Un pastore capace di commuoversi
P. Ermes Ronchi

Un pastore capace di commuoversi
Padre Ermes Ronchi – Avvenire (20 Luglio 2003)

Gesù si commosse per loro. Questa parola “si commosse” bella come un miracolo, è il filo conduttore del racconto. All’inizio Gesù si commuove per i discepoli: li aveva mandati a due a due, sono tornati carichi d’umanità toccata, di umanità guarita, diventati creatori di comunione al punto che per la folla non hanno neanche più il tempo di mangiare.

Gesù mosso a compassione dice: Venite in disparte, in un luogo solitario e riposatevi un po’. Israele è pieno di vedove di Naim che piangono figli morti, pieno di adultere colte in flagrante e di mani pronte a lapidarle, pieno di lebbrosi e di urgenze, e Gesù, invece di buttare subito i suoi dentro i campi sterminati del mondo, li attira nel deserto. Quasi a perdere tempo. Ma come sempre nella bibbia, il deserto è per parlare al cuore (cf Osea 2). Il “riposo in disparte” non è la pausa tra due lavori, un’occasione per riprendere fiato, è molto di più. È vivere il settimo giorno di Dio, “quando vide che tutto era bello e si riposò“. La vera terra promessa non è un luogo, ma un tempo. Questo tempo è il settimo giorno, e ogni festa è un’altra cattedrale elevata non più nello spazio ma nel tempo. Là Egli parlerà al cuore, là attirerà a sé: rivelazione e presenza. Nel giorno del riposo e della festa, il Signore concede ciò che ha veramente promesso: se stesso. E spiega il segreto del Regno.

Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro. Gesù è preso fra la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. Ed in questo conflitto egli insegna agli apostoli, e a noi, l’arte più difficile: quella di dimenticarsi. Era partito con un programma, ora è pronto a modificarlo. Partiti per restare soli, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell’uomo, sempre. Gesù dice: prenditi del tempo. E subito aggiunge: ma il tuo tempo non è tuo. Appartiene alla commozione per l’uomo, alla compassione.

 Gesù si commosse: egli non è mai se stesso come quando può essere misericordioso e mostrare pietà. E quanto più siamo feriti dalla vita, tanto più il suo cuore si commuove per noi, e segue le nostre tracce, lungo tutti i sentieri in cui ci smarriamo, vite senza pastore. Non per rimproverarci, ma per offrirci riposo, parlare al cuore, dare se stesso.

Si mise ad insegnare loro molte cose. Ma la prima cosa che i discepoli imparano da Gesù è quella di semplicemente, divinamente commuoversi. Il tesoro che porteranno con sé dalla riva del lago è il ricordo dello sguardo di Gesù che si commuove. Lo stesso tesoro che i cristiani devono salvare oggi: il miracolo della compassione.




RACCONTO Lo spaventapasseri 
B. Ferrero

RACCONTO

Lo spaventapasseri
Bruno Ferrero, Cerchi nell’acqua, Elledici

Una volta un cardellino fu ferito a un’ala da un cacciatore. Per qualche tempo riuscì a sopravvivere con quello che trovava per terra. Poi, terribile e gelido, arrivò l’inverno.
Un freddo mattino, cercando qualcosa da mettere nel becco, il cardellino si posò su uno spaventapasseri. Era uno spaventapasseri molto distinto, grande amico di gazze, cornacchie e volatili vari. Aveva il corpo di paglia infagottato in un vecchio abito da cerimonia; la testa era una grossa zucca arancione; i denti erano fatti con granelli di mais; per naso aveva una carota e due noci per occhi.

  • Che ti capita, cardellino?“, chiese lo spaventapasseri, gentile come sempre.
  • Va male. – sospirò il cardellino – Il freddo mi sta uccidendo e non ho un rifugio. Per non parlare del cibo. Penso che non rivedrò la primavera“.
  • Non aver paura. Rifugiati qui sotto la giacca. La mia paglia è asciutta e calda“.

Così il cardellino trovò una casa nel cuore di paglia dello spaventapasseri. Restava il problema del cibo. Era sempre più difficile per il cardellino trovare bacche o semi. Un giorno in cui tutto rabbrividiva sotto il velo gelido della brina, lo spaventapasseri disse dolcemente al cardellino:

  • Cardellino, mangia i miei denti: sono ottimi granelli di mais”.
  • “Ma tu resterai senza bocca”.
  • “Sembrerò molto più saggio”.

Lo spaventapasseri rimase senza bocca, ma era contento che il suo piccolo amico vivesse. E gli sorrideva con gli occhi di noce. Dopo qualche giorno fu la volta del naso di carota.

  • “Mangialo. E’ ricco di vitamine”, diceva lo spaventapasseri al cardellino.

Toccò poi alle noci che servivano da occhi.

  • “Mi basteranno i tuoi racconti”, diceva lui.

Infine lo spaventapasseri offrì al cardellino anche la zucca che gli faceva da testa.
Quando arrivò la primavera, lo spaventapasseri non c’era più.
Ma il cardellino era vivo e spiccò il volo nel cielo azzurro. 

“Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo” (Matteo 26,26).




La fede superstiziosa ti arriva in casa

La fede superstiziosa che abita i social network

https://www.retesicomoro.it/fede-superstiziosa-abita-social-network/

27 Giugno 2024

Pagine apparentemente cristiane diffondono post che hanno a che fare più con il magico che con il sacro.

Sui social network capita di imbattersi in pagine che promuovono un cristianesimo dai risvolti superstiziosi. Queste, talvolta parecchio seguite, pubblicano post con immagini sacre rielaborate per attirare l’attenzione e accompagnate da frasi, come quello del profilo su Facebook “Dio è con Noi” in cui a fianco di un’immagine del Cristo della Misericordia c’è un cuore, sormontato da delle rose, con sopra scritto in modo minaccioso: «Tu, che adesso hai il telefono in mano, se passi senza ringraziare Gesù, domani potrebbe essere troppo tardi». Come fare per rendere grazie il Signore? Sotto c’è l’indicazione, accanto al disegno di una mano che tiene un cellulare: «tocca il pulsante di whatsapp e dichiara Amen». Il post è seguito appunto da un tasto della diffusa app di messaggistica che serve per iscriversi a una chat della community della pagina.
Come spiega su Vino Nuovo Paola Springhetti, che insegna Giornalismo alla Pontificia Università Salesiana, questo invito serve a «far aumentare il numero delle interazioni con il post e quindi a far sì che l’algoritmo di Facebook lo ritenga interessante e continui a farlo vedere nelle bacheche virtuali». Ma dal punto di vista religioso il problema è il tono imperioso e superstizioso della frase, analogo a quella in un altro post dove si vede santa Rita in un letto di rose: «Santa Rita verrà a trovarti oggi. Porterà via tutto il tuo dolore, le preoccupazioni e le paure, e benedirà tutti coloro che toccano l’immagine e scrivono Amen». Insomma, si combina la devozione con il ricatto digitale.
Un altro esempio segnalato nell’articolo mostra una raffigurazione retrò della Madonna, con vestiti rosa e azzurro e occhi chiari, accanto alle scritte «Madonna delle Lacrime, in questo momento difficile per il mondo, asciuga le nostre lacrime. Amen» e «Non scorrere senza condividere la Madonna delle Lacrime. Porta solo bene». Una manifestazione di pietà popolare viene dunque usata per alimentare la credenza che condividere un’immagine su un social network porti “solo bene”. Sostanzialmente, la Madonna viene equiparata alle coccinelle e ai quadrifogli. Il pensiero superstizioso che sta alla base di questi meccanismi è lo stesso di quello delle catene di sant’Antonio, degli oroscopi, dell’astrologia, dell’usanza di gettare una moneta in una fontana o in un pozzo.
D’altronde, i social sono lo specchio di una parte della realtà e, quindi, vi rientrano anche queste espressioni magiche con cui la gente cerca consolazione, sicurezza, speranza. Le migliaia di like e condivisioni ci ricordano come nella fede, come nella vita, molte persone si lascino guidare da istinti irrazionali e irragionevoli. Nel rapporto del 2021 del Censis sulla situazione sociale del Paese si legge: «Di fianco alla maggioritaria società ragionevole e saggia, si leva un’onda di irrazionalità, un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà circostante». Per credere nel Dio della Sacra Scrittura non bisogna lasciare spazio alle superstizioni.




Dio non interviene al posto mio, ma con me
P.Ermes Ronchi

Dio non interviene al posto mio ma con me
 Ermes Ronchi (Avvenire18/06/2015)

XII Domenica Tempo ordinario Anno B

Una notte di tempesta e di paura sul lago, e Gesù dorme. Anche il nostro mondo è in piena tempesta, geme di dolore con le vene aperte, e Dio sembra dormire.
Nessuna esistenza sfugge all’assurdo e alla sofferenza, e Dio non parla, rimane muto.
È nella notte che nascono le grandi domande: Non ti importa niente di noi? Perché dormi? Destati e vieni in aiuto! I Salmi traboccano di questo grido, riempie la bocca di Giobbe, lo ripetono profeti e apostoli. Poche cose sono bibliche come questo grido a contestare il silenzio di Dio, poche esperienze sono umane come questa paura di morire o di vivere nell’abbandono.
Perché avete così tanta paura? Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.
Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza. Non interviene al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.
L’intera nostra esistenza può essere descritta come una traversata pericolosa, un passare all’altra riva, quella della vita adulta, responsabile, buona. Una traversata è iniziare un matrimonio; una traversata è il futuro che si apre davanti al bambino; una traversata burrascosa è tentare di ricomporre lacerazioni, ritrovare persone, vincere paure, accogliere poveri e stranieri. C’è tanta paura lungo la traversata, paura anche legittima. Ma le barche non sono state costruite per restare ormeggiate al sicuro nei porti.
Vorrei che il Signore gridasse subito all’uragano: Taci; e alle onde: Calmatevi; e alla mia angoscia ripetesse: è finita. Vorrei essere esentato dalla lotta, invece Dio risponde chiamandomi alla perseveranza, moltiplicandomi le energie; la sua risposta è tanta forza quanta ne serve per il primo colpo di remo. E ad ogni colpo lui la rinnoverà.
Non ti importa che moriamo? La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti:  Mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore. E sono qui. A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime, come mano forte sulla tua, inizio d’approdo sicuro.




Lascia dormire il tuo cuore nella tempesta
Don Angelo Casati

Lascia dormire il tuo cuore nella tempesta
di don Angelo Casati[1]

La traversata della vita come metafora del progetto divino, nello sforzo e nel sogno di tendere continuamente verso l’altra riva.
In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che moriamo?”. Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”. (Marco 4, 35-41)
Rileggendo il brano di Marco, il brano della tempesta sedata, mi veniva spontaneo pensare come ci capiti a volte di riandare a questo brano quando celebriamo un matrimonio e anche quando accompagniamo qui per l’ultimo saluto uno dei nostri cari; forse potremmo leggerlo anche nel giorno di un Battesimo.
E mi chiedevo: perché? Perché il dilagare di questo brano in situazioni così diverse della nostra vita?  Forse perché tutta la nostra vita può essere evocata sotto il simbolo della traversata, del passare all’altra riva. Quel giorno verso sera Gesù disse: «Passiamo all’altra riva».
La vita che sta davanti a un bambino è una traversata; il matrimonio, questa avventura a due, è una traversata; ogni vocazione è una traversata; la morte è una traversata. Ma forse ogni giorno, ogni giornata è arrivare a sera a un’altra riva. Traversata è ogni progetto; ogni progetto del cuore è sognare e tendere all’altra riva.
«Nel frattempo si sollevò una grande tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena».
E anche questa è condizione comune, condizione comune di ogni traversata: la tempesta, le bufere, le bufere della vita.  Non è che ce le mandi Dio.  A volte abbiamo uno strano modo di ringraziare Dio e lo ringraziamo di averci salvati dalle inondazioni. Ma, allora, dovrebbero imprecare contro Dio quelli che hanno la barca inondata?  La bufera fa parte della vita. E non ci sono solo le bufere esteriori. A volte le più terribili sono quelle interiori.
Un teologo, profondo conoscitore dei labirinti dell’inconscio, scrive: «Abbastanza spesso, proprio quando smettiamo di affaccendarci esteriormente, il nostro cuore comincia a rimbombare come un oceano sferzato da raffiche di vento e noi piombiamo nella paura di noi stessi, non ci raccapezziamo più, e vorremmo proteggerci senza sapere in che modo, come se incappassimo nell’occhio di un ciclone, che ci risucchia irresistibilmente nel profondo con sempre maggiore rapidità» (E. Drewermann, Il Vangelo di Marco, pp. 144-145).
Ecco, il Vangelo di Marco sembra suggerirci che sarebbe sogno vano pensare di non avere a che fare con questo mare, e invece è da sapienti imparare a conviverci. È suggestivo, fino quasi a diventare un simbolo, l’esempio di Gesù che dorme sulla barca.
Se, sull’esempio di Gesù, cercheremo di raggiungere una calma più profonda nel nostro intimo, allora le onde si acquieteranno e il vento si placherà.
«È importante» scrive Drewermann «raggiungere, al di là della zona dell’angoscia psichica, il luogo nel quale la tempesta si placa. Bisogna ancorare profondamente la barca della nostra vita e confidare nel punto in cui, al di sotto del mare agitato, più abissale ancora dell’abisso, un solido fondale ci fornisce l’appiglio».
Questo Dio, che dorme sulla barca scossa dalla tempesta, dal vento, sembra dirci: confida nella mia presenza, anche se ti sembro assente, io ho il potere di placare la bufera e di avvicinare l’altra riva, lascia dormire il tuo cuore nella pace. Ancorarsi in Dio e imparare a «dormire» nella tempesta. Ancorarsi in Dio e imparare a dormire anche per l’ultima tempesta.
Senza scampo un bel giorno verrà il momento in cui né medici, né preti, né consiglieri, né altri interventi esterni potranno più aiutarci, il momento in cui noi saremo arrivati alla fine dell’esistenza, dove ad attenderci sarà la morte.
E allora per l’ultima volta sarà importante trovare quiete contro l’angoscia; allora sarà ancora più decisivo ancorarsi in Dio e imparare a dormire nella tempesta.


[1] nato a Milano nel 1931, è licenziato in sacra teologia. E’ sacerdote dal 1954. Ha insegnato nei seminari diocesani ed è stato parroco della comunità di San Giovanni in Laterano a Milano




16 giugno 2024.
P.Ermes Ronchi. Nel cuore di tutti il seme di Dio

Nel cuore di tutti il seme di Dio
padre Ermes Ronchi (17-06-2012)

Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno. Gesù parla delle cose più grandi con una semplicità disarmante. Non fa ragionamenti, apre il libro della vita; racconta Dio con la freschezza di un germoglio di grano, spiega l’infinito attraverso il minuscolo seme di senape. Perché la vita delle creature più semplici risponde alle stesse leggi della nostra vita spirituale, perché Vangelo e vita camminano nella stessa direzione, che è il fiorire della vita in tutte le sue forme. Accade nel regno di Dio come quando un uomo semina. Dio è il seminatore infaticato della nostra terra, continuamente immette in noi e nel cosmo le sue energie in forme germinali: il nostro compito è portarle a maturazione. Siamo un pugno di terra in cui Dio ha deposto i suoi germi vitali. Nessuno ne è privo, nessuno è vuoto, perché la mano di Dio continua a creare.
La prima parabola sottolinea un miracolo di cui non ci stupiamo più: alla sera vedi un bocciolo, il giorno dopo si è aperto un fiore. Senza alcun intervento esterno.
Ecco: Che tu dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Com’è pacificante questo! Le cose di Dio fioriscono per una misteriosa forza interna, per la straordinaria energia segreta che hanno le cose buone, vere e belle. In tutte le persone, nel mondo e nel cuore, nonostante i nostri dubbi, Dio matura. E nessuno può sapere di quanta esposizione al sole, al sole della vita, abbia bisogno il buon grano di Dio per maturare: nelle persone, nei figli, nei giovani, in coloro che mi appaiono distratti, che a volte giudico vuoti o senza germogli.
La seconda parabola mostra la sproporzione tra il granello di senape, il più piccolo di tutti i semi, e il grande albero che ne nascerà. Senza voli retorici: il granello non salverà il mondo. Noi non salveremo il mondo. Ma, assicura Gesù, un altro è il nostro compito: gli uccelli verranno e vi faranno il nido. All’ombra del tuo albero, dei fratelli troveranno riposo e conforto. Guardi un piccolo seme accolto nel cavo della mano, lo diresti un grumo di materia inerte. Ma nella sua realtà nascosta quel granello è un piccolo vulcano di vita, pronto a esplodere, se appena il sole e l’acqua e la terra…
Il seme ci convoca ad avere occhi profondi e a compiere i gesti propri di Dio. Mentre il nemico semina morte, noi come contadini pazienti e intelligenti, contadini del Regno dei cieli, seminiamo buon grano: semi di pace, giustizia, coraggio, fiducia. Lo facciamo scommettendo sulla forza della prima luce dell’alba, che appare minoritaria eppure è vincente. Qui è tutta la nostra fiducia: Dio stesso è all’opera in seno alla terra, in alto silenzio e con piccole cose.




ORIGINI DELLA FESTA DEL CORPUS DOMINI.

ORIGINI DELLA FESTA DEL CORPUS DOMINI.
don Maurizio Ceriani
Da Il Popolo settimanale della diocesi di Tortona del 22 giugno 2006

La festa del Corpus Domini è stata estesa alla chiesa universale da Papa Urbano IV, l’ 11 agosto 1264, con la Bolla “Transiturus”. Il Papa incaricò San Tommaso d’Aquino di comporre i testi liturgici della nuova festa e promulgò la Bolla da Orvieto, ove risiedeva e dove, l’anno precedente, aveva accolto il lino che, si diceva, fosse intriso del sangue miracolosamente sgorgato dall’ostia consacrata, durante una celebrazione eucaristica nella chiesa di Santa Cristina di Bolsena. Comunemente si afferma che fu il miracolo eucaristico di Bolsena ad indurre Urbano IV ad istituire la festa del Corpus Domini. Ma a monte di questa celebrazione liturgica c’è la determinazione di tre donne del medioevo. Urbano IV (Giacomo Pantaléon) era un francese, nativo di Troyes. Per lunghi anni, prima della sua elezione al soglio pontificio avvenuta nel 1261, era stato arcidiacono della cattedrale di Liegi in Belgio. In questa veste conobbe e apprezzò Giuliana di Mont Cornillon, l’eremita Eva di Liegi e la beghina Isabella. Tre donne tenaci dalla cui alleanza spirituale nacque una nuova sensibilità verso l’eucaristia nella Chiesa del 13° secolo, percorsa dal rifiorire delle idee eterodosse di Berengario di Tours e dalla eresia albigese. Berengario, morto nel 1088, aveva insegnato sulla scorta di Scoto Eriugena che la trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo durante la messa era da intendersi in senso simbolico. Le sue teorie, erano vive più che mai, nonostante la definizione dogmatica della transustanziazione al Concilio Lateranense IV nel 1215, cioè della reale trasformazione della sostanza del pane e del vino in quella del Corpo e Sangue del Signore. Gli Albigesi o Catari, riprendendo le teorie dei Manichei persiani passate in occidente attraverso i Bogomili bulgari e diffuse rapidamente nell’Italia settentrionale e nella Francia, vedevano la storia come il teatro della guerra eterna tra il Bene e il Male, alla cui origine stavano due principi divini eterni. La materia era considerata come l’opera del principio perverso; di conseguenza l’Incarnazione e i Sacramenti, Eucaristia in primis, altro non erano che inganni diabolici. Il Cristianesimo ne usciva sovvertito nel suo cuore stesso. Contemporaneamente però un movimento di radicamento della spiritualità eucaristica nel popolo cristiano prendeva vita nelle Fiandre e velocemente si diffondeva in Francia e in Germania.  Giuliana entrò tra le monache cistercensi di Mont Cornillon nel 1207 a quindici anni di età. Fu presto privilegiata da fenomeni mistici. Verso i diciott’anni ebbe la sua prima visione; in seguito ne ebbe molte altre. Per diverse volte al momento della preghiera le apparve il globo della Luna attraversata da una misteriosa striscia buia; dopo due anni le fu rivelato il senso simbolico della visione: la “luna incompleta” raffigurava la liturgia, al cui pieno splendore mancava l’essenziale: una festa che onorasse il Corpo di Cristo sacrificato per l’umanità. Bisognava istituirla per tre ragioni: “Perché la fede diminuisce; perché gli uomini che cercano la verità ne siano istruiti e attingano forze nuove a questa sorgente di vita; perché l’irriverenza e l’empietà contro questo sacramento siano riparate”.
Per vent’anni Giuliana tenne per sé questa visione, e infine la confidò solo all’eremita Eva e alla beghina Isabella, infermiera dei lebbrosi. Un’alleanza a tre, che riassume la spiritualità della vita religiosa femminile dell’epoca: vita comune in preghiera, penitenza eremitica, carità nel servizio di malati e pellegrini. Un’alleanza a tre per dare forma precisa a una religiosità eucaristica già ben presente in Liegi, nelle comunità religiose, nella predicazione e negli scritti di sacerdoti famosi, a cominciare dal X secolo con Raterio, futuro vescovo di Verona.
Le tre donne iniziano la loro “battaglia” per l’istituzione della festa eucaristica coinvolgendo sacerdoti, monaci, comunità religiose, parrocchie. Vengono a parlare con Giuliana i vescovi di Cambrai e di Liegi. A quest’ultimo, Roberto di Thourotte, lei chiede di istituire subito in diocesi quella festa, che si chiamerà del Corpus Domini. Molti però sono contrari, il vescovo esita. Allora Giuliana, che nel frattempo era diventata badessa, ruppe ogni indugio; con l’incoraggiamento di un canonico di S. Martino di Liegi, del teologo Giovanni da Losanna, profondamente convinto della verità delle sue rivelazioni, fece comporre i testi liturgici per la festa del Corpus Domini e ne promosse la diffusione. I testi per la nuova celebrazione, che saranno chiamati “Animarum cibus” per via delle parole latine con cui iniziano, appassionano molti fedeli e sacerdoti, tra cui l’Arcidiacono della cattedrale di Liegi, Giacomo Pantaléon (il futuro Urbano IV) che diventerà subito uno strenuo promotore dell’iniziativa di Giuliana.
Forzato dagli eventi e dalla determinazione di Giuliana, Eva e Isabella, il 1246 il vescovo di Liegi istituì la festa diocesana del Corpus Domini. Giuliana lasciò la carica di badessa nel 1248 per ritirarsi nella clausura di Fosses, presso Namur, dove morì dieci anni dopo, consolata dalla notizia che la festa del Corpus Domini si era estesa anche alla Renania, al Palatinato e alla Baviera per l’intervento del legato papale per la Germania Ugo da San Caro, cardinale di Santa Sabina. Ugo da San Caro, già priore e provinciale dei Frati Domenicani, era stato fra quelli che, consultati da Giovanni di Losanna, ne avevano favorito il progetto. Il 29 dicembre 1253 confermò il decreto del vescovo di Liegi e lo estese a tutte le terre di sua giurisdizione, concedendo una indulgenza di cento giorni a tutti coloro che, contriti e confessati, avessero visitato devotamente le chiese in cui si celebrava l’Ufficio della festa, il giorno stesso oppure durante l’Ottava.
Giuliana non riuscì a vedere, invece, il compimento del suo sogno nel 1264, grazie al Papa che da giovane la conobbe e la apprezzò in terra belga e che fu membro della commissione diocesana che esaminò e approvò il contenuto delle sue visioni. Vi assistette invece Eva dal suo eremo presso la chiesa di San Martino a Liegi. Quando, il 29 agosto 1261, Giacomo Pantaléon divenne Papa, Eva vide l’atteso segno della Provvidenza e tanto insistette che il nuovo vescovo di Liegi, Enrico di Gueldre, dovette scrivere all’eletto Papa per congratularsi con lui e per pregarlo di confermare con la sua sovrana approvazione la festa del Corpus Domini. Proprio a Eva di Liegi lo stesso Urbano IV inviò una bolla in data 8 settembre 1264 per informarla dell’istituzione della festa del Corpus Domini per la Chiesa universale.
Alla Reclusa di San Martino il Papa chiedeva di diffondere il nuovo ufficio della celebrazione, in sostituzione dell’ “Animarum cibus” modellato sull’antica liturgia gallicana di Francia. Da questo documento sappiamo inoltre che Urbano IV celebrò in Orvieto per la prima volta tra l’11 agosto e l’8 settembre 1264 la liturgia del Corpus Domini secondo l’ufficiatura composta da San Tommaso d’Aquino. Sia Giuliana di Mont Cornillon che Eva di Liegi furono subito venerate come Sante; il loro culto fu approvato nel 1902 con il titolo di Beate. Anche la beghina Isabella ebbe un culto locale che si fuse presto con quello della coeva Isabella di Francia, sorella di San Luigi IX, Beata che sta all’origine del ramo delle Clarisse chiamate “Urbaniste”, perché adottarono una regola mitigata rispetto a quella di Santa Chiara, stesa dalla stessa Isabella e approvata nel 1263 da Urbano IV».
Ebbene, «il motivo apologetico che de­terminò il sorgere della festa ne ha costitui­to anche il limite del contenuto: l’attenzione alla presenza reale considerata in modo trop­po indipendente dal mistero eucaristico tota­le» (A. Bergamini, Cristo festa della Chiesa).
Questo limite è stato, almeno nell’inten­zione, superato dalla riforma liturgica pro­mossa dal concilio Vaticano II mediante il cambiamento della denominazione (Solennità del Corpo e Sangue del Signore) e l’arric­chimento del numero delle Preghiere Eucaristiche e dei testi biblici. Il risultato è che oggi la festa del corpo e san­gue di Cristo non è più la festa della presen­za reale, ma del mistero eucaristico nei suoi vari aspetti. La solennità del corpo e sangue di Cristo, pertanto, può essere un’occasione unica, dal punto di vista pastorale, per pro­porre una catechesi organica del mistero del­l’eucaristia.




L’INNESTO VITALE
Don Angelo Casati

L’INNESTO VITALE
di Don Angelo Casati (ADISTA n° 46/2009)

E l’immagine è bellissima, è viva, custodisce il senso della nascita. Per noi uomini e donne di città la suggestione è impoverita: quando mai vediamo una vigna? Se passi in questi giorni di primavera vicino ai tralci di una vite non puoi non incantarti al miracolo dei teneri, turgidi germogli.
Ecco, vorrei subito dirvi la gioia che provo al pensare che la fede ci fa dimorare in una vigna, cioè in questo miracolo delle cose che nascono. E il pensiero mi attrae, mi seduce, mi porta anche a ricordare una parola, parola bellissima, di Papa Giovanni. Sentitela: “Non siamo sulla terra a custodire un museo, ma a coltivare un giardino fiorente, destinato ad un avvenire glorioso”.
Dunque lo spazio cui ci chiama l’immagine della vigna non è quello dell’aria chiusa e ammuffita, bensì quello dell’aria aperta, della vigilia di nascita, delle vigne assolate ma rigogliose di Israele, nate, quasi d’incanto, per miracolo, in una terra arida.
Ebbene Gesù con l’immagine della vigna si ricollega a un simbolo più volte evocato nell’Antico Testamento, dove il simbolismo della vigna viene con insistenza ripreso per raccontare il rapporto tra Dio e il suo popolo, un rapporto, sul versante di Dio, fatto di cure, di premure, di tenerezza per la sua vigna, un rapporto, sul nostro versante, fatto a volte, purtroppo, di indifferenza, di impermeabilità, di rifiuto.
Ma c’è di più. Nel Vangelo di Giovanni Gesù attribuisce a se stesso l’immagine della vite. “Io sono la vite, voi i tralci.”
Forse potremmo anche dire che con il Battesimo è avvenuto un innesto: noi, rami per qualche misura selvatici, innestati alla vite che ha la pienezza del rigoglio. E dunque custodisci l’innesto, abbine cura, perché senza questa comunicazione con Gesù e il suo Vangelo, si interrompe il flusso della linfa, rinsecchiamo. Rami secchi! E questa del rinsecchirsi è, o dovrebbe essere, la cosa che ci preoccupa di più – più dell’invecchiare negli anni –  l’invecchiare, l’inaridirsi, il rinsecchirsi, l’ammuffire nello Spirito.
Qual è la condizione perché questo non avvenga? La condizione è ricordata senz’ombra di equivoci da Gesù: “Rimanete in me”. Custodite l’innesto. Se non vado errato, per sette volte in questi otto versetti di Vangelo ritorna il verbo “rimanere”: “Se rimanete”, “se non rimanete”, “chi rimane”, “chi non rimane”… e così via, sette volte.
Il verbo “rimanere” è un verbo caro a Giovanni. Perché? Perché è un verbo che dice intimità. Che cosa significhi che tu rimanga nell’altro e che l’altro rimanga in te, forse ce lo possono raccontare solo coloro che fanno un’esperienza di amore: “Ora te ne vai, ma tu rimani in me”. Che cosa significa allora rimanere in Gesù, rimanere nella vite? Significa che il suo mondo, il mondo di Gesù, è diventato il mio mondo, è l’aria che mi fa respirare, è la linfa che pulsa e genera sussulti di nascita, anche in questo ramo apparentemente secco, rinsecchito, che sono io. Il verbo rimanere usato da Giovanni in queste ultime pagine di Vangelo è lo stesso che Giovanni usa in una delle sue prime pagine, quando i due discepoli del Battista si mettono sulle tracce di Gesù. Gesù li sente camminare alle spalle. “Che cercate?” chiese loro. Ed essi: “Maestro, dove dimori?”. Lo stesso verbo. “Videro dove dimorava. E dimorarono presso di lui quel giorno.” Gli stessi verbi. Dimorare è più che abitare. Si può abitare una casa, una chiesa come spazio esteriore. O li si può abitare come spazio di relazioni, di un intimo comunicare, un abitare pensieri, emozioni, sogni. Questo vuol dire rimanere in Gesù, rimanere nella vite.
Custodire questo innesto dovrebbe essere la nostra cura: il nostro innesto e quello degli altri. Questo è il compito che ci attende nella vigna.
A volte invece sembra che la massima cura, la preoccupazione più forte nella Chiesa sia quella di tagliare i rami secchi e di bruciarli. Posso sbagliarmi ma penso che non ci voglia una grande arte né una grande intelligenza per tagliare e per bruciare i rami secchi. L’arte invece, l’arte, l’intelligenza dello Spirito stanno nel creare un innesto o nel custodirlo, nel fasciare, come diceva Gesù, il punto debole della vite.
Anche la Chiesa delle origini stentava a credere negli innesti nuovi, stentava a credere che Dio avesse fatto giungere la linfa luminosa a Paolo di Tarso. Sembra di sentirli: “Ma scherzi! Proprio lui? Ma guarda al suo passato e non essere ingenuo”. E non si accorgono che a rinsecchirsi sono loro. E ci volle Barnaba, ci volle tutta la forza del suo animo a convincerli che Dio ha strade infinite e che anche la strada di Damasco può essere strada di cambiamento. E che la finissero di guardare indietro, che aprissero gli occhi a contemplare ciò che ora stava germogliando. Barnaba, uomo della vigna, uomo degli innesti. E noi, nella comunità, non a custodire un museo, ma a coltivare un giardino!




RACCONTO
Il bruco e il suo sogno

Un piccolo BRUCO
B.F. (da Bollettino Salesiano  aprile 2024)

C’era una volta un piccolo bruco che strisciava risoluto con tutta la forza dei suoi minuscoli piedini in direzione del sole. Lo vide una cavalletta e, curiosa com’era, gli domandò: «Dove vai?». Senza rallentare il passo, il bruco rispose: «Ho fatto un sogno questa notte: mi trovavo in cima a quella montagna e potevo ammirare tutta la valle. Mi è piaciuto molto quello che ho visto e ho deciso di realiz­zarlo».
«Sei impazzito? Come puoi pensa­re di arrivare lassù? Per te un sassolino è già un’enorme montagna, una pozzanghera un mare e un rametto una barriera insuperabile!» Il bruchetto neanche l’ascoltava, contorcendosi e strisciando conti­nuava a marciare.
Lo vide uno scarafaggio dalla luci­da corazza nera: «Dove vai, bruco, così di fretta?». Ansimando per la fatica, il bruco rispose: «Ho fatto un sogno e voglio realizzarlo. Salirò su quella montagna per guardare di là il nostro mondo». Lo scarafaggio scoppiò in una gras­sa risata: «Non ci riuscirei neanche io con le mie lunghe e robuste zam­pe. Figurati tu, sgorbietto!» A forza di sghignazzare, si rovesciò a gambe in su, mentre il bruco continuava ad avanzare, un centimetro alla volta, con gran fatica.
Tutti quelli che lo incontravano, ragni, talpe, rane, fiori, perfino un topo non facevano che ripetere lo stesso ritornello: «Lascia perdere. Non ce la farai mai!»
Ma il bruco continuava. Le sue forze però diminuivano finché esausto si fermò per riposare, ma prima si costruì un rifugio per pernottare. Una specie di robusto sacco a pelo in cui si avvolse completamente. «Così starò meglio» si disse.
Tutti gli animaletti del bosco si radunarono per guardare la tomba di quello che consideravano l’ani­male più stupido del mondo, morto di fatica per realizzare un sogno sconsiderato.
Una mattina, con il sole che splen­deva in modo speciale, si riunirono in tanti intorno alla tomba del bruco divenuta un monumento all’insen­satezza, un ammonimento per i folli che si buttano in imprese impossibili. Improvvisamente si accorsero che quel guscio compatto si lacerava e ne emergevano due antenne e poi, piano piano, due stupende ali iridescenti attaccate al corpicino minuscolo di una farfalla che si librò in aria e spalancò le ali mostrandole in tutto il loro splendore.
Tutti gli animaletti tacquero confusi. Avevano avuto torto e si sentirono molto sciocchi.
Il bruco stava per realizzare facil­mente il sogno per cui era vissuto, era morto ed era tornato a vivere: arrivare in cima alla montagna.




Il buon pastore che offre la sua vita
P. Ermes Ronchi

Donare: nella vita non conta altro.
Padre Ermes Ronchi  (Avvenire 11 Maggio 2003)

Io sono il pastore: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro i lupi e per la croce. Io sono il pastore bello, aggiunge il testo greco. E noi capiamo che la bellezza del pastore è il fascino che hanno la sua bontà e il suo coraggio. Capiamo che la bellezza è attrazione, Dio che crea comunione. Con che cosa ci avvince il pastore bello, come ci fa suoi? Con un verbo ripetuto cinque volte: io offro la mia vita; la mia vita per la tua. E non so domandare migliore avventura. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio, il comando che fa bella la vita: il dono. La felicità di questa vita ha a che fare col dono e non può mai essere solitaria. Il pastore bello e coraggioso ha un movente, non semplicemente un ordine da eseguire. Se cerco ciò che lo muove, mi imbatto subito nell’immagine opposta del mercenario che vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. A Cristo invece importano le pecore, tutte, l’una e le novantanove. L’uomo interessa, l’uomo è importante. Anzi Cristo considera ogni uomo più importante di se stesso, per questo dà la sua vita. «Signore, non ti importa che moriamo?»  gridano gli apostoli spaventati in una notte di tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante per me. Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo, ma voi valete più di molti passeri. Mi importano i gigli del campo, ma tu sei molto di più. Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti in cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l’assenza di Dio, turbati per il suo silenzio. Questo comandamento ho appreso dal Padre: la vita è dono. Per stare bene l’uomo deve dare. Perché così fa Dio. Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. Il Dio del cristiano non sta bene nei cieli, discende e si compromette. Il cristiano non può star bene finché non sta bene suo fratello. E tutti, a nostra volta pastori di un minimo gregge, ripetiamo le parole di Gesù, ma in silenzio e coraggio: tu mi importi, tu figlio amato o sconosciuto fratello, tu incontro d’oggi o compagno di una vita, tu sei importante per me. Da qui parte l’avventura di coloro che vogliono sulla terra, come il pastore bello e coraggioso, custodire e lottare, camminare e liberare. Alla ricerca di Qualcuno che ci faccia diventare dono, che ci dia il coraggio di capire che dare la propria vita è l’unico comando, è l’unico modo per riempire e fare bella la vita.

Il buon pastore che offre la sua vita
Ermes Ronchi (Avvenire 26/04/2012)
Sottese all’espressione di Gesù: «il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore» intuisco parole che amo e che sorreggono la mia fede. Suonano pressappoco così: al mercenario no, ma a me, pastore vero, le pecore importano. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me.
Questa è la mia fede: io gli importo. A Dio l’uomo importa, al punto che egli considera ogni uomo più importante di se stesso. È per questo che dà la vita: la sua vita per la mia vita. Ricordo il grido degli apostoli in una notte di tempesta «Signore, non ti importa che moriamo?» e il Signore risponde placando le onde, sgridando il vento: Sì, mi importa di voi, mi importa la vostra vita. E lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma voi valete più di molti passeri; mi importano anche i gigli del campo ma tu sei molto di più di tutti i gigli dei campi.
«Io sono il Pastore buono» è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che ha a cuore cose importanti. Il gesto specifico del pastore buono, il gesto più bello che lo rende letteralmente il “pastore bello”, è, per cinque volte: «Io offro la vita». Qui affiora il filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera di Dio: il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita.
Con queste parole Gesù non intende per prima cosa la sua morte in Croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita, è inteso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del grembo di donna che dà vita al bambino; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Offro la vita significa: Vi do il mio modo di amare e di lottare. Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi. Anche noi, discepoli che vogliono come lui sperare e costruire, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte, bello, vero, di un pur minimo gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, coloro che si affidano a noi. Nel vivere quotidiano, “dare la vita” significa per prima cosa dare del nostro tempo, la cosa più rara e preziosa che abbiamo, essere tutto per l’altro, in ascolto attento, non distratti, occhi negli occhi. Questo è dirgli: tu mi importi.
Tu sei il solo pastore che per i cieli ci fa camminare, Tu il Pastore bello. E tu sai che quando diciamo a qualcuno «tu sei bello» è come dirgli «io ti amo».
(Letture: Atti degli apostoli 4, 8-12; Salmo 117; 1 Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18)