PREGARE IN TEMPO DI GUERRA
Severino Dianich

Pregare in tempi di guerra
Pubblicato su Vita Pastorale (febbraio 2023).
5 febbraio 2023. http://www.settimananews.it/bibbia/pregare-tempi-guerra/
di: Severino Dianich

Ebbi la ventura, anni fa, di ritrovarmi nei territori palestinesi, pochi chilometri fuori Ramallah, nel villaggio di Ein Arik: un quarto degli abitanti cristiani, una moschea e due chiese,  una piccola comunità cattolica di rito latino. Il parroco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, mi confessava la difficoltà di far partecipare i fedeli alla Liturgia delle Ore. C’erano fra  loro alcune famiglie costrette ad abbandonare casa e terra di fronte all’avanzata dell’occupante: come avrebbero potuto cantare il Salmo 78, lodando Dio che «sulla loro eredità gettò la sorte, facendo abitare nelle loro tende le tribù d’Israele»? Recitando i Salmi, non di rado, la preghiera incespica, la lingua sembra rifiutarsi di declamare le stesse espressioni con cui il salmista antico pregava, ma che il cuore cristiano non può far sue. Quando egli ha voluto colpire, Gesù gli ha detto: «Rimetti la spada nel fodero» (Gv 18,11). Egli non può più dire: «Il Signore addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia» (Sal 144,1), né invocarne la potenza: « Salvami, Dio mio! Tu hai colpito alla mascella tutti i miei nemici, hai spezzato i denti dei malvagi» (Sal 3,8).
La commissione, preposta alla redazione della Liturgia delle Ore, dopo il Concilio, ha avuto consapevolezza del problema e ha espunto dai Salmi 110 e 137 le loro imprecazioni finali e dal 139 i versi 21 e 22: « Detesto quelli che si oppongono a te! Li odio con odio implacabile». Giovanni aveva sentenziato: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida» (1Gv 3,15).
I salmi
Spero, quindi, venga ascoltato l’auspicio, risuonato negli incontri di ascolto del Cammino Sinodale, che si provveda, in un riordinamento della preghiera liturgica, a una nuova scelta di testi biblici, che permetta ai fedeli di sintonizzarsi con le parole che pronunciano. Nel clima avvelenato di questa guerra, cristiani di una parte e dell’altra sono tornati a pregare per il trionfo del proprio esercito e lo sfacelo dell’avversario: il canto dei Salmi rischia di trasformarsi in un peana per la vittoria e di alimentare l’odio del nemico.
Torna alla memoria, con tristezza, anche se con la dovuta comprensione per chi sta subendo sulla propria pelle l’aggressione, la disapprovazione indignata di molti cristiani di fronte al gesto di una signora russa e una ucraina che, nella Via Crucis dello scorso Venerdi Santo al Colosseo, hanno portato la croce e hanno pregato insieme. Il problema della violenza, attribuita a Dio dai testi dell’Antico Testamento, ha sempre coinvolto gli studiosi delle Scritture, i quali hanno cercato di comprendere come, in una cultura diversa dalla nostra, sia stato possibile attribuire a Dio sentimenti e propositi di morte e distruzione. I maestri di vita spirituale hanno aperto vie diverse per leggere con fede tutta la parola di Dio, senza censurarne alcuna espressione, e hanno suggerito sottili interpretazioni allegoriche, per tradurre le immagini cruente della guerra nella lotta spirituale da affrontare, per far prevalere la virtù sulla potenza del male.
In un qualche museo, ricordo di essermi trovato davanti, con disgusto, un quadro vistoso, rappresentante un’aureolata signora che afferra per i piedi un bambino, nel gesto di sbatterlo contro un blocco di marmo. L’artista, dopo aver ascoltato lo struggente lamento di apertura del Salmo 137: «Lungo i fiumi di Babilonia…», non si è sgomentato nel doverne rappresentare l’imprecazione finale: «Figlia di Babilonia… beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra».
Per riportare sulla tela quell’orrore, gli era bastato, scrivere sul blocco di marmo: «La Virtù che abbatte i Vizi». Era l’illusione della spiritualità del tempo di poterne fare una diafana allegoria della vittoria del bene sul male, rendendone sopportabile all’immaginazione il fosco spettacolo.
Parole performative
Ma è esperienza di tutti: le parole esercitano la loro potenza prima di essere interpretate, appena giunte alle labbra: o uno le ricaccia in gola prima che escano dalla bocca, o si rischia di farle proprie e di assorbirne tutto il veleno. Pregare, infatti, coinvolge i sentimenti; non si prega senza emozione. Non è la stessa cosa studiare i Salmi, esporne nella catechesi il senso e il valore, o pregare con i Salmi.
Soprattutto in questo tempo di guerra, per non restare travolti dal cupo clima di violenza nel quale si vive, chi prega i Salmi dovrebbe rifornirsi, in un angolo della memoria, di un’antologia delle più belle parole di amore della sacra Scrittura. Egli potrà, quindi, estrarre, di volta in volta, l’una o l’altra delle espressioni di pace e sovrapporle alle parole della violenza e dell’odio, che resteranno sullo sfondo ma velate, come in filigrana.
La Parola di Dio propone all’orante la dolce e potente immagine di «Dio che stronca le guerre» (Giuditta 16,2), alimenta il sogno del giorno beato nel quale Dio «romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel fuoco gli scudi» (Sal 46,10), promette che egli si farà «arbitro fra molti popoli» ed essi «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4), invita a pregare perché «le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia» (Sal 72,3) e annuncia che «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11).
I Salmi suscitano nella mente un turbinio di immagini. Al di sopra di tutte il cristiano conserverà imponente quella di Gesù, «venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,17). Gesù risorto, che ha mandato nel mondo coloro che credono in lui, augurando loro per ben tre volte: «Pace a voi!» (Gv 20,19; 20;26) mantiene alta, per sempre, l’esaltazione dell’antico profeta: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza» (Is 52,7).




Il sale evangelico contraddice il buonismo
Lilia Sebastiani

IL SALE EVANGELICO CONTRADDICE IL BUONISMO CRISTIANO
Lilia Sebastiani (ADISTA 9/1999) 

«Nel tempo e nell’ambiente in cui  si colloca questo detto di Gesù, il sale era importante, più di quanto lo sia oggi per noi. Era simbolo della sapienza (anche nel mondo classico: in greco e in latino, il termine che significa “sale” significa anche intelligenza, spirito, grazia, arguzia); inoltre gli si attribuiva la proprietà di conservare e proteggere la vita e quella di allontanare i demoni e tutte le influenze nefaste. Di qui l’importanza del sale nei sacrifici. Se il sale non fosse più sale, cioè se perdesse il proprio specifico, che poi non é una prerogativa fra le altre, ma coincide con il fatto di “essere”, che cosa sarebbe? Sul piano fisico l’ipotesi non funziona (il sale non può smettere di essere sale), ma funziona sul piano dell’allegoria e racchiude in sé una drammaticità particolare. Il rischio a cui rinviano le poco rassicuranti immagini di giudizio presenti in tante pagine anche dei Vangeli  – come qui,  «essere gettato via e calpestato dagli uomini»: immagini che noi, per forza di abitudine, ancora tendiamo a riferire alla sorte ultraterrena individuale – non é propriamente quello di “andare all’inferno”, ma piuttosto quello di  mancare il bersaglio, di fallire la propria esistenza. Una prospettiva non meno tragica, in termini storici, anche se ha il merito di  non emettere sentenze eterne e di affidare il mistero infinito di una persona all’infinito dell’amore di Dio. Qual è il dovere principale del credente, il suo specifico? Molti risponderebbero: essere buono, amare ecc., e forse – lo si dice sempre malvolentieri, ma bisogna dirlo – non è la risposta giusta. Naturalmente un cristiano che non fosse anche una persona buona sarebbe un pessimo cristiano, ma essere buoni, onesti, sinceri e generosi non è esclusivo dei cristiani: é un dovere, un indice di autenticità, é necessario, ma non sufficiente. Se lo specifico cristiano, nel senso più intimo e ontologico, è la vita nuova in Cristo, in termini più verificabili (il che non significa esteriori) è l’essere coscienza critica della storia secondo la logica della redenzione; farsi dunque in prima persona visibilità di ciò che si crede e si spera. Nel tempo e nell’ambiente in cui si colloca. Le immagini del sale e della luce in questo detto di Gesù sono trasparente figura della vita cristiana come testimonianza, e tutto l’insieme della testimonianza è incluso nell’accenno alle “buone opere”. Le buone opere sono la vita personale intesa come annuncio, ma spesso d’istinto vengono recepite con una meccanica equivalenza di parole tra due lingue, nel senso ristretto di “buone azioni” ‘ le quali, come abbiamo detto, sono dovere preciso dei cristiani come lo sarebbero di ogni persona umana in quanto tale, ma non bastano a costituire un cristiano. Recepire immediatamente ed esclusivamente in termini morali il messaggio scritturistico è insidioso: può risultare riduttivo, banalizzante, anche auto-rassicurante. Una nuova morale erompe, irrefrenabile, dall’annuncio di salvezza accolto con l’essere intero, ma non l’esaurisce. L’equivoco può essere aiutato, nella liturgia di questa domenica, dall’accostamento a una prima lettura (Is. 58, 7- 10) che mette l’accento soprattutto sul dovere di carità e ad alcune strofe piuttosto sapienziali del salmo 111.
Voi siete il sale della terra, ha detto Gesù. Invece ancora tanti, nella Chiesa e fuori di essa, ritengono che caratteristica di un buon cristiano” (e ancor più se si tratta di una “buona cristiana”) siano la carità intesa come attenzione a non disturbare nessuno, la mitezza nel senso di scarsa incisività, la pazienza come masochistico gusto di soffrire, l’umiltà come autosvalutazione. No, Gesù non ha mai detto ai suoi di essere l’acqua zuccherata della terra.
Dice anche: «Voi siete la luce del mondo».  Secondo il quarto vangelo, invece, lo dice di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv. 8,12 e 9,5).  Sappiamo che esegeticamente è sempre un tentare di armonizzare quello che dice il quarto vangelo con quello che dicono i sinottici (ed è un rischio anche contrapporre), ma in questo caso l’accostamento risulta di una singolare eloquenza.  Noi siamo la luce del mondo perché Lui è la luce del mondo.  Essere luce non è privilegio, ma responsabilità.  Per nostro conforto sappiamo che talvolta è possibile trasmettere ad altri, per qualche via misteriosa, anche la luce di cui non ci sembra di fare l’esperienza.
La luce ci viene donata per donarla, non per possederla.  Qualunque tentativo di appropriazione, anche se non potrà mai spegnerla, la offusca e limita la sua capacità di comunicare. Ci è affidata non solo per risplendere dinanzi a tutti (prospettiva “luminosa” certo, tuttavia immobile e, perciò, poco salvifica), ma perché tutto progressivamente si illumini e diventi capace a sua volta di trasmettere luce. Nella Chiesa primitiva, l’insieme del rito del battesimo veniva indicato con il termine “illuminazione”, fotismòs. La luce di Cristo è dinamica, comunicativa e trasformatrice. E’ una forte responsabilità quella di rendere irradiante e sperimentabile la salvezza.  E qui si trova, forse, l’unico criterio di autenticità per la testimonianza che dobbiamo rendere, anche nei suoi aspetti critici e dirompenti: un criterio esigente, nel suo genere, come neppure il più rigorista dei precetti potrebbe esserlo.  Ecco, non si può essere sale senza essere anche luce.  Nella consapevolezza, però, che senza “quel” sale, neppure quella luce può risplendere.




Il sale e la luce
P:Ermes Ronchi

Il sale e la luce: radici di vero futuro.
Ermes Ronchi (Avvenire 03/02/2011)
V Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Dio è luce: una delle più belle definizioni di Dio (1 Giovanni 1,5). Ma il Vangelo oggi rilancia: anche voi siete luce. Una delle più belle definizioni dell’uomo.
E non dice: voi dovete essere, sforzatevi di diventare, ma voi siete già luce. La luce non è un dovere ma il frutto naturale in chi ha respirato Dio. La Parola mi assicura che in qualche modo misterioso e grande, grande ed emozionante, noi tutti, con Dio in cuore, siamo luce da luce, proprio come proclamiamo di Gesù nella professione di fede: Dio da Dio, luce da luce. Io non sono né luce né sale, lo so bene, per lunga esperienza. Eppure il Vangelo parla di me a me, e dice: non fermarti alla superficie, al ruvido dell’argilla, cerca in profondità, verso la cella segreta del cuore; là, al centro di te, troverai una lucerna accesa, una manciata di sale. Per pura grazia. Non un vanto, ma una responsabilità. Voi siete la luce, non io o tu, ma voi. Quando un io e un tu s’incontrano generando un noi, quando due sulla terra si amano, nel noi della famiglia dove ci si vuol bene, nella comunità accogliente, nel gruppo solidale è conservato senso e sale del vivere. Come mettere la lampada sul candelabro? Isaia suggerisce: Spezza il tuo pane, introduci in casa lo straniero, vesti chi è nudo, non distogliere gli occhi dalla tua gente… Allora la tua luce sorgerà come l’aurora (Isaia 58,10). Tutto un incalzare di azioni: non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, ma occupati della città e della tua gente, illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirà la tua vita. Voi siete il sale, «che ascende dalla massa del mare rispondendo al luminoso appello del sole. Allo stesso modo il discepolo ascende, rispondendo all’attrazione dell’infinita luce divina» (Vannucci). Ma poi discende sulla mensa, perché se resta chiuso in sé non serve a niente: deve sciogliersi nel cibo, deve donarsi. Il sale dà sapore: Io non ho voluto sapere nient’altro che Cristo crocifisso (1 Corinzi 2,1-5). «Sapere» è molto più che «conoscere»: è avere il sapore di Cristo. E accade quando Cristo, come sale, è disciolto dentro di me; quando, come pane, penetra in tutte le fibre della vita e diventa mia parola, mio gesto, mio cuore. Il sale conserva.
Gesù non dice «voi siete il miele del mondo», un generico buonismo che rende tutto accettabile, ma il sale, qualcosa che è una forza, un istinto di vita che penetra le scelte, si oppone al degrado delle cose, e rilancia ciò che merita futuro.
(Letture: Isaia 58,7-10; Salmo 111; 1 Corinzi 2,1-5; Matteo 5,13-16)




Gesù non pretende la nostra vita, offre la sua
Ermes Ronchi

Gesù non pretende la nostra vita, offre la sua
Ermes Ronchi (Avvenire 16 gennaio 2014)

II Domenica Tempo ordinario – Anno A

Giovanni, vedendo Gesù venirgli incontro, dice: Ecco l’agnello di Dio. Parole diventate così consuete nelle nostre liturgie che quasi non sentiamo più il loro significato. Un agnello non può fare paura, non ha nessun potere, è inerme, rappresenta il Dio mite e umile (se ti incute paura, stai sicuro che non è il Dio vero).
Ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo, che rende più vera la vita di tutti attraverso lo scandalo della mitezza. Gesù-agnello, identificato con l’animale dei sacrifici, introduce qualcosa che capovolge e rivoluziona il volto di Dio: il Signore non chiede più sacrifici all’uomo, ma sacrifica se stesso; non pretende la tua vita, offre la sua; non spezza nessuno, spezza se stesso; non prende niente, dona tutto. Facciamo attenzione al volto di Dio che ci portiamo nel cuore: è come uno specchio, e guardandolo capiamo qual è il nostro volto. Questo specchio va ripulito ogni giorno, alla luce della vita di Gesù. Perché se ci sbagliamo su Dio, poi ci sbagliamo su tutto, sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male, sulla storia e su noi stessi.
Ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo. Non «i peccati», al plurale, ma «il peccato» al singolare; non i singoli atti sbagliati che continueranno a ferirci, ma una condizione, una struttura profonda della cultura umana, fatta di violenza e di accecamento, una logica distruttiva, di morte. In una parola, il disamore.  Che ci minaccia tutti, che è assenza di amore, incapacità di amare bene, chiusure, fratture, vite spente. Gesù, che sapeva amare come nessuno, è il guaritore del disamore. Egli conclude la parabola del Buon Samaritano con parole di luce: fai questo e avrai la vita. Vuoi vivere davvero? Produci amore. Immettilo nel mondo, fallo scorrere… E diventerai anche tu un guaritore del disamore.
Noi, i discepoli, siamo coloro che seguono l’agnello (Ap 14,4). Se questo seguire lo intendiamo in un’ottica sacrificale, il cristianesimo diventa immolazione, diminuzione, sofferenza. Ma se capiamo che la vera imitazione di Gesù è amare quelli che lui amava, desiderare ciò che lui desiderava, rifiutare ciò che lui rifiutava, toccare quelli che lui toccava e come lui li toccava, con la sua delicatezza, concretezza, amorevolezza, e non avere paura, e non fare paura, e liberare dalla paura, allora sì lo seguiamo davvero, impegnati con lui a togliere via il peccato del mondo, a togliere respiro e terreno al male, ad opporci alla logica sbagliata del mondo, a guarirlo dal disamore che lo intristisce.
Ecco vi mando come agnelli… vi mando a togliere, con mitezza, il male: braccia aperte donate da Dio al mondo, braccia di un Dio agnello, inerme eppure più forte di ogni Erode.
(Letture: Isaia 49, 3.5-6; Salmo 39; 1 Corinzi 1, 1-3; Giovanni 1,29-34)




SPIRITO E ACQUA
Padre Ermes Ronchi

Spirito e acqua per la vita che sorge

padre Ermes Ronchi (09-01-2011)

Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli, e vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba sopra di lui.
Lo Spirito e l’acqua sono le più antiche presenze della Bibbia, entrano in scena già dal secondo versetto della Genesi: la terra era informe e deserta, ma «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Il primo movimento della vita nella Bibbia è una danza dello Spirito sulle acque. Come una colomba che cerca il suo nido, che cova la vita che sta per nascere. Da allora sempre lo Spirito e l’acqua sono legati al sorgere della vita. Per questo sono presenti nel Battesimo di Gesù e nel nostro Battesimo: come vita sorgente.
Di quale vita si tratta? Lo spiega la Voce dal cielo: Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
«Figlio» è la prima parola. Ogni figlio vive della vita del padre, non ha in se stesso la propria sorgente, viene da un altro. Quella stessa voce è scesa sul nostro Battesimo e ci ha dichiarati figli, i quali non da carne né da volere d’uomo ma da Dio sono stati generati ( Gv 1,13). Battesimo significa immersione: siamo stati immersi dentro la Sorgente, ma non come due cose separate ed in fondo estranee, come il vestito e il corpo, ma per diventare un’unica cosa, come l’acqua e la Sorgente, come il tralcio e la Vite: la nostra carne in Dio in risposta a Dio nella nostra carne. Il nostro abitare in Dio dopo che Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14), il mio Natale dopo il suo Natale.
Amato è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno appena ti svegli, il tuo nome, per Dio, è «amato». Immeritato amore, che precede ogni risposta, lucente pregiudizio di Dio su ogni creatura.
Mio compiacimento è la terza parola. Termine raro e prezioso che significa: tu – figlio – mi piaci. C’è dentro una gioia, un’esultanza, una soddisfazione, c’è un Dio che trova piacere a stare con me e mi dice: tu, gioia mia! E mi domando quale gioia posso regalare al Padre, io che l’ho ascoltato e non mi sono mosso, che non l’ho mai raggiunto e già perduto, e qualche volta l’ho perfino tradito. Solo un amore immotivato spiega queste parole. Amore puro: avere un motivo per amare non è amore vero. E un giorno quando arriverò davanti a Dio ed Egli mi guarderà, so che vedrà un pover’uomo, nient’altro che una canna incrinata, il fumo di uno stoppino smorto.
Eppure so che ripeterà proprio a me quelle tre parole: Figlio mio, amore mio, gioia mia. Entra nell’abbraccio di tuo padre!




Regalità di Cristo, storia d’amore
P.Ermes Ronchi

Regalità di Cristo, storia d’amore.
Padre Ermes Ronchi – Avvenire (20 Novembre 2004)

Luca ci guida a rintracciare il tesoro della regalità nel luogo più inadatto, nel piccolo spazio della croce. Il crocifisso è signore appena di quel poco di legno e di terra che basta per morire. Ma quella croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante: «Non c’è amore più grande che dare la propria vita…». I capi, i soldati, un malfattore chiedono a Gesù una dimostrazione di forza: «Salva te stesso!». Se accetta e scende dalla croce, Gesù si mostrerà “forte”, un vero “re” davanti agli uomini. Invece un uomo gli chiede una dimostrazione di bontà: «Ricordati di me!». Gesù risponde e si mostra “buono”, vero “re” secondo il cuore di Dio. Ma che cosa ha visto quell’uomo? Lo dice in una frase sola, di semplicità sublime: «Lui non ha fatto nulla di male». In queste parole è racchiuso il segreto dell’autentica regalità: niente di male in quell’uomo, innocenza mai vista ancora, nessun seme di odio o di violenza. Aver percepito questo è bastato ad aprirgli il cuore: il malfattore intuisce in quel cuore pulito e buono il primo passo di una storia diversa, intravede un altro modo possibile di essere uomini, l’annuncio di un mondo di fraternità e di perdono, di giustizia e di pace. Ed è in questo regno che domanda di entrare: «Ricordati di me», prega il morente. «Sarai con me», risponde l’amante. «Ricordati di me», prega la paura. «Sarai con me in un abbraccio», risponde il forte. «Solo ricordati, e mi basta», prega l’ultima vita. «Con me, oggi, in un paradiso di luce», risponde il datore di vita.
Venga il tuo regno – noi preghiamo – e sia più intenso delle lacrime, e sia più bello dei sogni di chi visse e morì nella notte per costruirlo. Un regno che è di Dio, che è per l’uomo. Ed è come ripetere le parole del ladro pentito.
Pregare ogni giorno: «Venga il tuo regno», significa credere che il mondo cambierà; e non per i segni che riesco a scorgere dentro il groviglio sanguinoso e dolente della cronaca, ma perché Dio si è impegnato con la croce.
Dire: «Venga il tuo Regno», è affermare che la speranza è più forte dell’evidenza, l’innocenza più forte del male, che il mondo appartiene non a chi lo possiede ma a chi lo rende migliore.
Dire: «Venga il tuo regno», è invocare per noi un amore di una qualità simile a quello del Crocifisso che muore ostinatamente amando, preoccupandosi di chi gli muore accanto, dimenticandosi di sè. Il regno di Dio verrà quando nascerà, nel cuore nuovo delle creature, l’ostinazione dell’amore, e quando questa ostinazione avanzerà dalle periferie della storia fino ad occupare il centro della città degli uomini. Solo questo capovolgerà la nostra cronaca amara in storia finalmente sacra.




L’uomo è al sicuro nelle mani del Signore
P.Ermes Ronchi

L’uomo è al sicuro nelle mani del Signore.
ERMES RONCHI (Avvenire 10 /11/2022)

XXXIII Domenica Tempo ordinario – Anno C
Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». (…) Diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. (…) Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Il Vangelo adotta linguaggio, immagini e simboli da fine del mondo; evoca un turbinare di astri e di pianeti in fiamme, l’immensità del cosmo che si consuma: eppure non è di questo che si appassiona il discorso di Gesù. Come in una ripresa cinematografica, la macchina da presa di Luca inizia con il campo largo e poi con una zoomata restringe progressivamente la visione: cerca un uomo, un piccolo uomo, al sicuro nelle mani di Dio. E continua ancora, fino a mettere a fuoco un solo dettaglio: neanche un capello del vostro capo andrà perduto. Allora non è la fine del mondo quella che Gesù fa intravvedere, ma il fine del mondo, del mio mondo. C’è una radice di distruttività nelle cose, nella storia, in me, la conosco fin troppo bene, ma non vincerà: nel mondo intero è all’opera anche una radice di tenerezza, che è più forte. Il mondo e l’uomo non finiranno nel fuoco di una conflagrazione nucleare, ma nella bellezza e nella tenerezza. Un giorno non resterà pietra su pietra delle nostre magnifiche costruzioni, delle piramidi millenarie, della magnificenza di San Pietro, ma l’uomo resterà per sempre, frammento su frammento, nemmeno il più piccolo capello andrà perduto. È meglio che crolli tutto, comprese le chiese, anche le più artistiche, piuttosto che crolli un solo uomo, questo dice il vangelo. L’uomo resterà, nella sua interezza, dettaglio su dettaglio. Perché il nostro è un Dio innamorato. Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura, dove tutto cambia; ad ogni tornante di distruttività appare una parola che apre la feritoia della speranza: non vi spaventate, non è la fine; neanche un capello andrà perduto…; risollevatevi….

Che bella la conclusione del vangelo di oggi, quell’ultima riga lucente: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, occhi alti, liberi, profondi: così vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, e guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che appare: viene continuamente qualcuno il cui nome è Liberatore, esperto in nascite. Mentre il creato ascende in Cristo al Padre/ nell’arcana sorte / tutto è doglia di parto: /quanto morir perché la vita nasca! (Clemente Rebora). Il mondo è un immenso pianto, ma è anche un immenso parto. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Ma quando il Signore verrà, troverà ancora fede sulla terra? Sì, certamente. Troverà molta fede, molti che hanno perseverato nel credere che l’amore è più forte della cattiveria, che la bellezza è più umana della violenza, che la giustizia è più sana del potere. E che questa storia non finirà nel caos, ma dentro un abbraccio. Che ha nome Dio.

(Letture: Malachia 3,19-20a; Salmo 97; Seconda Lettera ai Tessalonicesi 3,7-2; Luca 21,5-19)

 




Infelice chi guarda solo a se stesso
P.Ermes Ronchi

Infelice chi guarda solo a se stesso

P. Ermes Ronchi (21/10/2010)

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, denuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, adorare Dio e umiliare i suoi figli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, come il fariseo, con un peccato in più.
Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sbagliato: ti ringrazio di non essere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. Non si confronta con Dio, ma con gli altri, e gli altri sono tutti disonesti e immorali. In fondo è un infelice, sta male al mondo: l’immoralità dilaga, la disonestà trionfa… L’unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.
Io digiuno, io pago le decime, io… Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, stregate, che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a niente, è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male, e il male sono gli altri. Che è un modo terribilmente sbagliato di pregare, che può renderci «atei». Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane. Il fariseo ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro essere.

Il pubblicano non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Abbi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera e la fanno vera.
La prima parola è “tu”: Tu abbi pietà. Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa, il pubblicano la edifica attorno a quello che Dio fa.
La seconda parola è: “peccatore”, io peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: «sono un ladro, è vero, ma così non sto bene; non sono onesto, lo so, ma così non sono contento; vorrei tanto essere diverso, non ci riesco; e allora tu perdona e aiuta».
Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – a un Dio più grande del suo peccato, vento che fa ripartire. Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
(Letture: Siracide 35,15-17.20-22; Salmo 34 (33) ; 2 Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14)




La lezione di preghiera della vedova
P. Ermes Ronchi

La lezione di preghiera della vedova.
Ermes Ronchi (Avvenire 14/10/2010)

XXIX Domenica Tempo Ordinario – Anno C

Per mostrarci che bisogna pregare sempre senza stancarsi Gesù ci invita a scuola di preghiera da una povera vedova. Lungo tutto il vangelo il Maestro rivela come una predilezione particolare per le donne sole e le rende strumento di verità decisive. C’era un giudice corrotto in una città. E una vedova si recava ogni giorno da lui: fammi giustizia! Che bella immagine di donna forte, dignitosa; che non si arrende all’ingiustizia e nessuna sconfitta l’abbatte. In questa donna, fragile e indomita, Gesù mostra due cose: il modo di chiedere (con tenacia e fiducia) e il contenuto della richiesta. La vedova chiede giustizia a chi fa la giustizia, chiede al giudice di essere vero giudice, di essere se stesso. E così accade nel nostro andare da Dio: pregare è in fondo chiedere a Dio di darci se stesso. Ed è tutta la prima parte del Padre Nostro: sia santificato il tuo nome…, sia fatta la tua volontà. Che è come chiedere Dio a Dio: donaci te stesso! Il grande mistico Maister Eckart diceva: Dio non può dare nulla di meno di se stesso. E Caterina da Siena aggiungeva: ma dandoci se stesso ci dà tutto. Ma allora perché pregare sempre? Non perché la risposta tarda, ma perché la risposta è infinita. Perché Dio è un dono che non ha termine, mai finito. E poi per riaprire i sentieri. Se non lo percorri spesso, il sentiero che conduce alla casa dell’amico si coprirà di rovi. Vanno sempre riaperti i sentieri del Dio amico. Ma come si fa a pregare sempre? A lavorare, incontrare persone, studiare, dormire e nello stesso tempo pregare? Innanzitutto pregare non significa recitare preghiere, ma sentire che la nostra vita è immersa in Dio, che siamo circondati da un mare d’amore e non ce ne rendiamo conto. Pregare è come voler bene. Se ami qualcuno, lo ami sempre. Qualsiasi cosa tu stia facendo non è il sentimento che si interrompe, ma solo l’espressione del sentimento. «Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre. Quand’è che la preghiera sonnecchia? Quando si raffredda il desiderio» (sant’Agostino). Pregare sempre si può: la preghiera è il nostro desiderio di amore. Ma Dio esaudisce le preghiere? Sì, Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste bensì le sue promesse (Bonhoeffer): il Padre darà lo Spirito Santo (Lc 11,13), io e il Padre verremo a lui e prenderemo dimora in lui (Gv 14,23). Non si prega per ricevere ma per essere trasformati. Non per ricevere dei doni ma per accogliere il Donatore stesso; per ricevere in dono il suo sguardo, per amare con il suo cuore.

(Letture: Esodo 17, 8-13; Salmo 120; 2 Timòteo 3, 14-4,2; Luca 18, 1-8).




La potenza di un granellino di fede
P.Ermes Ronchi

La potenza di un granellino di fede

27a Domenica Tempo Ordinario- Anno C

Ermes Ronchi (Avvenire 30/09/10)

Gli apostoli dissero al Signore: accresci in noi la fede. Nel Vangelo tutte le preghiere, di uomini donne malati peccatori discepoli, stanno dentro due sole domande. La prima: Signore, abbi pietà; la seconda: aumenta la nostra fede. Qui è riassunto l’universo del cuore, il nostro mondo di dolore e di mistero. 

Aumenta la fede: perché senza fede non c’è vita umana. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? Noi ci umanizziamo per relazioni di fiducia, a partire dai genitori, a cominciare dalla madre. Fede che una forza immensa penetra l’universo.  

Se aveste fede quanto un granellino di senape. Un granellino microscopico, basta pochissima fede, quasi niente: è questione di qualità, non di quantità. Non una fede sicura e spavalda, ma quella che nella sua fragilità ha ancora più bisogno di Dio, che nella sua piccolezza ha ancora più fiducia in Lui, e si abbandona, si affida.  

Potrete dire a questo gelso sradicati e vai a piantarti nel mare. Ho visto il mare riempirsi di alberi. Fuori metafora: ho visto missionari vivere in luoghi impossibili; ho visto uomini e donne di fede, nella loro casa, portare problemi senza soluzione, con un coraggio da leoni; ho visto mura invalicabili di odio dissolversi. Ho visto gelsi volare sul mare, e non attraverso miracoli spettacolari, ma con il miracolo quotidiano di un amore che non si arrende. 

Anche voi, quando avete fatto tutto dite: siamo servi inutili. Una parola che sembra contraddire altri passi del Vangelo (beato quel servo… il padrone lo metterà a tavola e passerà a servirlo), che ci sorprende con l’aggettivo «inutili». Inutile in italiano significa che non serve a niente, incapace. Ma non è questo il senso della parola originaria: servi non tanto inutili, ma che non si aspettano un utile, che non ricercano un vantaggio; servi senza pretese, né rivendicazioni, né secondi fini, che di nulla hanno bisogno se non di essere se stessi, che agiscono senza un fine che non sia la sola motivazione d’amore. Scrive Madre Teresa di Calcutta: nel nostro servizio non contano i risultati, ma quanto amore metti in ciò che fai. Il servizio è più vero dei suoi risultati, più importante della ricompensa e dei successi. Fede vera non è piantare alberi nel mare, neanche Gesù l’ha mai fatto. Fede vera è nel miracolo di dire: voglio essere semplicemente servitore di quelle vite che mi sono affidate: mio marito, mia moglie, i miei figli, l’anziano che ha perso la salute, e non avanzo neppure la pretesa della sua guarigione. Servitore come il mio Signore, venuto per servire, non per essere servito. Mi bastano allora grandi campi da arare, un granellino di fede, e occhi nuovi di speranza. (Letture: Abacuc 1,2-3;2,2-4; Salmo 94; 2 Timoteo 1,6-8.13-14; Luca 17,5-10)