JESUS
Don Augusto Fontana

 «Lo chiamerai GESU’»

In Brasile il nome JESUS l’ho trovato scritto dappertutto: adesivi sui vetri delle auto, manifesti, murales…

Jesus. Ho guardato il tuo nome tappezzato sui muri marci delle favelas e nei formicai delle rodoviarie, nel mio pellegrinaggio a Brasilia dove ho avuto solo il tempo per sussurrarti nella fantastica e malinconica cattedrale.

Jesus. Ho spiato il tuo nome sulle porte di casa: Antônio de Jesus Almeida…; onore di averti, noi tutti, come radice nelle nostre genealogie. Con noi sei Adamo della nostra carne, per noi vuoi essere Adamo di vite sognanti e sognate.

Jesus. Ho visto il tuo nome nel caleidoscopio di Igrejas e Igrejinhas, chiese a cappelle, frammenti variopinti della tua tunica con cui vesti, con compassione, feste e fatiche di vite nude.

Jesus. Ho udito il tuo nome da labbra di apocalittici sermoni e da polifoniche nenie invocanti pietà, salute e pace.

Jesus. Mi ha abbagliato il tuo nome incollato extra large su insegne e tabelloni pubblicitari tra mercanzie del mercato globale, appeso ed esposto ad acqua e sole, come un tempo sul Golgota, a narrare la tua storia, ormai indifferente a ladroni e ladruncoli, a passanti delusi, a noi  stanchi di sentirti venuto e veniente.

Jesus. Osservo il tuo nome come vernice stinta su questo mio invecchiato battesimo, nome inciso sulla corteccia del mio giovane albero, ormai cicatrizzato.

Jesus. Pronuncio il tuo nome in questa periferia di consumi, nevrosi e poteri, in questo presepio vivente di palme, baracche e speranze dove ogni sera celebro gli ultimi passi verso la tua Incarnazione.

Jesus. Invoco il tuo nome sulla mia ancora impantanata conversione, avvolgo nel tuo nome altri nomi e storie e volti, quelli della mia carne, della mia fede, delle mie nostalgie, della mia festa, delle mie fatiche.

Jesus. E’ questo il nome invocato da Pietro sul paralitico nel Tempio: «Non possiedo né oro né argento, ma ti dò quello che ho: nel nome di Gesù Cristo, cammina» (Atti degli apostoli 3,6).




Assunzione di Maria
P. Ermes Ronchi

Siamo germogli di luce nel mondo
Assunzione della Beata Vergine Maria
(Letture: Apocalisse 11,19a;12,1-6a.10ab; Salmo 44; 1 Corinzi 15,20-27a; Luca 1,39-56)
Ermes Ronchi (Avvenire12/08/2010)

I dogmi che riguardano Maria, ben più che un privilegio esclusivo, sono indicazioni esistenziali valide per ogni uomo e ogni donna.
Lo indica benissimo la lettura dell’Apocalisse: vidi una donna vestita di sole, che stava per partorire, e un drago. Il segno della donna nel cielo evoca santa Maria, ma anche l’intera umanità, la Chiesa di Dio, ciascuno di noi, anche me, piccolo cuore ancora vestito d’ombre, ma affamato di sole.
Contiene la nostra comune vocazione:

  • assorbire luce, farsene custodi (vestita di sole),
  • essere nella vita datori di vita (stava per partorire):
  • capaci di lottare contro il male (il drago rosso).

La festa dell’Assunta ci chiama ad aver fede nell’esito buono, positivo della storia: la terra è incinta di vita e non finirà fra le spire della violenza; il futuro è minacciato, ma la bellezza e la vitalità della Donna sono più forti della violenza di qualsiasi drago.
Il Vangelo presenta l’unica pagina in cui sono protagoniste due donne, senza nessun altra presenza, che non sia quella del mistero di Dio pulsante nel grembo.
Nel Vangelo profetizzano per prime le madri. «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo». Prima parola di Elisabetta, che mantiene e prolunga il giuramento irrevocabile di Dio: Dio li benedisse (Genesi 1,28), e lo estende da Maria a ogni donna, a ogni creatura. La prima parola, la prima germinazione di pensiero, l’inizio di ogni dialogo fecondo è quando sai dire all’altro: che tu sia benedetto. Poterlo pensare e poi proclamare a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi porta un mistero, a chi porta un abbraccio: «Tu sei benedetto», Dio mi benedice con la tua presenza, possa benedirti con la mia presenza.
«L’anima mia magnifica il Signore». Magnificare significa fare grande. Ma come può la piccola creatura fare grande il suo Creatore? Tu fai grande Dio nella misura in cui gli dai tempo e cuore. Tu fai piccolo Dio nella misura in cui Lui diminuisce nella tua vita. Santa Maria ci aiuta a camminare occupati dall’avvenire di cielo che è in noi come un germoglio di luce. Ad abitare la terra come lei, benedicendo le creature e facendo grande Dio.




Dio non chiede, si dona per primo
P. Ermes Ronchi

Dio non chiede, si dona per primo
padre Ermes Ronchi  (02-08-2009)
Il lago si è riempito di barche e di speranze, l’incontro germoglia di domande.
Rabbi, quando sei venuto qua? Ti stiamo cercando, perché ti nascondi? E Gesù svela la sua distanza: molto di più di un lago c’è di mezzo tra me e voi… Incompreso, è sempre sull’altra riva. Ma non si arrende. Lui che ha sfamato la folla, ora ne diventa l’affamatore, vuole svegliare un’altra fame, per un pane diverso.
Cosa dobbiamo fare per avere questo pane? La risposta è sorprendente: credere, aderire. Sono io che riapro le vie del cielo, che do senso, profondità, forza e canto alla vita. Credere, ma con fede pura: Voi mi cercate solo perché avete mangiato! Gesù interroga la mia fede illusoria: io amo Dio o i favori di Dio? Abramo, padre dei credenti, ama Dio più delle promesse di Dio; i profeti credono nella Parola di Dio più ancora che nella sua realizzazione. E io? Amo i doni che attendo o amo il Donatore? La folla pone la terza domanda: quale segno fai (ancora non hanno capito!) perché possiamo crederti? Mosè ci ha dato la manna, ma tu che cosa ci dai? Gesù risponde cambiando i tempi, dal passato al presente, dal Sinai al lago di Galilea, e gli attori: non Mosè ha dato, ma Dio; e quel Padre ancora dà. ‘Dio dà’. Due parole semplicissime eppure chiave di volta del Vangelo. Dio non chiede, Dio dà. Dio non pretende, non esige, Dio dà. Non dà pane in cambio di potere, neppure di potere sulle anime. Dio dà vita al mondo. Dà per primo, senza niente in cambio, in perdita. Dio dà vita. A noi spetta però aprirci, accogliere, dire di sì, acconsentire, credere.
Io sono il pane della vita. Pane indica tutto ciò che ci mantiene in vita. Indica amore, dignità, libertà, coraggio, pace, energia. Noi viviamo di pane e di sogni, di pane e di bellezza, di pane e di amore, entrambi quotidiani, entrambi necessari per oggi e per domani. Gesù è colui che mantiene viva questa vita: Dio è amore e riversa amore; Dio è luce e dilaga luce da lui; Dio è eterno e l’eternità si insinua nell’istante. Gesù annuncia la sua pretesa più alta: io faccio vivere! Ho saziato per un giorno la vostra fame, ma posso colmare tutta la vostra vita, tutte le profondità dell’esistenza. L’uomo nasce affamato. Ed è la sua fortuna: ha avuto in dono un cuore più largo e più profondo di tutte le creature messe insieme. E non può vivere senza mistero. Sete di cielo che non si placherà con larghe sorsate di terra.




Un pastore capace di commuoversi
P. Ermes Ronchi

Un pastore capace di commuoversi
Padre Ermes Ronchi – Avvenire (20 Luglio 2003)

Gesù si commosse per loro. Questa parola “si commosse” bella come un miracolo, è il filo conduttore del racconto. All’inizio Gesù si commuove per i discepoli: li aveva mandati a due a due, sono tornati carichi d’umanità toccata, di umanità guarita, diventati creatori di comunione al punto che per la folla non hanno neanche più il tempo di mangiare.

Gesù mosso a compassione dice: Venite in disparte, in un luogo solitario e riposatevi un po’. Israele è pieno di vedove di Naim che piangono figli morti, pieno di adultere colte in flagrante e di mani pronte a lapidarle, pieno di lebbrosi e di urgenze, e Gesù, invece di buttare subito i suoi dentro i campi sterminati del mondo, li attira nel deserto. Quasi a perdere tempo. Ma come sempre nella bibbia, il deserto è per parlare al cuore (cf Osea 2). Il “riposo in disparte” non è la pausa tra due lavori, un’occasione per riprendere fiato, è molto di più. È vivere il settimo giorno di Dio, “quando vide che tutto era bello e si riposò“. La vera terra promessa non è un luogo, ma un tempo. Questo tempo è il settimo giorno, e ogni festa è un’altra cattedrale elevata non più nello spazio ma nel tempo. Là Egli parlerà al cuore, là attirerà a sé: rivelazione e presenza. Nel giorno del riposo e della festa, il Signore concede ciò che ha veramente promesso: se stesso. E spiega il segreto del Regno.

Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro. Gesù è preso fra la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. Ed in questo conflitto egli insegna agli apostoli, e a noi, l’arte più difficile: quella di dimenticarsi. Era partito con un programma, ora è pronto a modificarlo. Partiti per restare soli, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell’uomo, sempre. Gesù dice: prenditi del tempo. E subito aggiunge: ma il tuo tempo non è tuo. Appartiene alla commozione per l’uomo, alla compassione.

 Gesù si commosse: egli non è mai se stesso come quando può essere misericordioso e mostrare pietà. E quanto più siamo feriti dalla vita, tanto più il suo cuore si commuove per noi, e segue le nostre tracce, lungo tutti i sentieri in cui ci smarriamo, vite senza pastore. Non per rimproverarci, ma per offrirci riposo, parlare al cuore, dare se stesso.

Si mise ad insegnare loro molte cose. Ma la prima cosa che i discepoli imparano da Gesù è quella di semplicemente, divinamente commuoversi. Il tesoro che porteranno con sé dalla riva del lago è il ricordo dello sguardo di Gesù che si commuove. Lo stesso tesoro che i cristiani devono salvare oggi: il miracolo della compassione.




RACCONTO Lo spaventapasseri 
B. Ferrero

RACCONTO

Lo spaventapasseri
Bruno Ferrero, Cerchi nell’acqua, Elledici

Una volta un cardellino fu ferito a un’ala da un cacciatore. Per qualche tempo riuscì a sopravvivere con quello che trovava per terra. Poi, terribile e gelido, arrivò l’inverno.
Un freddo mattino, cercando qualcosa da mettere nel becco, il cardellino si posò su uno spaventapasseri. Era uno spaventapasseri molto distinto, grande amico di gazze, cornacchie e volatili vari. Aveva il corpo di paglia infagottato in un vecchio abito da cerimonia; la testa era una grossa zucca arancione; i denti erano fatti con granelli di mais; per naso aveva una carota e due noci per occhi.

  • Che ti capita, cardellino?“, chiese lo spaventapasseri, gentile come sempre.
  • Va male. – sospirò il cardellino – Il freddo mi sta uccidendo e non ho un rifugio. Per non parlare del cibo. Penso che non rivedrò la primavera“.
  • Non aver paura. Rifugiati qui sotto la giacca. La mia paglia è asciutta e calda“.

Così il cardellino trovò una casa nel cuore di paglia dello spaventapasseri. Restava il problema del cibo. Era sempre più difficile per il cardellino trovare bacche o semi. Un giorno in cui tutto rabbrividiva sotto il velo gelido della brina, lo spaventapasseri disse dolcemente al cardellino:

  • Cardellino, mangia i miei denti: sono ottimi granelli di mais”.
  • “Ma tu resterai senza bocca”.
  • “Sembrerò molto più saggio”.

Lo spaventapasseri rimase senza bocca, ma era contento che il suo piccolo amico vivesse. E gli sorrideva con gli occhi di noce. Dopo qualche giorno fu la volta del naso di carota.

  • “Mangialo. E’ ricco di vitamine”, diceva lo spaventapasseri al cardellino.

Toccò poi alle noci che servivano da occhi.

  • “Mi basteranno i tuoi racconti”, diceva lui.

Infine lo spaventapasseri offrì al cardellino anche la zucca che gli faceva da testa.
Quando arrivò la primavera, lo spaventapasseri non c’era più.
Ma il cardellino era vivo e spiccò il volo nel cielo azzurro. 

“Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo” (Matteo 26,26).




La fede superstiziosa ti arriva in casa

La fede superstiziosa che abita i social network

https://www.retesicomoro.it/fede-superstiziosa-abita-social-network/

27 Giugno 2024

Pagine apparentemente cristiane diffondono post che hanno a che fare più con il magico che con il sacro.

Sui social network capita di imbattersi in pagine che promuovono un cristianesimo dai risvolti superstiziosi. Queste, talvolta parecchio seguite, pubblicano post con immagini sacre rielaborate per attirare l’attenzione e accompagnate da frasi, come quello del profilo su Facebook “Dio è con Noi” in cui a fianco di un’immagine del Cristo della Misericordia c’è un cuore, sormontato da delle rose, con sopra scritto in modo minaccioso: «Tu, che adesso hai il telefono in mano, se passi senza ringraziare Gesù, domani potrebbe essere troppo tardi». Come fare per rendere grazie il Signore? Sotto c’è l’indicazione, accanto al disegno di una mano che tiene un cellulare: «tocca il pulsante di whatsapp e dichiara Amen». Il post è seguito appunto da un tasto della diffusa app di messaggistica che serve per iscriversi a una chat della community della pagina.
Come spiega su Vino Nuovo Paola Springhetti, che insegna Giornalismo alla Pontificia Università Salesiana, questo invito serve a «far aumentare il numero delle interazioni con il post e quindi a far sì che l’algoritmo di Facebook lo ritenga interessante e continui a farlo vedere nelle bacheche virtuali». Ma dal punto di vista religioso il problema è il tono imperioso e superstizioso della frase, analogo a quella in un altro post dove si vede santa Rita in un letto di rose: «Santa Rita verrà a trovarti oggi. Porterà via tutto il tuo dolore, le preoccupazioni e le paure, e benedirà tutti coloro che toccano l’immagine e scrivono Amen». Insomma, si combina la devozione con il ricatto digitale.
Un altro esempio segnalato nell’articolo mostra una raffigurazione retrò della Madonna, con vestiti rosa e azzurro e occhi chiari, accanto alle scritte «Madonna delle Lacrime, in questo momento difficile per il mondo, asciuga le nostre lacrime. Amen» e «Non scorrere senza condividere la Madonna delle Lacrime. Porta solo bene». Una manifestazione di pietà popolare viene dunque usata per alimentare la credenza che condividere un’immagine su un social network porti “solo bene”. Sostanzialmente, la Madonna viene equiparata alle coccinelle e ai quadrifogli. Il pensiero superstizioso che sta alla base di questi meccanismi è lo stesso di quello delle catene di sant’Antonio, degli oroscopi, dell’astrologia, dell’usanza di gettare una moneta in una fontana o in un pozzo.
D’altronde, i social sono lo specchio di una parte della realtà e, quindi, vi rientrano anche queste espressioni magiche con cui la gente cerca consolazione, sicurezza, speranza. Le migliaia di like e condivisioni ci ricordano come nella fede, come nella vita, molte persone si lascino guidare da istinti irrazionali e irragionevoli. Nel rapporto del 2021 del Censis sulla situazione sociale del Paese si legge: «Di fianco alla maggioritaria società ragionevole e saggia, si leva un’onda di irrazionalità, un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà circostante». Per credere nel Dio della Sacra Scrittura non bisogna lasciare spazio alle superstizioni.




Dio non interviene al posto mio, ma con me
P.Ermes Ronchi

Dio non interviene al posto mio ma con me
 Ermes Ronchi (Avvenire18/06/2015)

XII Domenica Tempo ordinario Anno B

Una notte di tempesta e di paura sul lago, e Gesù dorme. Anche il nostro mondo è in piena tempesta, geme di dolore con le vene aperte, e Dio sembra dormire.
Nessuna esistenza sfugge all’assurdo e alla sofferenza, e Dio non parla, rimane muto.
È nella notte che nascono le grandi domande: Non ti importa niente di noi? Perché dormi? Destati e vieni in aiuto! I Salmi traboccano di questo grido, riempie la bocca di Giobbe, lo ripetono profeti e apostoli. Poche cose sono bibliche come questo grido a contestare il silenzio di Dio, poche esperienze sono umane come questa paura di morire o di vivere nell’abbandono.
Perché avete così tanta paura? Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.
Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza. Non interviene al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.
L’intera nostra esistenza può essere descritta come una traversata pericolosa, un passare all’altra riva, quella della vita adulta, responsabile, buona. Una traversata è iniziare un matrimonio; una traversata è il futuro che si apre davanti al bambino; una traversata burrascosa è tentare di ricomporre lacerazioni, ritrovare persone, vincere paure, accogliere poveri e stranieri. C’è tanta paura lungo la traversata, paura anche legittima. Ma le barche non sono state costruite per restare ormeggiate al sicuro nei porti.
Vorrei che il Signore gridasse subito all’uragano: Taci; e alle onde: Calmatevi; e alla mia angoscia ripetesse: è finita. Vorrei essere esentato dalla lotta, invece Dio risponde chiamandomi alla perseveranza, moltiplicandomi le energie; la sua risposta è tanta forza quanta ne serve per il primo colpo di remo. E ad ogni colpo lui la rinnoverà.
Non ti importa che moriamo? La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti:  Mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore. E sono qui. A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime, come mano forte sulla tua, inizio d’approdo sicuro.




Lascia dormire il tuo cuore nella tempesta
Don Angelo Casati

Lascia dormire il tuo cuore nella tempesta
di don Angelo Casati[1]

La traversata della vita come metafora del progetto divino, nello sforzo e nel sogno di tendere continuamente verso l’altra riva.
In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che moriamo?”. Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”. (Marco 4, 35-41)
Rileggendo il brano di Marco, il brano della tempesta sedata, mi veniva spontaneo pensare come ci capiti a volte di riandare a questo brano quando celebriamo un matrimonio e anche quando accompagniamo qui per l’ultimo saluto uno dei nostri cari; forse potremmo leggerlo anche nel giorno di un Battesimo.
E mi chiedevo: perché? Perché il dilagare di questo brano in situazioni così diverse della nostra vita?  Forse perché tutta la nostra vita può essere evocata sotto il simbolo della traversata, del passare all’altra riva. Quel giorno verso sera Gesù disse: «Passiamo all’altra riva».
La vita che sta davanti a un bambino è una traversata; il matrimonio, questa avventura a due, è una traversata; ogni vocazione è una traversata; la morte è una traversata. Ma forse ogni giorno, ogni giornata è arrivare a sera a un’altra riva. Traversata è ogni progetto; ogni progetto del cuore è sognare e tendere all’altra riva.
«Nel frattempo si sollevò una grande tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena».
E anche questa è condizione comune, condizione comune di ogni traversata: la tempesta, le bufere, le bufere della vita.  Non è che ce le mandi Dio.  A volte abbiamo uno strano modo di ringraziare Dio e lo ringraziamo di averci salvati dalle inondazioni. Ma, allora, dovrebbero imprecare contro Dio quelli che hanno la barca inondata?  La bufera fa parte della vita. E non ci sono solo le bufere esteriori. A volte le più terribili sono quelle interiori.
Un teologo, profondo conoscitore dei labirinti dell’inconscio, scrive: «Abbastanza spesso, proprio quando smettiamo di affaccendarci esteriormente, il nostro cuore comincia a rimbombare come un oceano sferzato da raffiche di vento e noi piombiamo nella paura di noi stessi, non ci raccapezziamo più, e vorremmo proteggerci senza sapere in che modo, come se incappassimo nell’occhio di un ciclone, che ci risucchia irresistibilmente nel profondo con sempre maggiore rapidità» (E. Drewermann, Il Vangelo di Marco, pp. 144-145).
Ecco, il Vangelo di Marco sembra suggerirci che sarebbe sogno vano pensare di non avere a che fare con questo mare, e invece è da sapienti imparare a conviverci. È suggestivo, fino quasi a diventare un simbolo, l’esempio di Gesù che dorme sulla barca.
Se, sull’esempio di Gesù, cercheremo di raggiungere una calma più profonda nel nostro intimo, allora le onde si acquieteranno e il vento si placherà.
«È importante» scrive Drewermann «raggiungere, al di là della zona dell’angoscia psichica, il luogo nel quale la tempesta si placa. Bisogna ancorare profondamente la barca della nostra vita e confidare nel punto in cui, al di sotto del mare agitato, più abissale ancora dell’abisso, un solido fondale ci fornisce l’appiglio».
Questo Dio, che dorme sulla barca scossa dalla tempesta, dal vento, sembra dirci: confida nella mia presenza, anche se ti sembro assente, io ho il potere di placare la bufera e di avvicinare l’altra riva, lascia dormire il tuo cuore nella pace. Ancorarsi in Dio e imparare a «dormire» nella tempesta. Ancorarsi in Dio e imparare a dormire anche per l’ultima tempesta.
Senza scampo un bel giorno verrà il momento in cui né medici, né preti, né consiglieri, né altri interventi esterni potranno più aiutarci, il momento in cui noi saremo arrivati alla fine dell’esistenza, dove ad attenderci sarà la morte.
E allora per l’ultima volta sarà importante trovare quiete contro l’angoscia; allora sarà ancora più decisivo ancorarsi in Dio e imparare a dormire nella tempesta.


[1] nato a Milano nel 1931, è licenziato in sacra teologia. E’ sacerdote dal 1954. Ha insegnato nei seminari diocesani ed è stato parroco della comunità di San Giovanni in Laterano a Milano




16 giugno 2024.
P.Ermes Ronchi. Nel cuore di tutti il seme di Dio

Nel cuore di tutti il seme di Dio
padre Ermes Ronchi (17-06-2012)

Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno. Gesù parla delle cose più grandi con una semplicità disarmante. Non fa ragionamenti, apre il libro della vita; racconta Dio con la freschezza di un germoglio di grano, spiega l’infinito attraverso il minuscolo seme di senape. Perché la vita delle creature più semplici risponde alle stesse leggi della nostra vita spirituale, perché Vangelo e vita camminano nella stessa direzione, che è il fiorire della vita in tutte le sue forme. Accade nel regno di Dio come quando un uomo semina. Dio è il seminatore infaticato della nostra terra, continuamente immette in noi e nel cosmo le sue energie in forme germinali: il nostro compito è portarle a maturazione. Siamo un pugno di terra in cui Dio ha deposto i suoi germi vitali. Nessuno ne è privo, nessuno è vuoto, perché la mano di Dio continua a creare.
La prima parabola sottolinea un miracolo di cui non ci stupiamo più: alla sera vedi un bocciolo, il giorno dopo si è aperto un fiore. Senza alcun intervento esterno.
Ecco: Che tu dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Com’è pacificante questo! Le cose di Dio fioriscono per una misteriosa forza interna, per la straordinaria energia segreta che hanno le cose buone, vere e belle. In tutte le persone, nel mondo e nel cuore, nonostante i nostri dubbi, Dio matura. E nessuno può sapere di quanta esposizione al sole, al sole della vita, abbia bisogno il buon grano di Dio per maturare: nelle persone, nei figli, nei giovani, in coloro che mi appaiono distratti, che a volte giudico vuoti o senza germogli.
La seconda parabola mostra la sproporzione tra il granello di senape, il più piccolo di tutti i semi, e il grande albero che ne nascerà. Senza voli retorici: il granello non salverà il mondo. Noi non salveremo il mondo. Ma, assicura Gesù, un altro è il nostro compito: gli uccelli verranno e vi faranno il nido. All’ombra del tuo albero, dei fratelli troveranno riposo e conforto. Guardi un piccolo seme accolto nel cavo della mano, lo diresti un grumo di materia inerte. Ma nella sua realtà nascosta quel granello è un piccolo vulcano di vita, pronto a esplodere, se appena il sole e l’acqua e la terra…
Il seme ci convoca ad avere occhi profondi e a compiere i gesti propri di Dio. Mentre il nemico semina morte, noi come contadini pazienti e intelligenti, contadini del Regno dei cieli, seminiamo buon grano: semi di pace, giustizia, coraggio, fiducia. Lo facciamo scommettendo sulla forza della prima luce dell’alba, che appare minoritaria eppure è vincente. Qui è tutta la nostra fiducia: Dio stesso è all’opera in seno alla terra, in alto silenzio e con piccole cose.




ORIGINI DELLA FESTA DEL CORPUS DOMINI.

ORIGINI DELLA FESTA DEL CORPUS DOMINI.
don Maurizio Ceriani
Da Il Popolo settimanale della diocesi di Tortona del 22 giugno 2006

La festa del Corpus Domini è stata estesa alla chiesa universale da Papa Urbano IV, l’ 11 agosto 1264, con la Bolla “Transiturus”. Il Papa incaricò San Tommaso d’Aquino di comporre i testi liturgici della nuova festa e promulgò la Bolla da Orvieto, ove risiedeva e dove, l’anno precedente, aveva accolto il lino che, si diceva, fosse intriso del sangue miracolosamente sgorgato dall’ostia consacrata, durante una celebrazione eucaristica nella chiesa di Santa Cristina di Bolsena. Comunemente si afferma che fu il miracolo eucaristico di Bolsena ad indurre Urbano IV ad istituire la festa del Corpus Domini. Ma a monte di questa celebrazione liturgica c’è la determinazione di tre donne del medioevo. Urbano IV (Giacomo Pantaléon) era un francese, nativo di Troyes. Per lunghi anni, prima della sua elezione al soglio pontificio avvenuta nel 1261, era stato arcidiacono della cattedrale di Liegi in Belgio. In questa veste conobbe e apprezzò Giuliana di Mont Cornillon, l’eremita Eva di Liegi e la beghina Isabella. Tre donne tenaci dalla cui alleanza spirituale nacque una nuova sensibilità verso l’eucaristia nella Chiesa del 13° secolo, percorsa dal rifiorire delle idee eterodosse di Berengario di Tours e dalla eresia albigese. Berengario, morto nel 1088, aveva insegnato sulla scorta di Scoto Eriugena che la trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo durante la messa era da intendersi in senso simbolico. Le sue teorie, erano vive più che mai, nonostante la definizione dogmatica della transustanziazione al Concilio Lateranense IV nel 1215, cioè della reale trasformazione della sostanza del pane e del vino in quella del Corpo e Sangue del Signore. Gli Albigesi o Catari, riprendendo le teorie dei Manichei persiani passate in occidente attraverso i Bogomili bulgari e diffuse rapidamente nell’Italia settentrionale e nella Francia, vedevano la storia come il teatro della guerra eterna tra il Bene e il Male, alla cui origine stavano due principi divini eterni. La materia era considerata come l’opera del principio perverso; di conseguenza l’Incarnazione e i Sacramenti, Eucaristia in primis, altro non erano che inganni diabolici. Il Cristianesimo ne usciva sovvertito nel suo cuore stesso. Contemporaneamente però un movimento di radicamento della spiritualità eucaristica nel popolo cristiano prendeva vita nelle Fiandre e velocemente si diffondeva in Francia e in Germania.  Giuliana entrò tra le monache cistercensi di Mont Cornillon nel 1207 a quindici anni di età. Fu presto privilegiata da fenomeni mistici. Verso i diciott’anni ebbe la sua prima visione; in seguito ne ebbe molte altre. Per diverse volte al momento della preghiera le apparve il globo della Luna attraversata da una misteriosa striscia buia; dopo due anni le fu rivelato il senso simbolico della visione: la “luna incompleta” raffigurava la liturgia, al cui pieno splendore mancava l’essenziale: una festa che onorasse il Corpo di Cristo sacrificato per l’umanità. Bisognava istituirla per tre ragioni: “Perché la fede diminuisce; perché gli uomini che cercano la verità ne siano istruiti e attingano forze nuove a questa sorgente di vita; perché l’irriverenza e l’empietà contro questo sacramento siano riparate”.
Per vent’anni Giuliana tenne per sé questa visione, e infine la confidò solo all’eremita Eva e alla beghina Isabella, infermiera dei lebbrosi. Un’alleanza a tre, che riassume la spiritualità della vita religiosa femminile dell’epoca: vita comune in preghiera, penitenza eremitica, carità nel servizio di malati e pellegrini. Un’alleanza a tre per dare forma precisa a una religiosità eucaristica già ben presente in Liegi, nelle comunità religiose, nella predicazione e negli scritti di sacerdoti famosi, a cominciare dal X secolo con Raterio, futuro vescovo di Verona.
Le tre donne iniziano la loro “battaglia” per l’istituzione della festa eucaristica coinvolgendo sacerdoti, monaci, comunità religiose, parrocchie. Vengono a parlare con Giuliana i vescovi di Cambrai e di Liegi. A quest’ultimo, Roberto di Thourotte, lei chiede di istituire subito in diocesi quella festa, che si chiamerà del Corpus Domini. Molti però sono contrari, il vescovo esita. Allora Giuliana, che nel frattempo era diventata badessa, ruppe ogni indugio; con l’incoraggiamento di un canonico di S. Martino di Liegi, del teologo Giovanni da Losanna, profondamente convinto della verità delle sue rivelazioni, fece comporre i testi liturgici per la festa del Corpus Domini e ne promosse la diffusione. I testi per la nuova celebrazione, che saranno chiamati “Animarum cibus” per via delle parole latine con cui iniziano, appassionano molti fedeli e sacerdoti, tra cui l’Arcidiacono della cattedrale di Liegi, Giacomo Pantaléon (il futuro Urbano IV) che diventerà subito uno strenuo promotore dell’iniziativa di Giuliana.
Forzato dagli eventi e dalla determinazione di Giuliana, Eva e Isabella, il 1246 il vescovo di Liegi istituì la festa diocesana del Corpus Domini. Giuliana lasciò la carica di badessa nel 1248 per ritirarsi nella clausura di Fosses, presso Namur, dove morì dieci anni dopo, consolata dalla notizia che la festa del Corpus Domini si era estesa anche alla Renania, al Palatinato e alla Baviera per l’intervento del legato papale per la Germania Ugo da San Caro, cardinale di Santa Sabina. Ugo da San Caro, già priore e provinciale dei Frati Domenicani, era stato fra quelli che, consultati da Giovanni di Losanna, ne avevano favorito il progetto. Il 29 dicembre 1253 confermò il decreto del vescovo di Liegi e lo estese a tutte le terre di sua giurisdizione, concedendo una indulgenza di cento giorni a tutti coloro che, contriti e confessati, avessero visitato devotamente le chiese in cui si celebrava l’Ufficio della festa, il giorno stesso oppure durante l’Ottava.
Giuliana non riuscì a vedere, invece, il compimento del suo sogno nel 1264, grazie al Papa che da giovane la conobbe e la apprezzò in terra belga e che fu membro della commissione diocesana che esaminò e approvò il contenuto delle sue visioni. Vi assistette invece Eva dal suo eremo presso la chiesa di San Martino a Liegi. Quando, il 29 agosto 1261, Giacomo Pantaléon divenne Papa, Eva vide l’atteso segno della Provvidenza e tanto insistette che il nuovo vescovo di Liegi, Enrico di Gueldre, dovette scrivere all’eletto Papa per congratularsi con lui e per pregarlo di confermare con la sua sovrana approvazione la festa del Corpus Domini. Proprio a Eva di Liegi lo stesso Urbano IV inviò una bolla in data 8 settembre 1264 per informarla dell’istituzione della festa del Corpus Domini per la Chiesa universale.
Alla Reclusa di San Martino il Papa chiedeva di diffondere il nuovo ufficio della celebrazione, in sostituzione dell’ “Animarum cibus” modellato sull’antica liturgia gallicana di Francia. Da questo documento sappiamo inoltre che Urbano IV celebrò in Orvieto per la prima volta tra l’11 agosto e l’8 settembre 1264 la liturgia del Corpus Domini secondo l’ufficiatura composta da San Tommaso d’Aquino. Sia Giuliana di Mont Cornillon che Eva di Liegi furono subito venerate come Sante; il loro culto fu approvato nel 1902 con il titolo di Beate. Anche la beghina Isabella ebbe un culto locale che si fuse presto con quello della coeva Isabella di Francia, sorella di San Luigi IX, Beata che sta all’origine del ramo delle Clarisse chiamate “Urbaniste”, perché adottarono una regola mitigata rispetto a quella di Santa Chiara, stesa dalla stessa Isabella e approvata nel 1263 da Urbano IV».
Ebbene, «il motivo apologetico che de­terminò il sorgere della festa ne ha costitui­to anche il limite del contenuto: l’attenzione alla presenza reale considerata in modo trop­po indipendente dal mistero eucaristico tota­le» (A. Bergamini, Cristo festa della Chiesa).
Questo limite è stato, almeno nell’inten­zione, superato dalla riforma liturgica pro­mossa dal concilio Vaticano II mediante il cambiamento della denominazione (Solennità del Corpo e Sangue del Signore) e l’arric­chimento del numero delle Preghiere Eucaristiche e dei testi biblici. Il risultato è che oggi la festa del corpo e san­gue di Cristo non è più la festa della presen­za reale, ma del mistero eucaristico nei suoi vari aspetti. La solennità del corpo e sangue di Cristo, pertanto, può essere un’occasione unica, dal punto di vista pastorale, per pro­porre una catechesi organica del mistero del­l’eucaristia.