La misura del Perdono non è mai colma
P. Ermes Ronchi

La misura del Perdono non è mai colma
padre Ermes Ronchi  (15-09-2002)

“Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Cioè, sempre. L’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Ma perché farlo? La risposta è semplice e alta: perché così fa Dio. Gesù lo spiega con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo re, qualcosa che non sarebbe mai riuscito a pagare: allora, gettatosi a terra, lo supplicava. E il re provò compassione. Sente come sua l’angoscia del servo, essa conta più dei suoi diritti, pesa più di diecimila talenti, allarga il cuore del re. C’è un modo regale di stare nel mondo, un modo divino, e risiede nella larghezza di cuore: sa perdonare chi è più grande e più forte.
E in opposizione a questo cuore regale ecco il cuore servile: appena uscito quel servo trovò un altro servo…Appena uscito, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo. Appena uscito, ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia, appena fatta l’esperienza di un cuore regale, preso il suo compagno per il collo lo strangolava, gridando: ridammi le mie mille lire, lui, perdonato di miliardi.
Il servo perdonato non agisce contro il diritto o la giustizia. È giusto, e spietato. È onesto, e al tempo stesso cattivo. Quanto è facile essere giusti e spietati, onesti e cattivi. Perché non basta essere giusti per essere uomini, tanto meno per essere di Dio. Giustizia e diritto da soli non bastano a fare nuovo il mondo. Anzi, l’estrema giustizia, ridammi le mie mille lire, può contenere la massima offesa all’uomo: presolo per il collo lo strangolava.
Gesù propone l’illogica pietà: non dovevi anche tu avere pietà di lui, come io ho avuto pietà di te? Perché avere pietà e perdonare? Per acquisire il cuore di Dio, immettere il suo divino disordine dentro l’equilibrio apparente del mondo. Perché niente vale quanto una vita. E allora occorre una dismisura, il perdono fino a settanta volte sette, un eccesso di pietà.
Occorre il perdono di cuore. È difficilissimo perdonare di cuore. Comporta un atto di fede, non d’intelligenza. Nell’uomo. Un atto di speranza, non di spontaneità. Nell’uomo. Palestinesi ed israeliani usciranno dal loro equilibrio di paura e di morte solo con il coraggio di un atto di fede reciproca. Fede è dare fiducia all’altro, guardando non al passato, ma al futuro. Così fa Dio con me: mi perdona non come Colui che dimentica il mio passato, ma come Colui che mi sospinge oltre.
Dio perdona come un liberatore. Ti lancia in avanti. Ti fa salpare ancora verso albe intatte, come vento che gonfia le vele, supplemento d’energia. Ti perdona come atto di fede in te, cuore largo verso il tuo futuro.




Nessun viaggio è lungo per chi ama
P. Ermes Ronchi

Nessun viaggio è lungo per chi ama.
padre Ermes Ronchi
XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (26/07/2020)
Vangelo Matteo 13,44-52

Gesù, con due parabole simili, brevi e lampeggianti, dipinge come su un fondo d’oro il dittico lucente della fede. Evoca tesori e perle, termini bellissimi e inusuali nel nostro rapporto con Dio. Lo diresti un linguaggio da romanzi, da pirati e da avventure, da favole o da innamorati, non certo da teologi o da liturgie, che però racconta la fede come una forza vitale che trasforma la vita, che la fa incamminare, correre e perfino volare. Annuncia che credere fa bene! Perché la realtà non è solo questo che si vede: c’è un di più raccontato come tesoro, ed è accrescimento, incremento, intensità, eternità, addizione e non sottrazione. «La religione in fondo equivale a dilatazione» (G. Vannucci).
Siamo misteriosamente avvolti da forze buone: Qualcuno interra tesori per noi, semina perle nel mare dell’esistenza, «il Cielo prepara oasi ai nomadi d’amore» (G. Ungaretti). Trovato il tesoro, l’uomo va, pieno di gioia, vende tutto e compra quel campo. Si mette in moto la vita, ma sotto una spinta che più bella non c’è per l’uomo, la gioia. Che muove, mette fretta, fa decidere, è la chiave di volta. La visione di un cristianesimo triste, che si innesca nei momenti di crisi, che ha per nervatura un senso di dovere e di colpa, che prosciuga vita invece di aggiungerne, quella religiosità immatura e grigia è lontanissima dalla fede solare di Gesù. Dio ha scelto di parlarci con il linguaggio della gioia, per questo seduce ancora. Viene con doni di luce avvolti in bende di luce (Rab’ia). Vale per il povero bracciante e per l’esperto mercante, intenditore appassionato e ostinato che gira il mondo dietro il suo sogno. Ma nessun viaggio è lungo per chi ama. Noi avanziamo nella vita non a colpi di volontà, ma per una passione, per scoperta di tesori (dov’è il tuo tesoro, là corre felice il tuo cuore, cfr Mt 6,21); avanziamo per innamoramenti e per la gioia che accendono. I cercatori di Dio, contadini o mercanti, non hanno le soluzioni in tasca, le cercano. Aver fede è un verbo dinamico: bisogna sempre alzarsi, muoversi, cercare, proiettarsi, guardare oltre; lavorare il campo, viaggiare, scoprire sempre, interrogare sempre. In queste due parabole, tesoro, perla, valore, stupore, gioia sono nomi di Dio. Con la loro carica di affetto, con la travolgente energia, con il futuro che dischiudono. Si rivolgono alla mia fede e mi domandano: ma Dio per te è un tesoro o soltanto un dovere? È una perla o un obbligo? Mi sento contadino fortunato, mercante dalla buona sorte. E sono grato a Colui che mi ha fatto inciampare in un tesoro, in molte perle, lungo molte strade, in molti giorni: davvero incontrare Cristo è stato l’affare migliore della mia vita!




La mano di Dio semina il bene
P. Ermes Ronchi

La mano di Dio semina bontà, generosità e coraggio
padre Ermes Ronchi –  16a Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)  – Vangelo: Mt 13,24-43

C’è un campo nel cuore in cui intrecciano le loro radici, spesso inestricabili, il bene e il male: nessuno è solo zizzania, nessuno puro grano. La parabola racconta due modi di leggere e lavorare il cuore. Il primo è quello dei servi che fissano l’attenzione sulla zizzania: «Da dove viene? Vuoi che andiamo a raccoglierla?» Il secondo è quello del padrone del campo che ha invece gli occhi fissi al buon grano: «Non raccogliete la zizzania, per non sradicare anche il grano: una sola spiga conta più di tutta la zizzania».
Quale dei due sguardi è il nostro? Quello opaco e triste dei servi che vede il mondo e le persone invasi dal male, che giudica con durezza manichea? Quello positivo e solare del Signore che intuisce, dovunque, spighe, pane e mietiture fiduciose, e che ha messo la sua forza nella mitezza?
«Non strappate la zizzania». Noi abbiamo sempre una violenta fretta di moralizzare e mettere a posto. L’uomo infantile che è in noi grida: strappa via da te, e soprattutto intorno a te, ciò che è puerile, fragile, difettoso. Il signore del campo suggerisce: preoccupati del buon seme, ama i tuoi germi di vita, custodisci ogni germoglio. Tu non sei le tue debolezze, ma le tue maturazioni; l’uomo non coincide con i suoi peccati, ma con le potenzialità di bene.
Vero esame di coscienza è leggere la vita con quello sguardo divino che cerca non l’assenza di difetti, illusione inutile e spesso mortifera, ma la fecondità come etica della vita. Impariamo a vedere ciò che di vitale, di bello, di promettente Dio ha seminato in noi (non è orgoglio, ma responsabilità), facciamo sì che porti frutto, che ogni granellino di senapa cresca con il dono di attrarre e accogliere vite, che ogni pizzico di lievito abbia il tempo per sollevare e rialzare i giorni inerti.
Facciamo nostra l’attività positiva, solare, vitale del Creatore che per vincere le tenebre accende ogni giorno il suo mattino, per muovere la massa immobile vi nasconde il lievito. Preoccupiamoci non della zizzania, dei difetti, delle debolezze, ma di avere un amore grande, ideali forti, desideri positivi, una venerazione profonda per le forze di bontà, generosità e coraggio che la mano viva di Dio semina in noi. Facciamo che esse erompano in tutta la loro bellezza, in tutta la loro potenza, e vedremo le tenebre ritirarsi e la zizzania senza più terreno. E tutto il nostro essere maturare nel sole.




La paura di non portare frutti.
Don A.Fontana

La paura di non portare frutti. Don Augusto Fontana
 Mi ha sempre impressionato il fatto che delle ferventi comunità dei primi secoli, fondate da apostoli e martiri, resta solo la loro preistoria. Che cosa sarà delle nostre parrocchie fra qualche secolo? Le Chiese europee hanno perso un fervore neofita che ora pare diffuso su Chiese giovani del Sud del mondo. Resteremo reperti archeologici e territori da rievangelizzare? Gravi sono, oggi, anche le paure nel più vasto campo delle società. Il nostro grande albero sta producendo ancora frutta selvatica: il mercato marcia e il lavoro marcisce; le previdenze sociali vengono risicate; gli accordi di pace sono fragili come anche fragili sono gli accordi affettivi che producono relazioni disastrate; si imbarbariscono i rapporti tra istituzioni e, perchè no?, tra fedi religiose. La vita è un rischio continuo, da qualsiasi parte la si prenda.
Paolo scrive alla comunità di Filippi e la esorta a non lasciarsi prendere dal panico (“non affannatevi, ma in ogni necessità fate presente a Dio le vostre richieste perchè la pace di Dio vi custodirà in Cristo”), ma Matteo e Isaia sembrano non fare sconti (“Renderò la mia vigna un deserto arido…Vi toglierò il Regno di Dio e lo darò ad un popolo che lo farà fruttificare”). I cristiani di Filippi erano alle prese con problemi quotidiani di ostilità esterne e di conflitti e divergenze interne. Allora Paolo raccomanda di non lasciarsi affannare eccessivamente. Viene in mente la raccomandazione di Gesù riportata da Matteo 6, 23: non affannatevi per cibo, bevanda, vestito e futuro, ma occupatevi della vita e dell’oggi dentro la tenerezza di Dio.  Paolo augura una pace di Dio che non assomigli certo ad una polizza assicurativa contro infortuni e contraddizioni pastorali ed esistenziali, ma esclude panico e paralisi, comprendendo una resistenza attiva e fiduciosa. La resistenza attiva la si compie sulle barricate della vita quotidiana attivando in famiglia, sul lavoro, nei condomini e nella parrocchia il circolo virtuoso di tutto ciò che è “vero, nobile, giusto, puro, amabile, apprezzato, virtuoso, lodevole”. La resistenza fiduciosa la si sperimenta sulle barricate della preghiera di intercessione il cui paradigma è il Padre Nostro che resta l’intramontabile barriera contro la banalizzazione di Dio e dei nostri veri bisogni.
La Liturgia sostiene il motivo di questa fiducia riconoscente: siamo una vigna circondata dalle affettuose cure del contadino. Anche Geremia ed Ezechiele, oltre a Isaia, adottano l’allegoria della vigna e della sposa per descrivere come si crea, si strappa e si ricuce il tessuto dei rapporti affettivi tra Dio e comunità. Chi avesse modo di rileggersi Ezechiele dal capitolo 15 al 20 potrebbe essere preso da una santa paura per i rischi che incombono sulla comunità religiosa che si autoassolve, non si lascia provocare dai segni e dai profeti del suo tempo chiudendosi in un’autarchia pigra e supponente.
La prima vera paura che  dovremmo avere è di portare frutti selvatici deludendo le attese del Signore (Isaia 5: “Egli aspettava che la sua vigna producesse uva dolce ed invece ha prodotto uva selvatica e cioè aspettava giustizia e la vigna ha prodotto delitti; aspettava rettitudine ed ha prodotto grida di oppressi”). I due punti “caldi” del brano evangelico (Matteo 21, 33-43) da un lato mettono al centro il problema della Chiesa in relazione alla Sinagoga ebraica e all’affievolirsi della fedeltà nelle opere della fede (“Darà la vigna ad altri contadini che gli consegneranno i frutti a suo tempo…Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.”) e dall’altro, con la citazione del Salmo 118 (“La pietra che i costruttori hanno scartato diventerà la pietra insostituibile”)  si evidenzia il ruolo di Gesù crocifisso e risorto quale fondamento della Chiesa e rigido criterio per la sua attività. La parabola evangelica è il riepilogo della Storia Sacra fino all’ultimo atto della esclusione di Gesù. Esclusione non attribuibile ai soli giudei, ma possibile anche da parte di chi, come me, continua a declamarsi cristiano estromettendo cortesemente Gesù dai recinti della vita quotidiana. E’ la storia di uomini che, chiamati ad essere servi coltivatori del campo, se ne fanno proprietari rivendicandone i diritti come conseguenza del loro attivismo. Scoprire il dono, invece,  porta a ritenersi semplici custodi e non possessori. E’ la storia di chi ha paura del nuovo che sconvolge i piani: la polemica antigiudaica di Matteo non si rivolge solo all’immobilismo giudaico del suo tempo di fronte alla novità di Gesù, ma anche ai membri della sua comunità che pretendono di fissare l’azione di Dio nelle tradizioni del passato e in base ai criteri del loro vissuto. E’ la storia di chi preferisce palpare i frutti o consumarli nello spazio intra-ecclesiale anziché consegnarli e socializzarli mediante una partecipazione attiva, testimoniante e missionaria.
Il tema del giudizio non vuole perpetuare l’equivoco di un Dio-padre-padrone che dà e toglie, assume e licenzia, ma ha lo scopo di creare una biblica gelosia, un religioso timore, un risveglio della coscienza e della responsabilità senza spazi per il quietismo.  L’allegoria di Isaia e la Parabola di Matteo hanno dunque una doppia valenza. Sono una “buona notizia” : chiunque tu sia, dovunque tu sia, qualunque capacità tu abbia, in qualunque ora della tua vita tu puoi lavorare nella vigna del Regno e farla fruttificare per il Signore e per la comunità. Sono anche un “avvertimento”: chiunque tu sia, prete o laico, puoi rischiare di percuotere i servi di Dio, tagliar fuori suo Figlio e sciupare, nella insignificanza, la responsabilità che ti è data.
Padre giusto e misericordioso, che vegli incessantemente sulla tua Chiesa, non abbandonare la vigna che la tua destra ha piantato. Continua a coltivarla ed arricchirla di scelti germogli perchè innestata in Cristo, vera vite, porti frutti abbondanti di vita eterna.




Ogni giorno su di noi una pioggia di semi di Dio
P. Ermes Ronchi

Ogni giorno su di noi una pioggia di semi di Dio
padre Ermes Ronchi  (13-07-2014)

Egli parlò loro di molte cose con parabole. Magia delle parabole: un linguaggio che contiene di più di quel che dice. Un racconto minimo, che funziona come un carburante: lo leggi e accende idee, evoca immagini, suscita emozioni, avvia un viaggio. Gesù amava i campi di grano, le distese di spighe, di papaveri, di fiordalisi, osservava la vita e nascevano parabole. Oggi osserva un seminatore e nel suo gesto intuisce qualcosa di Dio.
Il seminatore uscì a seminare: la parabola non perde tempo in preamboli o analisi, racconta un fatto o una esperienza.
Il seminatore, non un; il Seminatore per eccellenza, Colui che con il seminare si identifica, perché non fa altro che questo: dare vita, fecondare. Seminatore: uno dei nomi più belli di Dio. E subito l’immagine d’un tempo antico ci riempie gli occhi della mente: un uomo con una sacca al collo che percorre un campo, con un gesto largo della mano, sapiente e solenne. Ma il quadro collima solo fin qui. Il seminatore della parabola è diverso, eccessivo, illogico: lancia manciate generose anche sulla strada e sui rovi. È uno che spera anche nei sassi, un prodigo inguaribile, imprudente e fiducioso. Un sognatore che vede vita e futuro ovunque. Una pioggia continua di semi di Dio cade tutti i giorni sopra di noi. Semi di Vangelo riempiono l’aria. Si staccano dalle pagine della Scrittura, dalle parole degli uomini, dalle loro azioni, da ogni incontro. Ma per quanto il seme sia buono, se non trova acqua, luce e protezione, la giovane vita che ne nasce morirà presto. Il Seminatore getta il seme, ma è il terreno che permette di crescere. Allora io voglio farmi terra buona, terra madre, culla accogliente per il piccolo germoglio. Come una madre, che sa quanto tenace e desideroso di vivere sia il seme che porta in grembo, ma anche quanto fragile, vulnerabile e bisognoso di cure, dipendente quasi in tutto da lei.
Essere madri della parola di Dio, madri di ogni parola d’amore. Accoglierle dentro sé con tenerezza, custodirle e difenderle con energia, allevarle con sapienza. Ognuno di noi è una zolla di terra, ognuno è anche un seminatore che cammina nel mondo gettando semi. Ogni parola, ogni gesto che si stacca da me, se ne va per il mondo e produrrà qualcosa. Che cosa vorrei produrre? Tristezza o germogli di sorrisi? Paura, scoraggiamento o forza di vivere?
Il cristiano è uno ben consapevole che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né quando. Ha però la sicurezza che non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola nel mondo come una forza di vita.




Lo stile di Gesù nella Chiesa
Giuliano Zanchi

Lo stile di Gesù e il ministero della Chiesa.
Giuliano Zanchi
2 giugno 2023/  settimana news

Giovedì 18 maggio, nella cattedrale di San Pietro a Bologna, don Giuliano Zanchi, teologo, docente all’Università Cattolica e direttore della Rivista del clero italiano, ha tenuto una meditazione per il clero della diocesi felsinea alla presenza dell’arcivescovo, il card. Matteo Maria Zuppi.

Ringrazio di questa occasione che mi viene offerta di condividere, in un contesto così solenne, qualche pensiero in una forma a metà strada fra la conferenza e la meditazione, nella quale voglio introdurmi con il tono della confidenza personale, sperando che non porti con sé apparenze narcisistiche.
Lo stile di Gesù
Quest’anno sono prete da 30 anni. Queste cifre tonde, che noi celebriamo con una solennità che personalmente mi imbarazza sempre, sono in fondo delle convenzioni. Noi umani cerchiamo di prendere sul tempo la vita fissando delle soglie. Una finzione commovente. In effetti queste soglie (e le cifre tonde in cui vengono poste) assumono la consistenza di un punto magnetico della coscienza, in cui viene istintivo fare bilanci, guardarsi indietro, guardarsi intorno, riprendere il filo di quello che si era, cercarsi in quello che si è diventati.
E il mio sentimento di oggi è che sono contento di essere prete (col permesso di non scomodare il termine «gioia» che non mi piace usare, perché mi sembra ormai carico di un felicismo artificiale e sentimentalistico in cui non mi riconosco). Sono contento di aver conferito alla mia vita questa forma. Sono contento di essere prete, soprattutto adesso, dopo tanti anni, e dopo i molti disincanti (alcuni anche profondi) che hanno accompagnato le mie molte ingenuità di partenza.
Devo dire che la convinzione si consolida col disincanto, perché si libera delle immaginazioni magiche di un ideale da realizzare con le proprie idee e secondo le proprie aspettative. Non significa non avere delle tensioni ideali o rinunciare allo slancio di uno stile. Significa trovare unità in qualcosa di meno volatile e più profondo (persino più gratificante) che, per me, consiste in questo: essere prete è stato il mio modo di diventare cristiano (e non il contrario). Sono grato al ministero perché sono sempre più contento di essere cristiano. In questo tempo, nel quale le visioni della vita e i modelli umani si affollano in un caleidoscopio non sempre discernibile, vedere la vita e interpretare l’esistenza nella forma cristiana legata alla straordinaria umanità teologale di Gesù mi sembra una fortuna, una soddisfazione, una grazia (anche culturalmente); che per me non significa indossare una divisa e tenere in mano una bandiera: ma poter contare su un riferimento solido che, prima ancora di rendermi eventualmente testimone, mi fa sentire graziato. Sentirsi graziati consente di essere testimoni in un certo modo: non insistente, non molesto, non arrogante, non militante.
Negli ultimi anni mi sento sempre più attratto da certe parole di Paolo che mi sembrano interpretare bene questo mio senso di gratitudine, e in particolare quella parola che si trova in Filippesi 2,5 che dice: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». È una frase che – come si sa – introduce uno di quegli inni che fondano da subito i tratti essenziali della fede cristologica, a vent’anni dai fatti e secoli prima dei concili dogmatici. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (si potrebbe aggiungere, gli stessi pensieri, gli stessi atteggiamenti, gli stessi slanci, lo stesso stile, insomma): invito che personalmente associo sempre con maggiore convinzione al senso più genuino che si può attribuire al termine «pastorale», inteso come esercizio sul campo del ministero della Chiesa e, quindi, anche dell’avventura sinodale con cui si cerca di rimettere a fuoco in modo condiviso le attuali condizioni di esercizio di un tale ministero. Avventura sinodale che resta un’operazione ingegneristica se non viene pensata alla luce dello stile di Gesù, ma che si rivela essenziale, doverosa e urgente, se invece la si considera su questo sfondo. Riappropriarsi dello stile di Gesù. Il quale camminava con la gente prima ancora che la grande Chiesa anatolica di stampo greco inventasse la parola «sinodo», che significa, come si continua a ripetere un po’ retoricamente, «camminare insieme». Perché la scena originaria della Rivelazione di Dio in Gesù ha proprio questa forma. Trent’anni di silenziosa abitazione nei fondamentali delle cose umane (la vita di Nazaret), e poi uno stare per strada immerso in una compagnia composita, che non è solo fatta di discepoli ma anche delle folle.
La grazia per gli sfiduciati.
Qui mi limito a raccogliere alcune suggestioni di Pierangelo Sequeri in merito alla questione (Iscrizione e rivelazione, Queriniana, 2022). Gesù, i discepoli, le folle. La rivelazione della grazia e la testimonianza della sua accessibilità si danno solo nella concomitante presenza di queste figure. Non si può fare un cristianesimo basato su un rapporto esclusivo fra Gesù e i discepoli, e quindi neanche la Chiesa, perché questo configura subito un elitarismo che restringe arbitrariamente le condizioni della grazia. Non si può nemmeno fare un cristianesimo in un rapporto esclusivo fra Gesù e le folle senza la giusta mediazione dei discepoli, perché crea subito le condizioni per una socializzazione superstiziosa del sacro (Gesù infatti, quando le folle cercano miracoli e non comprendono i segni, si sottrae dalla loro pressione). Tantomeno, si può fare un cristianesimo basato esclusivamente sul rapporto fra discepoli e folle, perché questo anima subito i principi attivi del «clericalismo» e predispone i caratteri di una religione civile. Il cristianesimo – quindi la Chiesa e il suo ministero – si fanno quando i discepoli comprendono le ragioni e le responsabilità del Regno imparando dal modo con cui Gesù incontra le folle, questa congerie di umanità varia ed eventuale nella quale c’è davvero di tutto, buoni e cattivi, giusti e peccatori, semplici e dotti, donne chiacchierate e amministratori corrotti, gli ingenui e gli scaltri, chi desidera Dio e chi cerca miracoli, un po’ di stranieri, molti marginali, qualche eretico, uomini di potere e uomini di intelletto, padri disperati e madri irriducibili. Questa platea appare così ampia e composita perché, nella scena originaria della rivelazione, la grazia di Dio è per le folle, non per i discepoli. L’annuncio del regno di Dio è per gli sfiduciati, per chi si è convinto di essere lontano da Dio, per quelli che si sentono squalificati dai tabù religiosi, quelli che sono prigionieri del male, per i vinti della storia, per quelli che la specializzazione religiosa dell’istituzione ha convinto di essere inadeguati. Insomma, una folla che gravita su un’orbita molto esterna, in cui si muove il «cittadino medio», insieme al marginale, a quelli dalla reputazione compromessa, dalla vita umiliata, dalla speranza vinta. Non è sempre gente candida. Hanno spesso una nascosta coscienza delle proprie responsabilità. Ma non trovano nella religione il luogo del loro riscatto. Salvo quando arriva Gesù e dice che la grazia di Dio è per loro.
Toccati dal Signore
Tra questi ci sono gli esempi più luminosi di chi riconosce Dio nel tocco di Gesù, senza bisogno di dire come Pietro «Tu sei il Cristo!», ma guadagnandosi la parola di Gesù che dice «la tua fede ti ha salvato!». Non devono dimostrare il pieno possesso di una ortodossia, vengono accolti per l’intensa immediatezza del loro affidamento, per confuso che sia. E la scuola a cui Gesù aggrega i discepoli non serve tanto per abilitarli a dire «Tu sei il Cristo!» (che in realtà nel momento di dirlo sono già nella situazione di equivocare e poi, come si sa, di tradire), quanto piuttosto per riconoscere quelle storie in cui poter dire insieme al Maestro «la tua fede ti ha salvato!».
Mi pare che questo Sinodo, in qualunque metodo lo si voglia condurre, non abbia comunque la finalità di serrare le fila dei discepoli, ma di rimettersi in cammino con le folle (semmai proprio questo cammino può portare a ricompattare la comunione). Passare con Gesù in mezzo alla vita e poter essere segno della grazia di Dio, non dei confini della religione, perché questa differenza le «folle» la capiscono al volo, la colgono per istinto, anche quella parte di folla che ancora abita la chiesa ma non sente più l’emozione di essere toccata dal Signore.
Il Sinodo scommette sull’idea che tutta questa gente, anche se non parla perfettamente la lingua della religione e dell’ortodossia, ha qualcosa di vitale da dire sulla qualità spirituale del nostro essere raccolti nella chiesa e mandati nel mondo. Il ministero della chiesa consiste nell’essere il luogo dove tutti possono sentirsi toccati dal Signore, non monitorati da una istituzione. E questo ministero, per molte ragioni storiche e culturali, ha pesato per secoli (almeno gli ultimi quattro o cinque) direttamente sul ruolo del prete, in modo pressoché esclusivo, con i limiti che conosciamo e che ora si stanno rivelando nei loro importanti effetti collaterali.  Ora nella chiesa torna l’idea che questo ministero appartiene alla chiesa nella sua interezza e nella sua integrità, e si sente il bisogno e il desiderio di declinarlo secondo responsabilità nuove e plurali, che onorino il sacerdozio battesimale di molti laici e di molte donne che già ora svolgono ministeri di fatto che edificano la chiesa. Stando attenti a non limitarsi a una mera estensione di ruolo da una categoria all’altra, perché potrebbe significare semplicemente socializzare dei limiti, più che generare opportunità nel ministero.
Un compito da onorare.
Al di là delle risposte concrete, sulle quali si discute e pure ci si divide, resta il tema di fondo di rendere la chiesa una casa e non una caserma, un luogo dove incontri il Signore e non dei burocrati del sacro. Il Sinodo, mi pare, sta recependo dallo scambio delle chiese e dal senso dei fedeli alcuni nuclei di conversione molto chiari e molto diretti, che possono essere sintetizzati in queste tre espressioni: parole vererelazioni rispettoseeconomie leggere
Parole vere non significa più aderenti all’ortodossia (come se blindare le formule potesse rendere un discorso più persuasivo), ma più autorevoli nella loro pretesa di illuminare la vita con la luce della rivelazione evangelica. Persino da dentro la chiesa si percepisce il tarlo dell’insignificanza che sta cogliendo la parola cristiana (che significa più ampiamente i suoi linguaggi, la sua cultura, il suo pensiero, le sue retoriche, le sue formule) e la trasforma in un gergo religioso che non sostiene più quelli dentro ed è alieno per quelli fuori.
Relazioni rispettose significa prendere sul serio la parola di Gesù che dice, nel suo nuovo comandamento, «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi, da questo riconosceranno che siete mei discepoli». Il tratto della fraternità è il vero differenziale della verità della testimonianza. Una chiesa in cui non ci si tratta bene mette in circolazione cattivi spiriti, che scorrazzano facendo danni per tutti. Le relazioni nella chiesa devono diventare più mature, inclusive e accoglienti. In modo concreto però, non solo ideale. Spiritualmente, non spiritualisticamente.
Economie leggere, significa una serie di questioni che sono sulla bocca di tutti, in questo tempo di dismissione materiale e di qualche disavventura morale. Nella redazione lucana degli insegnamenti di Gesù circa la missione ci sono già le ingiunzioni più essenziali. L’equipaggiamento del testimone deve essere leggero e l’accudimento che pure si merita, per il lavoro che fa, deve avere i suoi limiti (fatevi ospitare da qualcuno per il pranzo, ma non fate il giro delle case). Questo avvertimento è ora un pesante onere di attualità. Andrà onorato non solo per il sollievo di una organizzazione sostenibile dell’istituzione ma soprattutto per la tutela di una rettitudine che fa da sola tutta la reputazione di una testimonianza. Su questi temi la «conversazione spirituale» attivata nelle chiese sembra essere concorde, convergente, insistente e accorata.
Intercessori
Tutto questo va affrontato non per essere nuovamente dei conquistatori, ma per agire più intensamente come intercessori, come devono sempre essere dei ministri veri, specie in un contesto nel quale il desiderio di Dio è più un brusio di fondo che un linguaggio comune. Mi viene in mente, per sigillare questa meditazione con un’icona biblica, la scena di Esodo 32 nella quale Mosè discute con Dio delle sorti del popolo e dell’alleanza (Es 32,7-14). Si tratta di un dialogo che arriva dopo la proclamazione del decalogo in Esodo 20, che non sono solo i dieci comandamenti sintetizzati in frasi dal nostro catechismo, ma 22 lunghi capitoli in cui dalle parole fondamentali dell’alleanza discende anche tutta una costruzione etica e religiosa che nel testo viene fatta illustrare a Mosè direttamente da Dio, e che comprende anche tutto il sistema del culto, le feste, il santuario, la tenda, l’arca, i vestiti sacerdotali, la dimora, il candelabro, l’altare, l’investitura dei sacerdoti. Insomma, tutto l’armamentario «ecclesiastico» così solenne e che sembra così indispensabile. Ma al culmine di tutto questo il popolo ha voluto, col vitello d’oro, farsi una sua immagine di Dio. Allora Dio perde la pazienza, e parlando con Mosè gli propone di abbandonare a sé stesso questo popolo totalmente insensibile e ricominciare da solo con lui. «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione», dice Dio a Mosè. Non vi sembra descritto benissimo l’umore delle nostre ferite ecclesiastiche e le sue tentazioni più istintive, di abbandonare polemicamente il mondo a sé stesso? Ma Mosè non si lascia lusingare da questa prospettiva, in cui aleggia una forma di salvezza e di elezione indegna di un uomo (mi salvo io perdendo tutti). Allora discute con Dio. Tra le righe sembra dirgli che se abbandonerà questa gente nemmeno lui lo seguirà. Sarà anche gente ottusa, insensibile e malevola, ma una promessa è una promessa, e se Dio la abbandonerà, lui, Mosè, non lo seguirà.
Allora succede che Dio cambia idea, un po’ come quando una donna straniera, parlando di briciole e cagnolini, fa cambiare idea a Gesù. Ed è formidabile che nei nostri testi sacri ci sia il tema di Dio che cambia idea quando incontra delle ragioni umane. Il nostro mondo e la nostra epoca saranno anche «un popolo dalle labbra impure», ma sono pur sempre quell’umanità dalla quale non ci sentiamo di poterci separare e nella quale teniamo viva la brace delle promesse di Dio.
Ecco, il Sinodo deve svolgersi che sotto il segno di questo tratto intercessivo. Dovrà fare anche molte cose concrete. Ma potrà farle sinceramente solo se attraversato da questo sentimento.




C’è tanto da raccogliere
P. Ermes Ronchi

‘C’è tanto da raccogliere’, un messaggio controcorrente

padre Ermes Ronchi

XI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/06/2002)

Vangelo: Mt 9,36-10,8 

La messe è molta. Io invece credevo che i campi della vita fossero aridi e i tempi cattivi. Io avrei detto: c’è tanto da arare e da faticare; per raccogliere, alla fine, basta chiunque. C’è troppo sudore da mescolare alla semente, una rete da gettare per tutta la notte, e forse per non prendere nulla, come Pietro sul lago. Invece Gesù ci sorprende: il raccolto è abbondante. E ci fa capire che la campagna è sua, la semente la mette lui, il mondo lo fa crescere lui. C’è tanto da raccogliere perché il terreno è buono; la storia sale, positiva, verso un’estate profumata di frutti e non verso un deserto sanguinoso. Dall’alto Qualcuno guarda e vede che il mondo è ancora cosa buona, come  all’origine; ha fede ancora nella bontà dell’uomo, perfino nella mia. Ogni cuore è una zolla di terra seminata di germi divini: un mistero passa tra il cuore del singolo e Dio, sul quale io, raccoglitore e pastore, non intervengo, ma ammiro e ringrazio. Raccoglitori cerca il Signore, perché la fatica più grande l’ha già fatta qualcun altro, Colui che ancora esce a seminare su rovi e sassi, su strade e buon terreno, a piene mani, a pieno cuore.
Ma chi ammasserà i raccolti della pace, della giustizia, della fiducia, della gioia? Sono i discepoli che si convertono in apostoli. Anche tu sei chiamato ad aggiungere il tuo nome all’elenco dei dodici, ognuno è il tredicesimo apostolo, ognuno scrive il suo quinto vangelo, riceve la stessa missione dei dodici: annunciate che il regno di Dio è vicino. Dite: Dio è vicino; Dio è con voi, con amore. Sentilo tu quando, non sai perché, ti avvampa il cuore (Rilke). È Lui, il pastore buono che porta le tue insicurezze. Non esiste alcuna scuola che insegni a diventare apostoli, perché non sono le parole, per quanto belle, che contano, ma quanta convinzione, quanta passione e stupore contengono. Come farai a testimoniare che Dio è vicino, se tu per primo non lo senti? Dio non si dimostra, si mostra: con i gesti della pietà e della compassione: guarite, risuscitate, sanate, date… L’inviato è povero: un bastone per appoggiarvi la stanchezza, i sandali per andare e ancora andare. Non ha borsa né danaro, ma ha la pace che illumina gli occhi e la forza che regge le mani; ha delle ali d’aquila, dice la prima lettura; un supplemento d’ali, una strada verso il cielo, e una parola capace di rapire il cuore. Ognuno, come Cristo, è crocevia di finito e d’infinito, di piedi impolverati e di ali d’aquila. La duplice missione del discepolo è: esistere per Dio, per guarire la vita. O almeno per prenderci cura, se di guarire non siamo capaci, di greggi e di messi, di dolori e di ali, di un mondo barbaro e magnifico.




SINODO ITALIANO: verso la fase sapienziale
Erio Castellucci, Vescovo

Sinodo italiano: verso la fase sapienziale

http://www.settimananews.it/sinodo/sinodo-italiano-verso-la-fase-sapienziale/

di Erio Castellucci

 La 77ª Assemblea Generale della CEI, che si è svolta in Vaticano dal 22 al 25 maggio 2023, si è aperta e chiusa con due interventi di papa Francesco: il primo, riservato, con i vescovi e il secondo aperto anche ai referenti diocesani del Cammino sinodale, ai quali il papa ha affidato quattro consegne. Le varie sessioni, arricchite dal lavoro nei gruppi sinodali, hanno avuto come tema centrale: «In ascolto di ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Passi verso il discernimento». Pubblichiamo di seguito la relazione di mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena e Nonantola e vice presidente della CEI, che ha introdotto il lavoro dei gruppi sinodali del 23 maggio in avvio della fase sapienziale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia.

Può essere solo una parola di gratitudine ad avviare questa comunicazione introduttiva ai lavori che inaugurano la seconda tappa del Cammino sinodale (CS) delle Chiese in Italia, la fase sapienziale. Gratitudine al Signore, che ci sta guidando attraverso il suo Spirito; al Santo Padre, che continua ad accompagnarci con i suoi orientamenti; alle nostre Chiese particolari, coinvolte attivamente, pur con diverse velocità, nel percorso sinodale; grati all’intero popolo di Dio – laici, ministri, consacrati – che si è messo in ascolto della voce dello Spirito; grati in particolare a coloro che hanno assunto servizi di responsabilità in questo percorso: vescovi e presbiteri, referenti diocesani e regionali con le relative équipes, membri del Comitato nazionale, presenti a questa Assemblea. Quanto segue è frutto della semina, della cura e di un primo raccolto ad opera di molti «operai del Vangelo».
Riconsegnare al popolo di Dio.
è utile in premessa chiarire che le tre fasi del CS – narrativa, sapienziale e profetica (versione «biblica» del trinomio della JOC vedere-giudicare-agire) – non sono parallele, ma si intrecciano: già nel racconto c’è un primo discernimento e un appello; così come nel discernimento sapienziale c’è la ricchezza delle storie e la spinta alla profezia e nelle decisioni c’è il frutto delle esperienze e delle riflessioni.
Però ciascuna fase mette in primo piano una particolare dimensione: la fase narrativa privilegia l’ascolto, la fase sapienziale esplicita il discernimento e la fase profetica la progettualità. Il passaggio alla fase sapienziale chiede dunque di far tesoro di quanto emerso nei primi due anni e di approfondirlo, in prospettiva spirituale.
All’inizio del CS, accogliendo l’invito di papa Francesco e del Sinodo universale, ci siamo proposti di evitare un rischio: passare da una consultazione aperta a tutti, che ha coinvolto in Italia mezzo milione di persone, a un discernimento riservato agli «esperti» (teologi, pastoralisti, sociologi…), per affidare le decisioni finali ai soli pastori.
Questo rischio si può evitare riconsegnando anche la seconda fase a tutto il popolo di Dio, chiedendo a chi desidera partecipare di continuare ad offrire il suo contributo, in termini non più solo di narrazione, ma di discernimento. Prima però di entrare nel merito, va tentato un breve bilancio di questo primo biennio.
Un bilancio della fase narrativa.
Senza ripetere le informazioni già fornite nel maggio del 2022, durante i lavori della nostra Assemblea che impostarono il secondo anno della fase narrativa (poi diventati «I cantieri di Betania» nel luglio 2022), segnalo telegraficamente alcuni punti che sembrano acquisiti nel biennio che si sta chiudendo:
 I 400 referenti diocesani, con circa 200 équipes, costituiscono una ricchezza pastorale sorprendente: per la dedizione e costanza di questi collaboratori, per la profondità e serenità delle analisi e proposte. È una ricchezza da non disperdere e, che insieme al Comitato qui presente, costituisce una sorta di «consiglio pastorale delle Chiese in Italia», meritevole di tanta riconoscenza.
 L’avvio del CS in un tempo ancora fortemente segnato dalla pandemia e dalle restrizioni sanitarie ha frenato iniziative e celebrazioni; ma ha nel contempo attivato una creatività digitale capace di intercettare anche persone che «in presenza» non avrebbero probabilmente partecipato; questo coinvolgimento, per quanto ridotto, ha permesso di ascoltare anche le grandi domande di senso che la pandemia, come ogni crisi acuta, è stata in grado di sollevare.
 La richiesta di trasformare il metodo della conversazione spirituale in uno «stile permanente» è stata unanime; ridotto e adattato nei tempi, questo metodo potrebbe essere assunto nelle riunioni degli operatori pastorali: organismi di partecipazione, catechisti, animatori della liturgia, ministri, volontari, educatori delle associazioni ecc., avviando ogni incontro con l’ascolto della parola di Dio e una breve risonanza tra i partecipanti.
 L’icona di Marta e Maria è stata recepita, trovando accoglienza ampia e creativa nelle nostre comunità: dalle lettere pastorali dei vescovi ai notiziari e bollettini parrocchiali, dalle rappresentazioni artistiche ai social, dai richiami nei cantieri più svariati alle assemblee diocesane. Le due sorelle di Betania sono riuscite a comparire qua e là perfino in alcuni presepi…
 Nei cantieri secondo anno ha trovato conferma il «sogno di Chiesa» condiviso nei 50.000 gruppi sinodali del primo, e riassunto nel documento nazionale consegnato al Sinodo universale nell’agosto del 2022: una Chiesa, cioè, casa accogliente e aperta, che punta sulle relazioni più che sull’organizzazione, sui volti più che sui progetti; è il «sogno di Chiesa» che corrisponde alla Evangelii gaudium di papa Francesco: e non era scontato.
 L’esperienza dei «cantieri di Betania», ancora in corso – e che già registra più di un migliaio di esperienze diocesane – ha confermato la bellezza di una Chiesa che si apre, dialoga, si confronta, e cerca di «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza» (cf. 1Pt 3,15), innestandosi nei diversi percorsi umani, secondo l’incipit di Gaudium et Spes. Anche questo metodo laboratoriale è auspicato, da chi lo ha sperimentato, come «stile permanente» delle nostre comunità. I cantieri, specialmente quelli «del villaggio», saranno ripresi e valorizzati nella prossima Settimana sociale dei cattolici a Trieste, su democrazia e partecipazione, che, in continuità con quella del 2021 a Taranto su ambiente e lavoro, rappresenterà una tappa nazionale del CS.
 Si segnalano alcune difficoltà incontrate in questo biennio: un certo smarrimento iniziale a causa della partenza accelerata del CS, per la necessità di sintonizzarsi con il Sinodo universale; svariate difficoltà organizzative, anche per la novità del metodo della consultazione; molte resistenze, alcuni scetticismi, parecchie critiche, sia dai versanti iper-tradizionalisti, preoccupati per il rischio «democratico» della sinodalità, sia dai versanti iper-progressisti, che ritengono debole la spinta «profetica» del percorso italiano. Entrambi i versanti sembrano avere le idee molto chiare su come dovrebbe essere la Chiesa, e pertanto possono prescindere dalla consultazione del popolo di Dio. Tornerò su questi due versanti, perché comunque vanno ascoltati.
 Una parola merita lo scarso entusiasmo di non pochi presbiteri, spesso segnalato, a fronte del coinvolgimento di molti laici. Vorrei però esprimere, insieme alla gratitudine per i sacerdoti che invece operano nel CS, una parola di comprensione. Durante un’assemblea del clero della sua Diocesi, un parroco ha detto: «per ora preferisco stare a guardare, perché non vorrei illudere la mia comunità e poi lasciarla ancora una volta delusa». Si potrebbe rispondere a questo parroco che «stare a guardare» è una posizione comoda; però forse, nello spirito dell’ascolto, conviene lasciarsi «ferire» dalla sua osservazione e impegnarci per raggiungere quegli obiettivi per «una Chiesa diversa», dei quali poi lui stesso e la sua comunità potranno usufruire.
«Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese».
Il discernimento è un’operazione spirituale: perciò conviene, prima di passare ad alcune ipotesi «pratiche», accennare all’azione dello Spirito Santo. Il Concilio Vaticano II traccia già, in poche pregnanti parole, un programma utile anche per la fase sapienziale del CS: “È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta” (Gaudium et Spes, n. 44/2).
L’intero CS in corso è un’esperienza di ascolto di «ciò che lo Spirito dice alle Chiese»; l’esortazione con cui Giovanni conclude ciascuna delle lettere indirizzate alle guide («angeli») delle sette Chiese (cf. Ap 2-3), è un invito al discernimento spirituale, personale e comunitario. Le due dimensioni, benché distinte, non sono affatto separate: la voce dello Spirito infatti risuona nel cuore dei singoli battezzati e nella comunità cristiana, nell’umanità e nell’intero creato. è impossibile costringere l’azione dello Spirito dentro le maglie di qualsiasi griglia: lo Spirito del Dio creatore e del Signore risorto permea liberamente tutti e tutto; senza dunque alcuna pretesa di completezza, si può ricondurre questa azione a tre grandi «luoghi»: la persona del battezzato, la comunità cristiana, il mondo umano e cosmico.
Lo Spirito parla nel cuore di ciascun cristiano, che ne ha ricevuto il sigillo nel battesimo (cf. Ef 1,13); e ci investe integralmente: intelligenza, volontà, anima e corpo. Lo Spirito investe l’intelligenza, come evidenzia in particolare il Quarto Vangelo, facendo memoria delle parole di Gesù (cf. Gv 14,26), dando testimonianza di lui (cf. Gv 15,26) e guidandoci alla verità, senza aggiungere parole proprie, ma annunciando ciò che Gesù ha rivelato (cf. Gv 16,13-14); così chiunque dice «Gesù è il Signore» è sotto l’azione dello Spirito Santo (cf. 1Cor 12,3).
Lo Spirito investe poi la volontà, dandole la forza di produrre «il frutto», cioè l’agape, che si irradia in atteggiamenti di gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (cf. Gal 5,22). Lo Spirito investe la nostra anima, intercedendo per noi, che non sappiamo come pregare in modo conveniente (cf. Rom 8,26).
Lo Spirito investe affetti e legami di ciascuno, cioè il corpo che, rivestitosi nel battesimo del mistero pasquale del Signore (cf. Rom 6,3-6), è «tempio dello Spirito Santo», come dice San Paolo ai Corinti (1Cor 6,19) non senza audacia, visto che sta parlando a dei greci. Non c’è nessun ambito della nostra vita ed esperienza personale che non sia investito dallo Spirito.
Comunità coesa ed estroversa.
Il fatto che in ciascun battezzato operi lo Spirito, non con emozioni gratificanti individuali, ma in modo da aprirlo alle relazioni, fonda la coesione della comunità cristiana. I battezzati sono membra dell’unico corpo di Cristo, con doni o «carismi» differenti, opera dell’unico Spirito (cf. 1Cor 12,4-11): «infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1Cor 12,13).
La comunità cristiana è l’insieme dei fratelli e delle sorelle «accorpati» – non semplicemente uniti – in Cristo mediante lo Spirito; in questo modo possono operare, mantenendo la loro diversità, per l’edificazione della Chiesa, che è il criterio essenziale indicato da San Paolo (cf. 1Cor 14) per il discernimento dei carismi.
La comunità stessa è estroversa, inviata dal Risorto alle genti: «riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). L’energia della testimonianza/martyria non proviene dall’intimo dei discepoli, nemmeno di quelli più dotati e coerenti, ma dallo Spirito del Risorto: dalla Pentecoste in poi, è questa l’esperienza della Chiesa. Gli Atti degli Apostoli, definiti da papa Francesco il «manuale di ecclesiologia» per eccellenza (cf. Discorso ai fedeli di Roma, 18 settembre 2021), sono il testo paradigmatico dell’opera dello Spirito nella Chiesa.
Ma proprio gli Atti registrano l’azione dello Spirito anche fuori dei confini visibili della Chiesa: lo Spirito guida Pietro all’incontro con Cornelio (cf. At 10,20), dopo il quale l’Apostolo riscontra che «Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10,34-35); e subito dopo «i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo» (At 10,45; cf. anche 11,15), i quali parlavano altre lingue e glorificavano Dio (cf. At 11,46) ma l’Apostolo conclude: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?» (At 10,47).
Lo Spirito si conferma libero: normalmente scende nel battesimo, ma a volte viene conferito dopo il battesimo, con l’imposizione delle mani degli apostoli (cf. At 8,15-17; cf. anche 19,2-7, dove si esplicita che si trattava del «battesimo di Giovanni») e altre volte, come in questo caso, scende prima del battesimo e induce gli apostoli a sancire la sua presenza con il rito. Lo Spirito, in altre parole, soffia davvero dove vuole e sembra quasi che a volte la Chiesa lo debba inseguire. Nella riunione di Gerusalemme, ricordata spesso come il primo Sinodo della Chiesa, è decisiva questa constatazione di Pietro circa i pagani: «Dio, che conosce i cuori, ha dato testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede» (At 15,8-9). Il discernimento che porterà alla decisione concorde, da parte dello Spirito Santo e degli apostoli (cf. At 15,28), di superare la circoncisione – il che rappresentò un salto di qualità nell’auto-comprensione della prima Chiesa nei riguardi di Israele – non è frutto di un ragionamento a tavolino sull’azione dello Spirito, e nemmeno di deduzioni teologiche, ma è la presa d’atto di un fatto: i pagani manifestano, con il loro comportamento, di avere ricevuto lo Spirito: quindi la proposta di appartenere alla comunità dei discepoli del Messia non può essere ristretta ai soli ebrei.
Libertà e universalità
I segni della discesa dello Spirito sui pagani risultano così di due tipi: da una parte il timore di Dio e la pratica della giustizia e dall’altra la manifestazione di carismi e la glorificazione di Dio. Questi sono i «fatti» di cui la Chiesa prende atto e che cerca poi di comprendere alla luce delle Scritture: «la realtà è più importante dell’idea» (cf. Evangelii gaudium, n. 231-233).
L’azione universale dello Spirito è stata richiamata più volte dal Concilio Vaticano II e dai pontefici successivi. Basteranno due citazioni: Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza. E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale (Gaudium et Spes, 22/1-2). Lo Spirito si manifesta in maniera particolare nella chiesa e nei suoi membri; tuttavia, la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo (..).Lo Spirito, dunque. è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo. la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti. ma dalla struttura stessa del suo essere. La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui. ma la società e la storia, i popoli, le culture. le religioni. Lo Spirito. infatti, sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris Missio, 28).
L’orizzonte ampio delineato da Giovanni Paolo II, che non si limita a rilevare l’azione dello Spirito nei singoli individui, ma la estende ai popoli, alle culture e alle religioni, suggerisce di collegarla con i «segni dei tempi» di cui ha parlato Giovanni XXIII a partire dalla bolla di indizione del Vaticano II (cf. Humanae Salutis, n. 4) e, sulle sue tracce, la Gaudium et Spes (cf. nn. 4 e 11). Un’azione così ampia nel grandioso affresco cosmico paolino si estende all’intera creazione in Rm 8 – capitolo ad alta concentrazione pneumatica, in cui lo Spirito è citato venti volte – dove si legge che la creazione partecipa della caducità, dei gemiti, ma anche delle speranze di redenzione degli uomini, che hanno ricevuto la primizia dello Spirito (cf. Rm 8,18-23); e sembra quasi che Paolo riecheggi lo spirito aleggiante sulle acque (cf. Gen 1,2) e il soffio vitale su Adamo (cf. Gen 2,7) che segna l’atto creatore di Dio. Umanità e cosmo, lo sappiamo bene, sono intimamente connessi nell’antropologia biblica: ed è l’unico Spirito che li pervade.
Il «senso di fede del popolo di Dio».
In tanti modi dunque lo Spirito parla alle Chiese: non solo da dentro le Chiese, ma anche da fuori. Come attivare le orecchie, qual è l’antenna per decodificare questa voce? L’antenna esiste, e prende il nome di «senso di fede/dei fedeli»; oltretutto è continuamente attiva; si tratta di metterne a punto le frequenze nel modo migliore possibile, per un discernimento adeguato. La dottrina del sensus fidei è stata precisata in questi termini dal Concilio Vaticano II, in quello che si può indicare come il testo più citato da papa Francesco: Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e con l’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cf. Eb 13,15). La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, (cf. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cf. 1Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cf. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita (Lumen Gentium, n. 12).
Così commenta papa Francesco: In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare. Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede. Lo Spirito lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza (cf. LG 12) Come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione (Evangelii Gaudium, n. 119).
Dal Sensus fidei al Consensus fidelium
La Commissione Teologica Internazionale ha dedicato nel 2014 un documento al «Sensus fidei nella vita della Chiesa», che è utilissimo per il discernimento. Esiste prima di tutto un sensus fidei fidelis, che papa Francesco chiama anche «fiuto» e per descriverne l’azione usa il verbo «annusare»: una facoltà attivata dall’unzione dello Spirito, la cui efficacia non è però automatica, ma è consegnata alla libertà del cristiano ed è quindi proporzionale all’effettiva profondità dell’esperienza credente: alla fede, speranza e carità vissute.
Questo rende relativo un approccio puramente «parlamentare», come direbbe il papa, ossia l’idea che a ciascuno corrisponda «un voto»; ma nello stesso tempo permette – e ci ha permesso – di aprirsi davvero a tutti, perché il «senso di fede» del battezzato non costituisce solamente la premessa perché offra il proprio contributo al CS, ma si educa e si attiva anche attraverso la stessa esperienza sinodale.
Si può dire dunque che questo primo biennio ha espresso ma anche favorito il senso della fede di ogni battezzato. Per analogia, poi, se è vero che lo Spirito agisce anche al di fuori dei confini ecclesiali, attraverso le virtù cardinali e teologali, è stato ed è importante coinvolgere anche coloro non sono battezzati: e non tanto per motivi di correttezza politica, quanto per l’apporto “spirituale” che possono offrire anche coloro che fanno del bene ai fratelli senza sapere che così lo hanno fatto a Cristo (cf. Mt 25,31-46).
Il sensus fidei fidelis, quando si esprime nel contesto delle relazioni comunitarie e si raffina nella conversazione, nella preghiera e nell’azione, diventa sensus fidei fidelium. Sappiamo bene che la Chiesa non è la semplice somma dei singoli battezzati, ma è «il corpo di Cristo», nel quale i singoli, in quanto membra, vengono appunto «incorporati». Nessun singolo può rivendicare il proprio «fiuto» come un sesto senso infallibile – se escludiamo il vicario di Pietro, a certe precise condizioni – ma tutti insieme, nella fatica del «discernimento comunitario», possiamo intercettare e seguire il cammino che lo Spirito suggerisce alle Chiese.
La fase sapienziale mette in primo piano proprio questa dimensione comunitaria del sensus fidei, cercando di creare occasioni – benché non sia elegante l’espressione – per annusarci a vicenda e annusare i «segni dei tempi», cioè l’umanità di oggi, il mondo e la storia, con le loro sfide e opportunità. Il documento finale del Convegno di Palermo (1996) dedica alcuni paragrafi al discernimento comunitario, che varrà la pena di riprendere in mano.
Si deve poi arrivare, passo dopo passo, al consensus fidei fidelium, che sarà più esplicito nella fase profetica, ma che accompagna l’intero CS. La ricerca del consenso di fede si avvale di tutti gli strumenti metodologici ecclesiali per raggiungere delle convergenze, senza però appiattire tutte le opinioni, ma passando attraverso il dibattito.
Non si potrà dunque in futuro trascurare il voto, del resto già praticato in vari contesti ecclesiali consultivi o deliberativi, ma sempre tenendo presente la natura della Chiesa, che non corrisponde ad alcuna forma di governo degli Stati, pur presentando analogie sia con la democrazia che con la monarchia.
Il Sinodo universale potrà darci delle luci anche su queste dinamiche, a partire dalla prima convocazione a Roma nell’ottobre prossimo. Avremo quindi modo di confrontarci a suo tempo e mettere a punto una metodologia per arrivare alla formazione del consenso dei fedeli.
Dove siamo (punti di partenza).
Il biennio narrativo ha registrato alcune convergenze circa la situazione ecclesiale in Italia. Le raccolgo attorno a due poli, la partenza (dove siamo) e l’obiettivo (dove vorremmo arrivare).
La citatissima sentenza pronunciata da papa Francesco al Convegno di Firenze e da lui poi ripresa in seguito – «non ci troviamo solo in un’epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca» – è ormai convinzione comune, sulla quale non è necessario tornare. Esiste ora anche in Italia la consapevolezza che «la cristianità è finita» (cf. Discorso alla Curia romana, 20 dicembre 2019). Non esiste più quella (vera o presunta) saldatura tra valori derivanti dal Vangelo e valori condivisi nella società che caratterizzava la societas christiana. Da questa consapevolezza possono tuttavia scaturire progetti molto differenti tra loro: c’è chi esulta, indicando la diaspora come forma cristiana ideale, senza rivendicare alcuna rilevanza sociale e politica; c’è chi si ripiega nella nostalgia, reagendo in modo rassegnato e remissivo, oppure al contrario in modo polemico e combattivo, condannando in blocco il mondo.
Il biennio narrativo del CS ha fatto emergere in realtà un progetto diverso da questi; un progetto variegato, sì, ma propositivo e creativo. Le persone che hanno preso parte al percorso sinodale non soffrono di eccessive nostalgie per la cristianità e nemmeno di grandi entusiasmi per la post-cristianità, ma tengono i piedi per terra. Anziché scoraggiarsi o esaltarsi, molti cristiani comprendono che occorre capire bene «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» oggi, nella persuasione che lo Spirito non va in pensione, opera in qualsiasi condizione, anche in quelle apparentemente meno favorevoli.
Non manca, nelle relazioni diocesane, chi nota come il sommarsi delle crisi attuali, sia quelle planetarie – come la pandemia, l’inquinamento e la guerra – sia quelle ecclesiali – dovute anche agli scandali legati agli abusi, agli arrivismi e alla cattiva gestione dei beni – insieme a tante sofferenze e disagi, apra anche nuove opportunità per i credenti: un atteggiamento più umile come chiede il papa, più propenso a camminare insieme e ad ascoltare, più orientato a recuperare il nucleo kerygmatico ed essenziale della fede.
Dove vorremmo arrivare (obiettivi).
Si registra il desiderio di elaborare modi nuovi di presenza e di testimonianza, facendo leva sulle innumerevoli esperienze belle e positive – raramente comunicate dai mass media – e sulla «santità della porta accanto» profondamente radicata nelle nostre Chiese. Anche persone talvolta pastoralmente catalogate come «lontane» o «distratte», di fronte allo svelarsi delle domande profonde della vita, suscitate spesso da esperienze forti negative o positive, esprimono quel «frutto dello Spirito» presente dovunque. Non siamo, dunque, in un deserto: il cammino delle Chiese in Italia dopo il Concilio Vaticano II si è già posto con decisione sulle strade della riforma, che non sarà mai compiuta se non nel regno di Dio, ma che deve essere costantemente perseguita in questa Ecclesia semper purificanda (LG 8). Ci sono tanti germogli, moltissime spighe da coltivare; non vediamo più o ancora le messi, ma sappiamo che lo Spirito continua a lavorare in profondità. Per usare una formula emersa in una riunione del Consiglio permanente, che esprime il sentire di molti fedeli: non servono né comunità remissive né comunità aggressive, ma comunità creative e generative.
Ci siamo così già affacciati sul tema degli obiettivi. Dove vogliamo arrivare? Il biennio narrativo, sia nei gruppi sinodali che nei cantieri, ha ravvivato il «sogno di Chiesa» corrispondente, come accennato, alla Evangelii Gaudium. Certo, non sono mancate le voci dissonanti – ed è normale in un organismo vivo come la Chiesa – dai due fronti già ricordati, iper-tradizionalista e iper-progressista, con tutte le sfumature intermedie. Ma in definitiva il primo biennio sinodale scrive quasi una Evangelii Gaudium adattata alle Chiese in Italia, sulle tracce del discorso del papa al Convegno di Firenze del 2015.
Il lavorìo dei «cantieri di Betania» ha confermato, arricchito e rilanciato le mete sognate nel primo anno dai gruppi sinodali: una Chiesa che ascolta, che accoglie, che mette al centro le relazioni come in una casa, che celebra in modo coinvolgente, che sa condividere e dialogare, che è prossima ai passaggi di vita: in una parola, una Chiesa più snella, evangelica, libera.
Un discernimento comunitario «operativo».
Ora si apre la questione decisiva nella fase che inizia: come collegare la partenza e la meta, quali ponti costruire perché il sogno di Chiesa non rimanga un sogno? Qui si gioca l’esito del nostro CS.
Su questo punto va orientato il discernimento comunitario, che immaginiamo come discernimento operativo, teso cioè a individuare le condizioni di possibilità per camminare verso la Chiesa sognata. Sarebbe inutile e frustrante continuare a ripeterci che la realtà non è più quella di prima e che perciò dobbiamo realizzare una Chiesa diversa e più evangelica, se ora non focalizzassimo i passi da compiere, i ponti da costruire con pazienza ma con decisione.
In questa linea, il Consiglio permanente della CEI e il Comitato del CS si sono orientati a proporre a questa Assemblea alcune tracce che, opportunamente elaborate, costituiscono la base per le Linee guida che le nostre Chiese locali riceveranno all’inizio di luglio. Queste tracce, sulle quali lavoreremo a partire dal pomeriggio di oggi, raccolgono attorno a cinque macro-temi o «costellazioni», gli snodi fondamentali emersi nel biennio. I macro-temi, suddivisi poi in sotto-temi per favorire i lavori nei gruppi, sono: 1) la missione secondo lo stile di prossimità; 2) i linguaggi, la cultura, la proposta cristiana; 3) la formazione alla fede e alla vita; 4) la corresponsabilità; 5) le strutture. Qualche parole su ciascuno di questi cinque macro-temi.
Missione nello stile della prossimità.
È importante cominciare non dai problemi interni, ma dall’orizzonte missionario: tenerlo sempre vivo, come ha detto anche ieri il cardinale presidente, significa evitare il ripiegamento e la chiusura. La Chiesa esiste per l’annuncio e non per se stessa: la ricerca di una comunione interna senza l’orizzonte missionario rischia di trasformarsi in un esercizio cosmetico, di semplice suddivisione di spazi, ruoli e competenze. Questa prima costellazione va in diverse direzioni, ciascuna delle quali sarà oggetto di un gruppo sinodale: l’impegno sociale e politico, l’accoglienza delle diversità, l’ospitalità specialmente verso gli ultimi.
Perché missione «nello stile della prossimità»? Perché è uno stile che non tende a contrapporsi ai diversi mondi ma a far lievitare dal loro interno i germogli evangelici che già vi si trovano. Le immagini missionarie consegnate da Gesù ai discepoli non sono quelle dell’esercito schierato o del castello fortificato, ma quelle del sale e della luce, a servizio di un regno che cresce come il seme e come il lievito. Sembrano immagini deboli, ma sono molto forti, perché la vera forza evangelica è la mitezza unita alla perseveranza.
L’esperienza dei «cantieri di Betania», specialmente quelli «del villaggio», ha dimostrato su tanti ambiti come sia possibile trovare dei punti di contatto e come vi siano aperture impensabili all’annuncio della Chiesa. L’impressione generale di questo biennio, per dirla con metafore un po’ alla moda, è che i mondi non siano impermeabili al Vangelo, ma siano «porosi»: c’è un’attesa a cui si può rispondere efficacemente non con lo scontro di idee ma con l’incontro di persone.
I linguaggi, la cultura, la proposta cristiana.
Restando nell’orizzonte della missione, occorre affrontare sapientemente il complesso tema del linguaggio, sia in chiave liturgica e omiletica, sia in chiave culturale e mass-mediatica. Sappiamo di avere in dono un tesoro inestimabile – la rivelazione cristiana – che può fecondare e arricchire il mondo, che può dare significato alle domande più profonde sepolte nei cuori umani, che può rendere più bella la vita… ma spesso non riusciamo a comunicare, a farci capire, a destare interesse.
Non si tratta solo di ritoccare l’annuncio, la celebrazione e la teologia; si tratta di ripensare con un certo coraggio anche il modo e lo stile della comunicazione. Papa Francesco nella Evangelii Gaudium ha dedicato molta attenzione all’omelia e alla catechesi. E sappiamo poi quanto oggi i media, specialmente i social, richiedano linguaggi specifici e siano capaci di influenzare l’opinione pubblica.
Circa la cultura: sapremo rilanciare un progetto culturale con uno stile e un linguaggio nuovi, che facciano «parlare» le tantissime esperienze buone – così è stato lo stile del Convegno di Firenze e della Settimana di Taranto – e che le rendano non semplicemente interventi di «pronto soccorso» o testimonianze edificanti, ma che, opportunamente pensate ed elaborate, le rendano culturalmente significative?
Quando papa Francesco ricorda che «la realtà è più importante dell’idea» (Evangelii Gaudium, nn. 231-233), indica anche una strada adatta per fare cultura oggi: la Chiesa non deve affatto rinunciare alla cultura, ma quella che può interessare e fare breccia oggi sembra richiedere la fatica di «pensare» le esperienze e «renderne ragione» in maniera sistematica, alla luce della rivelazione cristiana.
La formazione alla fede e alla vita.
È convinzione diffusa, rispecchiata in tutte le sintesi sinodali diocesane, che la formazione a tutti i livelli richieda una riformulazione adeguata al cambiamento d’epoca. Si pensa ai cammini di preparazione ai ministeri ordinati – diaconato e presbiterato – e istituiti; ma si pensa anche alla formazione degli adulti e all’iniziazione cristiana, che domanda davvero – come ribadisce Evangelii Gaudium – una impostazione kerygmatica e mistagogica.
Kerygmatica, cioè ricentrata sull’annuncio di Cristo morto e risorto, presentando i contenuti della fede secondo la logica conciliare della «gerarchia delle verità»: in questa direzione vanno le numerose proposte di ripresa della lectio divina, di formazione di gruppi biblici nelle case ecc.
Mistagogica, cioè capace di integrare la preparazione ai sacramenti con la catechesi a partire dal mistero celebrato, in modo che il sacramento diventi davvero tappa e non traguardo.
Non è impossibile: tante esperienze nelle nostre diocesi, compresi non pochi «cantieri», dimostrano che è possibile superare una metodologia troppo dottrinale e scolastica, per iniziare alla fede secondo il metodo catecumenale: si tratta di proporre esperienze integrali di ingresso nella comunità, attraverso l’annuncio e la celebrazione, il servizio e la creatività (ad es. musica, canto, teatro, arte in tutte le sue forme: via pulchritudinis), l’incontro con i testimoni e il gioco come esperienze di gratuità.
Infine l’accompagnamento spirituale, di singoli e coppie – e non solo ad opera dei ministri ordinati o dei consacrati – viene indicata come strada maestra per la personalizzazione della fede, nello stile dell’incontro e della relazione «a tu per tu», veicoli privilegiati per l’annuncio.
La corresponsabilità
Non solo i laici, ma anche molti presbiteri e vescovi segnalano la necessità di una reale corresponsabilità nella pastorale comunitaria; corresponsabilità non solo affettiva, ma anche effettiva. L’immaginario comune è quello di preti e vescovi che stanno aggrappati al loro potere e non vogliono condividerlo. Senza negare che accada anche questo, la realtà è però molto diversa: preti e vescovi sono i primi a chiedere di condividere effettivamente le responsabilità.
Prendiamo un esempio a caso, i vescovi. Una lettura, lo ammetto, un po’ rapida e maliziosa del Codice di Diritto Canonico, può rilevare almeno sei analogie tra i compiti attribuiti al vescovo e altrettanti compiti civili: il vescovo è un po’ sindaco, presiedendo l’amministrazione della diocesi; un po’ prefetto, poiché rappresenta il «governo centrale», la Chiesa universale; è magistrato inquirente (vedi le norme sempre più rigide a riguardo degli abusi) e può essere presidente del tribunale (solo nel caso del vescovo non esiste incompatibilità fra questi due incarichi); è presidente di fondazioni e istituti (Opere Pie, Istituto Diocesano Sostentamento Clero); e poi assume le funzioni di capo del personale, poiché l’assegnazione delle parrocchie è di fatto movimento di personale e la Curia ha una configurazione aziendale; è anche in un certo senso provveditore agli studi, data la rete delle scuole cattoliche e il sistema attuale degli incarichi agli insegnanti di religione in Italia.
E i parroci, su scala minore, si trovano tante volte sommersi da incombenze simili. Qualcosa non funziona; non bastano «collaboratori», occorrono «corresponsabili», uomini e donne. L’esperienza di compartecipazione ai laici del munus regendi, che andrà naturalmente studiata bene, sussidiata e normata anche nel diritto canonico, potrà aprire degli spazi nuovi anche alle donne: pochissimi gruppi sinodali in Italia hanno rivendicato il sacerdozio femminile, tema divisivo ed eccedente rispetto alle competenze della CEI, ma tutti hanno chiesto che la presenza delle donne, preziosissima e maggioritaria nelle nostre Chiese, possa trovare espressione anche nella corresponsabilità pastorale.
Gli organismi di partecipazione poi dovranno essere rilanciati con una migliore articolazione tra ruoli consultivi e ruoli deliberativi: anche su questi aspetti ci aiuterà il Sinodo universale.
Le strutture.
Basteranno qui poche parole, perché tutti abbiamo ben presente quanto le strutture, che di per sé sono strumenti preziosi a servizio dell’annuncio e di tutta la pastorale, troppe volte sono pesanti, costose, sproporzionate. Abbiamo le strutture della cristianità e spesso non abbiamo più la possibilità di valorizzarle e nemmeno di gestirle. I gruppi sinodali che si impegneranno su questo macro-tema rifletteranno sulle strutture materiali, amministrative, pastorali e spirituali, per riflettere su come possano diventare più snelle, sfrondare gli inutili appesantimenti e recuperare il loro compito di strumenti della missione.
Come si deduce da queste parole introduttive ai cinque macro-temi − e sarà più chiaro nei gruppi − non si è scelto di operare un discernimento operativo comunitario sull’uno o l’altro ambito della pastorale, ma – ripeto – sulle condizioni di possibilità per una «Chiesa diversa». Si tratta cioè di snellire o sbloccare alcuni meccanismi, ora ritenuti troppo pesanti e fermi, che possono favorire una Chiesa più sinodale; senza questa operazione di snellimento, diventa difficile affrontare in chiave missionaria qualsiasi azione pastorale: che siano i giovani o le donne, i poveri o la cultura, la catechesi o la liturgia. Sarebbe come chiedere ad una persona di correre la maratona tirandosi dietro una carovana anziché uno zaino. La fase sapienziale ha il compito di individuare che cosa deve essere sbloccato e snellito, preparando così le proposte da sottoporre al consenso dei fedeli.
Tre domande per il lavoro.
Ciò significa – anche se è un po’ scomodo – che il discernimento non è su «che cosa deve cambiare il mondo per avvicinarsi alla Chiesa», ma «che cosa dobbiamo cambiare come Chiesa per incontrare il mondo». Non si tratta di formulare giudizi su ciò che gli altri devono cambiare, ma su ciò che noi cristiani dobbiamo rivedere.
Le tre domande che troverete come spunti in ciascuno dei gruppi servono a questo:
Quali esperienze sinodali, su questo tema, nel corso del biennio narrativo sono risultate praticabili e promettenti nelle nostre diocesi, così da potersi tradurre in pratiche diffuse?
Quali approfondimenti (teologici, pastorali, culturali, sociologici, giuridici e canonici, ecc.) sono necessari per portare questo tema verso la fase decisionale?
Quale contributo concreto può offrire su questo tema il livello nazionale (CEI e Comitato sinodale)?
In base al risultato del lavoro nei gruppi, oggi come Assemblea e Comitato e domani e venerdì come Comitato e referenti, si potranno assegnare le diverse proposte operative a differenti livelli ecclesiali: alcune avranno una dimensione diocesana, altre nazionale e altre ancora universale. Di qui si decideranno anche le Assemblee sinodali della fase profetica, che a partire dall’autunno 2024, potranno anche essere più d’una (si vedrà in base agli argomenti emersi e alle loro priorità), per decidere in maniera ordinata e logica su tutti gli argomenti che saranno posti. In sintesi quindi il cronoprogramma proposto è questo:
– da oggi a venerdì mattina: l’Assemblea CEI, insieme al Comitato del CS e – da domani – ai referenti diocesani, avviano la fase sapienziale riflettendo sui cinque macrotemi, divisi in 38 gruppi sinodali;
– il materiale di queste tre giornate verrà raccolto e studiato dal Comitato del CS, che elaborerà la bozza delle Linee-Guida per la fase sapienziale, in cui confluiranno anche le sintesi diocesane dei “cantieri” che arriveranno entro il 15 giugno;
– la bozza delle Linee-guida sarà esaminata, discussa, integrata e approvata l’8 luglio prossimo, nella riunione online del Consiglio permanente della CEI, che la consegnerà nei giorni successivi alle Chiese locali;
– ciascuna Chiesa locale, in base alla propria lettura della realtà, sceglierà i temi sui quali operare il discernimento comunitario, formulando le proposte operative, che consegnerà al Consiglio permanente della CEI e al Comitato del CS entro la fine di aprile del 2024;
– la prossima Assemblea ordinaria della CEI, a maggio 2024, aprirà l’ultima fase, quella profetica, impostando le successive assemblee sinodali nazionali che si apriranno nell’autunno 2024, con il compito di deliberare sulla base del consensus fidelium.
Eucaristia e Sinodo.
In conclusione, ma poteva essere anche l’introduzione, ricordo l’icona scelta per la fase sapienziale: l’incontro dei due discepoli di Emmaus con il Risorto. Una delle tappe sinodali nazionali, il Congresso eucaristico di Matera dello scorso settembre, ha messo in luce l’intima relazione tra Eucaristia e Cammino sinodale.
Non c’è solo un’analogia a unire le due celebrazioni – sia l’Eucaristia che il Sinodo si «celebrano» – ma è una co-implicazione tale, che si potrebbe definire la Sinassi eucaristica un «Sinodo concentrato» e il Cammino sinodale una «Eucaristia dilatata».
Questa intima relazione, sulla quale i nostri fratelli cristiani d’Oriente ci sono maestri, ci orienta a trovare le parole giuste: non tanto «democrazia» quanto «partecipazione», non tanto «gruppo» quanto «assemblea», non tanto «ruoli» quanto «doni e carismi», non tanto «esercizio di potestà» quanto «servizio di presidenza».
Nella celebrazione eucaristica, come nel cammino sinodale, il popolo di Dio si pone nell’atteggiamento di recezione di un dono, di una grazia, di una parola divina, prima e più che di uno scambio orizzontale di doni e di parole umane.
Per questo viene proposta l’icona di Emmaus (cf. Lc 24,13-35), alla quale auguriamo la stessa accoglienza di quella di Betania. È lì, in quell’incontro della sera di Pasqua, il senso della fase sapienziale; sono lì i criteri fondamentali per il discernimento operativo. Luca, in questa pagina, rilegge l’esperienza pasquale alla luce dell’esperienza eucaristica, ormai cinquantennale quando lui scrive il Vangelo; e viceversa rilegge l’esperienza eucaristica alla luce dell’esperienza pasquale.
L’icona biblica: Emmaus
Emmaus è una sorta di Messa itinerante. Siamo noi quei discepoli – uno dei quali è appositamente anonimo perché ciascuno si metta al suo posto – e siamo in cammino; siamo l’assemblea radunata dalle nostre case; un’assemblea di battezzati che confessano prima di tutto i propri peccati, le proprie delusioni, le proprie fughe da Gerusalemme, le proprie nostalgie per la vita di prima. Il Signore ci lascia sfogare, anzi provoca il nostro sfogo – «che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?» – perché non ha paura dei nostri lamenti. Prendere sul serio le delusioni, i lamenti, le fatiche, le critiche, senza ribattere colpo su colpo, ma cercando di capire «cosa c’è dentro»: è il primo passo per un discernimento autentico. E il Signore si affianca: senza imporre ai due il proprio passo, senza chiedere a loro di tornare sulla retta via, di fare retromarcia e prendere la direzione giusta, Gerusalemme. No, avvia il dialogo, si innesta nelle delusioni e nel lamento dei due discepoli e annuncia tutto ciò che lo riguarda nelle Scritture. La liturgia della Parola, alla cui strutturazione ha contribuito anche questa pagina lucana, offre il paradigma principale per il discernimento, che deve avvenire nell’ascolto comunitario delle Scritture. Il criterio sapienziale più importante è la lettura cristologica delle Scritture, la parola di Dio alla luce della Pasqua. Tutto va interpretato nella chiave del kerygma di morte, sepoltura, risurrezione, vita nuova. L’ardore del cuore, pur senza sfociare nel riconoscimento esplicito, cresceva lungo il cammino. Per quale motivo? Certo, il cuore dei due discepoli ardeva per il fascino del Signore; forse ardeva anche per la sua maestria nell’interpretare le Scritture, che apriva la mente dei discepoli. Ma si può cogliere anche un altro motivo: i due dicono che il cuore ardeva «mentre conversava» con loro «lungo la via». Non è solo il fascino personale del predicatore a scaldare il cuore, e nemmeno solo la bellezza degli argomenti – due aspetti comunque importanti – ma anche e forse soprattutto il fatto che Gesù predica «lungo la via», facendo strada con loro. Hanno avvertito che quella parola non è pronunciata da una cattedra, ma sulla strada, camminando con loro. La parola che scalda, anche quando il predicatore è fermo sul pulpito – come nella celebrazione eucaristica – è una parola itinerante, che nasce dalla condivisione di un cammino. Ecco un altro criterio: la comunità discerne con un atteggiamento itinerante; non restando seduta «alla meta», tentata di giudicare chi è dentro e chi fuori dal sentiero, e nemmeno stando seduta «alla partenza», lasciando che ciascuno vada dove vuole, ma apprezzando i faticosi cammini di tutti, soprattutto di coloro che arrancano, accompagnandoli.
Il discernimento: l’invito e la frazione del pane.
«Resta con noi, perché si fa sera». Giunti a Emmaus, l’invito dei discepoli è una risposta al Maestro, quasi una implorazione a Colui che ha fatto balenare una luce nuova nella loro vita; nella liturgia, sarebbe una «preghiera dei fedeli» come risposta alla parola che scalda il cuore. Ma questo invito esprime anche il desiderio di accogliere «il forestiero», come l’avevano definito all’inizio del dialogo; qui «resta con noi» è quindi anche un gesto di ospitalità, l’offerta della casa e della mensa; è un segno offertoriale, la condivisione delle proprie risorse. Il discernimento comunitario non può avvenire se non nello stile dell’invito «resta con noi, perché si fa sera»: cioè in un clima orante e in un clima accogliente, con un’attenzione speciale a chi è «forestiero», a chi non è dei «nostri». Il pane posto sulla mensa dai discepoli diventa pane eucaristico: così come nei racconti della moltiplicazione, in questa scena l’evangelista usa con cura i termini dell’ultima Cena, il linguaggio eucaristico: «prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». E nello spezzare il pane scatta il riconoscimento, perché riconosce pienamente il Signore risorto chi lo sperimenta come Signore offerto, come pane spezzato e condiviso. Solo chi avverte l’abbraccio del suo amore può riconoscere e confessare che «Gesù è il Signore». Il discernimento comunitario prende le mosse dalla frazione e condivisione del pane: sia quella rituale, la celebrazione e la comunione eucaristica, sia quella esistenziale, il servizio e la prossimità alla gente. Chi si nutre del corpo eucaristico del Signore, può meglio discernere le esigenze delle membra del corpo ecclesiale e del corpo sociale.
Ora tocca a noi!
La scomparsa improvvisa del Signore è la condizione perché i due discepoli non si attardino a parlare con lui, non lo accerchino, non si chiudano in una bolla emotiva. È la condizione per la missione: ora tocca a loro. Il pane condiviso li mette in moto, li spinge a ripercorrere gli undici chilometri in direzione inversa rispetto all’itinerario precedente.
Paradossalmente, nel cammino sbagliato, quello della delusione e del dolore, Gesù li accompagna passo dopo passo; invece nel cammino giusto, quello del riconoscimento e della missione, Gesù li lascia soli. Il Signore si mette al fianco dei fragili, mentre lascia che i forti camminino con le loro gambe. L’orizzonte missionario, lo sguardo sull’umanità, e non lo sguardo limitato alla soluzione delle «beghe interne» alla comunità, è un’altra condizione per un adeguato discernimento comunitario.
A Gerusalemme i due trovano «riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro», i quali annunciano il kerygma in questa forma: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». E loro stessi raccontano quanto è «accaduto lungo la via». Sembra di sentire l’anticipo – o l’eco – di quanto scrive San Paolo, quando, tre anni dopo la conversione, va a Gerusalemme «a conoscere Cefa», rimanendo con lui quindici giorni (cf. Gal 1,18) e poi, quattordici anni dopo, va di nuovo a Gerusalemme, esponendo il Vangelo alle persone più autorevoli, «per non correre o aver corso invano» (cf. Gal 2,1-2).
È il criterio del confronto con la Tradizione e il Magistero vivo: il discernimento, per essere davvero «comunitario», deve paragonarsi con coloro che sono posti alla guida delle comunità, come garanti della fede apostolica e dell’autenticità dell’annuncio («Tradizione») e della comunione ecclesiale («Cattolicità»).




il ragazzo e i chiodi
B.Ferrero

I CHIODI
(Bruno Ferrero)

C’era una volta un ragazzo dal carattere molto difficile. Si accendeva facilmente, era rissoso e attaccabrighe. Un giorno, suo padre gli consegnò un sacchetto di chiodi, invitandolo a piantare un chiodo nella palizzata che recintava il loro cortile tutte le volte che si arrabbiava con qualcuno.
Il primo giorno, il ragazzo piantò trentotto chiodi.
Col passare del tempo, comprese che era più facile controllare l’ira che piantare chiodi e, parecchie settimane dopo, una sera disse al padre che quel giorno non si era arrabbiato con nessuno.
Il padre gli rispose: «È molto bello quel che mi dici; ora, togli dalla palizzata un chiodo per ogni giorno in cui non ti arrabbi con qualcuno».
Dopo un po’ di tempo, il ragazzo poté dire al padre che aveva tolto tutti i chiodi.
Allora il padre lo prese per mano, lo condusse alla palizzata e gli disse: «Figlio mio, questo è molto bello; però, guarda: la palizzata è piena di buchi; il legno non sarà mai più come prima. Quando dici qualcosa mentre sei in preda all’ira, provochi nelle persone a cui vuoi bene ferite simili a questi buchi. E per quante volte tu chieda scusa, le ferite rimangono».

Tra perdono e memoria.




L’AMORE CHE HA CAMBIATO LA STORIA
Ermes Ronchi

L’amore che ha cambiato la storia
padre Ermes Ronchi  (05-05-2002)
VI Domenica di Pasqua Anno A

Se mi amate. Con questo verbo, il più importante del nostro vocabolario, che circondiamo di tanto pudore e di tante attese, Gesù entra nei nostri sentimenti più intimi, li rivendica per sé, ed è la prima volta, e per la storia che vuole cambiare. Non si tratta di un ordine, non di un imperativo, ma piuttosto di una constatazione: chi ama osserverà, diverrà per lui naturale, quasi un automatismo del cuore, osservare il suo comandamento, il nuovo, l’unico: amatevi come io vi ho amato (Gc 13,34). L’amore cambia la vita, non è un vago sentimento misto di fascino e di timore che Gesù propone: se ami non potrai ferire, tradire, derubare, violare, deridere, restare indifferente. Ama e fa quello che vuoi (sant’Agostino). Se ami non potrai che osservare una legge interiore ben più esigente di qualsiasi legge esterna. Ma è facile o difficile amare Cristo? Per sette volte oggi, nei sette versetti del brano, Gesù parla di unione: una passione di unirsi corre dentro la storia di Dio e dell’uomo. Passione di unirsi per cui Dio è diventato, in principio, il respiro stesso di Adamo; per cui per millenni ha cercato un popolo, profeti di fuoco, re e mendicanti, e infine una ragazza di Nazaret per entrare in comunione con l’umanità, comunione assoluta.
E qui Giovanni ricorre al verbo più importante della vita spirituale: essere-in. Non solo essere accanto, presso, vicino, ma essere-in. Dentro, immersi, uniti: lo Spirito sarà in voi… io sono nel Padre, voi siete in me e io in voi. Fino a che l’altro diventi tua dimora e tua casa. Tommaso d’Aquino diceva che l’amore è passione di unirsi alla persona amata. In Dio per primo c’è questa passione, lui per primo viene incontro, è lui che cerca casa, a noi compete il lasciarci amare, e questo è finalmente, gioiosamente facile e bello. Amare Cristo è facile come lasciarsi amare. Allora i comandamenti altro non sono che vie per l’unione, passione di fare ciò che Dio fa’, di partecipazione alla stessa energia di vita, di respirare il suo respiro non più un ordine esterno, ma un modo per assomigliare a Dio, espansione di una storia di comunione, il traboccare verso l’esterno di una sintonia interna. Questo è il comandamento: passione di unirsi a Dio e quindi di agire con lui e come lui nella storia, essere le sue mani, un frammento del suo cuore. Nessuna etica vive senza una mistica.
 Non vi lascerò orfani, perché io vivo e voi vivrete. Orfano è parola ed esperienza legata alla morte. Ma chi ama vive, forte come la morte è l’amore, le grandi acque non possono spegnerlo, né i fiumi travolgerlo. Vivrete perché io vivo: la passione di unirsi è diventata passione di far vivere.


Il sogno di Gesù è abitare nell’uomo
Ermes Ronchi (26/05/20)

Se mi amate osserverete i miei comandamenti. Nessuna minaccia, nessuna costrizione, puoi aderire e puoi rifiutarti in totale libertà: Gesù, uomo libero, è una parola liberante.
Se mi amate osserverete i miei comandamenti Non si tratta di una ingiunzione, ma di una constatazione: quando ami accadono cose, lo sappiamo per esperienza: tutte le azioni si caricano di gioiosa forza, di calore nuovo, di intensità inattesa. Lavori con slancio, con pienezza, con facilità, come il fiorire di un fiore spontaneo.
Osserverete i comandamenti miei. La costruzione della frase pone l’accento su miei. E miei non tanto perché dettati da me, ma perché da me vissuti, perché mia vita. Non si tratta di osservare i 10 comandamenti, ma la sua vita! «Se mi ami, metti in pratica la mia vita. Se mi ami, diventi come me!» Amare trasforma, uno diventa ciò che ama, le passioni modificano la vita. Se ami Cristo, lo prendi come misura alta del vivere, per acquisire quel suo sapore di libertà, di mitezza, di pace, di nemici perdonati, di tavole imbandite, di piccoli abbracciati, di relazioni buone che sono la bellezza del vivere.
Io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Per sette volte nei sette versetti di cui è composto il brano, Gesù ribadisce un concetto, anzi un sogno: unirsi a me, abitare in me. Lo fa adoperando parole che dicono unione, compagnia, incontro, in una specie di suadente monotonia: sarò con voi, verrò presso di voi, in voi, a voi, voi in me io in voi. Uno diventa ciò che lo abita! Gesù cerca spazi, spazi nel cuore, spazi di relazione. Cerca amore. E il Vangelo racconta la passione di unirsi di Gesù a me usando una parola di due sole lettere in: io nel Padre, voi in me, io in voi. Dentro, immersi, uniti, intimi. Tralcio unito alla madre vite, goccia nella sorgente, raggio nel sole, scintilla nel grande braciere della vita, respiro nel suo vento. Gesù ribadisce che l’amore suo è passione di unirsi a me. E questo mi conforta: che io sia amato dipende da Lui, non da me; l’uomo può anche dire di no a Dio, ma Dio non può dire di no all’uomo. Tu puoi negarlo, lui non potrà mai rinnegarti.
Infatti: non vi lascerò orfani. Non lo siete ora e non lo sarete mai, mai orfani, mai separati. La presenza di Cristo in me non è da conquistare, non è da raggiungere, non è lontana. È già data, è dentro, è indissolubile, fontana che non verrà mai meno. E infine l’obiettivo di Gesù: Io vivo e voi vivrete: far vivere è la vocazione di Dio, Gesù è venuto come intenzione di bene, come donatore di vita in abbondanza (Gv 10,10). La sua è anche la nostra missione: essere tutti nella vita datori di vita. (Letture: Atti 8,5-8.14-17; Salmo 65; 1 Pietro 3,15-18; Giovanni 14, 15-21).


Il giogo leggero dei comandamenti del Signore
Ermes Ronchi (Avvenire 18 maggio 2017 )

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

La prima parola è «se»: se mi amate. Un punto di partenza così libero, così umile, così fragile, così fiducioso, così paziente. Non dice: dovete amarmi. Nessuna minaccia, nessuna costrizione, puoi aderire e puoi rifiutarti in totale libertà. Ma, se mi ami, sarai trasformato in un’altra persona, diventerai come me, prolungamento dei miei gesti, eco delle mie parole: se mi amate, osserverete i comandamenti miei. Non per dovere, ma come espansione verso l’esterno di ciò che già preme dentro, come la linfa della vite a primavera, quando preme sulla corteccia dura dei tralci e li apre e ne esce in forma di gemme e foglie.
In questo passo del Vangelo di Giovanni, per la prima volta, Gesù chiede esplicitamente di essere amato. Il suo comando finora diceva: Amerai Dio, amerai il prossimo tuo, vi amerete gli uni gli altri come io vi ho amato, ora aggiunge se stesso agli obiettivi dell’amore. Non detta regole, si fa mendicante d’amore, rispettoso e generativo. Non rivendica amore, lo spera.
Ma amarlo è pericoloso. Infatti il brano di oggi riporta sette versetti, in cui per sette volte Gesù ribadisce un concetto, anzi un sogno: unirsi a me, abitare in noi. E lo fa con parole che dicono unione, compagnia, incontro, intimità, in una divina monotonia, umile e sublime: sarò con voi, verrò presso di voi, in voi, a voi, voi in me io in voi.
Gesù cerca spazi, spazi nel cuore, spazi di trasformazione: se mi ami diventi come me! Io posso diventare come Lui, acquisire nei miei giorni un sapore di cielo e di storia buona; sapore di libertà, di mitezza, di pace, di forza, di nemici perdonati, e poi di tavole imbandite, e poi di piccoli abbracciati, di relazioni buone e feconde che sono la bellezza del vivere.
Quali sono i comandamenti miei di cui parla Gesù? Non l’elenco delle Dieci Parole del monte Sinai; non i comandi esigenti o i consigli sapienti dettati in quei tre anni di itineranza libera e felice dal rabbi di Nazaret.
I comandamenti da osservare sono invece quei gesti che riassumono la sua vita, che vedendoli non ti puoi sbagliare: è davvero lui. Lui che si perde dietro alla pecora perduta, dietro a pubblicani e prostitute, che fa dei bambini i principi del suo regno, che ama per primo, ama in perdita, ama senza aspettare di essere ricambiato.
«Come ho fatto io, così farete anche voi» (Gv 13,15). Lui che cinge un asciugamano e lava i piedi, che spezza il pane, che nel giardino trema insieme al tremante cuore della sua amica («donna, perché piangi?»), che sulla spiaggia prepara il pesce sulla brace per i suoi amici. Comandamenti che confortano la vita. Mentre nelle sue mani arde il foro dei chiodi incandescenti della crocifissione.
(Letture: Atti 8,5-8.14-17; Salmo 65; 1 Pietro 3,15-18; Giovanni 14,15-21)