Gesù, pastore che seduce
P.Ermes Ronchi

IV Domenica di Pasqua – Anno A

Gesù, pastore che seduce col suo esempio
Ermes Ronchi ( Avvenire 08/05/2014)

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. (…) ».

Il buon pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Io sono un chiamato, con il mio nome unico pronunciato da lui come nessun altro sa fare, con il mio nome al sicuro nella sua bocca, tutta la mia persona al sicuro con lui.

E le conduce fuori. Il nostro non è un Dio dei recinti chiusi ma degli spazi aperti, di liberi pascoli.

E cammina davanti ad esse. Non un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade, è davanti e non alle spalle. Non pastore che rimprovera e ammonisce per farsi seguire, ma uno che precede e seduce con il suo andare, che affascina con il suo esempio: pastore di futuro.

E troveranno pascolo: Gesù promette a chi va con lui un di più di vita, un centuplo di fratelli e case e campi. Promette di far fiorire la vita.

Io sono la porta. Cristo è soglia spalancata che immette nella terra dell’amore leale, più forte della morte (chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più forte di tutte le prigioni (potrà entrare e uscire).

«Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Per me, una delle frasi più solari del Vangelo; è la frase della mia fede, quella che mi rigenera ogni volta che l’ascolto: sono venuto perché abbiate la vita piena, abbondante, gioiosa. Non solo la vita necessaria, non solo quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva; vita che rompe gli argini e tracima e feconda, una sovrabbondanza di vita, che profuma di amore, di libertà e di coraggio.  Così è Dio: manna non per un giorno ma per quarant’anni nel deserto, pane per cinquemila persone, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, perdono per settanta volte sette, vaso di nardo per 300 denari. In una sola piccola parola è sintetizzato ciò che oppone Gesù a tutti gli altri, ciò che rende incompatibili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è «vita». Parola che pulsa sotto tutte le parole sacre, cuore del Vangelo, parola indimenticabile. Cristo non è venuto a pretendere ma ad offrire, non chiede niente, dona tutto. Vocazione di Gesù, e di ogni uomo, è di essere nella vita datore di vita.
«Gesù non è venuto a portare una teoria religiosa, un sistema di pensiero. Ci ha comunicato vita ed ha creato in noi l’anelito verso più grande vita» (G. Vannucci).
Allora urge cambiare il riferimento di fondo della nostra fede: non è il peccato dell’uomo il movente della storia di Dio con noi, ma l’offerta di più vita. L’asse attorno al quale ruota, danza il Vangelo è la pienezza di vita, da parte di un Dio che un verso bellissimo di Centore canta così: «Tu sei per me ciò ch’è la primavera per i fiori!».

(Letture: Atti 2, 14. 36-41; Salmo 22; 1 Pietro 2, 20-25; Giovanni 10, 1-10)




Passione secondo Matteo
P.Ermes Ronchi

Da quel grido la nuova creazione
padre Ermes Ronchi  (16-03-2008)

Il cuore del Vangelo è il racconto di questo lungo dolore. La «bella notizia» in realtà narra una morte, il patire di un Dio appassionato. Su questo paradosso Paolo centra tutto il suo annuncio: «Io non voglio sapere niente altro che Cristo e questi crocifisso».
Solo inginocchiato davanti alla croce posso dire chi è Dio. «Voi chi dite che io sia?». Tu sei un crocifisso amore.
La croce è l’abisso dove Dio si rivela l’amante. Sulla croce il male raggiunge la sua massima intensità: riesce ad uccidere l’autore della vita. Proprio in quell’evento Dio si esprime totalmente: in lui si precipita tutto il male del mondo, quel male che si vince solo portandolo. E Dio dà se stesso al male che lo crocifigge, a noi che lo crocifiggiamo.
Il sommo male tocca il fondo senza fondo dell’abisso di Dio, che rivela la sua gloria: non salva se stesso, ma dà la sua vita (S.Fausti). Il nostro Dio è differente, è il Dio che entra nella tragedia cui è inchiodata ogni sua creatura, è amore che si immerge nell’oscurità e nel grido della nostra morte, che vince morendo. Perfino il sole di mezzogiorno sembra ribellarsi, la tenebra inghiotte la luce, è la creazione che ritorna al caos primordiale, a un «in principio» da cui Dio trae un mondo nuovo. Il grido alto di Cristo che muore è la voce potente del Verbo creatore, che richiama il sole dal grembo della notte; è il vagito possente e vittorioso dell’uomo che nasce. Quando Gesù muore, un’altra creazione si dischiude.
Il Vangelo racconta che il sole, la terra, le rocce, il tempio, i sepolcri, i morti e i vivi, tutto è scosso e messo in discussione. Matteo sa che l’ora che sommuove le profondità della storia e del cosmo è questa. All’ora nona finiva un mondo e ne nasceva un altro. Vertice della storia.
«Scendi dalla croce», gridavano. Ma se scende, vince ancora la logica del vecchio mondo, chi ragiona in termini di potenza. Se scende, è solo un Signore onnipotente. Invece egli è altro, è un Amore onnipotente. Che può soltanto ciò che l’amore può. Solo il nostro Dio non scende dal legno. Si consegna alla Notte, si abbandona all’Altro per gli altri. Rappresentandoci tutti nei nostri abbandoni, nelle nostre notti, nelle desolazioni. Ogni nostro grido, ogni abbandono, può sembrare una sconfitta. Ma se è gridato al Padre, ha il potere, senza che sappiamo come, di far tremare la pietra di ogni nostro sepolcro.

L’amante e l’abisso
padre Ermes Ronchi (24-03-2002)

Dal Vangelo di Matteo: Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse: «In verità vi dico, uno di voi mi tradirà». Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbi, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».

La terra intera risuona di un grido: grido di nostalgia. È la profonda malinconia del paradiso perduto, del Dio perduto, dell’amore e della pace perduti. La terra, con i suoi cardi e le sue spine, con le sue primule e i sempreverdi e le sue stelle e, ogni tanto, la sua tenerezza, ma solo ogni tanto e furtivamente. E la sua crudeltà spesso, troppo spesso, e le sue lacrime e i suoi singhiozzi. E un giorno Dio non lo ha più sopportato. Dio non ha più potuto trattenersi. E allora ha impugnato il seme di Adamo e si è messo a gridare insieme ai suoi figli lo stesso grido di nostalgia, radicato nell’angoscia, radicato nel sangue e nell’amore, e si è incarnato. Ed è salito sulla croce. Solo per essere con me e come me. Solo perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio deve nel suo amore all’uomo che è in croce. L’amore conosce molti doveri, ma il primo di questi doveri è di essere con l’amato. Solo un Dio sale sulla croce ed entra nella morte perché nella morte entra ogni suo amato. E qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualunque uomo, qualunque re, se potesse, scenderebbe dalla croce. Solo un Dio non scende dal legno. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante, genesi perfetta di Dio fra gli uomini. Questo dicono le prime parole pronunciate sul mondo dopo la morte di Gesù: davvero costui era il Figlio di Dio.
L’atto di fede nasce dalla croce: no, credere a Pasqua non è giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera è al venerdì santo / quando Tu non c’eri / lassù! / Quando non un’eco / risponde/ al tuo alto grido (David Maria Turoldo). Essenza del cristianesimo è la contemplazione del volto del Dio crocifisso (cardinale Carlo Maria Martini). Entriamo, con questa settimana, nei giorni del nostro destino, i giorni della «vendetta di Dio»: quando Dio si vendica di tutta la lontananza, di tutta l’indifferenza, di tutta la separazione, inventando la croce che solleva la terra, che abbassa il cielo, che raccoglie i quattro orizzonti, crocevia di tutte le nostre strade disperse. Le braccia di Gesù, inchiodate e distese in un abbraccio che non può più rinnegarsi, sono le porte dell’Eden spalancate per sempre, sono cuore dilatato fino a lacerarsi molto prima del colpo di lancia, sono accoglienza di ogni creatura, alleanza con tutto ciò che vive: genesi dell’uomo in Dio. Perché l’amato nasce dalle ferite del cuore di chi lo ama. L’uomo nasce dal cuore trafitto del suo Creatore. E capisce che la vita non è possesso o rapina, ma dono di sé; che Dio e la vita sono dono reciproco di sé. Allora la croce è davvero la gloria di Dio, l’ora gloriosa della vita.




E’ L’AMORE CHE VINCE LA MORTE
P. Ermes Ronchi

Non è la vita che vince la morte, è l’amore.
Ermes Ronchi (AVVENIRE giovedì 30 marzo 2017 )

V Domenica di Quaresima Anno A

In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». (…)

Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù. Il suo nome è: ospite, amico e fratello, insieme a quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami, il nome di ognuno.
A causa di Lazzaro sono giunte a noi due tra le parole più importanti del Vangelo: io sono la risurrezione e la vita. Non già: io sarò, in un lontano ultimo giorno, in un’altra vita, ma qui, adesso, io sono.
Notiamo la disposizione delle parole: prima viene la risurrezione e poi la vita. Secondo logica dovrebbe essere il contrario. Invece no: io sono risurrezione delle vite spente, sono il risvegliarsi dell’umano, il rialzarsi della vita che si è arresa.
Vivere è l’infinita pazienza di risorgere, di uscire fuori dalle nostre grotte buie, lasciare che siano sciolte le chiusure e le serrature che ci bloccano, tolte le bende dagli occhi e da vecchie ferite, e partire di nuovo nel sole: scioglietelo e lasciatelo andare. Verso cose che meritano di non morire, verso la Galilea del primo incontro.
Io invidio Lazzaro, e non perché ritorna in vita, ma perché è circondato da gente che gli vuol bene fino alle lacrime. Perché la sua risurrezione? Per le lacrime di Gesù, per il suo amore fino al pianto.
Anch’io risorgerò perché il mio nome è lo stesso: amato per sempre; perché il Signore non accetta di essere derubato dei suoi amati. Non la vita vince la morte, ma l’amore. Se Dio è amore, dire Dio e dire risurrezione sono la stessa cosa.
Lazzaro, vieni fuori! Esce, avvolto in bende come un neonato, come chi viene di nuovo alla luce. Morirà una seconda volta, è vero, ma ormai gli si apre davanti un’altissima speranza: ora sa che i battenti della morte si spalancano sulla vita.
Liberatelo e lasciatelo andare! Sciogliete i morti dalla loro morte. E liberatevi dall’idea della morte come fine di una persona. Liberatelo, come si liberano le vele, si sciolgono i nodi di chi è ripiegato su se stesso.
E poi: lasciatelo andare, dategli una strada, amici, qualche lacrima e una stella polare.
Tre imperativi raccontano la risurrezione: esci, liberati e vai! Quante volte sono morto, mi ero arreso, era finito l’olio nella lampada, finita la voglia di amare e di vivere. In qualche grotta dell’anima una voce diceva: non mi interessa più niente, né Dio, né amori, né vita.
E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so perché; una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole, un amico ha spezzato il silenzio, lacrime hanno bagnato le mie bende, e ciò è accaduto per segrete, misteriose, sconvolgenti ragioni d’amore: un Dio innamorato dei suoi amici, che non lascerà in mano alla morte.
(Letture: Ezechiele 37,12-14; Salmo 129; Romani 8,8-11; Giovanni 11,1-45).




Le tentazioni di Cristo sono anche le nostre
P.Ermes Ronchi

Le tentazioni di Cristo sono anche le nostre
di Ermes Ronchi  (Avvenire 10/03/2011)

I Domenica di Quaresima Anno A

Il racconto delle tentazioni ci chiama al lavoro mai finito di mettere ordine nelle nostre scelte, a scegliere come vivere Le tentazioni di Gesù sono anche le nostre: investono l’intero mondo delle relazioni quotidiane.
La prima tentazione concerne il rapporto con noi stessi e con le cose (l’illusione che i beni riempiano la vita).
La seconda è una sfida aperta alla nostra relazione con Dio (un Dio magico a nostro servizio).
La terza infine riguarda la relazione con gli altri (la fame di potere, l’amore per la forza).

Dì che queste pietre diventino pane! Il pane è un bene, un valore indubitabile, ma Gesù risponde giocando al rialzo, offrendo più vita: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Il pane è buono ma più buona è la parola di Dio, il pane dà vita ma più vita viene dalla bocca di Dio. Parola di Dio è il Vangelo, ma anche l’intero creato. Se l’uomo vive di ciò che viene da Dio, io vivo della luce, del cosmo, ma anche di te: fratello, amico, amore, che sei parola pronunciata dalla bocca di Dio per me.

«Buttati e credi in un miracolo». La seconda tentazione è una sfida aperta a Dio. Quello che sembrerebbe il più alto atto di fede – gettati con fiducia! – ne è, invece, la caricatura, pura ricerca del proprio vantaggio. Gesù ci mette in guardia dal volere un Dio magico a nostra disposizione, dal cercare non Dio ma i suoi benefici, non il Donatore ma i suoi doni. «Non tentare il Signore»: io so che sarà con me, ma come lui vorrà, non come io vorrei. Forse non mi darà tutto ciò che chiedo, eppure avrò tutto ciò che mi serve, tutto ciò di cui ho bisogno.

«adorami e ti darò tutto il potere del mondo».  Nella terza tentazione il diavolo alza ancora la posta:. Il diavolo fa un mercato, esattamente il contrario di Dio, che non fa mai mercato dei suoi doni. È come se dicesse: Gesù, vuoi cambiare il corso della storia con la croce? non funzionerà. Il mondo è già tutto una selva di croci. Cosa se ne fa di un crocifisso in più? Il mondo ha dei problemi, tu devi risolverli. Prendi il potere, occupa i posti chiave, cambia le leggi. Così risolverai i problemi: con rapporti di forza e d’inganno, non con l’amore.

«Ed ecco angeli si avvicinarono e lo servivano». Avvicinarsi e servire, verbi da angeli. Se in questa Quaresima ognuno di noi volesse avvicinarsi e prendersi cura di una persona che ha bisogno, perché malata o sola o povera, regalando un po’ di tempo e un po’ di cuore, allora per lei sarebbe come se si avvicinasse un angelo, come se fiorissero angeli nel nostro deserto.




Racconto
IL FALCO PIGRO

IL FALCO PIGRO


(Bollettino salesiano, febbraio 2023)

Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a conse­gnarli al Maestro di Falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato.
«E l’altro?» chiese il re.
«Mi dispiace, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli il cibo».
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco. Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo.
Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull’albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chie­deva ai suoi sudditi un aiuto per il problema.
Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino. «Portatemi l’autore di questo miracolo» ordinò. Poco dopo gli  presentarono un giovane contadino.
«Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?» gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: «Non è stato difficile, maestà. Io ho semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali ed ha incominciato a volare». 

Talvolta, Dio permette a qualcuno di tagliare il ramo a cui siamo tenacemente attaccati, affinché ci rendiamo conto di avere le ali.




PREGARE IN TEMPO DI GUERRA
Severino Dianich

Pregare in tempi di guerra
Pubblicato su Vita Pastorale (febbraio 2023).
5 febbraio 2023. http://www.settimananews.it/bibbia/pregare-tempi-guerra/
di: Severino Dianich

Ebbi la ventura, anni fa, di ritrovarmi nei territori palestinesi, pochi chilometri fuori Ramallah, nel villaggio di Ein Arik: un quarto degli abitanti cristiani, una moschea e due chiese,  una piccola comunità cattolica di rito latino. Il parroco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, mi confessava la difficoltà di far partecipare i fedeli alla Liturgia delle Ore. C’erano fra  loro alcune famiglie costrette ad abbandonare casa e terra di fronte all’avanzata dell’occupante: come avrebbero potuto cantare il Salmo 78, lodando Dio che «sulla loro eredità gettò la sorte, facendo abitare nelle loro tende le tribù d’Israele»? Recitando i Salmi, non di rado, la preghiera incespica, la lingua sembra rifiutarsi di declamare le stesse espressioni con cui il salmista antico pregava, ma che il cuore cristiano non può far sue. Quando egli ha voluto colpire, Gesù gli ha detto: «Rimetti la spada nel fodero» (Gv 18,11). Egli non può più dire: «Il Signore addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia» (Sal 144,1), né invocarne la potenza: « Salvami, Dio mio! Tu hai colpito alla mascella tutti i miei nemici, hai spezzato i denti dei malvagi» (Sal 3,8).
La commissione, preposta alla redazione della Liturgia delle Ore, dopo il Concilio, ha avuto consapevolezza del problema e ha espunto dai Salmi 110 e 137 le loro imprecazioni finali e dal 139 i versi 21 e 22: « Detesto quelli che si oppongono a te! Li odio con odio implacabile». Giovanni aveva sentenziato: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida» (1Gv 3,15).
I salmi
Spero, quindi, venga ascoltato l’auspicio, risuonato negli incontri di ascolto del Cammino Sinodale, che si provveda, in un riordinamento della preghiera liturgica, a una nuova scelta di testi biblici, che permetta ai fedeli di sintonizzarsi con le parole che pronunciano. Nel clima avvelenato di questa guerra, cristiani di una parte e dell’altra sono tornati a pregare per il trionfo del proprio esercito e lo sfacelo dell’avversario: il canto dei Salmi rischia di trasformarsi in un peana per la vittoria e di alimentare l’odio del nemico.
Torna alla memoria, con tristezza, anche se con la dovuta comprensione per chi sta subendo sulla propria pelle l’aggressione, la disapprovazione indignata di molti cristiani di fronte al gesto di una signora russa e una ucraina che, nella Via Crucis dello scorso Venerdi Santo al Colosseo, hanno portato la croce e hanno pregato insieme. Il problema della violenza, attribuita a Dio dai testi dell’Antico Testamento, ha sempre coinvolto gli studiosi delle Scritture, i quali hanno cercato di comprendere come, in una cultura diversa dalla nostra, sia stato possibile attribuire a Dio sentimenti e propositi di morte e distruzione. I maestri di vita spirituale hanno aperto vie diverse per leggere con fede tutta la parola di Dio, senza censurarne alcuna espressione, e hanno suggerito sottili interpretazioni allegoriche, per tradurre le immagini cruente della guerra nella lotta spirituale da affrontare, per far prevalere la virtù sulla potenza del male.
In un qualche museo, ricordo di essermi trovato davanti, con disgusto, un quadro vistoso, rappresentante un’aureolata signora che afferra per i piedi un bambino, nel gesto di sbatterlo contro un blocco di marmo. L’artista, dopo aver ascoltato lo struggente lamento di apertura del Salmo 137: «Lungo i fiumi di Babilonia…», non si è sgomentato nel doverne rappresentare l’imprecazione finale: «Figlia di Babilonia… beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra».
Per riportare sulla tela quell’orrore, gli era bastato, scrivere sul blocco di marmo: «La Virtù che abbatte i Vizi». Era l’illusione della spiritualità del tempo di poterne fare una diafana allegoria della vittoria del bene sul male, rendendone sopportabile all’immaginazione il fosco spettacolo.
Parole performative
Ma è esperienza di tutti: le parole esercitano la loro potenza prima di essere interpretate, appena giunte alle labbra: o uno le ricaccia in gola prima che escano dalla bocca, o si rischia di farle proprie e di assorbirne tutto il veleno. Pregare, infatti, coinvolge i sentimenti; non si prega senza emozione. Non è la stessa cosa studiare i Salmi, esporne nella catechesi il senso e il valore, o pregare con i Salmi.
Soprattutto in questo tempo di guerra, per non restare travolti dal cupo clima di violenza nel quale si vive, chi prega i Salmi dovrebbe rifornirsi, in un angolo della memoria, di un’antologia delle più belle parole di amore della sacra Scrittura. Egli potrà, quindi, estrarre, di volta in volta, l’una o l’altra delle espressioni di pace e sovrapporle alle parole della violenza e dell’odio, che resteranno sullo sfondo ma velate, come in filigrana.
La Parola di Dio propone all’orante la dolce e potente immagine di «Dio che stronca le guerre» (Giuditta 16,2), alimenta il sogno del giorno beato nel quale Dio «romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel fuoco gli scudi» (Sal 46,10), promette che egli si farà «arbitro fra molti popoli» ed essi «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4), invita a pregare perché «le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia» (Sal 72,3) e annuncia che «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11).
I Salmi suscitano nella mente un turbinio di immagini. Al di sopra di tutte il cristiano conserverà imponente quella di Gesù, «venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,17). Gesù risorto, che ha mandato nel mondo coloro che credono in lui, augurando loro per ben tre volte: «Pace a voi!» (Gv 20,19; 20;26) mantiene alta, per sempre, l’esaltazione dell’antico profeta: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza» (Is 52,7).




Il sale evangelico contraddice il buonismo
Lilia Sebastiani

IL SALE EVANGELICO CONTRADDICE IL BUONISMO CRISTIANO
Lilia Sebastiani (ADISTA 9/1999) 

«Nel tempo e nell’ambiente in cui  si colloca questo detto di Gesù, il sale era importante, più di quanto lo sia oggi per noi. Era simbolo della sapienza (anche nel mondo classico: in greco e in latino, il termine che significa “sale” significa anche intelligenza, spirito, grazia, arguzia); inoltre gli si attribuiva la proprietà di conservare e proteggere la vita e quella di allontanare i demoni e tutte le influenze nefaste. Di qui l’importanza del sale nei sacrifici. Se il sale non fosse più sale, cioè se perdesse il proprio specifico, che poi non é una prerogativa fra le altre, ma coincide con il fatto di “essere”, che cosa sarebbe? Sul piano fisico l’ipotesi non funziona (il sale non può smettere di essere sale), ma funziona sul piano dell’allegoria e racchiude in sé una drammaticità particolare. Il rischio a cui rinviano le poco rassicuranti immagini di giudizio presenti in tante pagine anche dei Vangeli  – come qui,  «essere gettato via e calpestato dagli uomini»: immagini che noi, per forza di abitudine, ancora tendiamo a riferire alla sorte ultraterrena individuale – non é propriamente quello di “andare all’inferno”, ma piuttosto quello di  mancare il bersaglio, di fallire la propria esistenza. Una prospettiva non meno tragica, in termini storici, anche se ha il merito di  non emettere sentenze eterne e di affidare il mistero infinito di una persona all’infinito dell’amore di Dio. Qual è il dovere principale del credente, il suo specifico? Molti risponderebbero: essere buono, amare ecc., e forse – lo si dice sempre malvolentieri, ma bisogna dirlo – non è la risposta giusta. Naturalmente un cristiano che non fosse anche una persona buona sarebbe un pessimo cristiano, ma essere buoni, onesti, sinceri e generosi non è esclusivo dei cristiani: é un dovere, un indice di autenticità, é necessario, ma non sufficiente. Se lo specifico cristiano, nel senso più intimo e ontologico, è la vita nuova in Cristo, in termini più verificabili (il che non significa esteriori) è l’essere coscienza critica della storia secondo la logica della redenzione; farsi dunque in prima persona visibilità di ciò che si crede e si spera. Nel tempo e nell’ambiente in cui si colloca. Le immagini del sale e della luce in questo detto di Gesù sono trasparente figura della vita cristiana come testimonianza, e tutto l’insieme della testimonianza è incluso nell’accenno alle “buone opere”. Le buone opere sono la vita personale intesa come annuncio, ma spesso d’istinto vengono recepite con una meccanica equivalenza di parole tra due lingue, nel senso ristretto di “buone azioni” ‘ le quali, come abbiamo detto, sono dovere preciso dei cristiani come lo sarebbero di ogni persona umana in quanto tale, ma non bastano a costituire un cristiano. Recepire immediatamente ed esclusivamente in termini morali il messaggio scritturistico è insidioso: può risultare riduttivo, banalizzante, anche auto-rassicurante. Una nuova morale erompe, irrefrenabile, dall’annuncio di salvezza accolto con l’essere intero, ma non l’esaurisce. L’equivoco può essere aiutato, nella liturgia di questa domenica, dall’accostamento a una prima lettura (Is. 58, 7- 10) che mette l’accento soprattutto sul dovere di carità e ad alcune strofe piuttosto sapienziali del salmo 111.
Voi siete il sale della terra, ha detto Gesù. Invece ancora tanti, nella Chiesa e fuori di essa, ritengono che caratteristica di un buon cristiano” (e ancor più se si tratta di una “buona cristiana”) siano la carità intesa come attenzione a non disturbare nessuno, la mitezza nel senso di scarsa incisività, la pazienza come masochistico gusto di soffrire, l’umiltà come autosvalutazione. No, Gesù non ha mai detto ai suoi di essere l’acqua zuccherata della terra.
Dice anche: «Voi siete la luce del mondo».  Secondo il quarto vangelo, invece, lo dice di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv. 8,12 e 9,5).  Sappiamo che esegeticamente è sempre un tentare di armonizzare quello che dice il quarto vangelo con quello che dicono i sinottici (ed è un rischio anche contrapporre), ma in questo caso l’accostamento risulta di una singolare eloquenza.  Noi siamo la luce del mondo perché Lui è la luce del mondo.  Essere luce non è privilegio, ma responsabilità.  Per nostro conforto sappiamo che talvolta è possibile trasmettere ad altri, per qualche via misteriosa, anche la luce di cui non ci sembra di fare l’esperienza.
La luce ci viene donata per donarla, non per possederla.  Qualunque tentativo di appropriazione, anche se non potrà mai spegnerla, la offusca e limita la sua capacità di comunicare. Ci è affidata non solo per risplendere dinanzi a tutti (prospettiva “luminosa” certo, tuttavia immobile e, perciò, poco salvifica), ma perché tutto progressivamente si illumini e diventi capace a sua volta di trasmettere luce. Nella Chiesa primitiva, l’insieme del rito del battesimo veniva indicato con il termine “illuminazione”, fotismòs. La luce di Cristo è dinamica, comunicativa e trasformatrice. E’ una forte responsabilità quella di rendere irradiante e sperimentabile la salvezza.  E qui si trova, forse, l’unico criterio di autenticità per la testimonianza che dobbiamo rendere, anche nei suoi aspetti critici e dirompenti: un criterio esigente, nel suo genere, come neppure il più rigorista dei precetti potrebbe esserlo.  Ecco, non si può essere sale senza essere anche luce.  Nella consapevolezza, però, che senza “quel” sale, neppure quella luce può risplendere.




Il sale e la luce
P:Ermes Ronchi

Il sale e la luce: radici di vero futuro.
Ermes Ronchi (Avvenire 03/02/2011)
V Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Dio è luce: una delle più belle definizioni di Dio (1 Giovanni 1,5). Ma il Vangelo oggi rilancia: anche voi siete luce. Una delle più belle definizioni dell’uomo.
E non dice: voi dovete essere, sforzatevi di diventare, ma voi siete già luce. La luce non è un dovere ma il frutto naturale in chi ha respirato Dio. La Parola mi assicura che in qualche modo misterioso e grande, grande ed emozionante, noi tutti, con Dio in cuore, siamo luce da luce, proprio come proclamiamo di Gesù nella professione di fede: Dio da Dio, luce da luce. Io non sono né luce né sale, lo so bene, per lunga esperienza. Eppure il Vangelo parla di me a me, e dice: non fermarti alla superficie, al ruvido dell’argilla, cerca in profondità, verso la cella segreta del cuore; là, al centro di te, troverai una lucerna accesa, una manciata di sale. Per pura grazia. Non un vanto, ma una responsabilità. Voi siete la luce, non io o tu, ma voi. Quando un io e un tu s’incontrano generando un noi, quando due sulla terra si amano, nel noi della famiglia dove ci si vuol bene, nella comunità accogliente, nel gruppo solidale è conservato senso e sale del vivere. Come mettere la lampada sul candelabro? Isaia suggerisce: Spezza il tuo pane, introduci in casa lo straniero, vesti chi è nudo, non distogliere gli occhi dalla tua gente… Allora la tua luce sorgerà come l’aurora (Isaia 58,10). Tutto un incalzare di azioni: non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, ma occupati della città e della tua gente, illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirà la tua vita. Voi siete il sale, «che ascende dalla massa del mare rispondendo al luminoso appello del sole. Allo stesso modo il discepolo ascende, rispondendo all’attrazione dell’infinita luce divina» (Vannucci). Ma poi discende sulla mensa, perché se resta chiuso in sé non serve a niente: deve sciogliersi nel cibo, deve donarsi. Il sale dà sapore: Io non ho voluto sapere nient’altro che Cristo crocifisso (1 Corinzi 2,1-5). «Sapere» è molto più che «conoscere»: è avere il sapore di Cristo. E accade quando Cristo, come sale, è disciolto dentro di me; quando, come pane, penetra in tutte le fibre della vita e diventa mia parola, mio gesto, mio cuore. Il sale conserva.
Gesù non dice «voi siete il miele del mondo», un generico buonismo che rende tutto accettabile, ma il sale, qualcosa che è una forza, un istinto di vita che penetra le scelte, si oppone al degrado delle cose, e rilancia ciò che merita futuro.
(Letture: Isaia 58,7-10; Salmo 111; 1 Corinzi 2,1-5; Matteo 5,13-16)




Gesù non pretende la nostra vita, offre la sua
Ermes Ronchi

Gesù non pretende la nostra vita, offre la sua
Ermes Ronchi (Avvenire 16 gennaio 2014)

II Domenica Tempo ordinario – Anno A

Giovanni, vedendo Gesù venirgli incontro, dice: Ecco l’agnello di Dio. Parole diventate così consuete nelle nostre liturgie che quasi non sentiamo più il loro significato. Un agnello non può fare paura, non ha nessun potere, è inerme, rappresenta il Dio mite e umile (se ti incute paura, stai sicuro che non è il Dio vero).
Ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo, che rende più vera la vita di tutti attraverso lo scandalo della mitezza. Gesù-agnello, identificato con l’animale dei sacrifici, introduce qualcosa che capovolge e rivoluziona il volto di Dio: il Signore non chiede più sacrifici all’uomo, ma sacrifica se stesso; non pretende la tua vita, offre la sua; non spezza nessuno, spezza se stesso; non prende niente, dona tutto. Facciamo attenzione al volto di Dio che ci portiamo nel cuore: è come uno specchio, e guardandolo capiamo qual è il nostro volto. Questo specchio va ripulito ogni giorno, alla luce della vita di Gesù. Perché se ci sbagliamo su Dio, poi ci sbagliamo su tutto, sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male, sulla storia e su noi stessi.
Ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo. Non «i peccati», al plurale, ma «il peccato» al singolare; non i singoli atti sbagliati che continueranno a ferirci, ma una condizione, una struttura profonda della cultura umana, fatta di violenza e di accecamento, una logica distruttiva, di morte. In una parola, il disamore.  Che ci minaccia tutti, che è assenza di amore, incapacità di amare bene, chiusure, fratture, vite spente. Gesù, che sapeva amare come nessuno, è il guaritore del disamore. Egli conclude la parabola del Buon Samaritano con parole di luce: fai questo e avrai la vita. Vuoi vivere davvero? Produci amore. Immettilo nel mondo, fallo scorrere… E diventerai anche tu un guaritore del disamore.
Noi, i discepoli, siamo coloro che seguono l’agnello (Ap 14,4). Se questo seguire lo intendiamo in un’ottica sacrificale, il cristianesimo diventa immolazione, diminuzione, sofferenza. Ma se capiamo che la vera imitazione di Gesù è amare quelli che lui amava, desiderare ciò che lui desiderava, rifiutare ciò che lui rifiutava, toccare quelli che lui toccava e come lui li toccava, con la sua delicatezza, concretezza, amorevolezza, e non avere paura, e non fare paura, e liberare dalla paura, allora sì lo seguiamo davvero, impegnati con lui a togliere via il peccato del mondo, a togliere respiro e terreno al male, ad opporci alla logica sbagliata del mondo, a guarirlo dal disamore che lo intristisce.
Ecco vi mando come agnelli… vi mando a togliere, con mitezza, il male: braccia aperte donate da Dio al mondo, braccia di un Dio agnello, inerme eppure più forte di ogni Erode.
(Letture: Isaia 49, 3.5-6; Salmo 39; 1 Corinzi 1, 1-3; Giovanni 1,29-34)




SPIRITO E ACQUA
Padre Ermes Ronchi

Spirito e acqua per la vita che sorge

padre Ermes Ronchi (09-01-2011)

Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli, e vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba sopra di lui.
Lo Spirito e l’acqua sono le più antiche presenze della Bibbia, entrano in scena già dal secondo versetto della Genesi: la terra era informe e deserta, ma «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Il primo movimento della vita nella Bibbia è una danza dello Spirito sulle acque. Come una colomba che cerca il suo nido, che cova la vita che sta per nascere. Da allora sempre lo Spirito e l’acqua sono legati al sorgere della vita. Per questo sono presenti nel Battesimo di Gesù e nel nostro Battesimo: come vita sorgente.
Di quale vita si tratta? Lo spiega la Voce dal cielo: Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
«Figlio» è la prima parola. Ogni figlio vive della vita del padre, non ha in se stesso la propria sorgente, viene da un altro. Quella stessa voce è scesa sul nostro Battesimo e ci ha dichiarati figli, i quali non da carne né da volere d’uomo ma da Dio sono stati generati ( Gv 1,13). Battesimo significa immersione: siamo stati immersi dentro la Sorgente, ma non come due cose separate ed in fondo estranee, come il vestito e il corpo, ma per diventare un’unica cosa, come l’acqua e la Sorgente, come il tralcio e la Vite: la nostra carne in Dio in risposta a Dio nella nostra carne. Il nostro abitare in Dio dopo che Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14), il mio Natale dopo il suo Natale.
Amato è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno appena ti svegli, il tuo nome, per Dio, è «amato». Immeritato amore, che precede ogni risposta, lucente pregiudizio di Dio su ogni creatura.
Mio compiacimento è la terza parola. Termine raro e prezioso che significa: tu – figlio – mi piaci. C’è dentro una gioia, un’esultanza, una soddisfazione, c’è un Dio che trova piacere a stare con me e mi dice: tu, gioia mia! E mi domando quale gioia posso regalare al Padre, io che l’ho ascoltato e non mi sono mosso, che non l’ho mai raggiunto e già perduto, e qualche volta l’ho perfino tradito. Solo un amore immotivato spiega queste parole. Amore puro: avere un motivo per amare non è amore vero. E un giorno quando arriverò davanti a Dio ed Egli mi guarderà, so che vedrà un pover’uomo, nient’altro che una canna incrinata, il fumo di uno stoppino smorto.
Eppure so che ripeterà proprio a me quelle tre parole: Figlio mio, amore mio, gioia mia. Entra nell’abbraccio di tuo padre!