C’è tanto da raccogliere
P. Ermes Ronchi

‘C’è tanto da raccogliere’, un messaggio controcorrente

padre Ermes Ronchi

XI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/06/2002)

Vangelo: Mt 9,36-10,8 

La messe è molta. Io invece credevo che i campi della vita fossero aridi e i tempi cattivi. Io avrei detto: c’è tanto da arare e da faticare; per raccogliere, alla fine, basta chiunque. C’è troppo sudore da mescolare alla semente, una rete da gettare per tutta la notte, e forse per non prendere nulla, come Pietro sul lago. Invece Gesù ci sorprende: il raccolto è abbondante. E ci fa capire che la campagna è sua, la semente la mette lui, il mondo lo fa crescere lui. C’è tanto da raccogliere perché il terreno è buono; la storia sale, positiva, verso un’estate profumata di frutti e non verso un deserto sanguinoso. Dall’alto Qualcuno guarda e vede che il mondo è ancora cosa buona, come  all’origine; ha fede ancora nella bontà dell’uomo, perfino nella mia. Ogni cuore è una zolla di terra seminata di germi divini: un mistero passa tra il cuore del singolo e Dio, sul quale io, raccoglitore e pastore, non intervengo, ma ammiro e ringrazio. Raccoglitori cerca il Signore, perché la fatica più grande l’ha già fatta qualcun altro, Colui che ancora esce a seminare su rovi e sassi, su strade e buon terreno, a piene mani, a pieno cuore.
Ma chi ammasserà i raccolti della pace, della giustizia, della fiducia, della gioia? Sono i discepoli che si convertono in apostoli. Anche tu sei chiamato ad aggiungere il tuo nome all’elenco dei dodici, ognuno è il tredicesimo apostolo, ognuno scrive il suo quinto vangelo, riceve la stessa missione dei dodici: annunciate che il regno di Dio è vicino. Dite: Dio è vicino; Dio è con voi, con amore. Sentilo tu quando, non sai perché, ti avvampa il cuore (Rilke). È Lui, il pastore buono che porta le tue insicurezze. Non esiste alcuna scuola che insegni a diventare apostoli, perché non sono le parole, per quanto belle, che contano, ma quanta convinzione, quanta passione e stupore contengono. Come farai a testimoniare che Dio è vicino, se tu per primo non lo senti? Dio non si dimostra, si mostra: con i gesti della pietà e della compassione: guarite, risuscitate, sanate, date… L’inviato è povero: un bastone per appoggiarvi la stanchezza, i sandali per andare e ancora andare. Non ha borsa né danaro, ma ha la pace che illumina gli occhi e la forza che regge le mani; ha delle ali d’aquila, dice la prima lettura; un supplemento d’ali, una strada verso il cielo, e una parola capace di rapire il cuore. Ognuno, come Cristo, è crocevia di finito e d’infinito, di piedi impolverati e di ali d’aquila. La duplice missione del discepolo è: esistere per Dio, per guarire la vita. O almeno per prenderci cura, se di guarire non siamo capaci, di greggi e di messi, di dolori e di ali, di un mondo barbaro e magnifico.




SINODO ITALIANO: verso la fase sapienziale
Erio Castellucci, Vescovo

Sinodo italiano: verso la fase sapienziale

http://www.settimananews.it/sinodo/sinodo-italiano-verso-la-fase-sapienziale/

di Erio Castellucci

 La 77ª Assemblea Generale della CEI, che si è svolta in Vaticano dal 22 al 25 maggio 2023, si è aperta e chiusa con due interventi di papa Francesco: il primo, riservato, con i vescovi e il secondo aperto anche ai referenti diocesani del Cammino sinodale, ai quali il papa ha affidato quattro consegne. Le varie sessioni, arricchite dal lavoro nei gruppi sinodali, hanno avuto come tema centrale: «In ascolto di ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Passi verso il discernimento». Pubblichiamo di seguito la relazione di mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena e Nonantola e vice presidente della CEI, che ha introdotto il lavoro dei gruppi sinodali del 23 maggio in avvio della fase sapienziale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia.

Può essere solo una parola di gratitudine ad avviare questa comunicazione introduttiva ai lavori che inaugurano la seconda tappa del Cammino sinodale (CS) delle Chiese in Italia, la fase sapienziale. Gratitudine al Signore, che ci sta guidando attraverso il suo Spirito; al Santo Padre, che continua ad accompagnarci con i suoi orientamenti; alle nostre Chiese particolari, coinvolte attivamente, pur con diverse velocità, nel percorso sinodale; grati all’intero popolo di Dio – laici, ministri, consacrati – che si è messo in ascolto della voce dello Spirito; grati in particolare a coloro che hanno assunto servizi di responsabilità in questo percorso: vescovi e presbiteri, referenti diocesani e regionali con le relative équipes, membri del Comitato nazionale, presenti a questa Assemblea. Quanto segue è frutto della semina, della cura e di un primo raccolto ad opera di molti «operai del Vangelo».
Riconsegnare al popolo di Dio.
è utile in premessa chiarire che le tre fasi del CS – narrativa, sapienziale e profetica (versione «biblica» del trinomio della JOC vedere-giudicare-agire) – non sono parallele, ma si intrecciano: già nel racconto c’è un primo discernimento e un appello; così come nel discernimento sapienziale c’è la ricchezza delle storie e la spinta alla profezia e nelle decisioni c’è il frutto delle esperienze e delle riflessioni.
Però ciascuna fase mette in primo piano una particolare dimensione: la fase narrativa privilegia l’ascolto, la fase sapienziale esplicita il discernimento e la fase profetica la progettualità. Il passaggio alla fase sapienziale chiede dunque di far tesoro di quanto emerso nei primi due anni e di approfondirlo, in prospettiva spirituale.
All’inizio del CS, accogliendo l’invito di papa Francesco e del Sinodo universale, ci siamo proposti di evitare un rischio: passare da una consultazione aperta a tutti, che ha coinvolto in Italia mezzo milione di persone, a un discernimento riservato agli «esperti» (teologi, pastoralisti, sociologi…), per affidare le decisioni finali ai soli pastori.
Questo rischio si può evitare riconsegnando anche la seconda fase a tutto il popolo di Dio, chiedendo a chi desidera partecipare di continuare ad offrire il suo contributo, in termini non più solo di narrazione, ma di discernimento. Prima però di entrare nel merito, va tentato un breve bilancio di questo primo biennio.
Un bilancio della fase narrativa.
Senza ripetere le informazioni già fornite nel maggio del 2022, durante i lavori della nostra Assemblea che impostarono il secondo anno della fase narrativa (poi diventati «I cantieri di Betania» nel luglio 2022), segnalo telegraficamente alcuni punti che sembrano acquisiti nel biennio che si sta chiudendo:
 I 400 referenti diocesani, con circa 200 équipes, costituiscono una ricchezza pastorale sorprendente: per la dedizione e costanza di questi collaboratori, per la profondità e serenità delle analisi e proposte. È una ricchezza da non disperdere e, che insieme al Comitato qui presente, costituisce una sorta di «consiglio pastorale delle Chiese in Italia», meritevole di tanta riconoscenza.
 L’avvio del CS in un tempo ancora fortemente segnato dalla pandemia e dalle restrizioni sanitarie ha frenato iniziative e celebrazioni; ma ha nel contempo attivato una creatività digitale capace di intercettare anche persone che «in presenza» non avrebbero probabilmente partecipato; questo coinvolgimento, per quanto ridotto, ha permesso di ascoltare anche le grandi domande di senso che la pandemia, come ogni crisi acuta, è stata in grado di sollevare.
 La richiesta di trasformare il metodo della conversazione spirituale in uno «stile permanente» è stata unanime; ridotto e adattato nei tempi, questo metodo potrebbe essere assunto nelle riunioni degli operatori pastorali: organismi di partecipazione, catechisti, animatori della liturgia, ministri, volontari, educatori delle associazioni ecc., avviando ogni incontro con l’ascolto della parola di Dio e una breve risonanza tra i partecipanti.
 L’icona di Marta e Maria è stata recepita, trovando accoglienza ampia e creativa nelle nostre comunità: dalle lettere pastorali dei vescovi ai notiziari e bollettini parrocchiali, dalle rappresentazioni artistiche ai social, dai richiami nei cantieri più svariati alle assemblee diocesane. Le due sorelle di Betania sono riuscite a comparire qua e là perfino in alcuni presepi…
 Nei cantieri secondo anno ha trovato conferma il «sogno di Chiesa» condiviso nei 50.000 gruppi sinodali del primo, e riassunto nel documento nazionale consegnato al Sinodo universale nell’agosto del 2022: una Chiesa, cioè, casa accogliente e aperta, che punta sulle relazioni più che sull’organizzazione, sui volti più che sui progetti; è il «sogno di Chiesa» che corrisponde alla Evangelii gaudium di papa Francesco: e non era scontato.
 L’esperienza dei «cantieri di Betania», ancora in corso – e che già registra più di un migliaio di esperienze diocesane – ha confermato la bellezza di una Chiesa che si apre, dialoga, si confronta, e cerca di «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza» (cf. 1Pt 3,15), innestandosi nei diversi percorsi umani, secondo l’incipit di Gaudium et Spes. Anche questo metodo laboratoriale è auspicato, da chi lo ha sperimentato, come «stile permanente» delle nostre comunità. I cantieri, specialmente quelli «del villaggio», saranno ripresi e valorizzati nella prossima Settimana sociale dei cattolici a Trieste, su democrazia e partecipazione, che, in continuità con quella del 2021 a Taranto su ambiente e lavoro, rappresenterà una tappa nazionale del CS.
 Si segnalano alcune difficoltà incontrate in questo biennio: un certo smarrimento iniziale a causa della partenza accelerata del CS, per la necessità di sintonizzarsi con il Sinodo universale; svariate difficoltà organizzative, anche per la novità del metodo della consultazione; molte resistenze, alcuni scetticismi, parecchie critiche, sia dai versanti iper-tradizionalisti, preoccupati per il rischio «democratico» della sinodalità, sia dai versanti iper-progressisti, che ritengono debole la spinta «profetica» del percorso italiano. Entrambi i versanti sembrano avere le idee molto chiare su come dovrebbe essere la Chiesa, e pertanto possono prescindere dalla consultazione del popolo di Dio. Tornerò su questi due versanti, perché comunque vanno ascoltati.
 Una parola merita lo scarso entusiasmo di non pochi presbiteri, spesso segnalato, a fronte del coinvolgimento di molti laici. Vorrei però esprimere, insieme alla gratitudine per i sacerdoti che invece operano nel CS, una parola di comprensione. Durante un’assemblea del clero della sua Diocesi, un parroco ha detto: «per ora preferisco stare a guardare, perché non vorrei illudere la mia comunità e poi lasciarla ancora una volta delusa». Si potrebbe rispondere a questo parroco che «stare a guardare» è una posizione comoda; però forse, nello spirito dell’ascolto, conviene lasciarsi «ferire» dalla sua osservazione e impegnarci per raggiungere quegli obiettivi per «una Chiesa diversa», dei quali poi lui stesso e la sua comunità potranno usufruire.
«Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese».
Il discernimento è un’operazione spirituale: perciò conviene, prima di passare ad alcune ipotesi «pratiche», accennare all’azione dello Spirito Santo. Il Concilio Vaticano II traccia già, in poche pregnanti parole, un programma utile anche per la fase sapienziale del CS: “È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta” (Gaudium et Spes, n. 44/2).
L’intero CS in corso è un’esperienza di ascolto di «ciò che lo Spirito dice alle Chiese»; l’esortazione con cui Giovanni conclude ciascuna delle lettere indirizzate alle guide («angeli») delle sette Chiese (cf. Ap 2-3), è un invito al discernimento spirituale, personale e comunitario. Le due dimensioni, benché distinte, non sono affatto separate: la voce dello Spirito infatti risuona nel cuore dei singoli battezzati e nella comunità cristiana, nell’umanità e nell’intero creato. è impossibile costringere l’azione dello Spirito dentro le maglie di qualsiasi griglia: lo Spirito del Dio creatore e del Signore risorto permea liberamente tutti e tutto; senza dunque alcuna pretesa di completezza, si può ricondurre questa azione a tre grandi «luoghi»: la persona del battezzato, la comunità cristiana, il mondo umano e cosmico.
Lo Spirito parla nel cuore di ciascun cristiano, che ne ha ricevuto il sigillo nel battesimo (cf. Ef 1,13); e ci investe integralmente: intelligenza, volontà, anima e corpo. Lo Spirito investe l’intelligenza, come evidenzia in particolare il Quarto Vangelo, facendo memoria delle parole di Gesù (cf. Gv 14,26), dando testimonianza di lui (cf. Gv 15,26) e guidandoci alla verità, senza aggiungere parole proprie, ma annunciando ciò che Gesù ha rivelato (cf. Gv 16,13-14); così chiunque dice «Gesù è il Signore» è sotto l’azione dello Spirito Santo (cf. 1Cor 12,3).
Lo Spirito investe poi la volontà, dandole la forza di produrre «il frutto», cioè l’agape, che si irradia in atteggiamenti di gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (cf. Gal 5,22). Lo Spirito investe la nostra anima, intercedendo per noi, che non sappiamo come pregare in modo conveniente (cf. Rom 8,26).
Lo Spirito investe affetti e legami di ciascuno, cioè il corpo che, rivestitosi nel battesimo del mistero pasquale del Signore (cf. Rom 6,3-6), è «tempio dello Spirito Santo», come dice San Paolo ai Corinti (1Cor 6,19) non senza audacia, visto che sta parlando a dei greci. Non c’è nessun ambito della nostra vita ed esperienza personale che non sia investito dallo Spirito.
Comunità coesa ed estroversa.
Il fatto che in ciascun battezzato operi lo Spirito, non con emozioni gratificanti individuali, ma in modo da aprirlo alle relazioni, fonda la coesione della comunità cristiana. I battezzati sono membra dell’unico corpo di Cristo, con doni o «carismi» differenti, opera dell’unico Spirito (cf. 1Cor 12,4-11): «infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1Cor 12,13).
La comunità cristiana è l’insieme dei fratelli e delle sorelle «accorpati» – non semplicemente uniti – in Cristo mediante lo Spirito; in questo modo possono operare, mantenendo la loro diversità, per l’edificazione della Chiesa, che è il criterio essenziale indicato da San Paolo (cf. 1Cor 14) per il discernimento dei carismi.
La comunità stessa è estroversa, inviata dal Risorto alle genti: «riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). L’energia della testimonianza/martyria non proviene dall’intimo dei discepoli, nemmeno di quelli più dotati e coerenti, ma dallo Spirito del Risorto: dalla Pentecoste in poi, è questa l’esperienza della Chiesa. Gli Atti degli Apostoli, definiti da papa Francesco il «manuale di ecclesiologia» per eccellenza (cf. Discorso ai fedeli di Roma, 18 settembre 2021), sono il testo paradigmatico dell’opera dello Spirito nella Chiesa.
Ma proprio gli Atti registrano l’azione dello Spirito anche fuori dei confini visibili della Chiesa: lo Spirito guida Pietro all’incontro con Cornelio (cf. At 10,20), dopo il quale l’Apostolo riscontra che «Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10,34-35); e subito dopo «i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo» (At 10,45; cf. anche 11,15), i quali parlavano altre lingue e glorificavano Dio (cf. At 11,46) ma l’Apostolo conclude: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?» (At 10,47).
Lo Spirito si conferma libero: normalmente scende nel battesimo, ma a volte viene conferito dopo il battesimo, con l’imposizione delle mani degli apostoli (cf. At 8,15-17; cf. anche 19,2-7, dove si esplicita che si trattava del «battesimo di Giovanni») e altre volte, come in questo caso, scende prima del battesimo e induce gli apostoli a sancire la sua presenza con il rito. Lo Spirito, in altre parole, soffia davvero dove vuole e sembra quasi che a volte la Chiesa lo debba inseguire. Nella riunione di Gerusalemme, ricordata spesso come il primo Sinodo della Chiesa, è decisiva questa constatazione di Pietro circa i pagani: «Dio, che conosce i cuori, ha dato testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede» (At 15,8-9). Il discernimento che porterà alla decisione concorde, da parte dello Spirito Santo e degli apostoli (cf. At 15,28), di superare la circoncisione – il che rappresentò un salto di qualità nell’auto-comprensione della prima Chiesa nei riguardi di Israele – non è frutto di un ragionamento a tavolino sull’azione dello Spirito, e nemmeno di deduzioni teologiche, ma è la presa d’atto di un fatto: i pagani manifestano, con il loro comportamento, di avere ricevuto lo Spirito: quindi la proposta di appartenere alla comunità dei discepoli del Messia non può essere ristretta ai soli ebrei.
Libertà e universalità
I segni della discesa dello Spirito sui pagani risultano così di due tipi: da una parte il timore di Dio e la pratica della giustizia e dall’altra la manifestazione di carismi e la glorificazione di Dio. Questi sono i «fatti» di cui la Chiesa prende atto e che cerca poi di comprendere alla luce delle Scritture: «la realtà è più importante dell’idea» (cf. Evangelii gaudium, n. 231-233).
L’azione universale dello Spirito è stata richiamata più volte dal Concilio Vaticano II e dai pontefici successivi. Basteranno due citazioni: Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza. E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale (Gaudium et Spes, 22/1-2). Lo Spirito si manifesta in maniera particolare nella chiesa e nei suoi membri; tuttavia, la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo (..).Lo Spirito, dunque. è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo. la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti. ma dalla struttura stessa del suo essere. La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui. ma la società e la storia, i popoli, le culture. le religioni. Lo Spirito. infatti, sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris Missio, 28).
L’orizzonte ampio delineato da Giovanni Paolo II, che non si limita a rilevare l’azione dello Spirito nei singoli individui, ma la estende ai popoli, alle culture e alle religioni, suggerisce di collegarla con i «segni dei tempi» di cui ha parlato Giovanni XXIII a partire dalla bolla di indizione del Vaticano II (cf. Humanae Salutis, n. 4) e, sulle sue tracce, la Gaudium et Spes (cf. nn. 4 e 11). Un’azione così ampia nel grandioso affresco cosmico paolino si estende all’intera creazione in Rm 8 – capitolo ad alta concentrazione pneumatica, in cui lo Spirito è citato venti volte – dove si legge che la creazione partecipa della caducità, dei gemiti, ma anche delle speranze di redenzione degli uomini, che hanno ricevuto la primizia dello Spirito (cf. Rm 8,18-23); e sembra quasi che Paolo riecheggi lo spirito aleggiante sulle acque (cf. Gen 1,2) e il soffio vitale su Adamo (cf. Gen 2,7) che segna l’atto creatore di Dio. Umanità e cosmo, lo sappiamo bene, sono intimamente connessi nell’antropologia biblica: ed è l’unico Spirito che li pervade.
Il «senso di fede del popolo di Dio».
In tanti modi dunque lo Spirito parla alle Chiese: non solo da dentro le Chiese, ma anche da fuori. Come attivare le orecchie, qual è l’antenna per decodificare questa voce? L’antenna esiste, e prende il nome di «senso di fede/dei fedeli»; oltretutto è continuamente attiva; si tratta di metterne a punto le frequenze nel modo migliore possibile, per un discernimento adeguato. La dottrina del sensus fidei è stata precisata in questi termini dal Concilio Vaticano II, in quello che si può indicare come il testo più citato da papa Francesco: Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e con l’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cf. Eb 13,15). La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, (cf. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cf. 1Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cf. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita (Lumen Gentium, n. 12).
Così commenta papa Francesco: In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare. Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede. Lo Spirito lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza (cf. LG 12) Come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione (Evangelii Gaudium, n. 119).
Dal Sensus fidei al Consensus fidelium
La Commissione Teologica Internazionale ha dedicato nel 2014 un documento al «Sensus fidei nella vita della Chiesa», che è utilissimo per il discernimento. Esiste prima di tutto un sensus fidei fidelis, che papa Francesco chiama anche «fiuto» e per descriverne l’azione usa il verbo «annusare»: una facoltà attivata dall’unzione dello Spirito, la cui efficacia non è però automatica, ma è consegnata alla libertà del cristiano ed è quindi proporzionale all’effettiva profondità dell’esperienza credente: alla fede, speranza e carità vissute.
Questo rende relativo un approccio puramente «parlamentare», come direbbe il papa, ossia l’idea che a ciascuno corrisponda «un voto»; ma nello stesso tempo permette – e ci ha permesso – di aprirsi davvero a tutti, perché il «senso di fede» del battezzato non costituisce solamente la premessa perché offra il proprio contributo al CS, ma si educa e si attiva anche attraverso la stessa esperienza sinodale.
Si può dire dunque che questo primo biennio ha espresso ma anche favorito il senso della fede di ogni battezzato. Per analogia, poi, se è vero che lo Spirito agisce anche al di fuori dei confini ecclesiali, attraverso le virtù cardinali e teologali, è stato ed è importante coinvolgere anche coloro non sono battezzati: e non tanto per motivi di correttezza politica, quanto per l’apporto “spirituale” che possono offrire anche coloro che fanno del bene ai fratelli senza sapere che così lo hanno fatto a Cristo (cf. Mt 25,31-46).
Il sensus fidei fidelis, quando si esprime nel contesto delle relazioni comunitarie e si raffina nella conversazione, nella preghiera e nell’azione, diventa sensus fidei fidelium. Sappiamo bene che la Chiesa non è la semplice somma dei singoli battezzati, ma è «il corpo di Cristo», nel quale i singoli, in quanto membra, vengono appunto «incorporati». Nessun singolo può rivendicare il proprio «fiuto» come un sesto senso infallibile – se escludiamo il vicario di Pietro, a certe precise condizioni – ma tutti insieme, nella fatica del «discernimento comunitario», possiamo intercettare e seguire il cammino che lo Spirito suggerisce alle Chiese.
La fase sapienziale mette in primo piano proprio questa dimensione comunitaria del sensus fidei, cercando di creare occasioni – benché non sia elegante l’espressione – per annusarci a vicenda e annusare i «segni dei tempi», cioè l’umanità di oggi, il mondo e la storia, con le loro sfide e opportunità. Il documento finale del Convegno di Palermo (1996) dedica alcuni paragrafi al discernimento comunitario, che varrà la pena di riprendere in mano.
Si deve poi arrivare, passo dopo passo, al consensus fidei fidelium, che sarà più esplicito nella fase profetica, ma che accompagna l’intero CS. La ricerca del consenso di fede si avvale di tutti gli strumenti metodologici ecclesiali per raggiungere delle convergenze, senza però appiattire tutte le opinioni, ma passando attraverso il dibattito.
Non si potrà dunque in futuro trascurare il voto, del resto già praticato in vari contesti ecclesiali consultivi o deliberativi, ma sempre tenendo presente la natura della Chiesa, che non corrisponde ad alcuna forma di governo degli Stati, pur presentando analogie sia con la democrazia che con la monarchia.
Il Sinodo universale potrà darci delle luci anche su queste dinamiche, a partire dalla prima convocazione a Roma nell’ottobre prossimo. Avremo quindi modo di confrontarci a suo tempo e mettere a punto una metodologia per arrivare alla formazione del consenso dei fedeli.
Dove siamo (punti di partenza).
Il biennio narrativo ha registrato alcune convergenze circa la situazione ecclesiale in Italia. Le raccolgo attorno a due poli, la partenza (dove siamo) e l’obiettivo (dove vorremmo arrivare).
La citatissima sentenza pronunciata da papa Francesco al Convegno di Firenze e da lui poi ripresa in seguito – «non ci troviamo solo in un’epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca» – è ormai convinzione comune, sulla quale non è necessario tornare. Esiste ora anche in Italia la consapevolezza che «la cristianità è finita» (cf. Discorso alla Curia romana, 20 dicembre 2019). Non esiste più quella (vera o presunta) saldatura tra valori derivanti dal Vangelo e valori condivisi nella società che caratterizzava la societas christiana. Da questa consapevolezza possono tuttavia scaturire progetti molto differenti tra loro: c’è chi esulta, indicando la diaspora come forma cristiana ideale, senza rivendicare alcuna rilevanza sociale e politica; c’è chi si ripiega nella nostalgia, reagendo in modo rassegnato e remissivo, oppure al contrario in modo polemico e combattivo, condannando in blocco il mondo.
Il biennio narrativo del CS ha fatto emergere in realtà un progetto diverso da questi; un progetto variegato, sì, ma propositivo e creativo. Le persone che hanno preso parte al percorso sinodale non soffrono di eccessive nostalgie per la cristianità e nemmeno di grandi entusiasmi per la post-cristianità, ma tengono i piedi per terra. Anziché scoraggiarsi o esaltarsi, molti cristiani comprendono che occorre capire bene «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» oggi, nella persuasione che lo Spirito non va in pensione, opera in qualsiasi condizione, anche in quelle apparentemente meno favorevoli.
Non manca, nelle relazioni diocesane, chi nota come il sommarsi delle crisi attuali, sia quelle planetarie – come la pandemia, l’inquinamento e la guerra – sia quelle ecclesiali – dovute anche agli scandali legati agli abusi, agli arrivismi e alla cattiva gestione dei beni – insieme a tante sofferenze e disagi, apra anche nuove opportunità per i credenti: un atteggiamento più umile come chiede il papa, più propenso a camminare insieme e ad ascoltare, più orientato a recuperare il nucleo kerygmatico ed essenziale della fede.
Dove vorremmo arrivare (obiettivi).
Si registra il desiderio di elaborare modi nuovi di presenza e di testimonianza, facendo leva sulle innumerevoli esperienze belle e positive – raramente comunicate dai mass media – e sulla «santità della porta accanto» profondamente radicata nelle nostre Chiese. Anche persone talvolta pastoralmente catalogate come «lontane» o «distratte», di fronte allo svelarsi delle domande profonde della vita, suscitate spesso da esperienze forti negative o positive, esprimono quel «frutto dello Spirito» presente dovunque. Non siamo, dunque, in un deserto: il cammino delle Chiese in Italia dopo il Concilio Vaticano II si è già posto con decisione sulle strade della riforma, che non sarà mai compiuta se non nel regno di Dio, ma che deve essere costantemente perseguita in questa Ecclesia semper purificanda (LG 8). Ci sono tanti germogli, moltissime spighe da coltivare; non vediamo più o ancora le messi, ma sappiamo che lo Spirito continua a lavorare in profondità. Per usare una formula emersa in una riunione del Consiglio permanente, che esprime il sentire di molti fedeli: non servono né comunità remissive né comunità aggressive, ma comunità creative e generative.
Ci siamo così già affacciati sul tema degli obiettivi. Dove vogliamo arrivare? Il biennio narrativo, sia nei gruppi sinodali che nei cantieri, ha ravvivato il «sogno di Chiesa» corrispondente, come accennato, alla Evangelii Gaudium. Certo, non sono mancate le voci dissonanti – ed è normale in un organismo vivo come la Chiesa – dai due fronti già ricordati, iper-tradizionalista e iper-progressista, con tutte le sfumature intermedie. Ma in definitiva il primo biennio sinodale scrive quasi una Evangelii Gaudium adattata alle Chiese in Italia, sulle tracce del discorso del papa al Convegno di Firenze del 2015.
Il lavorìo dei «cantieri di Betania» ha confermato, arricchito e rilanciato le mete sognate nel primo anno dai gruppi sinodali: una Chiesa che ascolta, che accoglie, che mette al centro le relazioni come in una casa, che celebra in modo coinvolgente, che sa condividere e dialogare, che è prossima ai passaggi di vita: in una parola, una Chiesa più snella, evangelica, libera.
Un discernimento comunitario «operativo».
Ora si apre la questione decisiva nella fase che inizia: come collegare la partenza e la meta, quali ponti costruire perché il sogno di Chiesa non rimanga un sogno? Qui si gioca l’esito del nostro CS.
Su questo punto va orientato il discernimento comunitario, che immaginiamo come discernimento operativo, teso cioè a individuare le condizioni di possibilità per camminare verso la Chiesa sognata. Sarebbe inutile e frustrante continuare a ripeterci che la realtà non è più quella di prima e che perciò dobbiamo realizzare una Chiesa diversa e più evangelica, se ora non focalizzassimo i passi da compiere, i ponti da costruire con pazienza ma con decisione.
In questa linea, il Consiglio permanente della CEI e il Comitato del CS si sono orientati a proporre a questa Assemblea alcune tracce che, opportunamente elaborate, costituiscono la base per le Linee guida che le nostre Chiese locali riceveranno all’inizio di luglio. Queste tracce, sulle quali lavoreremo a partire dal pomeriggio di oggi, raccolgono attorno a cinque macro-temi o «costellazioni», gli snodi fondamentali emersi nel biennio. I macro-temi, suddivisi poi in sotto-temi per favorire i lavori nei gruppi, sono: 1) la missione secondo lo stile di prossimità; 2) i linguaggi, la cultura, la proposta cristiana; 3) la formazione alla fede e alla vita; 4) la corresponsabilità; 5) le strutture. Qualche parole su ciascuno di questi cinque macro-temi.
Missione nello stile della prossimità.
È importante cominciare non dai problemi interni, ma dall’orizzonte missionario: tenerlo sempre vivo, come ha detto anche ieri il cardinale presidente, significa evitare il ripiegamento e la chiusura. La Chiesa esiste per l’annuncio e non per se stessa: la ricerca di una comunione interna senza l’orizzonte missionario rischia di trasformarsi in un esercizio cosmetico, di semplice suddivisione di spazi, ruoli e competenze. Questa prima costellazione va in diverse direzioni, ciascuna delle quali sarà oggetto di un gruppo sinodale: l’impegno sociale e politico, l’accoglienza delle diversità, l’ospitalità specialmente verso gli ultimi.
Perché missione «nello stile della prossimità»? Perché è uno stile che non tende a contrapporsi ai diversi mondi ma a far lievitare dal loro interno i germogli evangelici che già vi si trovano. Le immagini missionarie consegnate da Gesù ai discepoli non sono quelle dell’esercito schierato o del castello fortificato, ma quelle del sale e della luce, a servizio di un regno che cresce come il seme e come il lievito. Sembrano immagini deboli, ma sono molto forti, perché la vera forza evangelica è la mitezza unita alla perseveranza.
L’esperienza dei «cantieri di Betania», specialmente quelli «del villaggio», ha dimostrato su tanti ambiti come sia possibile trovare dei punti di contatto e come vi siano aperture impensabili all’annuncio della Chiesa. L’impressione generale di questo biennio, per dirla con metafore un po’ alla moda, è che i mondi non siano impermeabili al Vangelo, ma siano «porosi»: c’è un’attesa a cui si può rispondere efficacemente non con lo scontro di idee ma con l’incontro di persone.
I linguaggi, la cultura, la proposta cristiana.
Restando nell’orizzonte della missione, occorre affrontare sapientemente il complesso tema del linguaggio, sia in chiave liturgica e omiletica, sia in chiave culturale e mass-mediatica. Sappiamo di avere in dono un tesoro inestimabile – la rivelazione cristiana – che può fecondare e arricchire il mondo, che può dare significato alle domande più profonde sepolte nei cuori umani, che può rendere più bella la vita… ma spesso non riusciamo a comunicare, a farci capire, a destare interesse.
Non si tratta solo di ritoccare l’annuncio, la celebrazione e la teologia; si tratta di ripensare con un certo coraggio anche il modo e lo stile della comunicazione. Papa Francesco nella Evangelii Gaudium ha dedicato molta attenzione all’omelia e alla catechesi. E sappiamo poi quanto oggi i media, specialmente i social, richiedano linguaggi specifici e siano capaci di influenzare l’opinione pubblica.
Circa la cultura: sapremo rilanciare un progetto culturale con uno stile e un linguaggio nuovi, che facciano «parlare» le tantissime esperienze buone – così è stato lo stile del Convegno di Firenze e della Settimana di Taranto – e che le rendano non semplicemente interventi di «pronto soccorso» o testimonianze edificanti, ma che, opportunamente pensate ed elaborate, le rendano culturalmente significative?
Quando papa Francesco ricorda che «la realtà è più importante dell’idea» (Evangelii Gaudium, nn. 231-233), indica anche una strada adatta per fare cultura oggi: la Chiesa non deve affatto rinunciare alla cultura, ma quella che può interessare e fare breccia oggi sembra richiedere la fatica di «pensare» le esperienze e «renderne ragione» in maniera sistematica, alla luce della rivelazione cristiana.
La formazione alla fede e alla vita.
È convinzione diffusa, rispecchiata in tutte le sintesi sinodali diocesane, che la formazione a tutti i livelli richieda una riformulazione adeguata al cambiamento d’epoca. Si pensa ai cammini di preparazione ai ministeri ordinati – diaconato e presbiterato – e istituiti; ma si pensa anche alla formazione degli adulti e all’iniziazione cristiana, che domanda davvero – come ribadisce Evangelii Gaudium – una impostazione kerygmatica e mistagogica.
Kerygmatica, cioè ricentrata sull’annuncio di Cristo morto e risorto, presentando i contenuti della fede secondo la logica conciliare della «gerarchia delle verità»: in questa direzione vanno le numerose proposte di ripresa della lectio divina, di formazione di gruppi biblici nelle case ecc.
Mistagogica, cioè capace di integrare la preparazione ai sacramenti con la catechesi a partire dal mistero celebrato, in modo che il sacramento diventi davvero tappa e non traguardo.
Non è impossibile: tante esperienze nelle nostre diocesi, compresi non pochi «cantieri», dimostrano che è possibile superare una metodologia troppo dottrinale e scolastica, per iniziare alla fede secondo il metodo catecumenale: si tratta di proporre esperienze integrali di ingresso nella comunità, attraverso l’annuncio e la celebrazione, il servizio e la creatività (ad es. musica, canto, teatro, arte in tutte le sue forme: via pulchritudinis), l’incontro con i testimoni e il gioco come esperienze di gratuità.
Infine l’accompagnamento spirituale, di singoli e coppie – e non solo ad opera dei ministri ordinati o dei consacrati – viene indicata come strada maestra per la personalizzazione della fede, nello stile dell’incontro e della relazione «a tu per tu», veicoli privilegiati per l’annuncio.
La corresponsabilità
Non solo i laici, ma anche molti presbiteri e vescovi segnalano la necessità di una reale corresponsabilità nella pastorale comunitaria; corresponsabilità non solo affettiva, ma anche effettiva. L’immaginario comune è quello di preti e vescovi che stanno aggrappati al loro potere e non vogliono condividerlo. Senza negare che accada anche questo, la realtà è però molto diversa: preti e vescovi sono i primi a chiedere di condividere effettivamente le responsabilità.
Prendiamo un esempio a caso, i vescovi. Una lettura, lo ammetto, un po’ rapida e maliziosa del Codice di Diritto Canonico, può rilevare almeno sei analogie tra i compiti attribuiti al vescovo e altrettanti compiti civili: il vescovo è un po’ sindaco, presiedendo l’amministrazione della diocesi; un po’ prefetto, poiché rappresenta il «governo centrale», la Chiesa universale; è magistrato inquirente (vedi le norme sempre più rigide a riguardo degli abusi) e può essere presidente del tribunale (solo nel caso del vescovo non esiste incompatibilità fra questi due incarichi); è presidente di fondazioni e istituti (Opere Pie, Istituto Diocesano Sostentamento Clero); e poi assume le funzioni di capo del personale, poiché l’assegnazione delle parrocchie è di fatto movimento di personale e la Curia ha una configurazione aziendale; è anche in un certo senso provveditore agli studi, data la rete delle scuole cattoliche e il sistema attuale degli incarichi agli insegnanti di religione in Italia.
E i parroci, su scala minore, si trovano tante volte sommersi da incombenze simili. Qualcosa non funziona; non bastano «collaboratori», occorrono «corresponsabili», uomini e donne. L’esperienza di compartecipazione ai laici del munus regendi, che andrà naturalmente studiata bene, sussidiata e normata anche nel diritto canonico, potrà aprire degli spazi nuovi anche alle donne: pochissimi gruppi sinodali in Italia hanno rivendicato il sacerdozio femminile, tema divisivo ed eccedente rispetto alle competenze della CEI, ma tutti hanno chiesto che la presenza delle donne, preziosissima e maggioritaria nelle nostre Chiese, possa trovare espressione anche nella corresponsabilità pastorale.
Gli organismi di partecipazione poi dovranno essere rilanciati con una migliore articolazione tra ruoli consultivi e ruoli deliberativi: anche su questi aspetti ci aiuterà il Sinodo universale.
Le strutture.
Basteranno qui poche parole, perché tutti abbiamo ben presente quanto le strutture, che di per sé sono strumenti preziosi a servizio dell’annuncio e di tutta la pastorale, troppe volte sono pesanti, costose, sproporzionate. Abbiamo le strutture della cristianità e spesso non abbiamo più la possibilità di valorizzarle e nemmeno di gestirle. I gruppi sinodali che si impegneranno su questo macro-tema rifletteranno sulle strutture materiali, amministrative, pastorali e spirituali, per riflettere su come possano diventare più snelle, sfrondare gli inutili appesantimenti e recuperare il loro compito di strumenti della missione.
Come si deduce da queste parole introduttive ai cinque macro-temi − e sarà più chiaro nei gruppi − non si è scelto di operare un discernimento operativo comunitario sull’uno o l’altro ambito della pastorale, ma – ripeto – sulle condizioni di possibilità per una «Chiesa diversa». Si tratta cioè di snellire o sbloccare alcuni meccanismi, ora ritenuti troppo pesanti e fermi, che possono favorire una Chiesa più sinodale; senza questa operazione di snellimento, diventa difficile affrontare in chiave missionaria qualsiasi azione pastorale: che siano i giovani o le donne, i poveri o la cultura, la catechesi o la liturgia. Sarebbe come chiedere ad una persona di correre la maratona tirandosi dietro una carovana anziché uno zaino. La fase sapienziale ha il compito di individuare che cosa deve essere sbloccato e snellito, preparando così le proposte da sottoporre al consenso dei fedeli.
Tre domande per il lavoro.
Ciò significa – anche se è un po’ scomodo – che il discernimento non è su «che cosa deve cambiare il mondo per avvicinarsi alla Chiesa», ma «che cosa dobbiamo cambiare come Chiesa per incontrare il mondo». Non si tratta di formulare giudizi su ciò che gli altri devono cambiare, ma su ciò che noi cristiani dobbiamo rivedere.
Le tre domande che troverete come spunti in ciascuno dei gruppi servono a questo:
Quali esperienze sinodali, su questo tema, nel corso del biennio narrativo sono risultate praticabili e promettenti nelle nostre diocesi, così da potersi tradurre in pratiche diffuse?
Quali approfondimenti (teologici, pastorali, culturali, sociologici, giuridici e canonici, ecc.) sono necessari per portare questo tema verso la fase decisionale?
Quale contributo concreto può offrire su questo tema il livello nazionale (CEI e Comitato sinodale)?
In base al risultato del lavoro nei gruppi, oggi come Assemblea e Comitato e domani e venerdì come Comitato e referenti, si potranno assegnare le diverse proposte operative a differenti livelli ecclesiali: alcune avranno una dimensione diocesana, altre nazionale e altre ancora universale. Di qui si decideranno anche le Assemblee sinodali della fase profetica, che a partire dall’autunno 2024, potranno anche essere più d’una (si vedrà in base agli argomenti emersi e alle loro priorità), per decidere in maniera ordinata e logica su tutti gli argomenti che saranno posti. In sintesi quindi il cronoprogramma proposto è questo:
– da oggi a venerdì mattina: l’Assemblea CEI, insieme al Comitato del CS e – da domani – ai referenti diocesani, avviano la fase sapienziale riflettendo sui cinque macrotemi, divisi in 38 gruppi sinodali;
– il materiale di queste tre giornate verrà raccolto e studiato dal Comitato del CS, che elaborerà la bozza delle Linee-Guida per la fase sapienziale, in cui confluiranno anche le sintesi diocesane dei “cantieri” che arriveranno entro il 15 giugno;
– la bozza delle Linee-guida sarà esaminata, discussa, integrata e approvata l’8 luglio prossimo, nella riunione online del Consiglio permanente della CEI, che la consegnerà nei giorni successivi alle Chiese locali;
– ciascuna Chiesa locale, in base alla propria lettura della realtà, sceglierà i temi sui quali operare il discernimento comunitario, formulando le proposte operative, che consegnerà al Consiglio permanente della CEI e al Comitato del CS entro la fine di aprile del 2024;
– la prossima Assemblea ordinaria della CEI, a maggio 2024, aprirà l’ultima fase, quella profetica, impostando le successive assemblee sinodali nazionali che si apriranno nell’autunno 2024, con il compito di deliberare sulla base del consensus fidelium.
Eucaristia e Sinodo.
In conclusione, ma poteva essere anche l’introduzione, ricordo l’icona scelta per la fase sapienziale: l’incontro dei due discepoli di Emmaus con il Risorto. Una delle tappe sinodali nazionali, il Congresso eucaristico di Matera dello scorso settembre, ha messo in luce l’intima relazione tra Eucaristia e Cammino sinodale.
Non c’è solo un’analogia a unire le due celebrazioni – sia l’Eucaristia che il Sinodo si «celebrano» – ma è una co-implicazione tale, che si potrebbe definire la Sinassi eucaristica un «Sinodo concentrato» e il Cammino sinodale una «Eucaristia dilatata».
Questa intima relazione, sulla quale i nostri fratelli cristiani d’Oriente ci sono maestri, ci orienta a trovare le parole giuste: non tanto «democrazia» quanto «partecipazione», non tanto «gruppo» quanto «assemblea», non tanto «ruoli» quanto «doni e carismi», non tanto «esercizio di potestà» quanto «servizio di presidenza».
Nella celebrazione eucaristica, come nel cammino sinodale, il popolo di Dio si pone nell’atteggiamento di recezione di un dono, di una grazia, di una parola divina, prima e più che di uno scambio orizzontale di doni e di parole umane.
Per questo viene proposta l’icona di Emmaus (cf. Lc 24,13-35), alla quale auguriamo la stessa accoglienza di quella di Betania. È lì, in quell’incontro della sera di Pasqua, il senso della fase sapienziale; sono lì i criteri fondamentali per il discernimento operativo. Luca, in questa pagina, rilegge l’esperienza pasquale alla luce dell’esperienza eucaristica, ormai cinquantennale quando lui scrive il Vangelo; e viceversa rilegge l’esperienza eucaristica alla luce dell’esperienza pasquale.
L’icona biblica: Emmaus
Emmaus è una sorta di Messa itinerante. Siamo noi quei discepoli – uno dei quali è appositamente anonimo perché ciascuno si metta al suo posto – e siamo in cammino; siamo l’assemblea radunata dalle nostre case; un’assemblea di battezzati che confessano prima di tutto i propri peccati, le proprie delusioni, le proprie fughe da Gerusalemme, le proprie nostalgie per la vita di prima. Il Signore ci lascia sfogare, anzi provoca il nostro sfogo – «che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?» – perché non ha paura dei nostri lamenti. Prendere sul serio le delusioni, i lamenti, le fatiche, le critiche, senza ribattere colpo su colpo, ma cercando di capire «cosa c’è dentro»: è il primo passo per un discernimento autentico. E il Signore si affianca: senza imporre ai due il proprio passo, senza chiedere a loro di tornare sulla retta via, di fare retromarcia e prendere la direzione giusta, Gerusalemme. No, avvia il dialogo, si innesta nelle delusioni e nel lamento dei due discepoli e annuncia tutto ciò che lo riguarda nelle Scritture. La liturgia della Parola, alla cui strutturazione ha contribuito anche questa pagina lucana, offre il paradigma principale per il discernimento, che deve avvenire nell’ascolto comunitario delle Scritture. Il criterio sapienziale più importante è la lettura cristologica delle Scritture, la parola di Dio alla luce della Pasqua. Tutto va interpretato nella chiave del kerygma di morte, sepoltura, risurrezione, vita nuova. L’ardore del cuore, pur senza sfociare nel riconoscimento esplicito, cresceva lungo il cammino. Per quale motivo? Certo, il cuore dei due discepoli ardeva per il fascino del Signore; forse ardeva anche per la sua maestria nell’interpretare le Scritture, che apriva la mente dei discepoli. Ma si può cogliere anche un altro motivo: i due dicono che il cuore ardeva «mentre conversava» con loro «lungo la via». Non è solo il fascino personale del predicatore a scaldare il cuore, e nemmeno solo la bellezza degli argomenti – due aspetti comunque importanti – ma anche e forse soprattutto il fatto che Gesù predica «lungo la via», facendo strada con loro. Hanno avvertito che quella parola non è pronunciata da una cattedra, ma sulla strada, camminando con loro. La parola che scalda, anche quando il predicatore è fermo sul pulpito – come nella celebrazione eucaristica – è una parola itinerante, che nasce dalla condivisione di un cammino. Ecco un altro criterio: la comunità discerne con un atteggiamento itinerante; non restando seduta «alla meta», tentata di giudicare chi è dentro e chi fuori dal sentiero, e nemmeno stando seduta «alla partenza», lasciando che ciascuno vada dove vuole, ma apprezzando i faticosi cammini di tutti, soprattutto di coloro che arrancano, accompagnandoli.
Il discernimento: l’invito e la frazione del pane.
«Resta con noi, perché si fa sera». Giunti a Emmaus, l’invito dei discepoli è una risposta al Maestro, quasi una implorazione a Colui che ha fatto balenare una luce nuova nella loro vita; nella liturgia, sarebbe una «preghiera dei fedeli» come risposta alla parola che scalda il cuore. Ma questo invito esprime anche il desiderio di accogliere «il forestiero», come l’avevano definito all’inizio del dialogo; qui «resta con noi» è quindi anche un gesto di ospitalità, l’offerta della casa e della mensa; è un segno offertoriale, la condivisione delle proprie risorse. Il discernimento comunitario non può avvenire se non nello stile dell’invito «resta con noi, perché si fa sera»: cioè in un clima orante e in un clima accogliente, con un’attenzione speciale a chi è «forestiero», a chi non è dei «nostri». Il pane posto sulla mensa dai discepoli diventa pane eucaristico: così come nei racconti della moltiplicazione, in questa scena l’evangelista usa con cura i termini dell’ultima Cena, il linguaggio eucaristico: «prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». E nello spezzare il pane scatta il riconoscimento, perché riconosce pienamente il Signore risorto chi lo sperimenta come Signore offerto, come pane spezzato e condiviso. Solo chi avverte l’abbraccio del suo amore può riconoscere e confessare che «Gesù è il Signore». Il discernimento comunitario prende le mosse dalla frazione e condivisione del pane: sia quella rituale, la celebrazione e la comunione eucaristica, sia quella esistenziale, il servizio e la prossimità alla gente. Chi si nutre del corpo eucaristico del Signore, può meglio discernere le esigenze delle membra del corpo ecclesiale e del corpo sociale.
Ora tocca a noi!
La scomparsa improvvisa del Signore è la condizione perché i due discepoli non si attardino a parlare con lui, non lo accerchino, non si chiudano in una bolla emotiva. È la condizione per la missione: ora tocca a loro. Il pane condiviso li mette in moto, li spinge a ripercorrere gli undici chilometri in direzione inversa rispetto all’itinerario precedente.
Paradossalmente, nel cammino sbagliato, quello della delusione e del dolore, Gesù li accompagna passo dopo passo; invece nel cammino giusto, quello del riconoscimento e della missione, Gesù li lascia soli. Il Signore si mette al fianco dei fragili, mentre lascia che i forti camminino con le loro gambe. L’orizzonte missionario, lo sguardo sull’umanità, e non lo sguardo limitato alla soluzione delle «beghe interne» alla comunità, è un’altra condizione per un adeguato discernimento comunitario.
A Gerusalemme i due trovano «riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro», i quali annunciano il kerygma in questa forma: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». E loro stessi raccontano quanto è «accaduto lungo la via». Sembra di sentire l’anticipo – o l’eco – di quanto scrive San Paolo, quando, tre anni dopo la conversione, va a Gerusalemme «a conoscere Cefa», rimanendo con lui quindici giorni (cf. Gal 1,18) e poi, quattordici anni dopo, va di nuovo a Gerusalemme, esponendo il Vangelo alle persone più autorevoli, «per non correre o aver corso invano» (cf. Gal 2,1-2).
È il criterio del confronto con la Tradizione e il Magistero vivo: il discernimento, per essere davvero «comunitario», deve paragonarsi con coloro che sono posti alla guida delle comunità, come garanti della fede apostolica e dell’autenticità dell’annuncio («Tradizione») e della comunione ecclesiale («Cattolicità»).




il ragazzo e i chiodi
B.Ferrero

I CHIODI
(Bruno Ferrero)

C’era una volta un ragazzo dal carattere molto difficile. Si accendeva facilmente, era rissoso e attaccabrighe. Un giorno, suo padre gli consegnò un sacchetto di chiodi, invitandolo a piantare un chiodo nella palizzata che recintava il loro cortile tutte le volte che si arrabbiava con qualcuno.
Il primo giorno, il ragazzo piantò trentotto chiodi.
Col passare del tempo, comprese che era più facile controllare l’ira che piantare chiodi e, parecchie settimane dopo, una sera disse al padre che quel giorno non si era arrabbiato con nessuno.
Il padre gli rispose: «È molto bello quel che mi dici; ora, togli dalla palizzata un chiodo per ogni giorno in cui non ti arrabbi con qualcuno».
Dopo un po’ di tempo, il ragazzo poté dire al padre che aveva tolto tutti i chiodi.
Allora il padre lo prese per mano, lo condusse alla palizzata e gli disse: «Figlio mio, questo è molto bello; però, guarda: la palizzata è piena di buchi; il legno non sarà mai più come prima. Quando dici qualcosa mentre sei in preda all’ira, provochi nelle persone a cui vuoi bene ferite simili a questi buchi. E per quante volte tu chieda scusa, le ferite rimangono».

Tra perdono e memoria.




L’AMORE CHE HA CAMBIATO LA STORIA
Ermes Ronchi

L’amore che ha cambiato la storia
padre Ermes Ronchi  (05-05-2002)
VI Domenica di Pasqua Anno A

Se mi amate. Con questo verbo, il più importante del nostro vocabolario, che circondiamo di tanto pudore e di tante attese, Gesù entra nei nostri sentimenti più intimi, li rivendica per sé, ed è la prima volta, e per la storia che vuole cambiare. Non si tratta di un ordine, non di un imperativo, ma piuttosto di una constatazione: chi ama osserverà, diverrà per lui naturale, quasi un automatismo del cuore, osservare il suo comandamento, il nuovo, l’unico: amatevi come io vi ho amato (Gc 13,34). L’amore cambia la vita, non è un vago sentimento misto di fascino e di timore che Gesù propone: se ami non potrai ferire, tradire, derubare, violare, deridere, restare indifferente. Ama e fa quello che vuoi (sant’Agostino). Se ami non potrai che osservare una legge interiore ben più esigente di qualsiasi legge esterna. Ma è facile o difficile amare Cristo? Per sette volte oggi, nei sette versetti del brano, Gesù parla di unione: una passione di unirsi corre dentro la storia di Dio e dell’uomo. Passione di unirsi per cui Dio è diventato, in principio, il respiro stesso di Adamo; per cui per millenni ha cercato un popolo, profeti di fuoco, re e mendicanti, e infine una ragazza di Nazaret per entrare in comunione con l’umanità, comunione assoluta.
E qui Giovanni ricorre al verbo più importante della vita spirituale: essere-in. Non solo essere accanto, presso, vicino, ma essere-in. Dentro, immersi, uniti: lo Spirito sarà in voi… io sono nel Padre, voi siete in me e io in voi. Fino a che l’altro diventi tua dimora e tua casa. Tommaso d’Aquino diceva che l’amore è passione di unirsi alla persona amata. In Dio per primo c’è questa passione, lui per primo viene incontro, è lui che cerca casa, a noi compete il lasciarci amare, e questo è finalmente, gioiosamente facile e bello. Amare Cristo è facile come lasciarsi amare. Allora i comandamenti altro non sono che vie per l’unione, passione di fare ciò che Dio fa’, di partecipazione alla stessa energia di vita, di respirare il suo respiro non più un ordine esterno, ma un modo per assomigliare a Dio, espansione di una storia di comunione, il traboccare verso l’esterno di una sintonia interna. Questo è il comandamento: passione di unirsi a Dio e quindi di agire con lui e come lui nella storia, essere le sue mani, un frammento del suo cuore. Nessuna etica vive senza una mistica.
 Non vi lascerò orfani, perché io vivo e voi vivrete. Orfano è parola ed esperienza legata alla morte. Ma chi ama vive, forte come la morte è l’amore, le grandi acque non possono spegnerlo, né i fiumi travolgerlo. Vivrete perché io vivo: la passione di unirsi è diventata passione di far vivere.


Il sogno di Gesù è abitare nell’uomo
Ermes Ronchi (26/05/20)

Se mi amate osserverete i miei comandamenti. Nessuna minaccia, nessuna costrizione, puoi aderire e puoi rifiutarti in totale libertà: Gesù, uomo libero, è una parola liberante.
Se mi amate osserverete i miei comandamenti Non si tratta di una ingiunzione, ma di una constatazione: quando ami accadono cose, lo sappiamo per esperienza: tutte le azioni si caricano di gioiosa forza, di calore nuovo, di intensità inattesa. Lavori con slancio, con pienezza, con facilità, come il fiorire di un fiore spontaneo.
Osserverete i comandamenti miei. La costruzione della frase pone l’accento su miei. E miei non tanto perché dettati da me, ma perché da me vissuti, perché mia vita. Non si tratta di osservare i 10 comandamenti, ma la sua vita! «Se mi ami, metti in pratica la mia vita. Se mi ami, diventi come me!» Amare trasforma, uno diventa ciò che ama, le passioni modificano la vita. Se ami Cristo, lo prendi come misura alta del vivere, per acquisire quel suo sapore di libertà, di mitezza, di pace, di nemici perdonati, di tavole imbandite, di piccoli abbracciati, di relazioni buone che sono la bellezza del vivere.
Io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Per sette volte nei sette versetti di cui è composto il brano, Gesù ribadisce un concetto, anzi un sogno: unirsi a me, abitare in me. Lo fa adoperando parole che dicono unione, compagnia, incontro, in una specie di suadente monotonia: sarò con voi, verrò presso di voi, in voi, a voi, voi in me io in voi. Uno diventa ciò che lo abita! Gesù cerca spazi, spazi nel cuore, spazi di relazione. Cerca amore. E il Vangelo racconta la passione di unirsi di Gesù a me usando una parola di due sole lettere in: io nel Padre, voi in me, io in voi. Dentro, immersi, uniti, intimi. Tralcio unito alla madre vite, goccia nella sorgente, raggio nel sole, scintilla nel grande braciere della vita, respiro nel suo vento. Gesù ribadisce che l’amore suo è passione di unirsi a me. E questo mi conforta: che io sia amato dipende da Lui, non da me; l’uomo può anche dire di no a Dio, ma Dio non può dire di no all’uomo. Tu puoi negarlo, lui non potrà mai rinnegarti.
Infatti: non vi lascerò orfani. Non lo siete ora e non lo sarete mai, mai orfani, mai separati. La presenza di Cristo in me non è da conquistare, non è da raggiungere, non è lontana. È già data, è dentro, è indissolubile, fontana che non verrà mai meno. E infine l’obiettivo di Gesù: Io vivo e voi vivrete: far vivere è la vocazione di Dio, Gesù è venuto come intenzione di bene, come donatore di vita in abbondanza (Gv 10,10). La sua è anche la nostra missione: essere tutti nella vita datori di vita. (Letture: Atti 8,5-8.14-17; Salmo 65; 1 Pietro 3,15-18; Giovanni 14, 15-21).


Il giogo leggero dei comandamenti del Signore
Ermes Ronchi (Avvenire 18 maggio 2017 )

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

La prima parola è «se»: se mi amate. Un punto di partenza così libero, così umile, così fragile, così fiducioso, così paziente. Non dice: dovete amarmi. Nessuna minaccia, nessuna costrizione, puoi aderire e puoi rifiutarti in totale libertà. Ma, se mi ami, sarai trasformato in un’altra persona, diventerai come me, prolungamento dei miei gesti, eco delle mie parole: se mi amate, osserverete i comandamenti miei. Non per dovere, ma come espansione verso l’esterno di ciò che già preme dentro, come la linfa della vite a primavera, quando preme sulla corteccia dura dei tralci e li apre e ne esce in forma di gemme e foglie.
In questo passo del Vangelo di Giovanni, per la prima volta, Gesù chiede esplicitamente di essere amato. Il suo comando finora diceva: Amerai Dio, amerai il prossimo tuo, vi amerete gli uni gli altri come io vi ho amato, ora aggiunge se stesso agli obiettivi dell’amore. Non detta regole, si fa mendicante d’amore, rispettoso e generativo. Non rivendica amore, lo spera.
Ma amarlo è pericoloso. Infatti il brano di oggi riporta sette versetti, in cui per sette volte Gesù ribadisce un concetto, anzi un sogno: unirsi a me, abitare in noi. E lo fa con parole che dicono unione, compagnia, incontro, intimità, in una divina monotonia, umile e sublime: sarò con voi, verrò presso di voi, in voi, a voi, voi in me io in voi.
Gesù cerca spazi, spazi nel cuore, spazi di trasformazione: se mi ami diventi come me! Io posso diventare come Lui, acquisire nei miei giorni un sapore di cielo e di storia buona; sapore di libertà, di mitezza, di pace, di forza, di nemici perdonati, e poi di tavole imbandite, e poi di piccoli abbracciati, di relazioni buone e feconde che sono la bellezza del vivere.
Quali sono i comandamenti miei di cui parla Gesù? Non l’elenco delle Dieci Parole del monte Sinai; non i comandi esigenti o i consigli sapienti dettati in quei tre anni di itineranza libera e felice dal rabbi di Nazaret.
I comandamenti da osservare sono invece quei gesti che riassumono la sua vita, che vedendoli non ti puoi sbagliare: è davvero lui. Lui che si perde dietro alla pecora perduta, dietro a pubblicani e prostitute, che fa dei bambini i principi del suo regno, che ama per primo, ama in perdita, ama senza aspettare di essere ricambiato.
«Come ho fatto io, così farete anche voi» (Gv 13,15). Lui che cinge un asciugamano e lava i piedi, che spezza il pane, che nel giardino trema insieme al tremante cuore della sua amica («donna, perché piangi?»), che sulla spiaggia prepara il pesce sulla brace per i suoi amici. Comandamenti che confortano la vita. Mentre nelle sue mani arde il foro dei chiodi incandescenti della crocifissione.
(Letture: Atti 8,5-8.14-17; Salmo 65; 1 Pietro 3,15-18; Giovanni 14,15-21)




In Gesù il cuore dell’uomo trova casa
P.Ermes Ronchi

In Gesù il cuore dell’uomo trova casa

padre Ermes Ronchi  (19-04-2008)

Nella casa del Padre ci sono molte dimore. La prima immagine che il Vangelo disegna oggi è quella di una casa. C’è un luogo in principio a tutto, un luogo caldo, familiare, che mi appartiene, una casa – non un tempio – il cui segreto basta a confortare il cuore: «Non sia turbato il vostro cuore». Lì abita qualcuno che non sa immaginarsi senza di noi e ci vuole con sé. L’amore conosce molti doveri, ma il primo è quello di essere insieme con l’amato. «L’amore è passione di unirsi con l’amato» ( Tommaso d’Aquino). Una passione in grado di attraversare l’eternità. È Dio stesso che dice ad ogni suo figlio: il mio cuore è a casa solo accanto al tuo.
«Signore, come ci si arriva?» «Io sono la via». La Bibbia è piena di strade, di vie, di sentieri, piena di futuro e di speranza: davanti all’uomo non c’è una non­strada, ma un ventaglio di strade. Gesù specifica: la strada sono io. Non c’è allora un sentiero ma una persona da percorrere: seguire le sue orme, compiere i suoi gesti, preferire le persone che lui preferiva, opporsi a ciò cui lui si opponeva, rinnovare le sue scelte. La sua strada conduce a un modo nuovo di custodire al terra e il cuore.
«Io sono la verità». Il cristianesimo non è una dottrina o un sistema di pensiero, ma una persona, e il suo muoversi libero, regale, amorevole fra le cose. La verità è ciò che arde. Le mani e i gesti di Gesù che ardono in una vita inseparabile dall’amore, che mette l’uomo prima del sabato, la persona prima della verità, che fa la verità con amore: la verità senza amore è una malattia della storia, una malattia della vita che ci fa tutti malati di intolleranza.
«Io sono la vita». Io sono la sorgente, il viaggio e l’approdo della vita. Parole enormi, che nessuna spiegazione può esaurire o recintare. Parole davanti alle quali provo una vertigine: il mistero dell’uomo si spiega solo con il mistero di Dio. La mia vita si capisce solo con la vita di Cristo. Nella mia esistenza c’è una equazione: più Dio equivale a più io; se Dio non è, io non sono. Più Vangelo entra nella mia vita, più io vivo. Fino ad affermare come Paolo: per me vivere è Cristo.
Vita è tutto ciò che possiamo mettere sotto questa nome: futuro, amore, casa, pane, festa, riposo, desiderio, pasqua. Per questo spirituale e reale coincidono, fede e vita, sacro e realtà hanno l’identica sorgente.




Gesù, pastore che seduce
P.Ermes Ronchi

IV Domenica di Pasqua – Anno A

Gesù, pastore che seduce col suo esempio
Ermes Ronchi ( Avvenire 08/05/2014)

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. (…) ».

Il buon pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Io sono un chiamato, con il mio nome unico pronunciato da lui come nessun altro sa fare, con il mio nome al sicuro nella sua bocca, tutta la mia persona al sicuro con lui.

E le conduce fuori. Il nostro non è un Dio dei recinti chiusi ma degli spazi aperti, di liberi pascoli.

E cammina davanti ad esse. Non un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade, è davanti e non alle spalle. Non pastore che rimprovera e ammonisce per farsi seguire, ma uno che precede e seduce con il suo andare, che affascina con il suo esempio: pastore di futuro.

E troveranno pascolo: Gesù promette a chi va con lui un di più di vita, un centuplo di fratelli e case e campi. Promette di far fiorire la vita.

Io sono la porta. Cristo è soglia spalancata che immette nella terra dell’amore leale, più forte della morte (chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più forte di tutte le prigioni (potrà entrare e uscire).

«Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Per me, una delle frasi più solari del Vangelo; è la frase della mia fede, quella che mi rigenera ogni volta che l’ascolto: sono venuto perché abbiate la vita piena, abbondante, gioiosa. Non solo la vita necessaria, non solo quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva; vita che rompe gli argini e tracima e feconda, una sovrabbondanza di vita, che profuma di amore, di libertà e di coraggio.  Così è Dio: manna non per un giorno ma per quarant’anni nel deserto, pane per cinquemila persone, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, perdono per settanta volte sette, vaso di nardo per 300 denari. In una sola piccola parola è sintetizzato ciò che oppone Gesù a tutti gli altri, ciò che rende incompatibili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è «vita». Parola che pulsa sotto tutte le parole sacre, cuore del Vangelo, parola indimenticabile. Cristo non è venuto a pretendere ma ad offrire, non chiede niente, dona tutto. Vocazione di Gesù, e di ogni uomo, è di essere nella vita datore di vita.
«Gesù non è venuto a portare una teoria religiosa, un sistema di pensiero. Ci ha comunicato vita ed ha creato in noi l’anelito verso più grande vita» (G. Vannucci).
Allora urge cambiare il riferimento di fondo della nostra fede: non è il peccato dell’uomo il movente della storia di Dio con noi, ma l’offerta di più vita. L’asse attorno al quale ruota, danza il Vangelo è la pienezza di vita, da parte di un Dio che un verso bellissimo di Centore canta così: «Tu sei per me ciò ch’è la primavera per i fiori!».

(Letture: Atti 2, 14. 36-41; Salmo 22; 1 Pietro 2, 20-25; Giovanni 10, 1-10)




Passione secondo Matteo
P.Ermes Ronchi

Da quel grido la nuova creazione
padre Ermes Ronchi  (16-03-2008)

Il cuore del Vangelo è il racconto di questo lungo dolore. La «bella notizia» in realtà narra una morte, il patire di un Dio appassionato. Su questo paradosso Paolo centra tutto il suo annuncio: «Io non voglio sapere niente altro che Cristo e questi crocifisso».
Solo inginocchiato davanti alla croce posso dire chi è Dio. «Voi chi dite che io sia?». Tu sei un crocifisso amore.
La croce è l’abisso dove Dio si rivela l’amante. Sulla croce il male raggiunge la sua massima intensità: riesce ad uccidere l’autore della vita. Proprio in quell’evento Dio si esprime totalmente: in lui si precipita tutto il male del mondo, quel male che si vince solo portandolo. E Dio dà se stesso al male che lo crocifigge, a noi che lo crocifiggiamo.
Il sommo male tocca il fondo senza fondo dell’abisso di Dio, che rivela la sua gloria: non salva se stesso, ma dà la sua vita (S.Fausti). Il nostro Dio è differente, è il Dio che entra nella tragedia cui è inchiodata ogni sua creatura, è amore che si immerge nell’oscurità e nel grido della nostra morte, che vince morendo. Perfino il sole di mezzogiorno sembra ribellarsi, la tenebra inghiotte la luce, è la creazione che ritorna al caos primordiale, a un «in principio» da cui Dio trae un mondo nuovo. Il grido alto di Cristo che muore è la voce potente del Verbo creatore, che richiama il sole dal grembo della notte; è il vagito possente e vittorioso dell’uomo che nasce. Quando Gesù muore, un’altra creazione si dischiude.
Il Vangelo racconta che il sole, la terra, le rocce, il tempio, i sepolcri, i morti e i vivi, tutto è scosso e messo in discussione. Matteo sa che l’ora che sommuove le profondità della storia e del cosmo è questa. All’ora nona finiva un mondo e ne nasceva un altro. Vertice della storia.
«Scendi dalla croce», gridavano. Ma se scende, vince ancora la logica del vecchio mondo, chi ragiona in termini di potenza. Se scende, è solo un Signore onnipotente. Invece egli è altro, è un Amore onnipotente. Che può soltanto ciò che l’amore può. Solo il nostro Dio non scende dal legno. Si consegna alla Notte, si abbandona all’Altro per gli altri. Rappresentandoci tutti nei nostri abbandoni, nelle nostre notti, nelle desolazioni. Ogni nostro grido, ogni abbandono, può sembrare una sconfitta. Ma se è gridato al Padre, ha il potere, senza che sappiamo come, di far tremare la pietra di ogni nostro sepolcro.

L’amante e l’abisso
padre Ermes Ronchi (24-03-2002)

Dal Vangelo di Matteo: Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse: «In verità vi dico, uno di voi mi tradirà». Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbi, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».

La terra intera risuona di un grido: grido di nostalgia. È la profonda malinconia del paradiso perduto, del Dio perduto, dell’amore e della pace perduti. La terra, con i suoi cardi e le sue spine, con le sue primule e i sempreverdi e le sue stelle e, ogni tanto, la sua tenerezza, ma solo ogni tanto e furtivamente. E la sua crudeltà spesso, troppo spesso, e le sue lacrime e i suoi singhiozzi. E un giorno Dio non lo ha più sopportato. Dio non ha più potuto trattenersi. E allora ha impugnato il seme di Adamo e si è messo a gridare insieme ai suoi figli lo stesso grido di nostalgia, radicato nell’angoscia, radicato nel sangue e nell’amore, e si è incarnato. Ed è salito sulla croce. Solo per essere con me e come me. Solo perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio deve nel suo amore all’uomo che è in croce. L’amore conosce molti doveri, ma il primo di questi doveri è di essere con l’amato. Solo un Dio sale sulla croce ed entra nella morte perché nella morte entra ogni suo amato. E qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualunque uomo, qualunque re, se potesse, scenderebbe dalla croce. Solo un Dio non scende dal legno. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante, genesi perfetta di Dio fra gli uomini. Questo dicono le prime parole pronunciate sul mondo dopo la morte di Gesù: davvero costui era il Figlio di Dio.
L’atto di fede nasce dalla croce: no, credere a Pasqua non è giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera è al venerdì santo / quando Tu non c’eri / lassù! / Quando non un’eco / risponde/ al tuo alto grido (David Maria Turoldo). Essenza del cristianesimo è la contemplazione del volto del Dio crocifisso (cardinale Carlo Maria Martini). Entriamo, con questa settimana, nei giorni del nostro destino, i giorni della «vendetta di Dio»: quando Dio si vendica di tutta la lontananza, di tutta l’indifferenza, di tutta la separazione, inventando la croce che solleva la terra, che abbassa il cielo, che raccoglie i quattro orizzonti, crocevia di tutte le nostre strade disperse. Le braccia di Gesù, inchiodate e distese in un abbraccio che non può più rinnegarsi, sono le porte dell’Eden spalancate per sempre, sono cuore dilatato fino a lacerarsi molto prima del colpo di lancia, sono accoglienza di ogni creatura, alleanza con tutto ciò che vive: genesi dell’uomo in Dio. Perché l’amato nasce dalle ferite del cuore di chi lo ama. L’uomo nasce dal cuore trafitto del suo Creatore. E capisce che la vita non è possesso o rapina, ma dono di sé; che Dio e la vita sono dono reciproco di sé. Allora la croce è davvero la gloria di Dio, l’ora gloriosa della vita.




E’ L’AMORE CHE VINCE LA MORTE
P. Ermes Ronchi

Non è la vita che vince la morte, è l’amore.
Ermes Ronchi (AVVENIRE giovedì 30 marzo 2017 )

V Domenica di Quaresima Anno A

In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». (…)

Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù. Il suo nome è: ospite, amico e fratello, insieme a quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami, il nome di ognuno.
A causa di Lazzaro sono giunte a noi due tra le parole più importanti del Vangelo: io sono la risurrezione e la vita. Non già: io sarò, in un lontano ultimo giorno, in un’altra vita, ma qui, adesso, io sono.
Notiamo la disposizione delle parole: prima viene la risurrezione e poi la vita. Secondo logica dovrebbe essere il contrario. Invece no: io sono risurrezione delle vite spente, sono il risvegliarsi dell’umano, il rialzarsi della vita che si è arresa.
Vivere è l’infinita pazienza di risorgere, di uscire fuori dalle nostre grotte buie, lasciare che siano sciolte le chiusure e le serrature che ci bloccano, tolte le bende dagli occhi e da vecchie ferite, e partire di nuovo nel sole: scioglietelo e lasciatelo andare. Verso cose che meritano di non morire, verso la Galilea del primo incontro.
Io invidio Lazzaro, e non perché ritorna in vita, ma perché è circondato da gente che gli vuol bene fino alle lacrime. Perché la sua risurrezione? Per le lacrime di Gesù, per il suo amore fino al pianto.
Anch’io risorgerò perché il mio nome è lo stesso: amato per sempre; perché il Signore non accetta di essere derubato dei suoi amati. Non la vita vince la morte, ma l’amore. Se Dio è amore, dire Dio e dire risurrezione sono la stessa cosa.
Lazzaro, vieni fuori! Esce, avvolto in bende come un neonato, come chi viene di nuovo alla luce. Morirà una seconda volta, è vero, ma ormai gli si apre davanti un’altissima speranza: ora sa che i battenti della morte si spalancano sulla vita.
Liberatelo e lasciatelo andare! Sciogliete i morti dalla loro morte. E liberatevi dall’idea della morte come fine di una persona. Liberatelo, come si liberano le vele, si sciolgono i nodi di chi è ripiegato su se stesso.
E poi: lasciatelo andare, dategli una strada, amici, qualche lacrima e una stella polare.
Tre imperativi raccontano la risurrezione: esci, liberati e vai! Quante volte sono morto, mi ero arreso, era finito l’olio nella lampada, finita la voglia di amare e di vivere. In qualche grotta dell’anima una voce diceva: non mi interessa più niente, né Dio, né amori, né vita.
E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so perché; una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole, un amico ha spezzato il silenzio, lacrime hanno bagnato le mie bende, e ciò è accaduto per segrete, misteriose, sconvolgenti ragioni d’amore: un Dio innamorato dei suoi amici, che non lascerà in mano alla morte.
(Letture: Ezechiele 37,12-14; Salmo 129; Romani 8,8-11; Giovanni 11,1-45).




Le tentazioni di Cristo sono anche le nostre
P.Ermes Ronchi

Le tentazioni di Cristo sono anche le nostre
di Ermes Ronchi  (Avvenire 10/03/2011)

I Domenica di Quaresima Anno A

Il racconto delle tentazioni ci chiama al lavoro mai finito di mettere ordine nelle nostre scelte, a scegliere come vivere Le tentazioni di Gesù sono anche le nostre: investono l’intero mondo delle relazioni quotidiane.
La prima tentazione concerne il rapporto con noi stessi e con le cose (l’illusione che i beni riempiano la vita).
La seconda è una sfida aperta alla nostra relazione con Dio (un Dio magico a nostro servizio).
La terza infine riguarda la relazione con gli altri (la fame di potere, l’amore per la forza).

Dì che queste pietre diventino pane! Il pane è un bene, un valore indubitabile, ma Gesù risponde giocando al rialzo, offrendo più vita: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Il pane è buono ma più buona è la parola di Dio, il pane dà vita ma più vita viene dalla bocca di Dio. Parola di Dio è il Vangelo, ma anche l’intero creato. Se l’uomo vive di ciò che viene da Dio, io vivo della luce, del cosmo, ma anche di te: fratello, amico, amore, che sei parola pronunciata dalla bocca di Dio per me.

«Buttati e credi in un miracolo». La seconda tentazione è una sfida aperta a Dio. Quello che sembrerebbe il più alto atto di fede – gettati con fiducia! – ne è, invece, la caricatura, pura ricerca del proprio vantaggio. Gesù ci mette in guardia dal volere un Dio magico a nostra disposizione, dal cercare non Dio ma i suoi benefici, non il Donatore ma i suoi doni. «Non tentare il Signore»: io so che sarà con me, ma come lui vorrà, non come io vorrei. Forse non mi darà tutto ciò che chiedo, eppure avrò tutto ciò che mi serve, tutto ciò di cui ho bisogno.

«adorami e ti darò tutto il potere del mondo».  Nella terza tentazione il diavolo alza ancora la posta:. Il diavolo fa un mercato, esattamente il contrario di Dio, che non fa mai mercato dei suoi doni. È come se dicesse: Gesù, vuoi cambiare il corso della storia con la croce? non funzionerà. Il mondo è già tutto una selva di croci. Cosa se ne fa di un crocifisso in più? Il mondo ha dei problemi, tu devi risolverli. Prendi il potere, occupa i posti chiave, cambia le leggi. Così risolverai i problemi: con rapporti di forza e d’inganno, non con l’amore.

«Ed ecco angeli si avvicinarono e lo servivano». Avvicinarsi e servire, verbi da angeli. Se in questa Quaresima ognuno di noi volesse avvicinarsi e prendersi cura di una persona che ha bisogno, perché malata o sola o povera, regalando un po’ di tempo e un po’ di cuore, allora per lei sarebbe come se si avvicinasse un angelo, come se fiorissero angeli nel nostro deserto.




Racconto
IL FALCO PIGRO

IL FALCO PIGRO


(Bollettino salesiano, febbraio 2023)

Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a conse­gnarli al Maestro di Falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato.
«E l’altro?» chiese il re.
«Mi dispiace, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli il cibo».
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco. Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo.
Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull’albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chie­deva ai suoi sudditi un aiuto per il problema.
Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino. «Portatemi l’autore di questo miracolo» ordinò. Poco dopo gli  presentarono un giovane contadino.
«Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?» gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: «Non è stato difficile, maestà. Io ho semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali ed ha incominciato a volare». 

Talvolta, Dio permette a qualcuno di tagliare il ramo a cui siamo tenacemente attaccati, affinché ci rendiamo conto di avere le ali.