RACCONTO
Il bruco e il suo sogno

Un piccolo BRUCO
B.F. (da Bollettino Salesiano  aprile 2024)

C’era una volta un piccolo bruco che strisciava risoluto con tutta la forza dei suoi minuscoli piedini in direzione del sole. Lo vide una cavalletta e, curiosa com’era, gli domandò: «Dove vai?». Senza rallentare il passo, il bruco rispose: «Ho fatto un sogno questa notte: mi trovavo in cima a quella montagna e potevo ammirare tutta la valle. Mi è piaciuto molto quello che ho visto e ho deciso di realiz­zarlo».
«Sei impazzito? Come puoi pensa­re di arrivare lassù? Per te un sassolino è già un’enorme montagna, una pozzanghera un mare e un rametto una barriera insuperabile!» Il bruchetto neanche l’ascoltava, contorcendosi e strisciando conti­nuava a marciare.
Lo vide uno scarafaggio dalla luci­da corazza nera: «Dove vai, bruco, così di fretta?». Ansimando per la fatica, il bruco rispose: «Ho fatto un sogno e voglio realizzarlo. Salirò su quella montagna per guardare di là il nostro mondo». Lo scarafaggio scoppiò in una gras­sa risata: «Non ci riuscirei neanche io con le mie lunghe e robuste zam­pe. Figurati tu, sgorbietto!» A forza di sghignazzare, si rovesciò a gambe in su, mentre il bruco continuava ad avanzare, un centimetro alla volta, con gran fatica.
Tutti quelli che lo incontravano, ragni, talpe, rane, fiori, perfino un topo non facevano che ripetere lo stesso ritornello: «Lascia perdere. Non ce la farai mai!»
Ma il bruco continuava. Le sue forze però diminuivano finché esausto si fermò per riposare, ma prima si costruì un rifugio per pernottare. Una specie di robusto sacco a pelo in cui si avvolse completamente. «Così starò meglio» si disse.
Tutti gli animaletti del bosco si radunarono per guardare la tomba di quello che consideravano l’ani­male più stupido del mondo, morto di fatica per realizzare un sogno sconsiderato.
Una mattina, con il sole che splen­deva in modo speciale, si riunirono in tanti intorno alla tomba del bruco divenuta un monumento all’insen­satezza, un ammonimento per i folli che si buttano in imprese impossibili. Improvvisamente si accorsero che quel guscio compatto si lacerava e ne emergevano due antenne e poi, piano piano, due stupende ali iridescenti attaccate al corpicino minuscolo di una farfalla che si librò in aria e spalancò le ali mostrandole in tutto il loro splendore.
Tutti gli animaletti tacquero confusi. Avevano avuto torto e si sentirono molto sciocchi.
Il bruco stava per realizzare facil­mente il sogno per cui era vissuto, era morto ed era tornato a vivere: arrivare in cima alla montagna.




Il buon pastore che offre la sua vita
P. Ermes Ronchi

Donare: nella vita non conta altro.
Padre Ermes Ronchi  (Avvenire 11 Maggio 2003)

Io sono il pastore: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro i lupi e per la croce. Io sono il pastore bello, aggiunge il testo greco. E noi capiamo che la bellezza del pastore è il fascino che hanno la sua bontà e il suo coraggio. Capiamo che la bellezza è attrazione, Dio che crea comunione. Con che cosa ci avvince il pastore bello, come ci fa suoi? Con un verbo ripetuto cinque volte: io offro la mia vita; la mia vita per la tua. E non so domandare migliore avventura. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio, il comando che fa bella la vita: il dono. La felicità di questa vita ha a che fare col dono e non può mai essere solitaria. Il pastore bello e coraggioso ha un movente, non semplicemente un ordine da eseguire. Se cerco ciò che lo muove, mi imbatto subito nell’immagine opposta del mercenario che vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. A Cristo invece importano le pecore, tutte, l’una e le novantanove. L’uomo interessa, l’uomo è importante. Anzi Cristo considera ogni uomo più importante di se stesso, per questo dà la sua vita. «Signore, non ti importa che moriamo?»  gridano gli apostoli spaventati in una notte di tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante per me. Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo, ma voi valete più di molti passeri. Mi importano i gigli del campo, ma tu sei molto di più. Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti in cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l’assenza di Dio, turbati per il suo silenzio. Questo comandamento ho appreso dal Padre: la vita è dono. Per stare bene l’uomo deve dare. Perché così fa Dio. Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. Il Dio del cristiano non sta bene nei cieli, discende e si compromette. Il cristiano non può star bene finché non sta bene suo fratello. E tutti, a nostra volta pastori di un minimo gregge, ripetiamo le parole di Gesù, ma in silenzio e coraggio: tu mi importi, tu figlio amato o sconosciuto fratello, tu incontro d’oggi o compagno di una vita, tu sei importante per me. Da qui parte l’avventura di coloro che vogliono sulla terra, come il pastore bello e coraggioso, custodire e lottare, camminare e liberare. Alla ricerca di Qualcuno che ci faccia diventare dono, che ci dia il coraggio di capire che dare la propria vita è l’unico comando, è l’unico modo per riempire e fare bella la vita.

Il buon pastore che offre la sua vita
Ermes Ronchi (Avvenire 26/04/2012)
Sottese all’espressione di Gesù: «il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore» intuisco parole che amo e che sorreggono la mia fede. Suonano pressappoco così: al mercenario no, ma a me, pastore vero, le pecore importano. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me.
Questa è la mia fede: io gli importo. A Dio l’uomo importa, al punto che egli considera ogni uomo più importante di se stesso. È per questo che dà la vita: la sua vita per la mia vita. Ricordo il grido degli apostoli in una notte di tempesta «Signore, non ti importa che moriamo?» e il Signore risponde placando le onde, sgridando il vento: Sì, mi importa di voi, mi importa la vostra vita. E lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma voi valete più di molti passeri; mi importano anche i gigli del campo ma tu sei molto di più di tutti i gigli dei campi.
«Io sono il Pastore buono» è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che ha a cuore cose importanti. Il gesto specifico del pastore buono, il gesto più bello che lo rende letteralmente il “pastore bello”, è, per cinque volte: «Io offro la vita». Qui affiora il filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera di Dio: il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita.
Con queste parole Gesù non intende per prima cosa la sua morte in Croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita, è inteso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del grembo di donna che dà vita al bambino; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Offro la vita significa: Vi do il mio modo di amare e di lottare. Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi. Anche noi, discepoli che vogliono come lui sperare e costruire, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte, bello, vero, di un pur minimo gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, coloro che si affidano a noi. Nel vivere quotidiano, “dare la vita” significa per prima cosa dare del nostro tempo, la cosa più rara e preziosa che abbiamo, essere tutto per l’altro, in ascolto attento, non distratti, occhi negli occhi. Questo è dirgli: tu mi importi.
Tu sei il solo pastore che per i cieli ci fa camminare, Tu il Pastore bello. E tu sai che quando diciamo a qualcuno «tu sei bello» è come dirgli «io ti amo».
(Letture: Atti degli apostoli 4, 8-12; Salmo 117; 1 Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18)




Papa Francesco: a Messa oltre l’abitudine
F.Ognibene (Avvenire)

Oltre l’abitudine: la lezione del Papa. A Messa per lasciarci sorprendere ancora.
Francesco Ognibene (Avvenire. sabato 21 gennaio 2023)

Con la Messa ognuno di noi ha un rapporto personalissimo, che col tempo diventa naturale, spontaneo, persino irriflesso. E una pratica che resta – Concilio alla mano – «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» può anche trasformarsi in una routine. È possibile che andiamo in chiesa senza pensarci, credendo di sapere già ampiamente cosa ci aspetta, presumendo di conoscere ormai fin troppo bene le nostre attese, e cosa porteremo via da quel gesto. Liturgie grigie come atti burocratici possono poi consolidare la convinzione che si tratti di una pratica da sbrigare, senza riporre tante aspettative.
Ma l’abitudine finisce per smorzare l’effetto di un appuntamento di per sé in grado sempre di rimetterci a nuovo. Eppure ne abbiamo bisogno, non possiamo vanificare un’esperienza rigenerante per la fede e per la stessa vita. Per questo è utile ogni tanto prendere le distanze dalla consuetudine e renderci ancora consapevoli di cosa cerchiamo quando entriamo in chiesa la domenica (o anche nei giorni feriali, per i più assidui). Vale per noi laici, vale anche per i celebranti: che quota di meraviglia, di commozione, di raccoglimento c’è nelle nostre liturgie? Cosa ci trasmette la Messa, e come la attendiamo, la viviamo, la ricordiamo una volta conclusa?
La fede è niente senza le opere, ma la sua proiezione prevalente sul fare finisce col persuaderci che il contenuto del credere sia il compimento efficiente di qualche attività pastorale o sociale, per quanto encomiabile, lasciando la fede come una variabile eventuale. La Messa è lì, in mezzo, nel crocevia tra religione e vita, a intrecciare tutto ciò che ci costituisce come credenti. Pensare a come la si vive può far capire che cristiani siamo. Ci aiuta il Papa, che rivolgendosi ai partecipanti a un corso del Pontificio Istituto Sant’Anselmo[1] ha ricordato ieri che le «ritualità», pur «belle», sono vane se «non toccano il cuore e l’esistenza del popolo di Dio». Non si tratta di un fatto emotivo, a destare l’anima non è una coreografia ben congegnata, o uno stato d’animo più incline a farsi coinvolgere: perché «è Cristo che fa vibrare il cuore, è Lui che attira lo spirito». È come se ci chiedesse: ti è ancora chiaro? Con un filo di humour Francesco parla dell’insidia di dar vita a «un bel balletto » che «non è autentica celebrazione». Intrattenimento a sfondo spirituale, che assomma stratagemmi per tener desto l’interesse dei partecipanti. Tutto qui? Certamente no.
È una questione di spazio interiore, che va creato perché possiamo udire una voce che chiede di noi. Ma quanto margine resta nell’agenda della nostra vita, satura di impegni, pensieri, ansie, distrazioni? Pur con le migliori intenzioni, la Messa può trovarci “tutti esauriti”, nei fatti indisponibili a metterci da parte anche solo per qualche decina di minuti, dai riti d’ingresso all’«andate in pace». Come lasciarci sorprendere dall’inatteso, senza credere di aver già visto tutto, di pensarci in fondo immuni da sorprese? Mettendoci da parte una buona volta, e riaprendo occhi mente e anima. Perché – dice Francesco – «soltanto l’incontro con Dio ti dà lo stupore». Ecco, appunto: può essere che la Messa non sia più un vero «incontro», non in questi termini spirituali, almeno. Andare in chiesa considerandola l’occasione per «un incontro sociale» – nota il Papa – porta a deprezzare un’esperienza indispensabile alla vita cristiana eppure così difficile nella nostra “società del rumore”: il silenzio, che invece «aiuta l’assemblea e i concelebranti a concentrarsi su ciò che si va a compiere». Si può far rumore anche con le troppe parole di omelie che quando vanno oltre i pochi minuti – «otto, dieci» – necessari perché «la gente si porti qualcosa a casa» diventano «una conferenza», e si risolvono in un vero «disastro». In realtà abbiamo sete di silenzio, «prima e dopo le celebrazioni», perché «il silenzio apre e prepara il mistero».
Che bello sentircelo dire da un padre che mostra di conoscerci così bene e sa quanto ci è necessario poter incontrare Dio – e noi stessi, così come siamo –in un silenzio che ridà vita, aprendoci a una presenza che ci stava aspettando. Per sperimentare una volta ancora la meraviglia di rinascere. Altro che abitudine: a Messa è una sorpresa continua.


[1] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-01/papa-liturgia-riforma-maestro-celebrazioni-formazione-parrocchie.html




Da sempre ti ho amato
Testo e canto

https://www.bing.com/videos/riverview/relatedvideo?&q=da+sempre+ti+ho+amato+youtube&&mid=5C32CCA755F5FD6731CE5C32CCA755F5FD6731CE&&FORM=VRDGAR

DA SEMPRE TI HO AMATO

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio,

io, la tua guida, il tuo Pastore.

Contempla il mio volto, il cuore trafitto,

e credi all’amore del tuo Signore.

Per te ho preparato la mensa della vita

e tu mi versi ancora un calice di morte.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho moltiplicato il pane del mio cielo

e tu mi sazi ancora col pane del dolore.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio………

Per te ho rinnovato il vino delle nozze

e tu ricambi ancora rompendo l’alleanza.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho pronunciato parole di perdono

e tu mi insulti ancora colpendo il mio cuore.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio…

Per te ho liberato oppressi e prigionieri

e tu mi inchiodi ancora al legno della croce.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho risanato i figli tuoi lebbrosi

e tu ricopri ancora di piaghe il mio corpo.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio…

Per te ho ridonato la vista a molti ciechi

e tu rispondi ancora spegnendo i miei occhi.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te ho ridonato parola ai sordomuti

e tu ricambi ancora togliendomi la voce.

Perché non comprendi il tuo Pastore?

Da sempre ti ho amato, popolo di Dio…

Per te ho risvegliato i morti dal sepolcro

e tu decreti ancora di togliermi dal mondo.

Perché non comprendi il tuo Signore?

Per te, per liberarti, ho dato la mia vita

e tu nei miei fratelli rinnovi la mia morte.




La domenica senza lavoro
F.Riccardi(AVVENIRE)

La domenica senza lavoro, un presidio di libertà per tutti.
Francesco Riccardi
AVVENIRE. Venerdì 1 marzo 2024
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-domenica-senza-il-lavoro-un-presidio-di-liberta-per-tutti

Sì, lo sappiamo, è una battaglia che sembra ormai persa. Basta osservare i grandi centri commerciali brulicanti di consumatori nei giorni festivi. L’idea della domenica come giorno di riposo per la gran parte dei lavoratori – almeno quelli non impiegati nelle attività essenziali – è un’idea che oggi appare utopica. Romantica per i più benevoli, irrealistica e passatista per la maggior parte delle persone. In particolare, quelle che vedono con favore la possibilità di fare acquisti e divertirsi nel tempo libero domenicale. Eppure, arrendersi a questa realtà senza neppure più “combattere” significa accettare come inesorabile una deriva che, pezzo a pezzo, rischia di renderci meno solidali, più soli, di fatto meno umani e sempre più ridotti invece alla sola dimensione di mercato, alla dicotomia produttore/consumatore. A ricordarci del valore della domenica come giorno di festa per tutti è la giornata europea che si celebra il 3 marzo. È la campagna che la European Sunday Alliance (l’Alleanza europea della domenica) lancia in questa occasione per “sensibilizzare i cittadini e i leader politici nazionali e dell’UE sugli effetti positivi di un giorno di riposo settimanale sincronizzato”. L’Alleanza è un’ampia rete di oltre 100 “cartelli” nazionali, sindacati e datori di lavoro, associazioni, Chiese cristiane. Nel direttivo siedono anche i rappresentanti della Comece (Commissione Conferenze Episcopali Comunità Europea), i vescovi cattolici della Comunità europea, ma il cuore del messaggio non sta nella difesa delle esigenze di culto (che pure hanno la loro importanza). Quanto nel valore universale della domenica per l’uomo, al di là dell’aspetto religioso. A spiegarlo bene è l’enfasi posta su quell’aggettivo: “sincronizzato”. Sono infatti i concetti stessi di festa e di comunità ad essere messi in discussione dalla cultura del lavoro a ciclo continuo. Con la frammentazione del tempo della festa in tanti tempi liberi “asincroni”: chi al lunedì, chi al venerdì, al sabato o alla domenica. La logica sottesa mira ad avere sempre in equilibrio chi lavora e chi consuma il prodotto degli altri in tempo reale. Si va affievolendo, invece, la percezione della domenica e della festa come occasione per ritrovarsi tutti insieme in famiglia, per coltivare rapporti sociali autentici, appassionarsi ai bisogni della propria comunità, impegnarsi nel volontariato, con una visione di bene comune da perseguire. La domenica e le diverse festività hanno invece proprio questa natura e fondamentale funzione: permettere alle persone di godere non solo di una generica pausa – che appunto si può svolgere in un qualsiasi giorno della settimana – ma vivere un tempo di libertà, verità e pienezza collettivo, sincrono rispetto alla libertà, verità e pienezza degli altri uomini, in un giorno che è veramente libero proprio perché è libero per tutti. Un tempo di gratuità sottratto alla mera logica dello scambio di mercato. Può essere che la battaglia culturale per circoscrivere all’essenziale il lavoro festivo sia già persa. Certamente lo diventa se noi stessi, per primi, non ci rendiamo conto di che cosa rischiamo di perdere – tutti – abbandonando al declino l’idea della domenica libera e sincrona, di un autentico “fare festa” insieme.




Nel deserto per ritrovare la strada della vita
E.Ronchi

Nel deserto, per ritrovare la strada della vita
Padre Ermes Ronchi
Avvenire   (09 Marzo 2003)

Lo Spirito che protegge e conforta Gesù, lo spinge nel deserto, nel cuore del conflitto. E questo perché «nel deserto un uomo sa quanto vale: vale quanto valgono i suoi dèi» (Saint-Exupèry), quanto valgono cioè i suoi ideali. Il deserto è scuola di monoteismo, lì è nata l’inguaribile malattia israelitica dell’assoluto. Nel deserto Gesù sceglie quale volto di Dio annunciare (se valga di più quello facile di un Dio padrone, o quello impossibile di servo, o quello folle di crocifisso); sceglie quale volto d’uomo proclamare (rivale o fratello?) e nasce la buona notizia. Marco non riporta il contenuto delle tentazioni, ma ci ricorda l’essenziale: che le tentazioni non si evitano, ma si attraversano, perché «sopprimete le tentazioni e più nessuno si salverà» (sant’Antonio Abate). Senza tentazioni non c’è salvezza, perché non esiste scelta, scompare la libertà, è l’uomo stesso che finisce. Anche la mia vita spirituale inizia sempre con un pellegrinaggio verso il mistero interiore che mi minaccia e che mi genera, con il confronto quotidiano con le zone oscure del mio intimo, con il mio caos interiore, con gli spazi di disarmonia, di dissonanza, di durezza, di rifiuto che si contendono il cuore. Ma anche con le radici divine dell’uomo: «cercami in te», dice Dio al mistico Silesius. Per sapere quanto vale per me il mio Dio. Gesù predicava la buona notizia. E diceva: è finita l’attesa; un mondo nuovo è possibile, il nuovo progetto di Dio è qui, convertitevi. Noi percepiamo questo verbo come un imperativo, mentre reca un invito, porta una preghiera. Cambiate strada: non è la richiesta di obbedienza, ma l’offerta di un’opportunità. Cambia strada, io ti indico la via per le sorgenti, di qua attraversi una terra nuova e splendida; di qua il cielo è più vicino e l’azzurro non è così azzurro da nessun’altra parte, di qua è la casa della pace, e il volto di Dio è luminoso, e l’uomo un amico. Convèrtiti, non suona allora come un’ingiunzione, ma come la migliore delle risorse. Hai davanti a te la vita, ti prego, non perderla. Credete nel vangelo. Fidatevi di una buona notizia. E sento la pressante dolcezza di questa preghiera: riparti da una buona notizia, Dio è qui e guarisce la vita, Dio è con te, con amore. La buona notizia che Gesù annuncia è l’amore. Credi; vale a dire: fidati dell’amore, abbi fiducia nell’amore in tutte le sue forme, come forma della terra, come forma del vivere, come forma di Dio. Non fidarti di altre cose, non della forza, non dell’intelligenza, non del denaro. Riparti dall’amore. E allora per capire chi sono, farò mie le parole bellissime di Giovanni che dice: noi, gli uomini di Cristo, altro non siamo che coloro che hanno creduto all’amore (1 Gv 4,16).




Quel ‘se vuoi’ che spinge Dio a guarirci
P.Ermes Ronchi

Quel ‘se vuoi’ che spinge Dio a guarirci

Padre Ermes Ronchi  (16 Febbraio 2003)

Di quel lebbroso non conosciamo né il volto né il nome, perché è l’uomo, ogni uomo, sbalzato a terra dalla carovana troppo rapida e troppo indifferente del mondo. Il rifiutato è stanco di fuggire e di gridare, si avvicina, va’ contro la legge, attorno a lui si crea il vuoto, ma Gesù rimane. E riafferma così che nulla vale quanto la vita di un uomo.

Se vuoi, puoi guarirmi. Il futuro è appeso a un misterioso «se» piantato nel cuore di Dio. E ci pare di vedere Gesù che vacilla di fronte alla domanda umilissima e sommessa di un uomo alla deriva. Il dolore obbliga Cristo a rivelarsi. A nome di tutti noi il lebbroso domanda: ma qual è la volontà di Dio? Che cosa vuole veramente Dio da questa carne sfatta, da questo corpo piagato? Che cosa vuole dall’immenso pianto del mondo? Il profeta (Isaia 1,11) ha detto, a nome di Dio: io non bevo il sangue, non mangio la carne dei vostri sacrifici. Ma ho un dubbio, come tutti i lebbrosi, come tutti i sofferenti: che Dio si disseti al calice delle nostre lacrime; che voglia ancora il sacrificio delle sue creature; che sia il dolore, accettato, a dare gloria a Dio. Ho un dubbio, perché gli scribi d’oggi ripetono che il corpo di lebbra o di dolore è volontà di Dio, suo castigo. Se vuoi… Il lebbroso si appella al desiderio di Dio: tu vuoi quello che dicono gli scribi o vuoi guarirmi? Gesù è costretto a rivelare Dio, a dire una parola ultima e immensa che riveli qual è il cuore di Dio: lo voglio, guarisci! Ripetiamolo con emozione, con pace, con forza: lo voglio. Eternamente Dio vuole figli guariti. A me dice: lo voglio, guarisci! A Lazzaro: lo voglio, vieni fuori! Alla ragazza: talità qum, lo voglio, alzati! Io mi fido del desiderio di Dio. Dio è guarigione, non ha creato la morte, né la lebbra, né la guerra. Non conosco i modi in cui Dio è guarigione. So che non lo farà moltiplicando i miracoli. Non conosco i tempi, ma so che lotta con me, si coinvolge con me, rinnovando goccia a goccia la vita, stella a stella la notte. E mosso a compassione, stese la mano, lo toccò. Da troppo tempo nessuno toccava più il lebbroso e la sua carne moriva per troppa solitudine. Ogni vita muore se non è toccata, muore di silenzi. Il cuore può morire per assenza d’incontri. Gesù tocca, e l’uomo è restituito alla famiglia, torna alle carezze. Gesù tocca. E chiede a ciascuno di partecipare al desiderio di Dio, non ai suoi miracoli. Alle carezze restituite. O forse sì. Ci chiede di partecipare ad un miracolo: avere, come il Padre, viscere di misericordia, che è la perfezione di Dio, che sarà la perfezione dell’uomo.




La lotta di Giobbe
Don Angelo Casati.

La lotta di Giobbe (Don Angelo Casati).

Oggi la Liturgia ha accostato alla pagina del vangelo di Marco la pagina del libro di Giobbe, che forse può disturbare la sensibilità delle persone cosiddette devote che, davanti al dolore degli altri, predicano senza troppa fatica, come fanno gli amici di Giobbe, la rassegnazione o la resa.
Giobbe risponde con la lotta. E Dio è dalla parte di Giobbe e non dalla parte dei suoi amici che, bravi loro, hanno un prontuario di risposte teologiche per spiegare i drammi dell’umanità. Dio accetta parole di protesta come quelle di Giobbe che oggi abbiamo ascoltato, parole che parlano della fatica del vivere.
È folgorante e sorprendente il libro di Giobbe, perché noi siamo stati educati a legare Dio e la sua immagine all’insegnamento della rassegnazione e dell’accettazione passiva. E invece il libro di Giobbe -scrivono i monaci di Bose- predica “la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo, quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia. Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici teologi che in realtà si rivelano nemici e medici del nulla“.  Pensate invece quante volte anche noi, come gli amici di Giobbe, ci scandalizziamo di fronte al grido o alla bestemmia di dolore, e quante volte invitiamo al silenzio, o all’attenuazione del grido: «Ma non dire così. Esageri!».
Il libro di Giobbe non legittima la figura del credente come di colui che la dà vinta al male, legittima la figura del credente come di colui che lotta contro il male. Perché questa è anche l’immagine di Dio. Non è forse questa l’immagine di Dio, che, come per una fessura, intravediamo in Gesù di Nazaret?
Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo.
Gesù istruisce i suoi discepoli e istruisce noi oggi con il suo esempio. Ci istruisce con i suoi verbi, i verbi di Gesù nella casa di Simone, che dovrebbero diventare i nostri verbi oggi nelle case di questa umanità. Ricordiamoli: “si accostò, la prese per mano, la sollevò”. Quasi a suggerire che se noi ci teniamo a debita distanza, se noi rifuggiamo dal contatto fisico, non solleviamo nessuno. Chi soffre, per sentirsi in qualche modo rivivere, “risorgere”, come allude il verbo greco, ha bisogno di vicinanza, di mani che accarezzino, che stringano.
Non faremo miracoli. Nemmeno a Gesù fu possibile fare miracoli a tutti. È scritto: “gli portarono tutti i malati e gli indemoniati… guarì molti“. Tutti… molti! C’è uno scarto. Ma sollevò tutti. Non faremo miracoli, ma solleveremo qualcuno, accostandoci, prendendo per mano.
Vorrei aggiungere che Marco, se da un lato registra l’immergersi di Gesù in questa umanità dolente, dall’altro registra l’andarsene, un duplice andarsene. Esce quando ancora è buio di casa e si ritira in un luogo deserto e lì prega. E così scopriamo nelle pieghe della pagina di Marco da dove Gesù attingesse quella sua forza, l’energia dello Spirito che faceva di lui l’uomo della compassione, della vicinanza, della cura, della dedizione assoluta. Così per lui, così anche per noi. C’è una sorgente, una sorgente segreta.
Ma nel brano di Marco è accennato anche un altro “andarsene”. I discepoli lo scovano, gli dicono: “tutti ti cercano“. Dice: “Andiamocene altrove… per questo sono venuto“. È venuto per andare altrove: la Galilea non è un solo villaggio.
C’è sempre questo pericolo di voler fare di Gesù il proprio cappellano, un cappellano di corte, il cappellano del proprio gruppo, del proprio movimento e non il Salvatore di tutti i villaggi. E Gesù se ne va. Chissà se l’abbiamo capito. Essere nel mondo e diventare uomini e donne di un villaggio solo significherebbe spegnere e tradire il vero movimento, quello del vangelo. Vangelo che ci mette in guardia dalla tentazione di rinchiudere noi stessi in un solo villaggio e dalla pretesa di rinchiudere Dio in un solo villaggio.




Racconto
L’UOMO CHE SI FUMO’ LA BIBBIA

L’uomo che si fumò LA BIBBIA
(da Bollettino Salesiano, gennaio 2024)
Wilhelm Buntz venne abban­donato dalla madre da piccolo. Questo trauma lasciò in lui gravi conseguenze. Inquadrato come un “bambino disadattato”, passò da una famiglia all’altra, per oltre 30 volte, senza mai sentirsi veramente “a casa” e a 7 anni iniziò a sognare di diventare un gangster. A scuola divenne presto noto come “Willy bagno di sangue” perché litigava continuamente con i compagni. A 16 anni finì in prigione per la prima volta: nei pressi di Innsbruck, decise di rubare un’auto e provare a guidare. Poco pratico, provocò un incidente. Nello scontro perse la vita un poliziotto, padre di 5 figli, e un’altra persona finì per sempre su una sedia a rotelle. Arrestato e processato, fu condan­nato a 14 anni per omicidio colposo. Dopo la detenzione giovanile, Wilhelm Buntz diventò un criminale a tutti gli effetti. Rapine in banca, traffico d’armi, traffico di esseri umani, omicidio colposo: commise quasi 150 reati e venne finalmente catturato all’età di 22 anni. Al processo, il giudice invitò il padre come testimone, affinché qualcuno dicesse qualcosa di positivo su di lui. Ma quando lo chiese al padre, questi disse in lacrime: “Per favore, per favore, per favore, ripristinate la pena di morte … Non è che non voglia bene a mio figlio, ma non possiamo più sop­portarlo; ha distrutto tutta la nostra famiglia”. Irascibile e infuriato con il mondo intero, venne messo in isolamento. In cella gli venne concesso di tenere solo la Bibbia che gli aveva regalato il cappellano.
Wilhelm non aveva mai avuto una gran simpatia nei confronti di Dio. Anzi. Accettò quel libro perché le sue pagine, fini come la carta velina, erano un ottimo sostitu­to per le cartine di sigarette. Iniziò così a strappare le pagine, e, dopo averle lette ci rollava dentro il tabacco che riusciva a procurarsi di contrabbando e si confezionava delle rudimentali sigarette. Un po’ alla volta finirono in fumo la Genesi e tutto il Pentateuco, i Salmi e libri sapienziali, così come le storie dei profeti. Finché un giorno del 1983 si ritrovò in mano la pagina del vangelo di Matteo in cui era riporta­to il Discorso della montagna.  «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo». Questa frase lo mise al tappeto. Lui fino ad allora era stato «veleno amaro e oscurità». «Se hai un piano per me – disse rivolgendosi a Dio – allora devi cam­biarmi e vincermi». E quella Parola, che fino ad allora era finita in fumo, iniziò lentamente ad ardere nel suo cuore.
Cambiò radicalmente e fu graziato. Oggi è sposato e ha due figli. Fino al suo pensionamento, nel 2017, ha lavorato in un’opera per non ve­denti. Quando ripensa al periodo di detenzione, prova solo una cosa: gratitudine. «Sono grato a Dio per ogni giorno che mi è stato concesso di trascorrere in carcere, perché lì ho trovato qualcosa che altrimenti non avrei potuto tro­vare. Ho trovato un tesoro prezioso: sono diventato un credente».




Domenica 28 gennaio
IL COLPO D’ALA. E.Ronchi

Il «colpo d’ala» dell’amore
di Ermes Ronchi (Avvenire 29/01/2009)
Che vuoi da noi, Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Non lontano, non fuori, ma dentro, nella sinagoga, nella comunità, anzi nell’intimo di ciascuno, dai nostri oceani interiori, si alza la voce dei nostri dèmoni oscuri. E dice di credere, confessa che Cristo è il Figlio di Dio, ma è l’eco di un cuore impuro.
Che vuoi da me? Qui è il primo elemento di una fede ipocrita: io so che Cristo vuole qualcosa da me, che desidera entrare nelle mie parole, nelle mie mani, nei miei occhi, nei miei sentimenti, nel mio andare e nel mio venire, ma io rifiuto la sua pretesa, non voglio conversioni, né brecce aperte nelle mura del mio mondo. Primo errore: fede senza sapore di pane, di vino buono, di lavoro, di carezze, di scelte concrete. Fede di sole parole. Ma io sono credente a una sola condizione: se Cristo mi cambia la vita.
Secondo elemento: Sei venuto a rovinarci? Fede con dentro un dèmone è quella che sente Dio come un rivale dell’uomo, un predatore della libertà, e il suo vangelo come un indebolimento dell’umano. E immagina Dio come colui che toglie, non come colui che dona; un Moloch cui si è tenuti a immolare la parte migliore di se stessi. Il credente abitato da uno spirito impuro si sente figlio di una sottrazione anziché di una intensificazione del vivere.
Un ulteriore aspetto: l’uomo di Cafarnao frequenta il luogo sacro, recita le benedizioni e lo Shemà Israel, eppure in lui abita un demone. I demoni accettano la fede del sabato, quella limitata al sacro e alle proprie devozioni. Il Dio vero invece è da sorprendere nella vita più che nel tempio, nella polvere della strada che scende da Gerusalemme a Gerico più che nel fumo degli incensi, nelle piaghe del povero Lazzaro più che nei bagliori dell’oro del Santo dei Santi. Sta in tutto ciò che sa di amore.
Quelle parole: Sei venuto a rovinarci? contengono però anche una catechesi positiva. Scriveva  Padre Turoldo: «Cristo, mia dolce rovina». Ciò che Cristo rovina è la nostra giustificata, scusata, legittimata convivenza con il male, la nostra mediocrità, il nostro mondo di maschere e di bugie; Cristo rovina la vita illusa, la vita insufficiente, la vita morente. Nel conflitto tra il nostro cuore d’ombra e la nostra parte di luce, Cristo entra come mani e occhi nuovi, come accrescimento d’umano, lievito che solleva l’inerzia, colpo d’ala, respiro che dilata, vento che sospinge, spina che rompe la mia falsa pace e fa fiorire la rosa del mondo.