L’INNESTO VITALE
Don Angelo Casati

L’INNESTO VITALE
di Don Angelo Casati (ADISTA n° 46/2009)

E l’immagine è bellissima, è viva, custodisce il senso della nascita. Per noi uomini e donne di città la suggestione è impoverita: quando mai vediamo una vigna? Se passi in questi giorni di primavera vicino ai tralci di una vite non puoi non incantarti al miracolo dei teneri, turgidi germogli.
Ecco, vorrei subito dirvi la gioia che provo al pensare che la fede ci fa dimorare in una vigna, cioè in questo miracolo delle cose che nascono. E il pensiero mi attrae, mi seduce, mi porta anche a ricordare una parola, parola bellissima, di Papa Giovanni. Sentitela: “Non siamo sulla terra a custodire un museo, ma a coltivare un giardino fiorente, destinato ad un avvenire glorioso”.
Dunque lo spazio cui ci chiama l’immagine della vigna non è quello dell’aria chiusa e ammuffita, bensì quello dell’aria aperta, della vigilia di nascita, delle vigne assolate ma rigogliose di Israele, nate, quasi d’incanto, per miracolo, in una terra arida.
Ebbene Gesù con l’immagine della vigna si ricollega a un simbolo più volte evocato nell’Antico Testamento, dove il simbolismo della vigna viene con insistenza ripreso per raccontare il rapporto tra Dio e il suo popolo, un rapporto, sul versante di Dio, fatto di cure, di premure, di tenerezza per la sua vigna, un rapporto, sul nostro versante, fatto a volte, purtroppo, di indifferenza, di impermeabilità, di rifiuto.
Ma c’è di più. Nel Vangelo di Giovanni Gesù attribuisce a se stesso l’immagine della vite. “Io sono la vite, voi i tralci.”
Forse potremmo anche dire che con il Battesimo è avvenuto un innesto: noi, rami per qualche misura selvatici, innestati alla vite che ha la pienezza del rigoglio. E dunque custodisci l’innesto, abbine cura, perché senza questa comunicazione con Gesù e il suo Vangelo, si interrompe il flusso della linfa, rinsecchiamo. Rami secchi! E questa del rinsecchirsi è, o dovrebbe essere, la cosa che ci preoccupa di più – più dell’invecchiare negli anni –  l’invecchiare, l’inaridirsi, il rinsecchirsi, l’ammuffire nello Spirito.
Qual è la condizione perché questo non avvenga? La condizione è ricordata senz’ombra di equivoci da Gesù: “Rimanete in me”. Custodite l’innesto. Se non vado errato, per sette volte in questi otto versetti di Vangelo ritorna il verbo “rimanere”: “Se rimanete”, “se non rimanete”, “chi rimane”, “chi non rimane”… e così via, sette volte.
Il verbo “rimanere” è un verbo caro a Giovanni. Perché? Perché è un verbo che dice intimità. Che cosa significhi che tu rimanga nell’altro e che l’altro rimanga in te, forse ce lo possono raccontare solo coloro che fanno un’esperienza di amore: “Ora te ne vai, ma tu rimani in me”. Che cosa significa allora rimanere in Gesù, rimanere nella vite? Significa che il suo mondo, il mondo di Gesù, è diventato il mio mondo, è l’aria che mi fa respirare, è la linfa che pulsa e genera sussulti di nascita, anche in questo ramo apparentemente secco, rinsecchito, che sono io. Il verbo rimanere usato da Giovanni in queste ultime pagine di Vangelo è lo stesso che Giovanni usa in una delle sue prime pagine, quando i due discepoli del Battista si mettono sulle tracce di Gesù. Gesù li sente camminare alle spalle. “Che cercate?” chiese loro. Ed essi: “Maestro, dove dimori?”. Lo stesso verbo. “Videro dove dimorava. E dimorarono presso di lui quel giorno.” Gli stessi verbi. Dimorare è più che abitare. Si può abitare una casa, una chiesa come spazio esteriore. O li si può abitare come spazio di relazioni, di un intimo comunicare, un abitare pensieri, emozioni, sogni. Questo vuol dire rimanere in Gesù, rimanere nella vite.
Custodire questo innesto dovrebbe essere la nostra cura: il nostro innesto e quello degli altri. Questo è il compito che ci attende nella vigna.
A volte invece sembra che la massima cura, la preoccupazione più forte nella Chiesa sia quella di tagliare i rami secchi e di bruciarli. Posso sbagliarmi ma penso che non ci voglia una grande arte né una grande intelligenza per tagliare e per bruciare i rami secchi. L’arte invece, l’arte, l’intelligenza dello Spirito stanno nel creare un innesto o nel custodirlo, nel fasciare, come diceva Gesù, il punto debole della vite.
Anche la Chiesa delle origini stentava a credere negli innesti nuovi, stentava a credere che Dio avesse fatto giungere la linfa luminosa a Paolo di Tarso. Sembra di sentirli: “Ma scherzi! Proprio lui? Ma guarda al suo passato e non essere ingenuo”. E non si accorgono che a rinsecchirsi sono loro. E ci volle Barnaba, ci volle tutta la forza del suo animo a convincerli che Dio ha strade infinite e che anche la strada di Damasco può essere strada di cambiamento. E che la finissero di guardare indietro, che aprissero gli occhi a contemplare ciò che ora stava germogliando. Barnaba, uomo della vigna, uomo degli innesti. E noi, nella comunità, non a custodire un museo, ma a coltivare un giardino!




RECITARE O ESSERE? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
Don Angelo Casati

RECITARE O ESSERE? Pensieri tra Quaresima e Pasqua. Don Angelo Casati

Mi succede – qualcuno la ritiene una mia ossessione – di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: “Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?”. Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava.
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia – non tutti! – di farisei che “recitavano”: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente”(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesu, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo – lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava – che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo “recitare”, che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si “recita” una Ave Maria o un Padre Nostro, si “recita” il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato. Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: “Ho peccato”. Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza. Scrive Carlo Maria Martini: “Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto “Dio” e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali”.
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del “perfetto”.
Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande. Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli. Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: “Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità”, chiamò il capo redattore e gli disse: “Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto”.
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense. Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi. E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?  Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: <<Un uomo – scrive – condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: “Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami”. Gesù baciò quella ragazza e disse: “In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare”. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli>>.




QUARESIMA E LE VIE DELLA CONVERSIONE
Carlo Molari

LE VIE DELLA CONVERSIONE. Carlo Molari (ROCCA 1/4/04)
La quaresima ripropone alla Chiesa la conversione continua, come la condizione assoluta per il cammi­no di fede e per rendere significa­tiva la celebrazione della Pasqua. Oggi inoltre essa è neces­saria come testimonianza pubblica della speranza, cui anche l’uomo secolarizzato non può rinunciare. Sergio Quinzio, in un inedito pubblicato dalla Stampa il 3 febbra­io 2004, osservava in merito: «l’uomo mo­derno che ha alle sue spalle la grande spe­ranza cristiana, ha cercato per questo, di pervenire a una condizione umana reden­ta, salvata, liberata. Non è mai più uscito dal bisogno che la rivelazione cristiana ha posto in lui, continua a volere qualcosa che superi di gran lunga i penosi limiti della ‘na­tura umana’. Anche se è uscito dall’orizzon­te della fede cristiana, l’uomo non è uscito dall’orizzonte di quella speranza… Lo stes­so rifiuto della salvezza ne tradisce il biso­gno». La conversione dei credenti e la testi­monianza che ne deriva, hanno oggi anche l’urgente finalità di rispondere al bisogno di salvezza e di tracciare quindi vie alla spe­ranza. Il messaggio di chi vive processi di conversione riferendosi al Vangelo o apren­dosi all’azione di Dio è inequivocabile: le novità nelle persone e nella storia umana sono possibili, anche oltre la misura delle nostre attese, perché l’azione di Dio è una straordinaria potenza di vita per le creatu­re e per la loro storia. Spesso però il messaggio trasmesso dai cre­denti è ambiguo e incerto perché la conver­sione è intesa in chiave puramente morale come cambiamento di costumi. La conver­sione è molto di più perché consiste in un processo vitale che attiene al divenire della persona e allo sviluppo della specie. Non si tratta semplicemente di cambiare pensieri, desideri, azioni, ma di diventare persone nuove o di consentire che la vita sviluppi tutte le virtualità della specie umana.
In questa prospettiva le componenti della conversione sono almeno tre:
– la consapevo­lezza del negativo che condiziona la storia e le persone,
– la presa di distanza ideale dal male individuato,
– l’esercizio della fiducia in Dio per consentire l’espressione in noi della sua azione misericordiosa.
Molti equi­voci sulla conversione e molte resistenze derivano dalla poca chiarezza di questi aspetti.
Consapevolezza del male.
La presa di coscienza del male è un proces­so complesso che si sviluppa secondo dina­miche e in momenti diversi. Il primo dato è il giudizio preventivo delle scelte che ci ap­prestiamo a fare, la risonanza inferiore de­gli atti che compiamo, in una parola: il giu­dizio della coscienza. Ma il dato più signifi­cativo e completo per la consapevolezza del male è l’analisi dei frutti che conseguono alle scelte compiute. Dai risultati vitali del­le scelte, infatti, appare quale tipo di forza è stata messa in moto e quali spazi sono stati effettivamente aperti al fluire della vita. La consapevolezza del male, perciò, deve implicare anche l’analisi delle conseguen­ze per la persona e degli influssi esercitati nell’ambiente con le azioni compiute. Ci sono esperienze che solo dopo molto tem­po rivelano le loro insufficienze e manife­stano le potenzialità dei loro inquinamen­ti. Importante è rendersi conto che il male non risiede semplicemente nei gesti com­piuti o nelle opere realizzate, perché diven­ta flusso storico, struttura vitale, realtà per­manente delle persone. La presa di coscien­za del male, perciò, conduce alla consape­volezza del negativo, che svuota la perso­na, si insinua nelle relazioni, inquina i pro­cessi storici. Non si tratta perciò solo di trasgressioni morali o giuridiche, ma di re­altà profonde, di decadenza vitale, di im­poverimenti progressivi delle società. Le scelte sono segni di una condizione e di­ventano stimoli ulteriori ai processi dege­nerativi delle persone e delle comunità. Il grado di consapevolezza del male cresce con la persona stessa e con il raffinamento della sua sensibilità spirituale, costituita da qual complesso di criteri e di valutazioni che rafforzano la struttura interiore della persona. Per il giudizio storico quindi è ne­cessario tenere presente che la consapevo­lezza del male non risulta solo dai frutti negativi derivati, ma anche dallo sviluppo della coscienza giudicante. Vi sono infatti delle scelte che in un particolare periodo non sembrano avere alcun carattere nega­tivo e che invece con il passare del tempo, anche indipendentemente dai frutti emer­si, appaiono in se stesse inadeguate e con­trarie alle esigenze della vita. Per questo le scelte, compiute nel passato, man mano che il tempo passa, possono apparire in una luce progressivamente diversa. Non cresce la colpa soggettiva, perché il passato ne ha fis­sato la misura secondo il grado di respon­sabilità e di consapevolezza del tempo in cui l’azione si è svolta, ma la conversione può manifestarsi più esigente secondo il peso del male introdotto nella storia perso­nale e sociale. Questi criteri non riguardano solo le scelte personali, bensì anche quelle comunitarie e storiche.
Presa di distanza e riparazione del male
Di fronte al male, tuttavia, la consapevolez­za non è sufficiente alla conversione. È ne­cessaria anche una esplicita presa di distan­za e un rifiuto consapevole del male. Essa si esprime in vari modi sia a livello perso­nale che a livello storico e sociale. Riguar­do alla persona, la presa di distanza impli­ca saper riconoscere gli effetti negativi, pre­visti o meno, che le scelte di fatto hanno provocato; saper smascherare e analizzare i meccanismi vissuti e le giustificazioni in­gannevoli che li hanno suscitati e accom­pagnati. A livello storico la presa di distan­za implica l’accoglienza delle conclusioni degli studi seri compiuti dagli esperti, l’in­dividuazione delle cause e dei processi che hanno condotto alle scelte negative, la ri­chiesta esplicita e pubblica di perdono per le scelte compiute nel passato non solo dal­le singole persone, ma anche dalle istitu­zioni, non solo in rapporto al presente, ma anche a tutto il passato. A questi processi dovrebbero impegnarsi tutte le istituzioni anche planetarie. In questo quadro si comprendono sia gli studi storici promossi da Giovanni Paolo II durante il suo pontificato per gli episodi oscuri o ambigui della storia ecclesiale, e anche i numerosi atti di pentimento espressi in varie circostanze e in particolare nell’oc­casione dell’anno giubilare. Alcuni, anche recentemente, hanno criticato l’insistenza con cui il Papa ha riproposto alla chiesa questa strada. Ma le ragioni addotte non sembrano toccare i punti essenziali dei ge­sti di riconciliazione. Scrive ad es. lo stori­co fiorentino Michele Ranchetti: «La richie­sta di perdono da parte della chiesa… è un atto, in apparenza rivoluzionario. Si è det­to per la prima volta nella storia, la chiesa di Roma riconosce i suoi errori e le sue col­pe. È vero. Ma è anche vero che a questa dichiarazione di colpa, a questa richiesta di perdono non segue assolutamente nulla: nessuna forma di penitenza e di espiazio­ne. È un atto «verbale» che non si sa a chi sia diretto, chi riguardi, chi debba e possa valersene» (Non c’è più religione. Garzanti, Milano 2003, p. 12). Per la Chiesa, secondo Ranchetti, esso «appare ora come la più esplicita affermazione della propria autori­tà assoluta che offre a sé stessa il perdono, ai suoi membri incorsi in peccato, ma sen­za indicare né chi né dove, né quando, e senza alcuna forma di espiazione, senza alcuna penitenza visibile» (ivi p. 24).
Le cose non stanno così. La domanda di perdono è rivolta a Dio per accogliere quel­la forza di vita che trasforma le persone e le rende capaci di novità radicali. Ma insieme è sollecitazione e impegno a prendere le distanze da quei meccanismi di male che si sono espressi nel passato e che operano ancora oggi. La presa di distanza dal male della propria storia significa riconoscerlo, additarlo come male da superare e assume­re oggi atteggiamenti opposti a quelli eser­citati nel passato.
Non sono sufficienti il riconoscimento del male e la presa di distanza se questi atti non sono seguiti da atteggiamenti di accoglien­za di quella energia che investe l’orante, lo alimenta e fiorisce in lui come vita nuova. Il processo di riconciliazione implica un’azione purificatrice di Dio che, accolta dalla creatura, diventa in lei qualità inedita di vita. La conversione quindi non è l’ini­ziativa dell’uomo che vuole diventare mi­gliore, ma la risposta umana ad una solle­citazione di Dio, che con atto gratuito, pu­rifica la creatura dal peccato rinnovandole l’offerta della vita. Al perdono richiesto, perciò non deve seguire nessuna punizione o sofferenza, bensì una forma nuova di esi­stenza che si concretizza in gesti concreti di dialogo, in atti di accoglienza, in inven­zioni di fraternità, in segni di amicizia, in offerte di misericordia, secondo le diverse forme di peccato di cui si chiede perdono. Ora è innegabile che le pratiche di riconci­liazione quando si svolgono con consape­volezza e coinvolgimento interiore modifi­cano gli orientamenti di vita. Gli inviti per­ciò che il Papa ha rivolto alla chiesa cattoli­ca non sono stati vani e insignificanti, ben­sì espressioni sincere della volontà di acco­gliere l’azione misericordiosa di Dio per far­la fiorire in novità di vita.




LA LOTTA DI GIOBBE
Don Angelo Casati

La lotta di Giobbe (Don Angelo Casati).

Oggi la Liturgia ha accostato alla pagina del vangelo di Marco la pagina del libro di Giobbe, che forse può disturbare la sensibilità delle persone cosiddette devote che, davanti al dolore degli altri, predicano senza troppa fatica, come fanno gli amici di Giobbe, la rassegnazione o la resa.
Giobbe risponde con la lotta. E Dio è dalla parte di Giobbe e non dalla parte dei suoi amici che, bravi loro, hanno un prontuario di risposte teologiche per spiegare i drammi dell’umanità.
Dio accetta parole di protesta come quelle di Giobbe che oggi abbiamo ascoltato, parole che parlano della fatica del vivere.
È folgorante e sorprendente il libro di Giobbe, perché noi siamo stati educati a legare Dio e la sua immagine all’insegnamento della rassegnazione e dell’accettazione passiva. E invece il libro di Giobbe -scrivono i monaci di Bose- predica “la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo, quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia. Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici teologi che in realtà si rivelano nemici e medici del nulla“.
Pensate invece quante volte anche noi, come gli amici di Giobbe, ci scandalizziamo di fronte al grido o alla bestemmia di dolore, e quante volte invitiamo al silenzio, o all’attenuazione del grido: «Ma non dire così. Esageri!».
Il libro di Giobbe non legittima la figura del credente come di colui che la dà vinta al male, legittima la figura del credente come di colui che lotta contro il male. Perché questa è anche l’immagine di Dio. Non è forse questa l’immagine di Dio, che, come per una fessura, intravediamo in Gesù di Nazaret?
Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo.
Gesù istruisce i suoi discepoli e istruisce noi oggi con il suo esempio. Ci istruisce con i suoi verbi, i verbi di Gesù nella casa di Simone, che dovrebbero diventare i nostri verbi oggi nelle case di questa umanità. Ricordiamoli: “si accostò, la prese per mano, la sollevò”. Quasi a suggerire che se noi ci teniamo a debita distanza, se noi rifuggiamo dal contatto fisico, non solleviamo nessuno. Chi soffre, per sentirsi in qualche modo rivivere, “risorgere”, come allude il verbo greco, ha bisogno di vicinanza, di mani che accarezzino, che stringano.
Non faremo miracoli. Nemmeno a Gesù fu possibile fare miracoli a tutti. È scritto: “gli portarono tutti i malati e gli indemoniati… guarì molti“. Tutti… molti! C’è uno scarto. Ma sollevò tutti. Non faremo miracoli, ma solleveremo qualcuno, accostandoci, prendendo per mano.
Vorrei aggiungere che Marco, se da un lato registra l’immergersi di Gesù in questa umanità dolente, dall’altro registra l’andarsene, un duplice andarsene. Esce quando ancora è buio di casa e si ritira in un luogo deserto e lì prega. E così scopriamo nelle pieghe della pagina di Marco da dove Gesù attingesse quella sua forza, l’energia dello Spirito che faceva di lui l’uomo della compassione, della vicinanza, della cura, della dedizione assoluta. Così per lui, così anche per noi. C’è una sorgente, una sorgente segreta.
Ma nel brano di Marco è accennato anche un altro “andarsene”. I discepoli lo scovano, gli dicono: “tutti ti cercano“. Dice: “Andiamocene altrove… per questo sono venuto“. È venuto per andare altrove: la Galilea non è un solo villaggio.
C’è sempre questo pericolo di voler fare di Gesù il proprio cappellano, un cappellano di corte, il cappellano del proprio gruppo, del proprio movimento e non il Salvatore di tutti i villaggi. E Gesù se ne va. Chissà se l’abbiamo capito. Essere nel mondo e diventare uomini e donne di un villaggio solo significherebbe spegnere e tradire il vero movimento, quello del vangelo. Vangelo che ci mette in guardia dalla tentazione di rinchiudere noi stessi in un solo villaggio e dalla pretesa di rinchiudere Dio in un solo villaggio.




Se la Parola di Dio diventa rara.
Lidia Maggi

Se la Parola di Dio diventa rara.(Correggere il sapore)

di Lidia Maggi (da ROCCA 8/99)

2 Re 4, 38-44.

Eliseo tornò in Gàlgala. Nella regione imperversava la carestia. Mentre i figli dei profeti stavano seduti davanti a lui, egli disse al suo servo: «Metti la pentola grande e cuoci una minestra per i figli dei profeti».  Uno di essi andò in campagna per cogliere erbe selvatiche e trovò una specie di vite selvatica: da essa colse zucche agresti e se ne riempì il mantello. Ritornò e gettò i frutti a pezzi nella pentola della minestra, non sapendo cosa fossero. Si versò da mangiare agli uomini, che appena assaggiata la minestra gridarono: «Nella pentola c’è la morte, uomo di Dio!».  Non ne potevano mangiare. Allora Eliseo ordinò: «Portatemi della farina».  Versatala nella pentola, disse: «Danne da mangiare alla gente».  Non c’era più nulla di cattivo nella pentola. Da Baal-Salisa venne un individuo, che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani d’orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente».  Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?».  Quegli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne avanzerà anche».  Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore.

Tempi di carestia e di abbondanza caratterizzano la storia biblica e forse anche la nostra storia. Tempi in cui il cibo è prezioso perché raro, altri in cui abbonda. Così come il cibo anche la Parola di Dio in alcuni tratti della storia sacra sembra abbondante, in altri invece scarseggia, è quasi assente. C’è abbondanza di Parola di Dio nelle storie dei patriarchi, nell’esperienza dell’esodo, del Sinai, del Deserto. Dio diventa più parsimonioso di Parola nel periodo dei giudici e dei re. E’ silente con Saul, eroe tragico della storia sacra e con Giobbe che lo cerca disperatamente. Oggi le parole non sono rare. Le si pronuncia, le si ascolta, le si scrive dovunque. Nasce allora il problema di distinguere la Parola di Dio dalle mille parole umane. Problema che di per sé presenta già un paradosso: la Parola di Dio da una parte ha bisogno di essere incarnata per entrare in contatto con noi, e tuttavia necessita di essere purificata da avvelenamenti troppo umani.

Lo strano miracolo dalla pentola risanata (2 Re 4, 38-41) ci testimonia l’ironia che i tempi impongono anche ad una figura militante come quella di un profeta il cui linguaggio è normalmente quello della radicalità e del giudizio.  In certi tempi anche la parola profetica deve «correggere il tiro» per non lasciare a pancia vuota l’umanità affamata.  Miracolo diventa allora la semplice arte culinaria capace di «rimediare» una minestra uscita male.  Ecco la storia: tempo di carestia, questa volta non solo reale, ma anche spirituale. «La parola dell’Eterno era rara a quei tempi e le visioni non erano frequenti» (1 Sam. 3,1).  Come si fa a cucinare e a sfamarsi adeguatamente?  Il profeta Eliseo ordina ai suo discepoli riuniti di preparare una minestra, minestra che deve nutrire tanti, anche coloro che non hanno contribuito.  Con quali ingredienti però?  Perché il profeta non li fornisce?  Chi li deve procurare?  Il cibo scarseggia.  Per cucinare la minestra di Dio i discepoli agiscono in maniera diversa.  Alcuni aspettano che vengano loro consegnati gli ingredienti, scelgono una vita più contemplativa; altri sentono di dover uscire a cercare personalmente le erbe.  Uscendo affrontano una realtà «selvatica», sconosciuta, non catalogabile, come tutte le nuove situazioni che interpellano la nostra vita. In un nuovo contesto il rischio di sbagliare è sempre alle porte come succede a quel discepolo che, trovandosi di fronte una pianta selvatica, non addomesticata, con frutti abbondanti, se ne riempie il vestito per la minestra.  E’ il rischio di chi nella vita non gioca in difesa e percorre piste sconosciute, alla ricerca di senso.  E il frutto sconosciuto sembra bello e appetitoso, sembra aprire nuove possibilità di nutrimento.  Viene portato a casa, tagliato e gettato nella minestra.  Si rivela invece, alla cottura, tossico e capace di avvelenare il tutto.  La minestra viene distribuita, ma è immangiabile: «C’è la morte in questa minestra».  Ecco che il cibo che doveva nutrire, dare forza, vita, si trasforma in veleno, morte… Ironia della sorte, il discepolo che voleva contribuire col suo servizio al bene comune si scopre avvelenatore.  Non resta che buttare via tutto il contenuto della pentola e rimanere a digiuno.  Ma in tempi di carestia lo spreco non è permesso.  Il profeta allora interviene.

Egli non moltiplica o trasforma, bensì corregge: aggiungendo un ingrediente trasforma quel veleno in cibo appetitoso che nutre.  Il lavoro di tutti non va perciò sprecato.

La Parola di Dio risulta a volte cruda, indigesta e deve essere cotta perché sia resa appetibile per nutrire la nostra realtà, perché si trasforma in minestra che può essere distribuita e mangiata da molti.  Ma il fuoco della passione non sempre è acceso e gli ingredienti giusti scarseggiano.  Vorremmo trovare nuovi linguaggi, nuovi ingredienti per cuocere la Parola, nuove ricette, ma abbiamo paura, paura di essere il discepolo che, avventurandosi per sentieri sconosciuti, trasforma la Parola di vita ricevuta in minestra di morte, e allora ci sentiamo paralizzati.  Meglio morire di fame che rischiare l’avvelenamento.  E se troviamo il coraggio di agire subentra il timore di non essere capaci di discernere il risultato, di non riconoscere come i discepoli di Eliseo che la minestra di vita può diventare veleno.  Carestia di Parola, di passione, di coraggio e di discernimento. Tempi difficili, non va negato.  Forse però la morsa della fame ci rende disponibili ad apprezzare anche solo le briciole della parola di Dio e a non gettare via troppo frettolosamente quei piatti che ci sembrano riusciti male, nella speranza che Dio susciti tra noi i profeti ironici, capaci di correggere le nostre minestre sbagliate.




A proposito di Re Magi.

A proposito di Re Magi.

«In questo popoloso ed intricato mondo d’angoscia non trovava alcuno da adorare, ma molti da aiutare». Si tratta del Quarto Saggio. Anch’egli vide la stella e partì per seguirla, ma né alla capanna di Betlemme né altrove poté mai raggiungere il Re annunciato nei segni del cielo. Questa storia, pubblicata cento anni fa negli Stati Uniti, tradotta per la prima volta in italiano da Elena e Luigi Giario, fu ideata da Henry Van Dyke, scrittore molto popolare negli Usa grazie a questo libro, oppositore della guerra e amante della natura.
Artaban è il nome di questo quarto «re mago», rimasto fuori dalla tradizionale compagnia dei tre. Perché? Come gli altri sapienti, egli è discepolo di Zoroastro, nella città persiana di Ecbatana. Come Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ha compreso le profezie e i segni che indicano nella Giudea il luogo in cui è nato un uomo nuovo, un principe degno di essere seguito. Per partire, ha venduto tutto ed ha comprato tre preziosissimi gioielli da portare come tributo al Re. Egli deve raggiungere entro una data notte i tre che lo attendono. Il suo viaggio è rallentato da poveri esseri umani che hanno bisogno del suo aiuto, e i tre partono senza di lui. Li segue, ma deve spendere anche i tre gioielli per soccorrere altri bisognosi. Si chiede se mancherà all’incontro con Dio per avere indugiato a usare misericordia agli uomini: «Ho speso per l’uomo ciò che era destinato a Dio. Sarò mai degno di vedere la faccia del Re?».
Per tanti anni vaga nella ricerca, vivendo quello che crede essere «il conflitto fra le esigenze della fede e l’impulso dell’amore».
La parabola ha un finale drammatico e sorprendente. Artaban capirà (scrive Adriana Zarri nella postfazione) che «chinarsi sull’uomo sofferente è chinarsi su Dio», e che dimenticare la ricerca ossessiva di lui per soccorrere gli uomini è trovarlo. Questa storia intensa e bella ripete un tema spirituale mai abbastanza compreso: amare e servire gli esseri umani è amare e servire Dio. Se non crediamo in lui, è certamente fare la cosa migliore possibile: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi». Lo scrisse un giornalista e politico[1], che certamente dà molta importanza all’agire nelle dinamiche storiche collettive. Eppure sta dicendo che, se la malattia di un familiare o un ferito sulla strada ti interrompono la più importante attività politica, il chinarti su di loro è ancora più importante.
E’ questo, infatti, che dà senso all’azione politica. La quale non è altro, quando è vera politica, che organizzare il chinarsi di tutta la società su chi non può rialzarsi da solo. Se imparassimo a valutare così la politica, le diverse proposte, le decisioni economiche, gli uomini di potere, le nostre scelte politiche! Se non misurassimo tutto sul nostro utile particolare, o di categoria, nazione o regione, tanto più grettamente quanto più siamo ricchi! Se non corrompessimo la nobile politica in una meschina contabilità, come fanno quasi tutti i partiti e i politici per ricavare consenso dai moventi umani più bassi, più facili e diffusi! Se capissimo finalmente che la rinuncia a qualcosa perché un altro viva e sia libero è vera realizzazione di noi, come persone e come società! Infatti, se la politica non rialza chi è caduto e debole, è delinquenza, non politica! Quegli eminenti giuristi americani liberisti, che dichiarano che «la legge deve imitare il mercato» e non regolarlo, parlano come corsari e banditi, non come giuristi! Di politici che propongono se stessi per gestire e assecondare i vizi umani, ce ne sono molti. E più assecondano e corrompono, più piacciono. Nei casi migliori, si limitano a contenere quei vizi, arginarli, incanalarli al meglio. C’è un politico, un partito, che ha oggi il coraggio di proporre la politica nobile del rialzare i deboli?
Rialzare il caduto, esercitare la misericordia è più importante anche della cultura, che o coltiva la nostra umanità, o è commercio. Ed è più importante della religione, la misericordia. Perché è il compimento della religione. La parabola del Quarto Saggio ce lo dice direttamente, come quella del Samaritano nel vangelo di Luca 10 e la profezia del giudizio in Matteo 25. Non c’è «conflitto fra le esigenze della fede e l’impulso dell’amore». Molti nella vita «non trovano alcuno da adorare», e hanno ragione perché cercano Dio e non idoli. Ma nessuno può dire di non trovare nessuno da aiutare. E se Dio c’è, avranno aiutato lui.


[1] Luigi Pintor, giornalista e uomo politico comunista




Racconto
IL QUARTO RE MAGO.

IL QUARTO RE MAGO.
La storia è tratta da un libro scritto nel 1896 da Henry Van Dyke, americano di origine irlandese.

Nella lontana città persiana di Ectabana, in un grande palazzo, un tempo viveva un saggio studioso delle stelle chiamato Artaban.  Era molto sapiente e un giorno invitò al suo palazzo alcuni Magi per un importante annuncio.  Li ricevette nel suo giardino pieno di fiori e di frutti, sotto un cielo stellato. Dopo averli salutati disse loro: “Amici, ho trovato antiche pergamene che parlano della nascita in Palestina di un re che porterà amore e speranza nel mondo. Ho interpretato i segni con Gaspare, Melchiorre e Baldassarre che sono tre grandi saggi.   Io andrò a visitare il nuovo re insieme a loro, portandogli in dono tre pietre preziose:  uno zaffiro, un rubino ed una perla che ho comprato dopo aver venduto tutti i miei beni! Viaggerò con i tre Magi, essi mi aspettano a Babilonia. Venite con me ad adorare il nuovo Re…affrettiamoci!”  Nessuno dei suoi amici saggi però volle partire con lui che rimase triste e deluso.
In cielo però vide una scintilla azzurra e quindi decise di partire da solo.
Il giorno dopo, all’alba, partì col suo fido destriero Vasda! Attraversò fiumi e torrenti sotto la luna, montagne sotto il sole cocente, fertili campi e giardini costeggiati da torrenti. Il giorno dopo, attraversando un deserto, trovò un’oasi e venne richiamato dietro una palma da un grido di sofferenza.  Trovò lì un ferito molto grave e si fermò a curarlo anche se sapeva che, così facendo, i suoi tre amici Magi sarebbero probabilmente partiti da Babilonia senza di lui. Artaban era molto sapiente e guarì perfettamente il ferito che, per sdebitarsi, gli disse di andare a Betlemme, il suo paese, perché aveva saputo che lì sarebbe nato il nuovo grande Re!  Artaban si rimise in cammino finché arrivò sulle rive dell’Eufrate e, in lontananza,vide …la città di Babilonia, con i suoi palazzi pieni di giardini, fontane, terrazze! Purtroppo scoprì che i suoi amici Magi erano già partiti mentre lui si attardava a curare il ferito nell’oasi. Vendette quindi lo zaffiro per comprare l’attrezzatura per il viaggio e ripartì verso Betlemme alla ricerca del nuovo Re!  Scavalcò distese di sabbia con palme ombrose,  gole spazzate dai venti. Quando arrivò a Betlemme scoprì che la città era piena dei soldati del Re Erode.  All’ improvviso udì il pianto di un bambino provenire da una casa: c’era una giovane madre disperata perché Erode aveva ordinato di uccidere tutti i bambini primogeniti maschi.  Appena vide Artaban lo implorò: “Ti prego, salva il mio bambino!” .  Artaban subito si mise davanti alla porta di casa e fermò il soldato che stava per entrare dicendogli: “ Ti darò questo rubino se non entrerai in questa casa!”. Il soldato affascinato dalla grandezza della pietra la prese e se ne andò senza toccare il piccolo! Così anche il secondo dono che Artaban voleva portare al Re era perso.  La donna ringraziò con tutto il suo cuore Artaban e gli disse: “A Betlemme è nato un bambino a cui i Re Magi hanno portato ricchi doni.  Ora quella famiglia è dovuta fuggire e nessuno, purtroppo, sa dove sono andati!”. Artaban deluso e triste riprese il suo viaggio e la sua ricerca.
Passarono 33 anni e, dopo aver girato tanto, stanco e ormai anziano Artaban arrivò a Gerusalemme. La città era deserta perché la popolazione si era riunita vicino al luogo detto Golgota, dove stavano per crocifiggere tre uomini.   Ad un tratto Artaban sentì urlare…si voltò e vide una donna incatenata, trascinata da alcuni soldati.  Vedendo Artaban la donna lo pregò così: “Ti prego signore aiutami; mi vogliono fare schiava per i debiti di mio padre. Rendimi la mia libertà”.  Artaban, senza esitare, prese la perla e la dette alla donna per riscattarla. Così se ne andò anche l’ultimo dei gioielli che il saggio voleva portare al nuovo Re!    Ormai molto vecchio e triste Artaban ripensava alla sua vita.
“Ho passato i miei anni migliori nella ricerca del nuovo re ed ho dato via tutte le ricchezze che volevo donargli! Non l’ho mai trovato e, se anche lo trovassi adesso, non avrei niente da dargli per onorarlo!”.
All’improvviso sentì una musica dolce e vide una grande luce! Ad un tratto sentì una voce sconosciuta che Artaban capì essere quella del nuovo grande Re:  “Artaban non essere triste perché, in realtà, tu mi hai trovato! Hai dato le tue ricchezze a chi ne aveva più bisogno e quindi hai fatto del bene; in questo modo mi hai trovato!”.
In verità ti dico: quanto hai fatto ad ognuno dei tuoi fratelli, l’hai fatto a me!




MA QUALI PRETI?
Il teologo Mandreoli ci restituisce la dimenticata voce di don Dossetti

“Giuseppe Dossetti soleva dire che ogni generazione ha un proprio compito storico, oggi la domanda – forse – potrebbe essere: qual è il compito della nostra?”: così don Fabrizio Mandreoli, giovane presbitero e teologo bolognese, affronta ancora una volta, nei suoi studi, il pensiero di don Giuseppe Dossetti, indimenticato politico, costituzionalista, presbitero, monaco. A fine degli anni ’60 e inizio anni ’70 don Dossetti aveva argomentato con spirito libero e profetico sul senso, le modalità e le forme del ministero ordinato. L’argomento “quali preti?” è trasversale fra tutti i componenti della Chiesa. Il dettaglio di queste riflessioni le trovi in http://www.settimananews.it/ministeri-carismi/giuseppe-dossetti-note-sul-ministero/

Buona lettura. Don Augusto




IL LETTORE: TRA MINISTERO, ISTITUZIONE E SPIRITUALITÀ

IL LETTORE: TRA MINISTERO, ISTITUZIONE E SPIRITUALITÀ
Gianfranco Venturi  (Da RIVISTA LITURGICA n. 4, luglio/agosto 2007)

La liturgia è azione, azione in una comunità; ci possono essere testi scritti, ma nella liturgia ciò che è contenuto in uno scritto passa dallo stadio chirografico, di per sé statico, a quello orale; finché questo passaggio non avviene, non c’è liturgia e la Parola non ha la sua originaria forza sacramentale. Di qui l’importanza del lettore quale ministro che partendo dalla parola scritta – in un certo senso, dalla parola morta –, la fa passare allo stadio orale, la «risuscita», la rende viva[1]. Per mezzo del suo ministero la parola di allora – lontana dal tempo e dallo spazio che l’hanno originata –, diviene parola di oggi, qui, un nuovo evento rivelativo: nel lettore Cristo parla oggi al suo popolo[2].

  1. Il lettore nella tradizione ebraica: lo sposo della Parola

I più antichi testi della Bibbia, prima di essere scritti, erano tramandati attraverso una tradizione orale. Questo dato originario permane come esigenza nella tradizione ebraica non solo nella lettura pubblica della Torah; anche quando la si legge da soli, bisogna labbreggiarla. La tradizione giudaica si compiaceva di far risalire l’ufficio delle letture allo stesso Mosè. Con questo si voleva forse dire come questa istituzione si radicava nella prescrizione impartita da Mosè in persona: «Alla fine di ogni sette anni… alla festa delle capanne, quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore tuo Dio, nel luogo che avrà scelto, leggerai questa legge davanti a tutto Israele, agli orecchi di tutti» (Dt 31,10-11). L’apostolo Giacomo, il «fratello» di Gesù, che durante i tempi apostolici presiedeva la comunità di Gerusalemme, riassume questa credenza popolare affermando nel discorso riportato dagli Atti: «Mosè ha, fin dai tempi antichi, chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe» (At 15,21). È opinione comune però che la lettura pubblica della Torah risalga probabilmente all’epoca della fine dell’esilio babilonese, ai tempi di Esdra e Neemia[3][3]. Rileggiamo in sintesi la pericope di Ne 6,1-9, facendo attenzione ai corsivi introdotti, indicanti gli elementi rituali di questa grande liturgia della Parola: «1 Tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse ad Esdra lo scriba di portare il libro della legge di Mosè che il Signore aveva dato a Israele. 2 Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.3 Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque…; tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge. 4 Esdra lo scriba stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza…5 Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutto il popolo; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. 6 Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: “Amen, amen”, alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. 7 Giosuè, Bani, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maaseia, Kelita, Azaria, Iozabàd, Canàn, Pelaia, leviti, spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi al suo posto. 8 Essi leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura». Notiamo la presenza di un rituale ben organizzato: il lettore (qui Esdra, sacerdote e scriba) porta il libro, lo apre, benedice il Signore, legge; il suo posto è alto, sopra una tribuna; la spiegazione (o traduzione a seconda delle interpretazioni) è affidata a un gruppo di persone. Tutti questi elementi si ritrovano nella lettura sinagogale e, fondamentalmente, anche nella nostra attuale liturgia. A partire da allora, la lettura sinagogale della Scrittura è stata man mano codificata sia per quanto riguarda il rituale e il numero dei lettori che per quello che concerne la distribuzione delle singole pericopi da leggere durante la riunione sinagogale: un ciclo annuale (tradizione babilonese) o triennale (tradizione palestinese)[4]. Nella Mishnah[5] il Trattato IV Meghillah[6] testimonia la tradizione relativa alla lettura e al lettore. Con alcuni riferimenti a questo testo rilevo solo alcuni aspetti relativi al lettore sinagogale:

  1. La lettura viene assicurata non da un solo lettore, ma da diversi. Si contano tre lettori per gli uffici ordinari della settimana, sette e anche più per i sabati e le grandi feste[7]. Questa disposizione, «è ricca di significato spirituale: nell’ufficio sinagogale non è l’individuo che ha il primato sulla Parola ma tutta la comunità rappresentata dai diversi lettori. La lettura si spersonalizza; essa non è il prodotto di un incarico privilegiato, ma piuttosto si arricchisce della personalità dell’intera comunità. È tutto il popolo che ascolta, ed è il popolo tutto che proclama la Parola. Dio parla alla comunità tramite la comunità»[8].
  1. All’inizio il servizio di lettore non era un ufficio riservato, ma poteva essere compiuto da ogni Israelita: «Si aveva il diritto, all’inizio, di chiamare chiunque, compreso le donne e i bambini e anche gli schiavi, per leggere la Torah»[9]. Poiché si apparteneva ancora a una cultura orale e le letture si succedevano a intervalli regolari, vi era una grande facilità di imparare a memoria un testo[10]. Lo storico Giuseppe ci testimonia che proprio i bambini sapevano recitare con più facilità la Legge che non dire il proprio nome[11]. Chi veniva designato per la lettura dal capo della Sinagoga si alzava e andava sul pulpito preparato per la lettura. Luca ci racconta come Gesù adempì questo ministero di lettore nella sinagoga di Nazaret: «Si alzò per fare la lettura»(4,16).
  1. Non si deve pensare che si proceda a caso; occorre una certa preparazione, proprio per rispetto alla Parola. La tradizione tramanda l’esempio di Rabbi Aqibà ben Josef, che illuminò con la sua scienza e la sua pietà la comunità giudaica dopo gli anni 70: «Successe che un giorno il capo della Sinagoga chiamasse Rabbi Aqibà per fare la lettura pubblica della Torah davanti alla comunità. Ma egli non volle salire (sul pulpito dove si trovava il leggio per la lettura). I suoi discepoli gli dissero: Nostro Maestro, tu non ci hai insegnato così: la Torah per te è vita, e lunghezza di giorni, perché hai rifiutato d’agire di conseguenza? Egli rispose: Per il culto del Tempio! Ho rifiutato di leggere unicamente perché non avevo scorso prima il testo almeno due o tre volte! Poiché un uomo non ha il diritto di proclamare le parole della Torah dinanzi alla comunità se lui stesso non le ha lette precedentemente due o tre volte. Così agì anche Dio… davanti al quale la Torah è luminosa come il chiarore delle stelle. Quando giunse il momento di dare la Torah agli Israeliti, egli, secondo quanto si dice in Giobbe 28,27, “la vide, la misurò, la scrutò”: poi (come si dice al versetto seguente) la comunicò all’uomo»[12].
  1. Durante le festività di Sukkot termina la lettura sinagogale della Torah e nella festa di Simchat Torah («Gioia della Torah») inizia il nuovo ciclo con la Parasha[13] di Bereshit che proseguirà per 52 settimane. La persona a cui viene concesso, e offerto, il privilegio di concludere la lettura della Torah con il passo del Dt 34,1-12 viene indicata con il nome di Hatan Torah («Sposo della Torah») mentre colui che riprende la lettura della Torah dal primo versetto della Genesi viene chiamato Hatan Bereshit («Sposo della Genesi»). Ambedue i lettori vengono denominati «sposi», per cui potremo dire che il lettore è lo «sposo della Parola»; si mette così in evidenza un particolare rapporto che egli viene ad avere con la Parola, quello appunto sponsale.
  1. Tradizionalmente possono essere chiamati a leggere solo gli uomini e i ragazzi che hanno compiuto la cerimonia del Bar Mizvà («Figlio del precetto») e, nelle comunità liberali in cui anche la donna può coprire la carica di rabbino, anche le donne e le ragazze che hanno celebrato il Bat mizvà[14].
  1. Gesù lettore: la parola fatta visibile[15]

Nel suo Vangelo Luca fa costante riferimento all’attività di lettura di Gesù. Come tutti i fedeli del suo popolo Gesù è un attento lettore del libro sacro. Il suo leggere però è diverso; in lui l’azione del leggere, la parola che pronuncia, cessa di essere un fatto verbale, diventa evento; il raccontare si fa storia attuale; Gesù è il lettore che incarna e visibilizza la Parola. Luca fa iniziare la vita pubblica di Gesù con l’azione di leggere il libro del profeta Isaia, nel corso della preghiera sabbatica nella sinagoga di Nazareth (cf. Lc 4,16-30). Al termine della lettura Gesù fa una dichiarazione sorprendente, chiara nella sua formulazione: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi» (Lc 4,21). È come se dicesse: «Io sono la parola che voi avete ascoltato; accogliendo questa parola ricevete me; ciò che voi avete udito con i vostri orecchi, lo vedete anche con gli occhi, perché oggi si compie la parola che avete ascoltato». Gesù è simultaneamente la Parola letta, proclamata, da lui ascoltata, da lui compiuta, perché può dire: «Lo Spirito del Signore è sopra di me!» (Lc 4,18; cf. Is, 61,1). Egli può dire lungo il suo ministero che suo cibo è proprio tradurre in azione questa parola (cf. Gv 4,34). Un simile modo di porsi, così diverso dai lettori del tempo, fa sgranare tanto d’occhi («Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi su di lui»); l’assemblea è dapprima imbarazzatissima («Erano meravigliati»); poi si fa ostile. Possiamo chiederci: perché questa ostilità? La realtà è che loro, come tutti noi del resto, siamo abituati a considerare la lettura di un testo come un semplice fatto verbale, la trasmissione di un messaggio che può toccare la mente o il cuore, ma niente più. La lettura di Gesù, invece, non è così. Per questo «all’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città…» (Lc 4,28). Un lettore così, dove la parola proclamata era resa visibile nella presenza del lettore stesso, non l’avevano mai incontrato. In altri passi del Vangelo, anche se non in modo così esplicito, Luca ci presenta Gesù come un lettore della Scrittura che, mentre la legge, la vede compiersi in se stesso e nella vita del suo popolo. Possiamo accennare alla notte che Gesù trascorre sulla montagna insieme ai discepoli (cf. Lc 9,28-36), oppure al termine dell’ultima cena con i discepoli quando, riferendosi alla Scrittura, dice: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”, infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37); infine all’incontro con i discepoli di Emmaus quando li rimprovera perché ancora non riescono a capire che ciò che si legge nella Scrittura trova in lui il suo compimento (cf. Lc 24,13-35).

  1. Il lettore nella tradizione ecclesiale

La Chiesa primitiva, partendo dalla tradizione sinagogale ma distinguendosi da essa[16], ha creato la liturgia della Parola. Nelle comunità apostoliche notiamo una certa oscillazione nella pratica relativa ai lettori. Nella sua prima lettera ai Corinzi, verso l’anno 54, Paolo permette alle donne d’intervenire nelle celebrazioni. Scrive infatti: «Ogni uomo che prega o profetizza… Ogni donna che prega o profetizza» (1Cor 11,4.5). Afferma dunque con ciò l’uguaglianza perfetta tra l’uomo e la donna. Questa disposizione riflette bene il principio espresso nella lettera ai Galati (della stessa epoca di 1Cor): in Cristo Gesù, «non c’è più giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è più uomo né donna» (Gal 3,28). Troviamo però un altro testo che sopprime questa uguaglianza: «Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare… Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti» (1Cor 14,34). Nel II secolo, san Giustino c’informa che quando alla domenica i cristiani si riuniscono per celebrare il memoriale del Signore, «si fa lettura delle memorie degli apostoli e degli scritti dei profeti sin che il tempo lo permette. Quando il lettore ha terminato, colui che presiede tiene un discorso per ammonire ed esortare all’imitazione di questi buoni esempi»[17]. Nei primi secoli il lettore aveva un grande rilievo nella comunità; sebbene la lettura fosse «un’azione sacra, non fu in origine riservata agli ordini gerarchici, e completamente non lo è stata mai. A colui che legge, non si richiese in origine che di saper leggere, di avere una buona dizione, e di tenere una condotta conveniente»[18]. A compiere questo ufficio potevano essere ammessi «dei soggetti anche in età giovanile. S’incontrano numerose le testimonianze, dal III secolo in poi, specialmente in Africa e in Italia, di lettori sotto ai 15 anni; anzi Vittore Vitense parla addirittura di lectores infantuli (lettori fanciulli) vittime della persecuzione vandalica»[19]. Questa scelta era dettata dal fatto che «si riteneva particolarmente atta l’innocenza dei fanciulli a rilevare dal libro sacro la parola di Dio piena di Spirito Santo, a renderla inalterata alla comunità»[20]. In una chiesa i lettori «dovevano essere parecchi e formare una schola o coetus liturgicus col proprio direttore. Il martire san Pollio, interrogato dal giudice: Quid officium geris? (Che incarico occupi?) rispose: Primicerius lectorum (il capo dei lettori[21]. Per il compimento del loro ufficio i lettori spesso conoscevano a memoria tutta la Bibbia, erano custodi dei libri sacri e degli archivi in cui erano conservati; spesso erano gli scrittori del vescovo e insegnavano ai catecumeni. «I lettori possono essere (considerati) pastori, perché nutrono il popolo che ascolta»: è il loro più alto elogio, formulato dall’Ambrosiaste[22]. Col procedere del tempo molte delle funzioni del lettore furono attribuite o assorbite da altri ministri della celebrazione. Dal secolo IV la lettura del Vangelo è tolta al lettore e attribuita al diacono, o anche talvolta riservata al sacerdote. A partire dall’Ordo I la lettura dell’epistola viene attribuita al suddiacono[23]. Lungo il Medioevo, man mano che la celebrazione liturgica viene sempre più monopolizzata nelle mani del sacerdote, scompare anche la figura del lettore, dato che il celebrante, durante la celebrazione privata della messa, incomincia a leggere da solo anche i testi biblici della celebrazione eucaristica. I giovani e i fanciulli, che in precedenza erano iniziati a tale ministero vengono dirottati verso la schola cantorum. L’uso dei lettori-chierici continuò parzialmente a sopravvivere solo nelle chiese cattedrali, nelle grandi abbazie, nelle collegiate e, qua e là, anche durante le celebrazioni più importanti dell’anno liturgico; in questi casi, la figura del lettore rappresenta solo un elemento esigito dal cerimoniale ampolloso delle grandi cattedrali. Con la riforma liturgica del concilio Vaticano II e in particolare con il nuovo rito della celebrazione dell’eucaristia, rinasce il ministero del lettore affidato anche ai laici. Il 15 agosto 1972, Paolo VI con il «motu proprio» Ministeria quaedam riforma la legge vigente relativa agli ordini minori: il lettorato diviene un «ministero» permanente conferito anche a fedeli laici in un’apposita celebrazione ecclesiale di «istituzione».

  1. Il ministero del lettore istituito[24]

Nel motu proprio papale vengono così delineati i compiti o competenze propri del lettore: «Il Lettore è istituito per l’ufficio, a lui proprio, di leggere la parola di Dio nell’assemblea liturgica. Pertanto, nella messa e nelle altre azioni sacre spetta a lui proclamare le letture della Sacra Scrittura (ma non il Vangelo); in mancanza del salmista, recitare il salmo interlezionale; quando non sono disponibili né il diacono né il cantore, enunciare le intenzioni della preghiera universale dei fedeli; dirigere il canto e guidare la partecipazione del popolo fedele; istruire i fedeli a ricevere degnamente i sacramenti. Egli potrà anche – se sarà necessario – curare la preparazione degli altri fedeli, i quali, per incarico temporaneo, devono leggere la Sacra Scrittura nelle azioni liturgiche. Affinché poi adempia con maggiore dignità e perfezione questi uffici, procuri di meditare assiduamente la Sacra Scrittura»[25]. Nell’esortazione che il vescovo rivolge prima della preghiera d’istituzione, vengono esplicitate ulteriormente le competenze extraliturgiche del lettore[26]. Innanzitutto viene delineato il contesto generale dell’ufficio del lettore che è quello di servire alla fede: «E ora voi diventando lettori, cioè annunciatori della parola di Dio, siete chiamati a collaborare a questo impegno primario nella Chiesa e perciò sarete investiti di un particolare ufficio, che vi mette a servizio della fede, la quale ha la sua radice e il suo fondamento nella parola di Dio»[27]. Da questo ufficio discendono il compito della proclamazione della Parola nella liturgia e una serie di altri compiti: «Proclamerete la parola di Dio nell’assemblea liturgica; educherete alla fede i fanciulli e gli adulti e li guiderete a ricevere degnamente i sacramenti; porterete l’annunzio missionario del vangelo di salvezza agli uomini che ancora non lo conoscono. Attraverso questa via e con la vostra collaborazione molti potranno giungere alla conoscenza del Padre e del suo Figlio Gesù Cristo, che egli ha mandato, e così otterranno la vita eterna»[28].

Sintetizzando, il ministero del lettore, partendo dal fondamentale e riassuntivo compito di servire alla fede, si concretizza nella proclamazione della Parola; da qui discendono alcuni altri compiti: «Educare nella fede fanciulli e adulti» (vi è già per questo l’ufficio di catechista, ma esso può diventare compito fondamentale di colui che ha il mandato di proclamare la parola di Dio all’interno della Chiesa); «guidare i cristiani a ricevere degnamente i sacramenti» (non solo quelli dell’iniziazione cristiana, ma anche gli altri come la preparazione al matrimonio); «annunciare a livello di missione la parola di Dio» (aspetto missionario); «educare altri fedeli a essere in grado di annunciare provvisoriamente la parola di Dio» (animazione liturgica, ponendo così fine ai lettori dell’ultimo momento)[29].

A questo punto ci si può interrogare: continuare questa denominazione o introdurne un’altra che rispecchi l’insieme dei compiti del lettore? Giustamente M. Paternoster[30] rileva «come la figura del lettore, in tutti questi testi, si apre su una realtà ministeriale molto ampia e, palesemente, non riducibile all’azione liturgica della proclamazione della parola di Dio. Il ministero del lettore non è “prigioniero” della liturgia»; si è perciò indotti a pensare che «l’identità ministeriale del lettore deve essere colta soprattutto nel fatto che egli è il ministro della parola di Dio nella sua più ampia accezione». Di qui l’auspicio che «in futuro la figura ministeriale del lettore possa ricevere una più marcata attenzione ecclesiale e una più stimolante traduzione pastorale». Concludendo i suoi rilievi Paternoster afferma: «Forse lo stesso termine “lettore” non è molto indovinato, nel senso che risulta troppo limitativo rispetto alle sue vere funzioni, e allora va modificato. Perché non si incomincia a usare, anche nei documenti ufficiali, l’espressione “ministro della Parola”, che è molto più significativa e molto più esatta, sia dal punto di vista teologico che pastorale, dato che ha un riferimento molto più esplicito ai vari campi in cui si deve esplicare la sua attività ministeriale?».

  1. Formazione e spiritualità del lettore

Per svolgere il suo ministero il lettore – soprattutto se lo pensiamo come lo delineano i documenti citati e le sottolineature fatte – ha bisogno di una seria preparazione. Nella sua esortazione chi presiede il rito dice: «È quindi necessario che, mentre annunziate agli altri la parola di Dio, sappiate accoglierla in voi stessi con piena docilità allo Spirito Santo; meditatela ogni giorno per acquistarne una conoscenza sempre più viva e penetrante, ma soprattutto rendete testimonianza con la vostra vita al nostro salvatore Gesù Cristo»[31]. Si tratterà di una formazione biblica, liturgica, tecnica e pastorale. Non è poca cosa. C’è da riconoscere che siamo solo agli inizi.
Per quanto riguarda la spiritualità sottolineo solo due tratti. Come ci viene suggerito dalla tradizione ebraica, il lettore è lo sposo della Parola. Quando muove dal suo posto per andare a leggere, egli va incontro alla sposa e in segno di amore la bacia. Come la sposa è in cima ai pensieri dello sposo, è nel suo cuore (si pensi ai segni di croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto) così la Parola è nel suo pensiero, sulle sue labbra e nel suo cuore. A questa luce si può leggere quanto è scritto in Ministeria quaedam: «Il Lettore, sentendo la responsabilità dell’ufficio ricevuto, si adoperi in ogni modo e si valga dei mezzi opportuni per acquistare ogni giorno più pienamente il soave e vivo amore[32] e la conoscenza della Sacra Scrittura, onde divenire un più perfetto discepolo del Signore»[33].
Come Gesù anche il lettore di oggi deve diventare non solo un dicitore ma un realizzatore della Parola, un testimone. Per questo nella Chiesa primitiva quelli che erano stati oggetto di persecuzione avevano la precedenza nella lettura della Scrittura. Certamente nessuno può anche minimamente essere come Cristo; però siamo invitati a guardare a quel modello e lasciarci prendere dallo Spirito («Lo Spirito del Signore è sopra di me!»: Lc 4,18), il solo che può dare vita alla parola.

  1. Conclusione

Quando sono stati introdotti i primi lettori laici forse si pensava a persone capaci di leggere in pubblico le letture proposte per la liturgia. Ora, partendo da alcuni testi abbiamo visto che le cose sono un po’ più complesse, e che il ministero del lettore attende di essere studiato più a fondo e aperto a una realizzazione che non sia solo quella liturgica. Sarà anche da riflettere sull’istituzione, perché non risulti riservata ai soli candidati al sacerdozio, quando effettivamente il ministero è svolto quasi sempre da laici, uomini e donne.


[1] Cf. G. Venturi, Lectio divina e liturgia della parola. Per una corretta prassi pastorale, in G. Zevini – M. Maritano (edd.), La lectio divina nella vita della Chiesa, LAS, Roma 2005, pp. 135-159; più brevemente: G. Venturi, Oggi la parola si compie per voi. Teologia della liturgia della parola, in «Rivista di Pastorale liturgica» 43/250 (2005) 11-14.
[2] «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa e in modo speciale nelle azioni liturgiche… È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» (SC 7).
[3] Cf. per un ampio commento: L. Deiss, Vivere la Parola in comunità, Gribaudi, Torino 1976, pp. 100-113.
[4] Un’ampia trattazione sulla tradizione e liturgia ebraica si può trovare in DEISS, Vivere la Parola, cit., p. 22-313.
[5] Mishnah è il nome dato alla compilazione delle decisioni dei Tannaim (dottori anteriori al III sec.), arrangiati e revisionati, verso il 200 d.C., da Giuda il Principe in Galilea. La tradizione menziona delle raccolte precedenti, come quella di Rabbi Aqiba († 135) o del suo allievo Rabbi Meir.
[6] Cf. Trattato Meghillà, in V. Castiglioni (ed.), Mishnaiot. Ordine Primo e Secondo, Tipografia Sabbadini, Roma 1962 (5722), pp. 264-301. Le citazioni sono tratte da questa edizione.
[7] Megillah, IV,1-2: «Di lunedì e giovedì e nella preghiera vespertina del Sabbato si chiamano tre persone, non se ne deve chiamare né meno né più, e non si legge nessun brano profetico. Il primo e l’ultimo che leggono dicono ciascuno una benedizione, uno prima e l’altro dopo la lettura. Nei noviluni e nelle mezze feste se ne chiamano quattro, né meno né più e non si legge il brano profetico. Il primo e l’ultimo che leggono, dicono ciascuno una benedizione, l’uno prima e l’altro dopo la lettura. Questa è la regola generale: Ogni volta che vi è preghiera aggiuntiva senza essere festa solenne se ne chiamano quattro; nelle feste solenni cinque; nel giorno dell’Espiazione sei, di Sabbato sette; non se ne chiamano meno, ma si può accrescerne il numero e si legge un brano profetico. Il primo e l’ultimo pronunciano una benedizione, l’uno prima e l’altro dopo la lettura».
[8] Deiss, Vivere la Parola, cit., p. 136.
[9] I. Elbogen, Der Judische Gottesdienst in seiner geschichtlichen Entwicklung, G. Olms Verlag, Hildesheim 19624, p. 170.
[10] Si tenga presente che molti testi sono stati prima trasmessi oralmente con una struttura, perciò, che permetteva di essere facilmente ritenuti a memoria; inoltre, dato il continuo esercizio, vi era una grande capacità di imparare a memoria, anche perché i testi venivano cantillati.
[11] Contro Apione, II, 18
[12] H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, C.H. Beck, München, p. 158.
[13] Parasha (plur. parashot) è la suddivisione della Torah da farsi durante l’anno, un po’ come avviene nel nostro Lezionario.
[14] Verso i 5 anni, appena è in grado di leggere, il bambino ebreo è indirizzato allo studio dei testi religiosi per prepararsi – all’età di 13 anni – a un esame, alla presenza di un rabbino, e dimostrare di essere seriamente pronto a sostenere la cerimonia del Bar Mizvà («figlio del precetto»). Una volta proclamato bar mizvà il giovane ebreo diventa membro adulto della comunità. È usanza che, per festeggiare il Bar-Mizvà, prepari un pezzo (o tutta) della Parashà da leggere in Sinagoga. Anche le ragazze ebree debbono arrivare alla cerimonia del Bat mizvà attraverso la stessa preparazione che si richiede per i ragazzi; l’età richiesta per le ragazze è di 12 anni.
[15] Per questo paragrafo mi avvalgo di una riflessione di P. Stancari, Gesù lettore instancabile, in «Coscienza» 1 (2004) 38 [Bimestrale del Movimento ecclesiale di impegno culturale].
[16] La derivazione dalla Sinagoga è fortemente sottolineata da alcuni autori. Facendo riferimento a Mayer, Raffa scrive: «Circa la struttura di questo settore vari autori la pensano quasi come un calco dell’ufficio sinagogale. Ora è vero che Gesù, gli apostoli (Mt 4,23; 9,35; Gv 18,20; At 9,20) e forse un certo numero dei primi cristiani frequentavano la Sinagoga. Tuttavia è evidente il loro spirito innovativo. Non si deve dimenticare la tendenza della prima comunità cristiana a dissociarsi dalle istituzioni giudaiche, tendenza riflessa fra l’altro, oltre ché in alcuni atteggiamenti di Gesù e di san Paolo, nella Didachè, in sant’Ignazio, nello Ps-Barnaba, nel Didascalia e in altri. Notizie precise sul dispositivo lezionale della Sinagoga vengono solo da fonti tardive medioevali. Nessuna fonte antica attesta la stretta dipendenza dall’ufficio sinagogale. Si notino la diversità del giorno di riunione, da sabato a domenica (Did 14), e anche giornalmente (cotidie, cf. At 2,46), la valorizzazione del Nuovo Testamento, il collegamento con l’eucaristia, la novità di gestione da parte del vescovo e dei diaconi. Ormai, anche se i cristiani leggevano i testi dell’Antico Testamento, lo facevano in chiave diversa, cioè in riferimento a Cristo, già venuto, nel cui nome si sentivano riuniti. Ciò poteva influire nella scelta, nell’ordinamento delle pericopi e nella loro spiegazione, rilevabile in qualche modo anche nella letteratura primitiva cristiana. Nella Sinagoga il lettore sceglieva lui stesso il brano da leggere in vista della spiegazione programmata (cf. Lc 4,16-20). A volte si poteva trattare di un ospite invitato che a sua volta commentava il brano preferito (cf. At 13,15-41). Giustino invece prospetta l’omelia come un elemento strettamente presidenziale. Ciò fa supporre che la medesima cosa valesse per la selezione dei testi. Dopo questi rilievi appare chiara la diversità non solo di spirito e di clima, ma anche dell’ordinamento», V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale, CLV-Ed.Liturgiche, Roma 2003, p. 307.
[17] S. Giustino, I Apologia, 67, tr. it.: I. Giordani, Le apologie di Giustino, Città Nuova, Roma 1962, pp. 25-26.
[18] N.M. Denis-Boulet, in A.G. Martimort, La Chiesa in preghiera. Introduzione alla Liturgia, Desclée, Roma-Parigi-Tournai-New-York 1963, p. 371.
[19] M. Righetti, Manuale di storia liturgica. Vol. III: L’eucaristia, Ancora, Milano 19562, p. 226, n. 149.
[20] I.A. Jungmann, Misssarum Solemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa romana, Marietti, Torino 19632, p. 331. Su questo tema cf. E. Peterson, Das jugendliche Alter der Lectoren, in «Ephemerides liturgicae» 48 (1934) 437-442.
[21] Righetti, Manuale III, cit., p. 226, n. 149.
[22] Cit. da A. Quacquarelli, Retorica e liturgia antenicena, Desclée, Roma-Parigi-Tournai-New-York 1960, pp. 52-57.
[23] È stato rilevato spesso che, fino al sec. XIII, nelle formule di ordinazione del suddiacono, nulla concerne la lettura dell’epistola, ma che quelle della benedizione dei lettori, conservate, non portano restrizione alcuna al loro ufficio.
[24] Per questa parte Cf. M. Paternoster, Al servizio della Parola. Il ministero del Lettore, Paoline, Cinisello B. 1988, cap. V; L. Brandolini, Il ministero del lettore, in Id., Ministeri e servizi nella chiesa di oggi, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1992, pp. 135-160.
[25] Paolo VI, Ministeria quaedam, 15.08.1972, IV.
[26] Cf. Conferenza Episcopale Italiana (= CEI), Pontificale Romano riformato a norma dei decreti del concilio ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI Istituzione dei ministeri. Consacrazione delle vergini. Benedizione abbaziale, LEV, Città del Vaticano 1980, n. 11, p. 38.
[27] Ivi
[28] Ivi
[29] Il documento pastorale della CEI, I ministeri nella Chiesa, del 15.09.1973, al n. 7, fa derivare proprio dal ministero liturgico quello dell’animazione pastorale biblico-liturgica: «L’ufficio liturgico del lettore è la proclamazione delle letture nell’assemblea liturgica. Di conseguenza il lettore deve curare la preparazione dei fedeli alla comprensione della parola di Dio ed educare nella fede i fanciulli e gli adulti. Ministero perciò di annunciatore, di catechista, di educatore alla vita sacramentale, di evangelizzatore a chi non conosce o misconosce il vangelo. Suo impegno, perché al ministero corrisponda un’effettiva idoneità e consapevolezza, deve essere quello di accogliere, conoscere, meditare e testimoniare la parola di Dio che egli deve trasmettere» (Enchiridion CEI [EDB, Bologna 20005] 2, 552).
[30] Paternoster, Al servizio della Parola, cit., c. VII: Il ministero del lettore: un compito solo liturgico?
[31] CEI, Istituzione dei ministeri, cit., nn. 11, 38.
[32] ] Cf. SC 24; DV 25.
[33] Paolo VI, Ministeria quaedam, IV.




Non andremo più “a messa”. Andremo all’incontro
Jean-Luc Lecat

Non andremo più “a messa”… andremo all’incontro…
di Jean-Luc Lecat
in “www.garriguesetsentiers.org” del 30 settembre 2020 (traduzione: www.finesettimana.org)

Onnipresenza (e onni-rigidità!) della messa nel mondo cattolico…
Andare a messa ogni settimana era un obbligo sotto pena di peccato mortale. E andare a messa resta un segno caratteristico del cattolicesimo.
Le occasioni di messa sono molteplici, anche se lo svolgimento della messa è praticamente invariato, fisso, definito da codici molto severi dove l’improvvisazione e la spontaneità della vita non hanno quasi nessuno spazio.
Certo, si possono fare delle aggiunte, adattamenti alle diverse situazioni, ma la cornice e le parole restano sempre le stesse dall’inizio alla fine.
La “messa” è come un “passe-partout” della società cattolica… nessun evento importante può essere fatto senza la messa che lo accompagni: la nascita, la vita, l’amore, la morte, la vita privata e spesso anche la vita pubblica. Mi direte che tutto questo non è più attuale, dato che a messa ci si va sempre di meno! Ed è vero! Almeno in Occidente…
Ma quando si tratta di un avvenimento importante della vita, nonostante tutto, si vorrebbe proprio una “messa”… che sia per un matrimonio o per un funerale, ma anche per una commemorazione o un anniversario…
Ma questo bisogno di “messa” non è fuori posto? Non è terribilmente lontano dalla fede in Cristo? Non è vissuto da chi lo richiede come una festività ben organizzata, senza rischi, perché molto inquadrata nel suo svolgimento praticamente fisso, un momento per dare solennità, adattabile ad una situazione particolare grazie all’aggiunta di alcune parole scelte e, per di più, con una piccola aura di mistero un po’ magica? Ma una cosa così non è forse la caricatura di un incontro di stile evangelico e di vita condivisa?
Anche se posso ammettere, certo, che anche in quelle celebrazioni possa passare lo Spirito…
Nelle “messe” si compie un rito molto organizzato e intoccabile: si comincia con l’invito a riconoscere che siamo, per definizione, peccatori e quindi cattivi, e che dobbiamo chiedere pietà; poi si ascoltano due o tre brani biblici che vogliono dirci qualcosa di Dio e di Gesù: dovrebbero essere il nostro cibo per la settimana o per la circostanza celebrata quel giorno. Segue poi l’ascolto, senza possibilità di risposta, del commento di un prete (uno dei momenti meno formattati, ma molto spesso i più formattanti perché senza diritto di risposta o di modulazione, eventualmente solo criticati all’uscita!). E tale commento è di nuovo stato definito da un organismo vaticano come l’unico autorizzato durante l’eucaristia: “I fedeli laici possono predicare in una chiesa ma in nessun caso potranno pronunciare l’omelia durante l’eucaristia”! Poi il celebrante proclama la preghiera e riprende i gesti e le parole di Gesù nel suo ultimo pasto. In seguito, siamo invitati a ricevere il pane, corpo di Gesù, ma solo se siamo conformi alle leggi! Alla fine, presumibilmente fortificati da tutto questo rito compiuto secondo le norme e in regola con il diritto canonico e le indicazioni vaticane, eccoci rimandati nel mondo della vita quotidiana, quello in cui siamo confrontati a tanti problemi e a molteplici modi di affrontare la vita…
Ite missa est, Andate, la messa è finita.
In questo rito della “messa”, dov’è che l’assemblea esprime le sue richieste, a parte la preghiera universale? dov’è l’incontro, a parte il timido gesto dello scambio di pace? dov’è la condivisione, a parte il pane religiosamente distribuito? Dove si realizza, se non forse nel segreto dei cuori, quel momento rinvigorente, ricco di vita e di comunicazione, che potrebbe far pensare ad un lieto momento vissuto insieme e dare lo slancio sufficiente per ripartire nel vortice della vita?
Vorrei tanto che non si parlasse più di “messa”, perché questa parola rappresenta, nelle nostre teste, in quelle dei nostri contemporanei e, pare, anche in quelle di molti celebranti, una cosa preconfezionata, che non è affar nostro, ma solo dei preti! Preferirei che non dicessimo più “andare a messa”. Perché non diciamo invece: “abbiamo un appuntamento”, “andiamo all’incontro”? Andiamo a preparare la nostra festa di domenica prossima, andiamo a vivere “il nostro ritrovarci domenicale”, andiamo a condividere la gioia di quella coppia che si sposa, il dolore di quella famiglia in lutto, l’allegria di quei giovani che vogliono celebrare la vita. È solo un modo di giocare con le parole? È una semplice questione di vocabolario? o non potrebbe essere un reale cambiamento di mentalità e di atteggiamento? Ogni volta che ci ritroviamo, c’è un incontro che possiamo vivere, ci uniamo a persone alla ricerca della vita, veniamo ad ascoltare, a tentare di comprendere e di reagire alle parole di Gesù, a quelle di donne e di uomini di Dio che lo hanno preceduto, a quelle di amici che lo hanno scelto come maestro di vita… Insieme, veniamo a cercare di comprendere, di inserirci. Ci saranno tempi di silenzio, momenti di ammirazione, istanti di preghiera, condivideremo un pasto e spezzeremo il pane e berremo il vino come ha fatto Gesù un tempo con i suoi amici e insieme metteremo in comune, nel tempo che ci sarà dato, gioie, dolori, preoccupazioni, interrogativi, progetti e passioni, speranze e scoraggiamenti, le nostre vite, insomma! Credo che dobbiamo completamente riconsiderare e reinventare questo tempo di incontro tra di noi e con tutti coloro che avrebbero voglia di unirsi a noi. Mi sembra indispensabile rompere quel rito, fisso per definizione, che chiamiamo “messa”. Dobbiamo continuamente ritrovare la vita, riimmaginare il nostro modo di stare insieme, di nutrirci di Gesù e della sua parola. Assumiamoci il rischio di osare vivere un tempo reale di vita, attorno a quello che è il cuore della nostra fede, perché questa fede diventi viva nel cuore delle nostre vite. Facciamo un sogno! E se questo incontro, dal ritmo da definire, diventasse un vero pasto condiviso, indipendentemente dalle circostanze? Un vero appuntamento di persone in carne ed ossa, con tutto il peso della loro umanità, un momento nutriente, rinvigorente e fonte di gioia…