Natale. Senza perdere i sensi

SENZA PERDERE I SENSI.

 Dal Vangelo secondo Luca 2,1- 20
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».  E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loroTutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuoreI pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.

Anche Gesù è uno dei tanti.
Innanzitutto Luca mette una cornice storica al racconto della nascita di Gesù: il censimento di un imperatore. Avrebbe potuto evitare, ma la notizia è un modo di fare catechesi alla sua comunità e a noi: Luca forse vorrà dirci che Dio è diventato uno di noi, un numero, uno tra tanti? Come me e come te. I numeri qui contano, come sempre: nelle piazze, nell’auditel, negli scrutini dei voti, nel commercio. Anche la festa dell’Incarnazione di quest’anno scende in un contesto difficile non solo nei paesi del mercato e della finanza allegra che ha fatto il benessere di pochissimi e l’infelicità di mezzo mondo. Ma penso oggi alla terra di Gesù, a Gaza, al Libano, al territorio del Giordano. In Europa i cristiani anagrafici sono maggioranza. Ma altrove Gesù nasce in un piccolo resto di fedeli, in un angolo ristretto di comunità minoritarie: copti, melchiti ortodossi, cattolici di rito orientale, maroniti…. Nasce anche in mezzo ai silenziosi fruscii dei monasteri, angoli sperduti di rivelazioni e fedeltà. Dio dunque – dice Luca – si fa carne, ma diventa anche tempo. L’invisibile si fa carne e l’eterno si riveste di tempo. Dio viene conteggiato come uno qualunque da un potere guerrafondaio e colonialista, che crede di essere chissà chi. Questo è il Dio in cui crediamo.
Luca racconta una liturgia.
Ma poi Luca procede narrando una liturgia di gesti, di rivelazioni, di riti, di silenzi, di canti. I cinque sensi del nostro corpo sono coinvolti nella meditazione e nella celebrazione di questo evento. Qui incomincia la sinfonia dei sensi a dirci che il mistero di Dio viene raccolto da noi, uomini e donne concrete, che hanno dei recettori sensibili e delle porte aperte sull’infinito. Perché i nostri sensi, la nostra materia è così: porta aperta sul mistero.
L’orecchio e l’udito.
L’orecchio è il senso principale della fede. La fede nasce dall’ascolto. E’ l’imperativo assoluto di Dio: non ti farai immagine alcuna di me. Piuttosto: ASCOLTA ISRAELE. Deuteronomio. 4,12: «Dio vi parlò in mezzo al fuoco; voce di parole (nel testo ebraico: qol debarim) voi ascoltavate, nessuna immagine vedevate, solo una voce». La nostra cosiddetta religione, nata dalla radice di Iesse cioè dall’ebraismo, è fondata sull’ascolto delle annunciazioni o vocazioni. Non solo quelle a Maria o a Zaccaria, a Mosè ed Isaia, ma a pastori impuri. Nasce dall’ascolto assiduo, amante, obbediente della Parola di Dio letta e ascoltata nel privato, proclamata alla domenica. Senza questo alfabeto, la vita diventa un geroglifico incomprensibile o un evento banale. Come lo poteva essere stato (e lo può essere anche per noi oggi) per i pastori: vedere un bambino è evento stupendo, anche se ordinario. Diventa segno e mistero se qualcuno ci allerta con un’annunciazione, una parola rivelata.
Ma l’orecchio è aperto sul suo nervo nascosto che è il cuore: Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore. Ed è anche capace di farsi bocca e megafono: riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. (Proviamo a ripercorrere i verbi dell’ascolto nel brano del Vangelo).
L’occhio e la vista.
Anche l’occhio è un organo sensoriale aperto sull’infinito, ma capace di due livelli: il guardare e il vedere, il vedere e lo scrutare, lo scrutare e lo stupirsi per interrogare e interrogarsi, il credere. E’ un processo lungo: dal guardare al credere passano ore, talvolta anni.  Anche alla tomba della risurrezione accade questo lungo processo di conversione degli occhi. L’evangelista Giovanni usa addirittura tre verbi diversi che noi traduciamo sempre con “vedere”, ma Giovanni conosce la difficile gestazione dall’ascolto allo stupore al credere.
«Vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Significa che Dio non lo si ricerca più nell’evanescenza di una fede cerebrale, ideologica, astratta. Lo si vede celebrando segni, inseguendo orme dei suoi passi. Per ora lo vediamo di spalle e forse mai in volto. Ma il desiderio del nostro occhio profondo è ben espresso dai salmi: Io cerco il tuo volto, non nascondermi Signore il tuo volto. (Ripercorriamo i verbi del vedere nel Vangelo).
Le mani, le gambe e il tatto.
«Lo fasciò e lo coricò». Toccare Dio deponendolo, avvolgendolo in fasce. L’evangelista Matteo dirà: Chiunque avrà dato da mangiare, da bere, chi avrà vestito, chi avrà accolto, chi avrà visitato, chi sarà andato a trovare…lo avrà fatto  a me. Il buon samaritano si fa prossimo, va a sporcarsi, come fa Dio questa notte, per soccorrere l’uomo ferito, considerato intoccabile dal sacerdote e dal levita. Così si coccola Dio: toccando l’uomo. E i brividi che senti sulla pelle toccando l’uomo intoccabile sono il messaggio che Dio ti manda: hai toccato me.
«Andiamovediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Andarono dunque senz’indugio». A Dio si va camminando con le gambe, avvicinandosi, mettendosi in movimento. L’apatia, l’immobilismo non fanno parte né della Natività né della Pasqua che, invece, mettono in movimento.
L’odorato.
Per ora, attorno al Dio bambino, c’è solo odore di stallatico confuso con quello di ogni parto. All’Epifania sentiremo profumo di mirra, come ci sarà profumo di mirra accanto al sepolcro e accanto ai piedi di Gesù quando la donna gli rovescia un vasetto di profumo sui piedi.  E’ l’incenso della glorificazione di un condannato a morte, di un povero. Le nostre narici non disdegnano, oggi, odori meno principeschi e più quotidiani, quelli di una mangiatoia da animali dove Dio si caccia per nascere e quell’odore pungente di sangue di cui Dio si veste come fosse profumo sponsale. Quest’anno mi mancherà quell’odore tipico del carcere che non ho mai odorato da nessuna altra parte, mi mancherà l’odore inconfondibile di fantasmi di uomini con cui condividevo pane e frutta alla stazione ferroviaria; mi mancheranno profumi e odori delle tavole natalizie nelle RSA, mi mancherà l’umido odore del Natale a Goiàs. Raccoglierò nel profumo del Pane Eucaristico tutti i profumi, gli aromi, le fragranza,  i fetori, i miasmi umani.
Il gusto.
Forse questo senso non pare attivato della narrazione della Natività.  Ma approfondiamo: il testo italiano dice che “non trovarono posto nell’alloggio”, nel testo greco katalyma. È il termine tradotto con la parola “albergo/alloggio”. La stessa parola viene usata anche quando si parla della cena di Gesù con i discepoli, per indicare una stanza interna, situata al piano superiore di una casa, magari in un contesto più urbano com’era Gerusalemme (vedi Marco 14,14 e Luca 22,11). Nel contesto rurale della nascita, quel locale, collocato all’interno di una abitazione scavata nella roccia, poteva essere anche lo spazio dove sistemare in alcune circostanze gli animali, e quindi ecco la mangiatoia (fatnê) per alimentare le bestie. La stessa mangiatoia riappare nell’annuncio ai pastori come il segno dello straordinario evento (v. 12: «questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia»; v. 16: «Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia»).
Dunque, mettendo insieme il posto dove nasce Gesù e il luogo dove Lui celebrerà la Cena dicendo “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”, possiamo pensare che l’evangelista ci presenti Gesù, da subito, dalla nascita, come Uno da mangiare, come uno che si darà in cibo. «Gustate e vedete come è buono il Signore» (Salmo 33). Gustate come è buono il Pane pasquale. Infatti la Festa dell’Incarnazione la celebriamo spezzando e mangiando l’Eucaristia.




Famiglia di Nazaret icona di una Chiesa

Famiglia di Nazareth, icona di una chiesa. Don Augusto

Sulla famiglia, sacra ma non santa, oggi c’è rissa: famiglia naturale, famiglia laica, sacramentale, omo o etero, unione di fatto. Scendono in campo grossi calibri ecclesiastici (celibi!) per difendere i valori famigliari “non negoziabili”, da trasformare in leggi dello Stato usando la lobby (quelli di “Dio-patria-famiglia” bigami o quasi). E noi preti, senza moglie e figli, pontifichiamo dai nostri scranni come gli scribi e i farisei a cui Gesù diceva: «Guai a voi, esperti della Legge di Mosè, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc 11, 46).  Io ho sperimentato il lavoro e per esperienza so che lì si sono infranti tutti i modelli ideali profilati dalle Encicliche sul lavoro, obbligandomi ad una quotidiana mediazione (a volte al ribasso, a volte al rialzo) tra principî allo stato puro e contingenze problematiche. Se mi fossi sposato potrei parlare di famiglia, avendo custodito e confrontato nel cuore la Parola di Dio con la mia carne e storia. Rinuncio a cercare una corrispondenza diretta tra Bibbia e famiglia, come se la Santa Scrittura di oggi offrisse un prontuario di ricette o modelli di famiglia. Eppure mi intriga questo Dio-per-noi che si è fatto carne, prendendone su di sé tutte le conseguenze: appartenere ad un nucleo familiare, ad una etnia, ad una tradizione religiosa, ad un contesto politico nazionale e internazionale, reso «in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele» (Eb 2,17).
Mai come oggi la pastorale si è mobilitata per Corsi di catechesi pre e post matrimonio. Il matrimonio Concordatario non lo si nega a nessuno: tutti (sempre meno) lo pretendono come diritto individuale acquisito o come una prudente vaccinazione. Quasi tutti i matrimoni nascono in chiesa e finiscono in tribunale. Ne sento l’aspra responsabilità. Resta immutato il dramma di una profonda separazione tra quanto si celebra e il suo esito post rituale. Se voglio affondare lo sguardo dentro la ferita aperta, posso intonare il Dies irae: tutte le ricerche in atto ci assicurano che stanno aumentando le violenze e gli omicidi intra-familiari, che aumentano le separazioni e le conflittualità. E tutti sappiamo che con l’andar del tempo lo smalto dell’innamoramento si opacizza, la coppia vivacchia, i modelli educativi sono liquidi e scivolosi. Ma tu hai capito che sarebbe ingeneroso generalizzare e amalgamare tutte le famiglie nella poltiglia delle statistiche, dei morbosi talk show televisivi e dei patologici rapporti giornalistici. Grazie a Dio conosco, come te, stupende famiglie santificate e santificanti, dolci, solidali, aperte, celebranti, carismatiche; immagini sacramentali di un Dio sposo fedele e famiglia trinitaria. E conosco le lacrime inconsolabili quando la morte, e non la fine di un amore, infrange un’alba o un giorno talmente luminoso da non mettere in conto mai che possa venire sera.
In questo contesto medito le letture di oggi con un occhio alla famiglia e uno alla comunità cristiana. Perché non so bene se oggi si celebra la Santa Famiglia o la Santa Comunità. E’ vero che il Concilio Vaticano II° ha scritto: “La famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa e a comporre convenientemente i diritti della persona con le altre esigenze della vita sociale, è veramente il fondamento della società” (Gaudium et Spes 52). Ma è pure vero che Giovanni Paolo II° nella sua Familiaris Consortium (n.21) ha scritto: «la famiglia cristiana offre una rivelazione e una realizzazione specifica della comunione ecclesiale». Il Catechismo della Chiesa cattolica offre interessanti indicazioni (nn. 1655-1657): «Cristo ha voluto nascere e crescere in seno alla santa Famiglia di Giuseppe e di Maria. La Chiesa non è altro che la «famiglia di Dio». Fin dalle sue origini, il nucleo della Chiesa era spesso costituito da coloro che, insieme con tutta la loro famiglia, erano divenuti credenti. Ai nostri giorni, in un mondo spesso estraneo e persino ostile alla fede, le famiglie credenti sono di fondamentale importanza, come focolai di fede irradiante. È per questo motivo che il Concilio Vaticano II, usando un’antica espressione, chiama la famiglia  “Chiesa domestica”  in cui «i genitori devono essere per i loro figli, con la parola e con l’esempio, i primi annunciatori della fede».
«È qui che si esercita in maniera privilegiata il sacerdozio battesimale del padre di famiglia, della madre, dei figli, di tutti i membri della famiglia… con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità... È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita»[1].
Dalla Scrittura ci vengono alcuni dati di fondo. Occorre non dimenticare oggi che Gesù  ha relativizzato la famiglia: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,35-37). A chi gli faceva notare che sua madre e i suoi familiari lo stavano aspettando, Gesù reclama: «E chi è mia madre o i miei fratelli? Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50).
Vorrei entrare nei testi dei “Vangeli dell’infanzia” di Matteo e Luca ed evidenziarne alcune scoperte: Giuseppe e Maria sono una coppia pressata dalla vita e da problemi. Giuseppe ha una bella grana da sbrogliare, tra una dubbia moralità della moglie e una precisa disposizione delle Legge mosaica in materia. Maria pure ha la sua rogna con una maternità inusuale e un’altrettanta inusuale discussione con Dio. Tutti e due devono affrontare un lungo viaggio per sottoporsi a un censimento partorito dalle paranoie del potere. E poi quel parto avventuroso. E poi quella fuga all’estero con neonato al seguito. E poi quel rientro alla chetichella, come due perseguitati politici. E poi quella vita senza storia a Nazaret interrotta da qualche pellegrinaggio a Gerusalemme dove l’adolescente Gesù, da loro educato alla Sinagoga e alla Torà, non risparmia un indimenticabile divino grattacapo. Tutto ciò che è detto e ciò che non è detto ma immaginato, ci parla di una comunità non esentata dalla storia, non ritirata in mistici conventi o monasteri, ma travolta e ferita da eventi. Come me e te.
Immagino che domenica molti preti si daranno un gran da fare per tuonare contro le unioni di fatto, il malcostume della convivenza prima del matrimonio e via di questo passo verso un’esaltazione e un’ideologia del “modello di famiglia cristiana”. Esempio tipico dell’uso strumentale della Parola di Dio; un peccato sempre dietro l’angolo, anche per me. D’altra parte pare che tutti sentiamo il bisogno di non tenere la Parola di Dio nell’alto dei cieli di una teologia senza storia, ma di farne lievito nella pasta delle nostre contorte e contingenti quotidianità. Credo, tuttavia, che i primari interessi catechistici dell’evangelista Luca fossero altri, per rispondere alle domande: Chi è Gesù? Chi è la chiesa?
«Il mistero dell’incarnazione non si limita all’evento della nascita di Gesù, ma si estende alla sua crescita fisica, psicologica e spirituale, al suo divenire umano nello spazio di una famiglia e di un contesto culturale e religioso precisi (il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, la festa di Pasqua, il Tempio, l’apprendimento della Torah)[2]».
Il “Natale-nascita”,dunque, non è che una piccola parte del grande evento dell’Incarnazione e della Epifania di Dio che comprende anche un Gesù che “cresce”.  «Anche per il figlio di Dio diventare uomo non ha significato solo nascere come individuo, ma anche vivere la sua esistenza umana in rapporti familiari forti e significativi. La nostra comprensione dell’incarnazione del figlio di Dio non può trascurare la riflessione sul significato dei 30 anni che Gesù vivere radicato dentro una famiglia umana. Il nascere è l’inizio di un cammino di umanizzazione che ha nei rapporti familiari il terreno necessario»[3]. Ma sarebbe riduttivo cercare nel Vangelo di Luca solo l’icona della “Santa Famiglia” o, peggio ancora, della “Sacra Famiglia”; meglio sarebbe cercarvi l’icona di ogni comunità cristiana “famiglia di famiglie” come viene esplicitato al n° 23 del documento della CEI “Comunione e Comunità”: «Una parrocchia è fedele alla sua missione pastorale nella misura in cui aiuta concretamente le famiglie a vivere nella comunione la vita comunitaria secondo la ricchezza delle sue molteplici espressioni. In tal modo si introduce nella comunità ecclesiale uno stile più umano e più fraterno di rapporti personali che della Chiesa rivelano la dimensione familiare e del mistero della Chiesa, la sua “maternità,” il suo essere “famiglia di Dio”».
Credenti celebranti.
«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore». E’ una comunità (familiare) abbarbicata alla fedeltà verso i grandi appuntamenti che celebrano la “Memoria” degli interventi di Dio nella storia del popolo. La fede individuale diventa corale, popolare, liturgica, celebrante. Luca annoterà: «I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza» (Luca 2,41-42). Ciò che Maria e Giuseppe sussurravano al cuore del loro piccolo figlio catechizzandolo nelle mura domestiche, si materializza e si esternalizza nelle celebrazioni e nel culto al Tempio secondo le prescrizioni: “Tre volte all’anno farai festa in mio onore: Osserverai la festa degli azzimi…Osserverai la festa della mietitura…la festa del raccolto, al termine dell’anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio” (Es 23,14-17).  Forse Gesù era già nell’età prevista per diventare un “figlio del precetto” (bar mitzwah). Quando un bambino ebreo raggiunge l’età della maturità diventa responsabile per sé stesso nei confronti della legge ebraica, è ammesso a partecipare all’intera vita della comunità con gli adulti e diventa responsabile della ritualità, dell’osservanza dei precetti, della tradizione e dell’etica ebraica. Gesù era stato educato in famiglia a celebrare; da adulto lo troviamo ancora fedele ad uno dei grandi riti “memoriali” quale quello di “mangiare la Pasqua”: «Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: “Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare”… Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo:  “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoriale di me”».   (Lc 22, 7-8.19).  La sua/nostra Pasqua nasce dalle radici di una fedeltà cresciuta in una comunità (familiare) che abilita non solo a credere, ma anche a celebrare. Una comunità cristiana (familiare) credente e celebrante.


[1] Lumen gentium, 10; Gaudium et spes, 52.
[2] EUCARISTIA E PAROLA, a cura della comunità di Bose. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale. Ed. Vita e Pensiero, 2006, Milano.
[3] Servizio della parola, n. 293, dicembre 97.




Avvento domenica 4
Una parola nel piccolo villaggio del cuore

4 domenica di Avvento

Preghiamo. Dio grande e misericordioso, che tra gli umili scegli i tuoi servi per portare a compimento il disegno di salvezza, concedi alla tua Chiesa la fecondità dello Spirito, perché sull’esempio di Maria accolga il Verbo della vita e si rallegri come madre di un popolo santo e incorruttibile. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
 Dal secondo libro di Samuèle 7,1-5.8-12.14.16
Il re Davide, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose al re: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te». Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’ e di’ al mio servo Davide: “Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”».
 Sal 88 Canterò per sempre l’amore del Signore.
Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: «È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà».
«Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono».
«Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza”.
Gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele».
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 16,25-27
Fratelli, a colui che ha il potere di confermarvi nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Una Parola nel piccolo villaggio del cuore. Don Augusto Fontana
io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda…
Il Signore ti annuncia che farà a te una casa…
Ultima domenica di Avvento, a ridosso della Festa dell’Incarnazione. Tempi di affollamento dei supermarket e dei nuovi santuari delle cose.  Oggi le chiese hanno più banchi vuoti, le case odorano di fritture. E il Signore parla ugualmente a chi lo vorrà ascoltare in una piccola tenda o in un piccolo villaggio del cuore: «l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in un villaggio della Galilea, chiamato Nàzaret». Il centro d’interesse nel racconto di Luca è un messaggio cristologico più che mariano, per spiegare cioè chi è quel bambino che sta per nascere. Anche se Maria è presentata da Luca, volutamente, come il modello del discepolo  e di una chiesa che ascolta, interroga, risponde.
Tempio o casa?
Il vangelo di Luca si apre con l’annunzio di due nascite: quella di Giovanni Battista e quella di Gesù. Sono nascite che indicano il compimento delle promesse di Dio anche in casi impossibili  e infecondi. Come i nostri. Ciò che appare chiaro sin dall’inizio è il contrasto fra la presenza di Dio (angelo) e il villaggio di Nazaret, sconosciuto, mai citato nell’AT, nel territorio della Galilea, terra contaminata da stranieri e dunque impuro: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv. 1,46). Soprattutto incuriosisce il confronto tra l’annuncio al sacerdote Zaccaria (e a sua moglie Elisabetta, pure lei di discendenza sacerdotale) nel tempio di Gerusalemme anzi dietro la tenda del Santo dei Santi (Lc 1,5-26)  e l’annuncio a donna Myriam in casa.
Annunciazione o Vocazione?
Molti interpretano il testo del Vangelo alla luce di altre “annunciazioni di nascite prodigiose” (Isacco, Sansone). Padre Klemens Stock in un articolo[1] preferiva parlare di “vocazione di Maria”, senza angeli, ma con in mano un rotolo della Bibbia, il nostro angelo quotidiano. Scrive don Claudio Doglio[2]: «L’annuncio dell’angelo Gabriele è un evento mistico, che avviene nel profondo della coscienza e che non sarebbe stato possibile riprendere neppure con i mezzi di cui oggi disponiamo. Se ricordiamo la scena nel film di Zeffirelli, in questo caso si può apprezzare l’impostazione scenica, dove si mette in evidenza una luce che entra dalla finestra e lo spettatore vede questa ragazza che guarda la luce e che dice poche parole, ma non viene raffigurato nessuno. Questa immagine è corretta; noi siamo troppo influenzati dai quadri, un’infinità di raffigurazioni, mentre dobbiamo imparare che questa è una scena intima: è un ascolto che non avviene con le orecchie, è un discorso che non è fatto con la bocca, è un’esperienza mistica, misteriosa, che avviene nel profondo».
Dunque il brano di Luca sarebbe un racconto di vocazione in cui una persona è chiamata da Dio a collaborare con la Sua storia. L’episodio biblico che si può prestare ad un confronto è il racconto della vocazione di Gedeone contenuto nel Libro dei Giudici (6,11-24): «Gedeone batteva il grano nel tino per sottrarlo ai Madianiti. L’angelo del Signore gli apparve e gli disse: «Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!». Gedeone gli rispose: «Signor mio, se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo?». Allora il Signore si volse a lui e gli disse: «Va’ con questa forza e salva Israele; non ti mando forse io?». Gli rispose: «Signor mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera e io sono il più piccolo nella casa di mio padre». Il Signore gli disse: «Io sarò con te». Gli disse allora: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli… Gedeone vide che era l’angelo del Signore e disse: «Signore, ho dunque visto l’angelo del Signore faccia a faccia!». Il Signore gli disse: «La pace sia con te, non temere!». Dal confronto con il brano di Luca scopriamo che i due testi hanno una strutturazione analoga benchè non identica. Forse l’evangelista intendeva raccontare la vocazione di Maria. Forse intendeva narrare la nostra vocazione?
I dialoghi.
E comunque è bene fermare l’orecchio ai dialoghi.

  • «Rallegrati!…Kaire! ». Risuonano le profezie dell’AT: «Gioisci, figlia di Sion, ascolta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore figlia di Gerusalemme!» (Sofonia 3,14); «Esulta figlia di Sion gioisci figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo re» (Zaccaria 9,9). «L’angelo non dice: prega, inginocchiati. Ma semplicemente: apriti alla gioia, come una porta si apre al sole. Dio si avvicina e porta una carezza» (Ronchi). Per me il saluto ha forse anche un sapore pasquale; quando Gesù si presenta ai discepoli la sera di Pasqua, l’evangelista Giovanni (20,20) usa lo stesso verbo kairô:«mostrò loro le mani e il costato. I discepoli dunque, veduto il Signore, si rallegrarono {ekaresan dal verbo kairô}. In una vita complicata come la nostra e delusa come la mia, siamo visitati dal Signore per disseppellire questo invito dall’accumulo di relitti che la mareggiata ci ha vomitato sulla spiaggia sabbiosa della vita.
  • « kecharitoméne=trasformata dalla grazia[3]», quasi fosse un nuovo nome. Luca rischia grosso perché il Vangelo di Giovanni (1,14) dice che è il Verbo (Logos) di Dio ad essere “pieno di grazia” (plêrês chàritos). Giovanni Paolo II° nell’udienza generale l’8 maggio 1996 commentava così: «L’espressione “piena di grazia” traduce la parola greca kecharitoméne, la quale è un participio passivo. Per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco, non si dovrebbe quindi dire semplicemente “piena di grazia”, bensì “resa piena di grazia” oppure “colmata di grazia“, il che indicherebbe chiaramente che si tratta di un dono fatto da Dio alla Vergine. Il termine, nella forma di participio perfetto, accredita l’immagine di una grazia perfetta e duratura che implica pienezza. Lo stesso verbo, nel significato di “dotare di grazia”, è adoperato nella Lettera agli Efesini per indicare l’abbondanza di grazia, concessa a noi dal Padre nel suo Figlio diletto (Ef 1,6)». Da ora in avanti il suo nome sarà: amata per sempre; «come lei anch’io amato per sempre. Tutti, teneramente, gratuitamente amati per sempre» (Ronchi).
  • «il Signore è con te». Immanu’el è un nome che compare nelle profezie e che il vangelo di Matteo applica a Gesù. Significa “Dio con noi” ed composto dalle parole Immanu ( “con noi”) ed El (che significa “Dio”). Il Signore garantisce a Gedeone che lo assisterà nella missione che gli sta affidando: «Il Signore è con te, uomo forte e valoroso» (Gdc 6,12). «Espressione che avrebbe dovuto mettere in guardia la ragazza, perché quando si esprime così Dio sta affidando un compito bellissimo ma arduo (R. Virgili): chiama Maria a una storia di brividi e di coraggio» (Ronchi). Io ho avuto i brividi, ma non ancora il coraggio.
  • Maria è sconvolta: «Ella fu turbata {dietaràkthe} a queste parole, e si domandava {dielogìzeto} che cosa fosse un tale saluto». Il verbo usato da Luca indica caos, sconvolgimento, sommosse. Anche Zaccaria in 1,12 “al vedere l’angelo fu turbato e piombò su di lui una paura”. La parola di Dio provoca turbamento? Forse sì; e forse Maria era fra le donne della risurrezione (Lc 23 e 24): «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, guardarono la tomba, e come era stato deposto il corpo di Gesù… Ma il sabato, la mattina prestissimo, esse si recarono al sepolcro… Mentre erano confuse ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti; e impaurite». Maria lotta con il suo Signore come Giacobbe con l’angelo (Gen 32,23-33). L’incontro con Dio non è per i rammolliti. Maria riflette, domanda, si interroga ma sta nel dramma. «Zaccaria ha chiesto un segno, Maria chiede il senso e il come» (Ronchi).
  • «Non temere Maria, hai trovato grazia presso Dio». Isaia 41,14: «Non temere, vermiciattolo di Giacobbe,
    larva di Israele; io vengo in tuo aiuto
    ». Pare che l’invito “non temere” sia ripetuto 365 volte nella Bibbia; uno per ogni giorno dell’anno.
  • Poi con tre verbi si dice quello cui è chiamata Maria: concepirai, darai alla luce un figlio, gli imporrai un nome. Le tre azioni richiamano l’oracolo di Isaia (7,14) : «Il Signore vi darà un segno : ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emanuele». Maria comprende che Gabriele le sta riferendo la grande promessa fatta a Israele, la nascita del Messia. Ma quello che veramente sconvolge Maria è l’altra caratteristica del bambino : «grande e figlio di Altissimo». Questi appellativi erano riservati solo a JHWH. Tutto ciò è impensabile per gli ebrei, è qualcosa di assurdo, di impossibile. Maria rivolge una domanda all’angelo (34) : «come sarà questo?».
  • Il grande protagonista sarà lo Spirito santo detto la «potenza di Altissimo». L’azione dello Spirito può essere spiegata con due immagini: da un lato la discesa, dall’altro l’ombra che copre un territorio. Il verbo che Luca utilizza è il verbo utilizzato dalla Bibbia per indicare la presenza di Dio nella tenda del convegno (Es 40,34-35): «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la dimora». Zaccaria e Elisabetta ricevono lo Spirito per parlare; Giovanni riceve lo Spirito per testimoniare; Maria riceve lo Spirito per generare.
  • A questo punto tutto è appeso al filo della libertà di Maria. E Maria risponde “Ecco!”. Si autodefinisce «io, serva del Signore». Il servo è colui che entra con tutta la sua vita nel «gioco» di Dio, è colui la cui vita si intreccia con la storia di Dio. Questo titolo dice obbedienza ma dice pure dignità e coscienza di essere strumento nelle mani di Dio. Maria è cosciente di essere serva del Signore ed esprime un desiderio: il verbo greco usato è un ottativo, che nella lingua italiana può essere ben tradotto con: «desidero che di me avvenga secondo la tua Parola». Beata lei!

[1] Biblica 61, 1980, pp.457-491
[2] http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio9.htm#Il%20racconto%20dell%E2%80%99Annunciazione
[3] Traduzione del biblista Ignazio de La Potterie




La morte della Parrocchia
Racconto

La morte della Parrocchia

(Bollettino salesiano ottobre 2023)

Sui muri e sul giornale della città comparve uno strano annuncio funebre: «Con profondo dolore annunciamo la morte della parrocchia di Santa Eufrosia. I funerali avranno luogo domenica alle ore 11».
La domenica, naturalmente, la chie­sa di Santa Eufrosia era affollata come non mai. Non c’era più un solo posto libero, neanche in piedi. Da­vanti all’altare c’era il catafalco con una bara di legno scuro. Il parroco pronunciò un semplice discorso: «Non credo che la nostra parrocchia possa rianimarsi e risorgere, ma dal momento che siamo quasi tutti qui voglio fare un estremo tentati­vo. Vorrei che passaste tutti quanti davanti alla bara, a dare un’ultima occhiata alla defunta. Sfilerete in fila indiana, uno alla volta e dopo aver guardato il cadavere uscirete dalla porta della sacrestia. Dopo, chi vorrà potrà rientrare dal portone per la Messa».
Il parroco aprì la cassa. Tutti si chie­devano: «Chi ci sarà mai dentro? Chi è veramente il morto?». Cominciarono a sfilare lentamente. Ognuno si affacciava alla bara e guardava dentro, poi usciva dalla chiesa. Uscivano tutti silenziosi, un po’ confusi.
Perché tutti coloro che volevano vedere il cadavere della parrocchia di Santa Eufrosia e guardavano nella bara, vedevano, in uno specchio appoggiato sul fondo della cassa, il proprio volto.


«Anche voi, come pietre vive, formate il tempio dello Spirito Santo, siete sacerdoti consacrati a Dio e offrite sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri, per mezzo di Gesù Cristo». (1 Pietro 2,5)




La misura del Perdono non è mai colma
P. Ermes Ronchi

La misura del Perdono non è mai colma
padre Ermes Ronchi  (15-09-2002)

“Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Cioè, sempre. L’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Ma perché farlo? La risposta è semplice e alta: perché così fa Dio. Gesù lo spiega con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo re, qualcosa che non sarebbe mai riuscito a pagare: allora, gettatosi a terra, lo supplicava. E il re provò compassione. Sente come sua l’angoscia del servo, essa conta più dei suoi diritti, pesa più di diecimila talenti, allarga il cuore del re. C’è un modo regale di stare nel mondo, un modo divino, e risiede nella larghezza di cuore: sa perdonare chi è più grande e più forte.
E in opposizione a questo cuore regale ecco il cuore servile: appena uscito quel servo trovò un altro servo…Appena uscito, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo. Appena uscito, ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia, appena fatta l’esperienza di un cuore regale, preso il suo compagno per il collo lo strangolava, gridando: ridammi le mie mille lire, lui, perdonato di miliardi.
Il servo perdonato non agisce contro il diritto o la giustizia. È giusto, e spietato. È onesto, e al tempo stesso cattivo. Quanto è facile essere giusti e spietati, onesti e cattivi. Perché non basta essere giusti per essere uomini, tanto meno per essere di Dio. Giustizia e diritto da soli non bastano a fare nuovo il mondo. Anzi, l’estrema giustizia, ridammi le mie mille lire, può contenere la massima offesa all’uomo: presolo per il collo lo strangolava.
Gesù propone l’illogica pietà: non dovevi anche tu avere pietà di lui, come io ho avuto pietà di te? Perché avere pietà e perdonare? Per acquisire il cuore di Dio, immettere il suo divino disordine dentro l’equilibrio apparente del mondo. Perché niente vale quanto una vita. E allora occorre una dismisura, il perdono fino a settanta volte sette, un eccesso di pietà.
Occorre il perdono di cuore. È difficilissimo perdonare di cuore. Comporta un atto di fede, non d’intelligenza. Nell’uomo. Un atto di speranza, non di spontaneità. Nell’uomo. Palestinesi ed israeliani usciranno dal loro equilibrio di paura e di morte solo con il coraggio di un atto di fede reciproca. Fede è dare fiducia all’altro, guardando non al passato, ma al futuro. Così fa Dio con me: mi perdona non come Colui che dimentica il mio passato, ma come Colui che mi sospinge oltre.
Dio perdona come un liberatore. Ti lancia in avanti. Ti fa salpare ancora verso albe intatte, come vento che gonfia le vele, supplemento d’energia. Ti perdona come atto di fede in te, cuore largo verso il tuo futuro.




Nessun viaggio è lungo per chi ama
P. Ermes Ronchi

Nessun viaggio è lungo per chi ama.
padre Ermes Ronchi
XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (26/07/2020)
Vangelo Matteo 13,44-52

Gesù, con due parabole simili, brevi e lampeggianti, dipinge come su un fondo d’oro il dittico lucente della fede. Evoca tesori e perle, termini bellissimi e inusuali nel nostro rapporto con Dio. Lo diresti un linguaggio da romanzi, da pirati e da avventure, da favole o da innamorati, non certo da teologi o da liturgie, che però racconta la fede come una forza vitale che trasforma la vita, che la fa incamminare, correre e perfino volare. Annuncia che credere fa bene! Perché la realtà non è solo questo che si vede: c’è un di più raccontato come tesoro, ed è accrescimento, incremento, intensità, eternità, addizione e non sottrazione. «La religione in fondo equivale a dilatazione» (G. Vannucci).
Siamo misteriosamente avvolti da forze buone: Qualcuno interra tesori per noi, semina perle nel mare dell’esistenza, «il Cielo prepara oasi ai nomadi d’amore» (G. Ungaretti). Trovato il tesoro, l’uomo va, pieno di gioia, vende tutto e compra quel campo. Si mette in moto la vita, ma sotto una spinta che più bella non c’è per l’uomo, la gioia. Che muove, mette fretta, fa decidere, è la chiave di volta. La visione di un cristianesimo triste, che si innesca nei momenti di crisi, che ha per nervatura un senso di dovere e di colpa, che prosciuga vita invece di aggiungerne, quella religiosità immatura e grigia è lontanissima dalla fede solare di Gesù. Dio ha scelto di parlarci con il linguaggio della gioia, per questo seduce ancora. Viene con doni di luce avvolti in bende di luce (Rab’ia). Vale per il povero bracciante e per l’esperto mercante, intenditore appassionato e ostinato che gira il mondo dietro il suo sogno. Ma nessun viaggio è lungo per chi ama. Noi avanziamo nella vita non a colpi di volontà, ma per una passione, per scoperta di tesori (dov’è il tuo tesoro, là corre felice il tuo cuore, cfr Mt 6,21); avanziamo per innamoramenti e per la gioia che accendono. I cercatori di Dio, contadini o mercanti, non hanno le soluzioni in tasca, le cercano. Aver fede è un verbo dinamico: bisogna sempre alzarsi, muoversi, cercare, proiettarsi, guardare oltre; lavorare il campo, viaggiare, scoprire sempre, interrogare sempre. In queste due parabole, tesoro, perla, valore, stupore, gioia sono nomi di Dio. Con la loro carica di affetto, con la travolgente energia, con il futuro che dischiudono. Si rivolgono alla mia fede e mi domandano: ma Dio per te è un tesoro o soltanto un dovere? È una perla o un obbligo? Mi sento contadino fortunato, mercante dalla buona sorte. E sono grato a Colui che mi ha fatto inciampare in un tesoro, in molte perle, lungo molte strade, in molti giorni: davvero incontrare Cristo è stato l’affare migliore della mia vita!




La mano di Dio semina il bene
P. Ermes Ronchi

La mano di Dio semina bontà, generosità e coraggio
padre Ermes Ronchi –  16a Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)  – Vangelo: Mt 13,24-43

C’è un campo nel cuore in cui intrecciano le loro radici, spesso inestricabili, il bene e il male: nessuno è solo zizzania, nessuno puro grano. La parabola racconta due modi di leggere e lavorare il cuore. Il primo è quello dei servi che fissano l’attenzione sulla zizzania: «Da dove viene? Vuoi che andiamo a raccoglierla?» Il secondo è quello del padrone del campo che ha invece gli occhi fissi al buon grano: «Non raccogliete la zizzania, per non sradicare anche il grano: una sola spiga conta più di tutta la zizzania».
Quale dei due sguardi è il nostro? Quello opaco e triste dei servi che vede il mondo e le persone invasi dal male, che giudica con durezza manichea? Quello positivo e solare del Signore che intuisce, dovunque, spighe, pane e mietiture fiduciose, e che ha messo la sua forza nella mitezza?
«Non strappate la zizzania». Noi abbiamo sempre una violenta fretta di moralizzare e mettere a posto. L’uomo infantile che è in noi grida: strappa via da te, e soprattutto intorno a te, ciò che è puerile, fragile, difettoso. Il signore del campo suggerisce: preoccupati del buon seme, ama i tuoi germi di vita, custodisci ogni germoglio. Tu non sei le tue debolezze, ma le tue maturazioni; l’uomo non coincide con i suoi peccati, ma con le potenzialità di bene.
Vero esame di coscienza è leggere la vita con quello sguardo divino che cerca non l’assenza di difetti, illusione inutile e spesso mortifera, ma la fecondità come etica della vita. Impariamo a vedere ciò che di vitale, di bello, di promettente Dio ha seminato in noi (non è orgoglio, ma responsabilità), facciamo sì che porti frutto, che ogni granellino di senapa cresca con il dono di attrarre e accogliere vite, che ogni pizzico di lievito abbia il tempo per sollevare e rialzare i giorni inerti.
Facciamo nostra l’attività positiva, solare, vitale del Creatore che per vincere le tenebre accende ogni giorno il suo mattino, per muovere la massa immobile vi nasconde il lievito. Preoccupiamoci non della zizzania, dei difetti, delle debolezze, ma di avere un amore grande, ideali forti, desideri positivi, una venerazione profonda per le forze di bontà, generosità e coraggio che la mano viva di Dio semina in noi. Facciamo che esse erompano in tutta la loro bellezza, in tutta la loro potenza, e vedremo le tenebre ritirarsi e la zizzania senza più terreno. E tutto il nostro essere maturare nel sole.




La paura di non portare frutti.
Don A.Fontana

La paura di non portare frutti. Don Augusto Fontana
 Mi ha sempre impressionato il fatto che delle ferventi comunità dei primi secoli, fondate da apostoli e martiri, resta solo la loro preistoria. Che cosa sarà delle nostre parrocchie fra qualche secolo? Le Chiese europee hanno perso un fervore neofita che ora pare diffuso su Chiese giovani del Sud del mondo. Resteremo reperti archeologici e territori da rievangelizzare? Gravi sono, oggi, anche le paure nel più vasto campo delle società. Il nostro grande albero sta producendo ancora frutta selvatica: il mercato marcia e il lavoro marcisce; le previdenze sociali vengono risicate; gli accordi di pace sono fragili come anche fragili sono gli accordi affettivi che producono relazioni disastrate; si imbarbariscono i rapporti tra istituzioni e, perchè no?, tra fedi religiose. La vita è un rischio continuo, da qualsiasi parte la si prenda.
Paolo scrive alla comunità di Filippi e la esorta a non lasciarsi prendere dal panico (“non affannatevi, ma in ogni necessità fate presente a Dio le vostre richieste perchè la pace di Dio vi custodirà in Cristo”), ma Matteo e Isaia sembrano non fare sconti (“Renderò la mia vigna un deserto arido…Vi toglierò il Regno di Dio e lo darò ad un popolo che lo farà fruttificare”). I cristiani di Filippi erano alle prese con problemi quotidiani di ostilità esterne e di conflitti e divergenze interne. Allora Paolo raccomanda di non lasciarsi affannare eccessivamente. Viene in mente la raccomandazione di Gesù riportata da Matteo 6, 23: non affannatevi per cibo, bevanda, vestito e futuro, ma occupatevi della vita e dell’oggi dentro la tenerezza di Dio.  Paolo augura una pace di Dio che non assomigli certo ad una polizza assicurativa contro infortuni e contraddizioni pastorali ed esistenziali, ma esclude panico e paralisi, comprendendo una resistenza attiva e fiduciosa. La resistenza attiva la si compie sulle barricate della vita quotidiana attivando in famiglia, sul lavoro, nei condomini e nella parrocchia il circolo virtuoso di tutto ciò che è “vero, nobile, giusto, puro, amabile, apprezzato, virtuoso, lodevole”. La resistenza fiduciosa la si sperimenta sulle barricate della preghiera di intercessione il cui paradigma è il Padre Nostro che resta l’intramontabile barriera contro la banalizzazione di Dio e dei nostri veri bisogni.
La Liturgia sostiene il motivo di questa fiducia riconoscente: siamo una vigna circondata dalle affettuose cure del contadino. Anche Geremia ed Ezechiele, oltre a Isaia, adottano l’allegoria della vigna e della sposa per descrivere come si crea, si strappa e si ricuce il tessuto dei rapporti affettivi tra Dio e comunità. Chi avesse modo di rileggersi Ezechiele dal capitolo 15 al 20 potrebbe essere preso da una santa paura per i rischi che incombono sulla comunità religiosa che si autoassolve, non si lascia provocare dai segni e dai profeti del suo tempo chiudendosi in un’autarchia pigra e supponente.
La prima vera paura che  dovremmo avere è di portare frutti selvatici deludendo le attese del Signore (Isaia 5: “Egli aspettava che la sua vigna producesse uva dolce ed invece ha prodotto uva selvatica e cioè aspettava giustizia e la vigna ha prodotto delitti; aspettava rettitudine ed ha prodotto grida di oppressi”). I due punti “caldi” del brano evangelico (Matteo 21, 33-43) da un lato mettono al centro il problema della Chiesa in relazione alla Sinagoga ebraica e all’affievolirsi della fedeltà nelle opere della fede (“Darà la vigna ad altri contadini che gli consegneranno i frutti a suo tempo…Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.”) e dall’altro, con la citazione del Salmo 118 (“La pietra che i costruttori hanno scartato diventerà la pietra insostituibile”)  si evidenzia il ruolo di Gesù crocifisso e risorto quale fondamento della Chiesa e rigido criterio per la sua attività. La parabola evangelica è il riepilogo della Storia Sacra fino all’ultimo atto della esclusione di Gesù. Esclusione non attribuibile ai soli giudei, ma possibile anche da parte di chi, come me, continua a declamarsi cristiano estromettendo cortesemente Gesù dai recinti della vita quotidiana. E’ la storia di uomini che, chiamati ad essere servi coltivatori del campo, se ne fanno proprietari rivendicandone i diritti come conseguenza del loro attivismo. Scoprire il dono, invece,  porta a ritenersi semplici custodi e non possessori. E’ la storia di chi ha paura del nuovo che sconvolge i piani: la polemica antigiudaica di Matteo non si rivolge solo all’immobilismo giudaico del suo tempo di fronte alla novità di Gesù, ma anche ai membri della sua comunità che pretendono di fissare l’azione di Dio nelle tradizioni del passato e in base ai criteri del loro vissuto. E’ la storia di chi preferisce palpare i frutti o consumarli nello spazio intra-ecclesiale anziché consegnarli e socializzarli mediante una partecipazione attiva, testimoniante e missionaria.
Il tema del giudizio non vuole perpetuare l’equivoco di un Dio-padre-padrone che dà e toglie, assume e licenzia, ma ha lo scopo di creare una biblica gelosia, un religioso timore, un risveglio della coscienza e della responsabilità senza spazi per il quietismo.  L’allegoria di Isaia e la Parabola di Matteo hanno dunque una doppia valenza. Sono una “buona notizia” : chiunque tu sia, dovunque tu sia, qualunque capacità tu abbia, in qualunque ora della tua vita tu puoi lavorare nella vigna del Regno e farla fruttificare per il Signore e per la comunità. Sono anche un “avvertimento”: chiunque tu sia, prete o laico, puoi rischiare di percuotere i servi di Dio, tagliar fuori suo Figlio e sciupare, nella insignificanza, la responsabilità che ti è data.
Padre giusto e misericordioso, che vegli incessantemente sulla tua Chiesa, non abbandonare la vigna che la tua destra ha piantato. Continua a coltivarla ed arricchirla di scelti germogli perchè innestata in Cristo, vera vite, porti frutti abbondanti di vita eterna.




Ogni giorno su di noi una pioggia di semi di Dio
P. Ermes Ronchi

Ogni giorno su di noi una pioggia di semi di Dio
padre Ermes Ronchi  (13-07-2014)

Egli parlò loro di molte cose con parabole. Magia delle parabole: un linguaggio che contiene di più di quel che dice. Un racconto minimo, che funziona come un carburante: lo leggi e accende idee, evoca immagini, suscita emozioni, avvia un viaggio. Gesù amava i campi di grano, le distese di spighe, di papaveri, di fiordalisi, osservava la vita e nascevano parabole. Oggi osserva un seminatore e nel suo gesto intuisce qualcosa di Dio.
Il seminatore uscì a seminare: la parabola non perde tempo in preamboli o analisi, racconta un fatto o una esperienza.
Il seminatore, non un; il Seminatore per eccellenza, Colui che con il seminare si identifica, perché non fa altro che questo: dare vita, fecondare. Seminatore: uno dei nomi più belli di Dio. E subito l’immagine d’un tempo antico ci riempie gli occhi della mente: un uomo con una sacca al collo che percorre un campo, con un gesto largo della mano, sapiente e solenne. Ma il quadro collima solo fin qui. Il seminatore della parabola è diverso, eccessivo, illogico: lancia manciate generose anche sulla strada e sui rovi. È uno che spera anche nei sassi, un prodigo inguaribile, imprudente e fiducioso. Un sognatore che vede vita e futuro ovunque. Una pioggia continua di semi di Dio cade tutti i giorni sopra di noi. Semi di Vangelo riempiono l’aria. Si staccano dalle pagine della Scrittura, dalle parole degli uomini, dalle loro azioni, da ogni incontro. Ma per quanto il seme sia buono, se non trova acqua, luce e protezione, la giovane vita che ne nasce morirà presto. Il Seminatore getta il seme, ma è il terreno che permette di crescere. Allora io voglio farmi terra buona, terra madre, culla accogliente per il piccolo germoglio. Come una madre, che sa quanto tenace e desideroso di vivere sia il seme che porta in grembo, ma anche quanto fragile, vulnerabile e bisognoso di cure, dipendente quasi in tutto da lei.
Essere madri della parola di Dio, madri di ogni parola d’amore. Accoglierle dentro sé con tenerezza, custodirle e difenderle con energia, allevarle con sapienza. Ognuno di noi è una zolla di terra, ognuno è anche un seminatore che cammina nel mondo gettando semi. Ogni parola, ogni gesto che si stacca da me, se ne va per il mondo e produrrà qualcosa. Che cosa vorrei produrre? Tristezza o germogli di sorrisi? Paura, scoraggiamento o forza di vivere?
Il cristiano è uno ben consapevole che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né quando. Ha però la sicurezza che non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola nel mondo come una forza di vita.




Lo stile di Gesù nella Chiesa
Giuliano Zanchi

Lo stile di Gesù e il ministero della Chiesa.
Giuliano Zanchi
2 giugno 2023/  settimana news

Giovedì 18 maggio, nella cattedrale di San Pietro a Bologna, don Giuliano Zanchi, teologo, docente all’Università Cattolica e direttore della Rivista del clero italiano, ha tenuto una meditazione per il clero della diocesi felsinea alla presenza dell’arcivescovo, il card. Matteo Maria Zuppi.

Ringrazio di questa occasione che mi viene offerta di condividere, in un contesto così solenne, qualche pensiero in una forma a metà strada fra la conferenza e la meditazione, nella quale voglio introdurmi con il tono della confidenza personale, sperando che non porti con sé apparenze narcisistiche.
Lo stile di Gesù
Quest’anno sono prete da 30 anni. Queste cifre tonde, che noi celebriamo con una solennità che personalmente mi imbarazza sempre, sono in fondo delle convenzioni. Noi umani cerchiamo di prendere sul tempo la vita fissando delle soglie. Una finzione commovente. In effetti queste soglie (e le cifre tonde in cui vengono poste) assumono la consistenza di un punto magnetico della coscienza, in cui viene istintivo fare bilanci, guardarsi indietro, guardarsi intorno, riprendere il filo di quello che si era, cercarsi in quello che si è diventati.
E il mio sentimento di oggi è che sono contento di essere prete (col permesso di non scomodare il termine «gioia» che non mi piace usare, perché mi sembra ormai carico di un felicismo artificiale e sentimentalistico in cui non mi riconosco). Sono contento di aver conferito alla mia vita questa forma. Sono contento di essere prete, soprattutto adesso, dopo tanti anni, e dopo i molti disincanti (alcuni anche profondi) che hanno accompagnato le mie molte ingenuità di partenza.
Devo dire che la convinzione si consolida col disincanto, perché si libera delle immaginazioni magiche di un ideale da realizzare con le proprie idee e secondo le proprie aspettative. Non significa non avere delle tensioni ideali o rinunciare allo slancio di uno stile. Significa trovare unità in qualcosa di meno volatile e più profondo (persino più gratificante) che, per me, consiste in questo: essere prete è stato il mio modo di diventare cristiano (e non il contrario). Sono grato al ministero perché sono sempre più contento di essere cristiano. In questo tempo, nel quale le visioni della vita e i modelli umani si affollano in un caleidoscopio non sempre discernibile, vedere la vita e interpretare l’esistenza nella forma cristiana legata alla straordinaria umanità teologale di Gesù mi sembra una fortuna, una soddisfazione, una grazia (anche culturalmente); che per me non significa indossare una divisa e tenere in mano una bandiera: ma poter contare su un riferimento solido che, prima ancora di rendermi eventualmente testimone, mi fa sentire graziato. Sentirsi graziati consente di essere testimoni in un certo modo: non insistente, non molesto, non arrogante, non militante.
Negli ultimi anni mi sento sempre più attratto da certe parole di Paolo che mi sembrano interpretare bene questo mio senso di gratitudine, e in particolare quella parola che si trova in Filippesi 2,5 che dice: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». È una frase che – come si sa – introduce uno di quegli inni che fondano da subito i tratti essenziali della fede cristologica, a vent’anni dai fatti e secoli prima dei concili dogmatici. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (si potrebbe aggiungere, gli stessi pensieri, gli stessi atteggiamenti, gli stessi slanci, lo stesso stile, insomma): invito che personalmente associo sempre con maggiore convinzione al senso più genuino che si può attribuire al termine «pastorale», inteso come esercizio sul campo del ministero della Chiesa e, quindi, anche dell’avventura sinodale con cui si cerca di rimettere a fuoco in modo condiviso le attuali condizioni di esercizio di un tale ministero. Avventura sinodale che resta un’operazione ingegneristica se non viene pensata alla luce dello stile di Gesù, ma che si rivela essenziale, doverosa e urgente, se invece la si considera su questo sfondo. Riappropriarsi dello stile di Gesù. Il quale camminava con la gente prima ancora che la grande Chiesa anatolica di stampo greco inventasse la parola «sinodo», che significa, come si continua a ripetere un po’ retoricamente, «camminare insieme». Perché la scena originaria della Rivelazione di Dio in Gesù ha proprio questa forma. Trent’anni di silenziosa abitazione nei fondamentali delle cose umane (la vita di Nazaret), e poi uno stare per strada immerso in una compagnia composita, che non è solo fatta di discepoli ma anche delle folle.
La grazia per gli sfiduciati.
Qui mi limito a raccogliere alcune suggestioni di Pierangelo Sequeri in merito alla questione (Iscrizione e rivelazione, Queriniana, 2022). Gesù, i discepoli, le folle. La rivelazione della grazia e la testimonianza della sua accessibilità si danno solo nella concomitante presenza di queste figure. Non si può fare un cristianesimo basato su un rapporto esclusivo fra Gesù e i discepoli, e quindi neanche la Chiesa, perché questo configura subito un elitarismo che restringe arbitrariamente le condizioni della grazia. Non si può nemmeno fare un cristianesimo in un rapporto esclusivo fra Gesù e le folle senza la giusta mediazione dei discepoli, perché crea subito le condizioni per una socializzazione superstiziosa del sacro (Gesù infatti, quando le folle cercano miracoli e non comprendono i segni, si sottrae dalla loro pressione). Tantomeno, si può fare un cristianesimo basato esclusivamente sul rapporto fra discepoli e folle, perché questo anima subito i principi attivi del «clericalismo» e predispone i caratteri di una religione civile. Il cristianesimo – quindi la Chiesa e il suo ministero – si fanno quando i discepoli comprendono le ragioni e le responsabilità del Regno imparando dal modo con cui Gesù incontra le folle, questa congerie di umanità varia ed eventuale nella quale c’è davvero di tutto, buoni e cattivi, giusti e peccatori, semplici e dotti, donne chiacchierate e amministratori corrotti, gli ingenui e gli scaltri, chi desidera Dio e chi cerca miracoli, un po’ di stranieri, molti marginali, qualche eretico, uomini di potere e uomini di intelletto, padri disperati e madri irriducibili. Questa platea appare così ampia e composita perché, nella scena originaria della rivelazione, la grazia di Dio è per le folle, non per i discepoli. L’annuncio del regno di Dio è per gli sfiduciati, per chi si è convinto di essere lontano da Dio, per quelli che si sentono squalificati dai tabù religiosi, quelli che sono prigionieri del male, per i vinti della storia, per quelli che la specializzazione religiosa dell’istituzione ha convinto di essere inadeguati. Insomma, una folla che gravita su un’orbita molto esterna, in cui si muove il «cittadino medio», insieme al marginale, a quelli dalla reputazione compromessa, dalla vita umiliata, dalla speranza vinta. Non è sempre gente candida. Hanno spesso una nascosta coscienza delle proprie responsabilità. Ma non trovano nella religione il luogo del loro riscatto. Salvo quando arriva Gesù e dice che la grazia di Dio è per loro.
Toccati dal Signore
Tra questi ci sono gli esempi più luminosi di chi riconosce Dio nel tocco di Gesù, senza bisogno di dire come Pietro «Tu sei il Cristo!», ma guadagnandosi la parola di Gesù che dice «la tua fede ti ha salvato!». Non devono dimostrare il pieno possesso di una ortodossia, vengono accolti per l’intensa immediatezza del loro affidamento, per confuso che sia. E la scuola a cui Gesù aggrega i discepoli non serve tanto per abilitarli a dire «Tu sei il Cristo!» (che in realtà nel momento di dirlo sono già nella situazione di equivocare e poi, come si sa, di tradire), quanto piuttosto per riconoscere quelle storie in cui poter dire insieme al Maestro «la tua fede ti ha salvato!».
Mi pare che questo Sinodo, in qualunque metodo lo si voglia condurre, non abbia comunque la finalità di serrare le fila dei discepoli, ma di rimettersi in cammino con le folle (semmai proprio questo cammino può portare a ricompattare la comunione). Passare con Gesù in mezzo alla vita e poter essere segno della grazia di Dio, non dei confini della religione, perché questa differenza le «folle» la capiscono al volo, la colgono per istinto, anche quella parte di folla che ancora abita la chiesa ma non sente più l’emozione di essere toccata dal Signore.
Il Sinodo scommette sull’idea che tutta questa gente, anche se non parla perfettamente la lingua della religione e dell’ortodossia, ha qualcosa di vitale da dire sulla qualità spirituale del nostro essere raccolti nella chiesa e mandati nel mondo. Il ministero della chiesa consiste nell’essere il luogo dove tutti possono sentirsi toccati dal Signore, non monitorati da una istituzione. E questo ministero, per molte ragioni storiche e culturali, ha pesato per secoli (almeno gli ultimi quattro o cinque) direttamente sul ruolo del prete, in modo pressoché esclusivo, con i limiti che conosciamo e che ora si stanno rivelando nei loro importanti effetti collaterali.  Ora nella chiesa torna l’idea che questo ministero appartiene alla chiesa nella sua interezza e nella sua integrità, e si sente il bisogno e il desiderio di declinarlo secondo responsabilità nuove e plurali, che onorino il sacerdozio battesimale di molti laici e di molte donne che già ora svolgono ministeri di fatto che edificano la chiesa. Stando attenti a non limitarsi a una mera estensione di ruolo da una categoria all’altra, perché potrebbe significare semplicemente socializzare dei limiti, più che generare opportunità nel ministero.
Un compito da onorare.
Al di là delle risposte concrete, sulle quali si discute e pure ci si divide, resta il tema di fondo di rendere la chiesa una casa e non una caserma, un luogo dove incontri il Signore e non dei burocrati del sacro. Il Sinodo, mi pare, sta recependo dallo scambio delle chiese e dal senso dei fedeli alcuni nuclei di conversione molto chiari e molto diretti, che possono essere sintetizzati in queste tre espressioni: parole vererelazioni rispettoseeconomie leggere
Parole vere non significa più aderenti all’ortodossia (come se blindare le formule potesse rendere un discorso più persuasivo), ma più autorevoli nella loro pretesa di illuminare la vita con la luce della rivelazione evangelica. Persino da dentro la chiesa si percepisce il tarlo dell’insignificanza che sta cogliendo la parola cristiana (che significa più ampiamente i suoi linguaggi, la sua cultura, il suo pensiero, le sue retoriche, le sue formule) e la trasforma in un gergo religioso che non sostiene più quelli dentro ed è alieno per quelli fuori.
Relazioni rispettose significa prendere sul serio la parola di Gesù che dice, nel suo nuovo comandamento, «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi, da questo riconosceranno che siete mei discepoli». Il tratto della fraternità è il vero differenziale della verità della testimonianza. Una chiesa in cui non ci si tratta bene mette in circolazione cattivi spiriti, che scorrazzano facendo danni per tutti. Le relazioni nella chiesa devono diventare più mature, inclusive e accoglienti. In modo concreto però, non solo ideale. Spiritualmente, non spiritualisticamente.
Economie leggere, significa una serie di questioni che sono sulla bocca di tutti, in questo tempo di dismissione materiale e di qualche disavventura morale. Nella redazione lucana degli insegnamenti di Gesù circa la missione ci sono già le ingiunzioni più essenziali. L’equipaggiamento del testimone deve essere leggero e l’accudimento che pure si merita, per il lavoro che fa, deve avere i suoi limiti (fatevi ospitare da qualcuno per il pranzo, ma non fate il giro delle case). Questo avvertimento è ora un pesante onere di attualità. Andrà onorato non solo per il sollievo di una organizzazione sostenibile dell’istituzione ma soprattutto per la tutela di una rettitudine che fa da sola tutta la reputazione di una testimonianza. Su questi temi la «conversazione spirituale» attivata nelle chiese sembra essere concorde, convergente, insistente e accorata.
Intercessori
Tutto questo va affrontato non per essere nuovamente dei conquistatori, ma per agire più intensamente come intercessori, come devono sempre essere dei ministri veri, specie in un contesto nel quale il desiderio di Dio è più un brusio di fondo che un linguaggio comune. Mi viene in mente, per sigillare questa meditazione con un’icona biblica, la scena di Esodo 32 nella quale Mosè discute con Dio delle sorti del popolo e dell’alleanza (Es 32,7-14). Si tratta di un dialogo che arriva dopo la proclamazione del decalogo in Esodo 20, che non sono solo i dieci comandamenti sintetizzati in frasi dal nostro catechismo, ma 22 lunghi capitoli in cui dalle parole fondamentali dell’alleanza discende anche tutta una costruzione etica e religiosa che nel testo viene fatta illustrare a Mosè direttamente da Dio, e che comprende anche tutto il sistema del culto, le feste, il santuario, la tenda, l’arca, i vestiti sacerdotali, la dimora, il candelabro, l’altare, l’investitura dei sacerdoti. Insomma, tutto l’armamentario «ecclesiastico» così solenne e che sembra così indispensabile. Ma al culmine di tutto questo il popolo ha voluto, col vitello d’oro, farsi una sua immagine di Dio. Allora Dio perde la pazienza, e parlando con Mosè gli propone di abbandonare a sé stesso questo popolo totalmente insensibile e ricominciare da solo con lui. «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione», dice Dio a Mosè. Non vi sembra descritto benissimo l’umore delle nostre ferite ecclesiastiche e le sue tentazioni più istintive, di abbandonare polemicamente il mondo a sé stesso? Ma Mosè non si lascia lusingare da questa prospettiva, in cui aleggia una forma di salvezza e di elezione indegna di un uomo (mi salvo io perdendo tutti). Allora discute con Dio. Tra le righe sembra dirgli che se abbandonerà questa gente nemmeno lui lo seguirà. Sarà anche gente ottusa, insensibile e malevola, ma una promessa è una promessa, e se Dio la abbandonerà, lui, Mosè, non lo seguirà.
Allora succede che Dio cambia idea, un po’ come quando una donna straniera, parlando di briciole e cagnolini, fa cambiare idea a Gesù. Ed è formidabile che nei nostri testi sacri ci sia il tema di Dio che cambia idea quando incontra delle ragioni umane. Il nostro mondo e la nostra epoca saranno anche «un popolo dalle labbra impure», ma sono pur sempre quell’umanità dalla quale non ci sentiamo di poterci separare e nella quale teniamo viva la brace delle promesse di Dio.
Ecco, il Sinodo deve svolgersi che sotto il segno di questo tratto intercessivo. Dovrà fare anche molte cose concrete. Ma potrà farle sinceramente solo se attraversato da questo sentimento.