le costanti, le scelte ripetute, le decisioni che sottomettono a sé le altre nella mia vita?
Come Marco ci descrive questa giornata del Signore? Ci fa incontrare Gesù che affronta il male e che guarisce, Gesù che prega, Gesù che, sapendo di essere per tutti, predica sempre più in là dei luoghi dove già  è conosciuto.
La giornata di Cafarnao  è il giorno in cui Gesù organizza la sua missione sul ritmo di predicazione, liberazione, preghiera.
In Cafarnao sono significativi i luoghi dove Gesù agisce: la Sinagoga (luogo della riunione della comunità per la preghiera e l’insegnamento religioso), la casa (luogo della famiglia e della vita privata), la porta della città (luogo dell’amministrazione della giustizia, delle pratiche civili, dei pedaggi e delle tasse). Poi c’è pure il monte del silenzio e della preghiera. L’attività di Gesù tocca dunque tutte le sfere della vita umana.
Malattia e cura.
Nella Sinagoga si erano sorpresi del suo insegnamento dato con autorevolezza ed era esplosa una domanda “Che è mai questo?”. Ma l’interrogativo è subito messo a lato dalle “smanie di guarigione” da parte degli abitanti di Cafarnao. L’interesse per Gesù ripiega sull’interesse per i propri guai. E’ un’umanità lacerata che soffre con Giobbe e che ci rappresenta nella nostra legittima ribellione contro la malattia o nella ricerca di senso della malattia. La tenerezza di Dio così ben rappresentata dal Salmo 146, pare essere messa in crisi dalla disintegrazione della vita da parte della malattia, della morte, della scarsa qualità della vita.
La malattia era un flagello che toccava ogni casa e per la quale non c’erano che pochi rimedi e, talvolta, solo per classi agiate. La gente povera era davvero disarmata. La malattia era una forza da scongiurare e durante la quale pregare, prima ancora che esaminare e curare. E Gesù si fa prossimo a questa debolezza strutturale nostra e pone gesti simbolici di guarigione.
Nel Vangelo di Marco i miracoli raccontati sono 20 e occupano un terzo circa della narrazione (209 versetti su 666). Ciò significa che l’autore dà ad essi un ruolo particolare nella sua catechesi. Anche la liturgia di questo anno B sarà connotata da questa caratteristica: dalla 4a alla 9a domenica il lezionario riporta l’attività di cura da parte di Gesù.
Innanzitutto i miracoli o le guarigioni non sono separabili dal suo messaggio. Quando la gente chiede un “segno” Gesù si lamenta: «Allora vennero i farisei e incominciarono a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova. Ma egli, traendo un profondo sospiro, disse: “Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione”»(Mc. 8,11-12).
I segni sono completamento del suo messaggio, sono Parole visibili. L’imposizione del segreto messianico (“ma non permetteva di parlare”) significa che Gesù vuole che i miracoli siano interpretati solo all’interno della catechesi ecclesiale e dopo l’evento pasquale; vuole che restino un segno complesso, nascosto al mondo. Occorre affidarsi al Vangelo, alla persona di Gesù e non alla magia.
I miracoli sono segno del conflitto tra Regno di Dio e ciò che gli si oppone. Sono segni del trasferimento della condizione umana nell’universo di Dio.
Una giornata completa.
SubitoPer 27 volte Marco usa questo avverbio; pare che sia una sua ossessione per indicare sollecitudine, fretta, urgenza. Come se incombesse qualcosa: il Regno di Dio è vicino, è qui, imminente, sta transitando.
nella casa la febbre….Nessun luogo è esente dal male sia la sinagoga che la casa quotidiana; là lo spirito impuro, qui la febbre sintomo fisico e simbolo di malattie più interiori. In Levitico 26,16 e Deuteronomio 28,22 la febbre appartiene all’elenco dei castighi per l’alleanza tradita. Qui siamo ancora di sabato e la donna il giorno prima forse era impedita a svolgere le sue funzioni previste per preparare nella casa la liturgia domestica del sabato. E’ quella febbre che indebolisce le nostre domeniche, paralizza il sacerdozio liturgico domenicale inchiodando gran parte dei battezzati al letto dei sonni e delle pigrizie. Liberare dalla febbre significa rendere una persona abile al servizio liturgico e conviviale.
gli parlano di leiMolte volte nel Vangelo, anche nel finale di quello odierno, i malati vengono “portati…presentati…convocati” dalla chiesa, dai discepoli. C’è una corresponsabilità ecclesiale, una mediazione preventiva che mi inquieta e, insieme, mi onora. Io sono responsabile dei fratelli e delle sorelle della comunità, ne posso essere diaframma divisorio o ponte di contatto con Gesù. Ed anch’io sono una povera creatura presentata al Signore dalla preghiera invocante e cura della mia comunità.
si avvicina, prende per mano, alzaSono i tre verbi battesimali di Gesù, la successione operativa e salvifica tutt’ora in atto nei miei confronti. Ma è anche un progetto per una chiesa che dalla liturgia sinagogale entra nella casa quotidiana degli uomini: si avvicina, prende per mano e solleva.
La mano forte che ha liberato il popolo dalle mani del faraone diventa oggetto di preghiera del salmo 17:
Ti amo, Signore, mia forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore.
Già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali.
Nel mio affanno invocai il Signore, nell’angoscia gridai al mio Dio:
stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque,
mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene.

Tra poco Gesù ripeterà il gesto di “prendere per mano” e lo farà con Pietro che affonda nelle acque: «e subito Gesù stese la mano e lo afferrò». E Pietro impara quel gesto come un gesto consueto e quasi liturgico per la chiesa; alla porta del Tempio, insieme a Giovanni, si trova davanti uno storpio che chiede l’elemosina; non ha né oro né argento da offrirgli, ma solo la forza liberante del Nome di Gesù e «presolo per la mano destra lo sollevò» (Atti 3,6-7).
si mise a servirli La cura della donna (e di ogni battezzato) ha una conclusione interessante: appare il verbo “diakoneo” (servire), quasi a dire che la liberazione non è solo “liberazione da” ma anche “liberazione per”. Servirlo significa “seguirlo fino in fondo”.
uscì e se ne andò in un luogo deserto e là pregava Gesù “esce” nel deserto. La sua preghiera è parte integrante della giornata, appartiene all’agenda degli impegni. Ed è il luogo anche della “tentazione” rappresentata  dalla pressione interessata e zelante della chiesa che lo cerca e lo trova, ma non per restare con lui in preghiera ma per dirgli «Tutti ti cercano. Pianta lì e datti una mossa». Anche nella notte del Getsemani i discepoli non partecipano alla sua drammatica preghiera:«Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?”» (Marco 14,37). Anch’io sono così: o divento ipercinetico per lo zelo attivistico o mi assopisco. La preghiera raramente appartiene alla mia agenda di discepolo.

Andiamocene altrove… e andò per tutta la GalileaLa preghiera non immobilizza Gesù; lo rende deludente per certe attese banali e, insieme, sorprendente e imprevedibili per i nuovi sentieri che imbocca.

«Quindi una giornata a Cafarnao che si apre con la preghiera pubblica in sinagoga e si chiude con la preghiera solitaria e si snoda attraverso l’insegnamento e le opere. Una giornata in cui stanno insieme lotta e contemplazione, stare tra amici e tra gente comune, attenzione a Dio e all’uomo, entrare e uscire, darsi e sottrarsi per darsi ancora. Una giornata completa» ( Pronzato, Un cristiano comincia a leggere il Vangelo di Marco, Gribaudi)