12 ottobre 2025. Domenica 28a
GRAZIE!

28 domenica C

 Preghiamo. O Dio, fonte della vita temporale ed eterna, fa’ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio che è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 Dal secondo libro dei Re 5,14-17
[una ragazza, che era finita al servizio della moglie di Naamàn disse alla padrona: “Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria, certo lo libererebbe dalla sua lebbra”…..]. In quei giorni, Naamàn [il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato dalla sua lebbra. Tornò con tutto il seguito da Elisèo, l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.  Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».
Salmo 98 (97)  Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.
Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni!
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 2,8-13.
Carissimo, ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.  Certa è questa parola:  Se moriamo con lui, vivremo anche con lui;  se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo;  se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà;  se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele,  perché non può rinnegare se stesso.
Luca 17, 11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». 

  RENDIAMO GRAZIE AL SIGNORE. Don Augusto Fontana

Noi siamo spesso più brontoloni per ciò che ci manca che grati per ciò che ci vien dato; siamo più spesso mendicanti per ottenere che riconoscenti per quanto ottenuto. La riconoscenza, la gratitudine, il dire grazie è merce rara nella fitta rete dei rapporti umani e religiosi. E quando, a volte, diciamo grazie o ricambiamo un favore lo si fa per sdebitarci e chiudere il conto o per garantirci un eventuale successivo intervento da parte di chi ci ha fatto un piacere. E questo sia con gli uomini che con Dio.
Luisa e Maria sono rispettivamente suocera e nuora. La nuora tiene le distanze dalla suocera, ma questa un giorno le fa un regalo per il compleanno; regalo immediatamente ricambiato con un ugual regalo perchè, dice la nuora, “non voglio avere conti aperti con mia suocera“. Anche Luigi, uscendo dall’ambulatorio medico, allunga una mancia allo specialista che lo ha visitato perchè, pensa, “Non si sa mai, posso sempre aver ancora bisogno“. E per molti di noi, Dio è molto simile ad una pompa di benzina da cui attendiamo che escano guarigioni, promozioni, lavoro, vincite, benedizioni e requiem eterna per i morti. E’ così difficile relazionarci con Dio e con gli uomini in un maturo atteggiamento di riconoscenza.
Dire “grazie” è uno dei gesti fondamentali della vita di relazione ed è alla base dell’opera educativa e formativa della personalità. E’ il modo più vero per riconoscere che siamo esseri in dialogo e in interscambio. Quando si è acquisito questo diffuso senso della riconoscenza non ci basta più “dire grazie” e si passa alla “azione di grazie” che è uno scambio concreto di gesti e di servizi. Dire e fare riconoscenza è ciò che definisce il nome nuovo della «Messa» che, dopo il Concilio Vaticano II, si chiama «Eu-caristia»; il termine deriva da due parole della lingua greca che significano “Bene, grazie“: una grazia che scende da Dio e un grazie che sale a Lui non solo dalle labbra, ma anche da una vita coerente.
Le letture bibliche di oggi ci annunciano diversi temi a cui farò cenno, fermandomi poi su quello dello stupore e della riconoscenza.
Dio tra pagani, samaritani, impuri e servette.
Il “Raccontino popolare” del Libro dei Re contiene diversi elementi narrativi a cui corrispondono diversi elementi teologici: il Dio di Israele non è un Dio esclusivista e salva tutti anche fuori dai confini religiosi di Israele; Dio si serve di cause umili per operare le sue meraviglie (i versetti 1-13, omessi dalla prima lettura liturgica, narrano di una ragazzina ebrea schiava che invita Naaman a recarsi dal profeta giudeo);  Naaman è pagano, ma accetta di andare a cercare la salvezza anche da altro Dio diverso dal suo.
Anche il Vangelo di oggi stupisce per lo squarcio che apre nel rigido tessuto della mia mentalità cattolica. Circolano (anche oggi, come ieri) persone moralmente infettive e giuridicamente samaritane. Allora era prassi per i lebbrosi non poter entrare nel Tempio, abitare fuori dalla convivenza, avvisare le persone di stare lontani. Ed era prassi che i sacerdoti del Tempio accertassero l’eventuale avvenuta guarigione autorizzando gli impuri ad accedere di nuovo all’assemblea di culto. Gesù è il vero Santuario a cui tutti vengono ammessi. Gesù è il vero sacerdote che riammette nel culto. Quello che ritorna è un samaritano. Luca prosegue nella sua catechesi sui pagani. Per dieci di loro ci fu la guarigione. Per uno di loro ci fu anche la salvezza. Il verbo “Alzati!” (anìstemi) significa «risorgi» e «mettiti in piedi e va’». Gesù non dice «Seguimi», ma semplicemente «Va’». E non è la prima volta. Valérie Le Chevalier scrive[1]: «Occorre ritornare sul fatto delicato che questa fe­de che salva non sfocia sempre nella chiamata esplicita alla sequela, propria del discepolo. Gesù rinvia alla vita ordinaria: “Va’! Torna a casa tua!”. Simmetrica­mente, i vangeli non descrivono mai una chiamata a diventare discepoli in risposta a un atto di fede verso Gesù. Di più: il ritorno al quotidiano è un imperati­vo categorico a cui le persone non possono sottrarsi; soltanto Bartimeo “disobbedisce” a Gesù mettendosi a seguirlo nonostante l’ingiunzione del “Va’!” (Mc 10,52). […] Gesù, in modo inequivocabile, invita queste persone a ritrovare il loro posto, la loro dignità là dove erano escluse, e così dare testimonianza di quell’esperienza di sal­vezza; e ciò senza garanzia né servizio di assistenza da parte sua. Con tali rinvii Gesù sacralizza anche la vita ordinaria e sedentaria, quella del resto da cui egli stesso proviene, lui che ha trascorso circa trent’anni nell’anonimato di Nazaret, propedeutico alla sua vita pubblica».
Nulla fare senza benedire (dire-bene-di) Dio.
Nel brano del Vangelo esiste un riferimento all’Eden: i corpi immersi nel caos della malattia ritornano nella bellezza originaria, nella creazione ristabilita. I doni di Dio non sono solo spirituali, ma sono i beni della terra, l’insieme di tutto ciò che forma l’habitat degli uomini (compresa l’amicizia). L’identità dell’uomo consiste nella fruizione di questi beni, accolti e riconosciuti come provenienti dalla benevolenza di Dio, come donati, come grazia.
La tradizione ebraica insegna che qualsiasi rapporto dell’uomo con le cose e gli eventi deve essere accompagnato dalla preghiera di benedizione. Prima di nutrirsi di pane l’ebreo credente sarebbe tenuto a pregare “Benedetto sei tu Signore nostro Dio, re dell’universo che produci il pane della terra“. E prima di bere un bicchiere di vino ” Benedetto sei tu nostro Signore, re dell’universo, che hai creato il frutto della vite“. Utilizzando un profumo: “Benedetto sei tu che crei erbe profumate“. Ricevendo una buona notizia: “Benedetto tu che sei buono e fai il bene“.
Questo “dire bene”, bene-dire, con cui il credente ebreo avrebbe dovuto ritmare la giornata, definisce l’identità di Dio come “Colui che fa il bene”, e l’identità dell’uomo “come colui che ringrazia bene”. Dove manca questo “dire-bene/bene-dire” va a finire che Dio, l’uomo e il mondo si sfigurano e l’esperienza paradisiaca dell’Eden diventa infernale. Le vicende odierne di Gaza ne sono la prova. Il disastro ecologico del pianeta ne sono la prova. Adamo ed Eva cessano il rapporto paradisiaco quando cessano la benedizione e vogliono diventare proprietari e padroni dei beni.  Chi è incapace di dire-bene è incapace di godere del bene e stare bene. Gesù si presenta come colui nel quale Dio vuole continuare ad essere il Dio dei beni donati. Per questo il lebbroso samaritano torna per “rendere gloria a Dio“.
La riforma liturgica ha fatto passare da 16 a 81 i Prefazi (quella solenne preghiera a cui facciamo seguire il canto del “Santo”). Ciò è avvenuto per poter motivare più esistenzialmente la lode riconoscente ed esprimere la coscienza di essere inseriti, qui e oggi, nella storia della salvezza. Il cristiano non è colui che “chiede grazie”, ma colui che “rende grazie”. L’uomo eucaristico, l’uomo della riconoscenza, è l’opposto dell’individuo che rivendica, pretende, reclama, conquista. Essere uomini/donne eucaristici significa pensare la vita non come un prendere ma come un ricevere.  Occorre essere capaci di sorpresa, di gioia, di  capacità di scrutare negli avvenimenti la benevolenza di Dio. Diamo tutto troppo per scontato, dalla vita alla amicizia, dalla Parola di Dio al Pane eucaristico, alla pace. E soprattutto siamo troppo ingessati, immusoniti, lugubri.
Oggi celebriamo la fede come benedizione e riconoscenza; come riconoscimento che “grandi cose ha fatto il Signore per noi”. Dire grazie é uno dei gesti fondamentali della vita di relazione. Dire grazie dona senso e bellezza alla vita; é innanzitutto la riconoscenza a qualcuno che ti fa vivere. E’ la consapevolezza di un dono che ti benefica prima ancora che tu possa meritarlo o ricambiare. Come scrive Deuteronomio 8: Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto. Egli ti ha nutrito di manna,  per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie perché sta per farti entrare in un paese ricco di torrenti, frumento, orzo, viti, fichi, melograni, ulivi,  olio e miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla e benedirai il Signore Dio tuo. Quando avrai mangiato a sazietà, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile. Guardati dunque dal pensare: “la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze”. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché Egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri.
Il Talmud[2] ebraico (Trattato delle benedizioni, 35a) scrive:Non godere dei beni di questo mondo senza dire una benedizione.  Nella nostra educazione cattolica tradizionale, le benedizioni del cibo, della casa o del matrimonio erano intese come se le cose umane fossero maledette o impure senza benedizione. Nel Talmud la benedizione è stupore: si benedice Dio, non la cosa che viene da lui.


[1] Valérie Le Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqajon, 2019, pagg.62-63
[2] Talmud significa “istruzione”;  è una raccolta di commenti rabbinici e note sulla Mishnah che è la tradizione orale ebraica.




5 ottobre 2025. Domenica 27a
Signore, migliora la nostra fede!

27° domenica C

 Preghiamo. O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede quanto un granello di senapa, donaci l’umiltà del cuore, perché, cooperando con tutte le nostre forze alla crescita del tuo regno, ci riconosciamo servi inutili, che tu hai chiamato a rivelare le meraviglie del tuo amore. Per Gesù Cristo, il nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Abacuc 1,2-3; 2,2-4
Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Il Signore rispose e mi disse: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà”.  Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.
Salmo 94.  Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 1,6-8.13-14
Carissimo, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.
Dal Vangelo secondo Luca 17,5-10
[vv.1-4 omessi dalla liturgia: Disse ancora ai suoi discepoli: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. 4 E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai»]. Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?  Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili (senza utile). Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

SIGNORE, MIGLIORA LA NOSTRA FEDE! Don Augusto Fontana

La nostra fede talvolta si indebolisce perchè i fatti la smentiscono. Le cose nella nostra vita, pubblica e privata, vanno in modo diverso da come ci si aspettava o da come era stato promesso da Dio. La fede pare non modificare nulla: non solo non muove le montagne o i gelsi, ma non sposta nemmeno un calcolo della cistifellea o il tracciato di un drone assassino. E’ la crisi del profeta Abacuc: «Perchè, Signore, mi fai vedere iniquità e resti spettatore di oppressione?». E’ la domanda tipica della preghiera di lamento: «Fino a quando?». L’espressione ebraica “gridare aiuto” indica l’uomo in fin di vita, ma di solito corrisponde più ad un reclamo che ad una preghiera di soccorso, come griderà Giobbe (19,7): «Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia». Sono passati 28 secoli dal profeta Abacuc e 22 secoli da Gesù e la “scadenza” promessa tarda ancora a venire. Quando si crede nel Padre, in Gesù e nello Spirito Santo tenendo il giornale in mano, si capisce subito che la fede è coinvolta e viene compromessa nello scandalo dei fallimenti personali e collettivi.
Una promessa che geme come una partoriente.
Il libro di Abacuc è un libretto di soli 3 capitoli per una delle ultime cerimonie liturgiche del Tempio prima che Gerusalemme venisse distrutta (586 a.C.). La tragedia la si sente nell’aria. I Caldei minacciano la città e il re Joakim sta esercitando sulla regione di Giuda (al Sud) una forte tirannia. Il popolo si riunisce nel tempio e domanda al profeta di esprimere a Jahwè il suo lamento. Il profeta presenta 3 reclami: «Signore sei distratto e non vedi e non senti; Signore, ci hai insegnato la giustizia e così ci hai reso ancora più sensibili alle ingiustizie; Signore, con il tuo assenteismo io potrei perdere la fiducia in te».
Il profeta, tuttavia, dopo tanto realismo, si apre ad una dimensione di speranza. Egli è come sentinella che si sforza di guardare da un punto di osservazione che potrebbe essere il Tempio o il silenzio della coscienza o la Parola. Da questo punto di osservazione egli riceve una Rivelazione: il termine ebraico CHAZON è da tradursi con RIVELAZIONE più che con VISIONE perchè nella fede c’è il sopravvento dell’udire sul vedere. Anche se la rivelazione deve essere scritta su un documento ufficiale e verificabile (“tavoletta”).
La rivelazione SI AFFRETTA, INCALZA (2,2-3) cioè, “respira con affanno, sbuffa come una partoriente“. Come una nascita può avere qualche ritardo, così si può ritardare l’avverarsi della rivelazione, ma si tratta solo di tempo. Nasce allora la fede come pazienza e fedeltà che si nutre del ricordo delle azioni passate di Dio. Il giusto rimane in vita perchè si ABBARBICA a Dio. Il termine HAMAN (= credere = amen) indica il RIMANERE SALDO. Il giusto prende sul serio Dio in quanto Dio. La fede diventa il coraggio di resistere. Da “fede” deriva “fedele”, cioè colui che non fa resa, ma resistenza. «Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede» ( I Giovanni 5,4). La fede non è più un potere, un punto esclamativo, ma un interrogativo sempre aperto, anche nel cuore di Dio: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18,8).
AAA. Adulti nella fede cercasi.
Gesù aveva messo un’ipoteca sull’uso dei nostri beni e sul nostro rapporto con i poveri (lo abbiamo ascoltato nelle due domeniche scorse). Ora (versetti 1-4, omessi, ahimè, dalla liturgia di oggi) pronuncia parole dure per chi semina scandalo e invita a perdonare anche fino a sette volte al giorno. Omettendo quei 4 versetti non si capisce bene questa improvvisa preghiera/esclamazione dei discepoli: “Aggiungici fede!”. Il Signore chiedeva davvero cose impossibili: «non lasciatevi risucchiare dal comportamento conformista, perdonate sette volte al giorno». Ce n’era a sufficienza perchè i discepoli restassero a bocca aperta sentendosi deboli e inadeguati. Per questo intuiscono che la fede va pregata, invocata: “Signore aumenta la nostra fede, dacci ancora la fede, aggiungici fede“. A dire il vero, Pietro una volta aveva tentato di gonfiare i pettorali e alzare le piume come un galletto in amore, quando il Signore gli aveva detto: «Pregherò per te povero amico mio!». E lui: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». E si era beccato sui denti una mazzata umiliante: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» (Luca 22,33-34).
Anche per i primi apostoli e discepoli la fede non è un atteggiamento garantito, inerte, dato una volta per sempre. La fede è sempre “poca” e noi siamo sempre “uomini di piccola/poca fede”. Gesù non ha mai chiamati i suoi: “monsignore, eccellenza, santo padre, reverendo, santità….”. Sembra che Gesù ci voglia chiamare, senza tante scuse, con un unico titolo nobiliare: “Gente di poca/piccola fede”. Matteo e Luca ce lo hanno più volte ricordato:
«Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6,30);
«Ed egli disse loro: Perché avete paura, uomini di poca fede?  Quindi alzatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia» (Mt 8,26);
«E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14 31);
«Gesù chiese:  «Perché, uomini di poca fede, andate dicendo che non avete pane?»(Mt 16, 8);
«…avete poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa[1], potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20);
«Se dunque Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede?» (Luca 12,28).
E’ forse per questo che Gesù, rivolto a Simone e quindi a tutti noi, promette: «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te che non venga meno la tua fede» (Luca 22, 31-33).
Il problema è che io sono adulto in età, ma infantile nella mia fede. La fede avrebbe dovuto crescere con l’età, di pari passo con i problemi gravi del vivere quotidiano, per resistere ai venti delle crisi. Non si tratta di aumentare la “quantità” della fede, ma la sua “qualità”; oggi potremmo pregare così: «Signore, migliora la nostra fede, rendila adulta».
«Siamo adulti per quel breve momento che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l’ultima volta le cose della terra e abbiamo rinunciato a possederle, le abbiamo restituite alla volontà di Dio»[2]. Essere adulti oggi è un compito difficile. Un tempo l’adulto appariva come colui che era «cresciuto», aveva portato a compimento i progetti della sua giovinezza, aveva fatto delle scelte chiare e irrevocabili. In questa visione l’adulto si sente «completo», è l’uomo che pensa di non aver più nulla da imparare, che si considera ormai arrivato e realizzato. Il nostro tempo invece ha scoperto l’incompiutezza dell’adulto, le sue crisi di mezz’età (midlife crisis), la necessità di una formazione permanente che eviti la fissazione delle persone in un ruolo o la stanca ripetizione di gesti e parole consumate dall’uso. Anche l’adulto conosce la paura e l’incertezza; ha dei desideri non realizzati e deve saper accettare i propri limiti. Se questo è vero dal punto di vista psicologico e umano, è tanto più vero in una prospettiva di fede. I documenti ufficiali della chiesa riconoscono che gli adulti «sono soggetti esposti a cambiamenti e crisi talora assai profonde»[3]  e dichiarano che la catechesi agli adulti deve considerarsi come «la forma principale della catechesi»[4]. Tuttavia, di fronte a questi solenni enunciati, si deve francamente costatare che si è ancora molto lontani dall’aver dato la priorità alla evangelizzazione e alla catechesi degli adulti, i quali peraltro non si lasciano facilmente “catechizzare”. La catechesi italiana appare ancora sostanzialmente infantile e finalizzata ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, che diventano occasione per coinvolgere i genitori in «corsi accelerati» di aggiornamento catechistico. La vita dell’adulto è accompagnata da crisi, anche di fede; anche le crisi possono diventare esperienza spirituale in cui prendere coscienza del «passaggio di Dio» nella vita di ciascuno. L’adulto nella fede è colui che ha radici permeabili, elastiche; è come una pianta che affonda le sue radici nell’humus della Parola e che poi porta frutto: «Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore» (Salmo 94). Ma è anche colui che sa di aver ricevuto tutto, di essere stato perdonato e guarito. Anche il servo della parabola paradossale di oggi è un servo che non può accampare diritti, pretese o crediti nei confronti di Dio. Il testo liturgico di oggi traduce: “siamo servi inutili“. Non è esatto, perché lo schiavo che fa il suo servizio non è “inutile”! Luca, nel suo testo greco, usa il termine a-chreioi che significa “senza-utile“, cioè senza guadagno, gratuitamente. E «se la promessa indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà…il giusto vivrà per la sua fede/fedeltà». Praticamente: una fede adulta.


[1] Un grano piccolissimo di senapa produce, in Palestina, sul lago di Tiberiade, un albero di 4 metri (Matteo 13, 32).
[2] Natalia Ginzburg, Le piccole virtù
[3] Direttorio generale della catechesi, 1997
[4] Catechesi tradendae, n.43




28 settembre 2025. Domenica 26a
Il mio Paradiso dipende…da Lazzaro.

Preghiamo. O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per Gesù Cristo nostro Signore
Dal libro del profeta Amos 6,1.4-7.
Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.
Salmo 145.  Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri. Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 6,11-16
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.  E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

IL MIO PARADISO DIPENDE…DA LAZZARO. Don Augusto Fontana

Ho incontrato Marco. Non è cambiato. Nel senso che si fuma ormai da 10 anni i suoi due pacchetti di sigarette al giorno, si scola grappini e bianchetti come giaculatorie e, siccome fa il benzinaio, si idrocarbura quotidianamente con metri cubi di esalazioni petrolchimiche. Che Dio gliela mandi buona; ma mi pare che il suo futuro prossimo sia ipotecato. Senza voler essere fatalisti: il nostro domani (individuale e collettivo, ecologico e politico, spirituale ed economico) ce lo giochiamo nell’oggi. Anche per l’Evangelista Luca il tempo della Chiesa, il tempo storico che ciascuno vive, l’oggi, è abitato dal Risorto e quindi diventa un tempo decisivo, da viversi nella coscienza che il domani è già nell’oggi, che saremo ciò che siamo, che urgono decisioni sagge, quasi scaltre come quelle che i figli delle tenebre sanno usare per approfittare sempre e di tutti o ridurre i danni in caso di crisi incombente.
Luca, tra le sue “ossessioni”, annovera quella dei poveri e del denaro: la posizione del discepolo davanti al povero e al denaro risulta decisiva ai fini del trasferimento della risurrezione nell’oggi. Di Luca conosciamo il brano del RICCO STOLTO (12,13-21), dell’AMMINISTRATORE SCALTRO E SAPIENTE (16,1-13), di ZACCHEO (19,1-10), la serie di GUAI nelle sue Beatitudini (6,24-26), la storia di ANANIA e SAFFIRA (Atti degli Apostoli 5,1-11) e soprattutto la proclamazione messianica di Gesù nella SINAGOGA DI NAZARET (4,14-30). A questa sua “ossessione” appartiene anche il brano di oggi: la sorte del NABABBO STRAVACCATO dipende dal povero Lazzaro (16,19-31).
La Bibbia non è nuova a queste denunce. Il brano di Amos, riportato nella liturgia odierna, non è che un frammento di un vasto repertorio di denunce profetiche di cui abbiamo già avuto un assaggio domenica scorsa. Amos è un contadino pecoraio. Interviene nel Regno del Nord sotto Geroboamo II. La congiuntura politica ed economica di questo VIII secolo a.C. ha causato nel Regno del Nord, come in quello del Sud, una profonda frattura tra la classe dei garantiti, che hanno maggior profitto dagli avvenimenti, e la classe dei poveri, più indifesi che mai. Amos si rivolge ai garantiti che sono indifferenti (non vedono e non sentono) di fronte alle povertà e usa il genere letterario della “Invettiva” che è composta da un vero e proprio giudizio a cui fa seguito una sentenza. Il profeta intuisce, dai segni dei tempi, che Israele sta camminando verso la rovina; il “Giorno di Jahwè” coglierà di sorpresa quelli che fanno baldoria e si appoggiano a false sicurezze. Si rivolge a loro con il termine “guai” o meglio sarebbe dire “ahimè”  (in ebraico hoj) che è il tipico urlo di lamento in occasione di riti funebri; quindi sembra voler avvertire che costoro si mettono fuori dalla vita. Amos paga con l’espulsione. Di fatto nel 722 il re di Assiria, Sargon II, rade al suolo Samaria, capitale del Nord, e i rammolliti sono costretti ad alzarsi dai loro divani e a scorticarsi i piedi delicati lungo le strade sassose della deportazione in Mesopotamia. La confraternita degli stravaccati aprirà il corteo degli esiliati. I primi nella ricchezza sono i primi nell’esilio. Ormai è troppo tardi per correre ai ripari.
Luca costruisce la Parabola esemplificativa dividendola in due quadretti: uno si costruisce intorno alla tavola ed ha come protagonisti il ricco (anonimo perchè ci rappresenta tutti) e Lazzaro (El-azar in ebraico significa “Elohim[Dio]-aiuta”); l’altro si costruisce attorno ad Abramo ed ha come protagonisti anche i 5 fratelli del ricco. E’ un po’ come la parabola del Padre misericordioso che mette in campo il figlio minore e quello maggiore in due sezioni dello stesso racconto.
Luca non fa il moralista. Non gli interessa puntualizzare se il ricco e Lazzaro sono buoni o cattivi. Li coglie brutalmente nella loro condizione sociale: da una parte c’è chi si veste e mangia bene in casa propria e dall’altra c’è uno senza casa, nudo, affamato, malato, con l’unica compagnia dei cani che, essendo considerati animali impuri, gli trasmettono l’impurità rituale e sociale. Il rovesciamento delle sorti è prefigurato non come effetto di vizi o virtù, ma in base ai rapporti che gli uomini hanno tra loro e quindi con Dio.
La Parabola ha un chiaro riferimento cristologico: chi è questo Lazzaro se non Gesù, le cui piaghe sono leccate dai pagani (considerati dei “cani impuri” dai giudei)? Come si fa a non intravedere Gesù la cui situazione viene ribaltata da Dio con la risurrezione?
Ma la parabola è densa anche di catechesi per la Chiesa:

1- Quando entra il Regno di Dio e le sue logiche, le situazioni si ribaltano. I garantiti si dimostrano fisiologicamente incapaci di optare per le nuove logiche introdotte da Gesù. I poveri sono potenzialmente più aperti ad esse. Ciò non significa che Lazzaro non desiderasse, segretamente, di diventare come il ricco; questa è la beffa maggiore: le società dei consumi hanno drogato le coscienze dei poveri.

2- Si viene salvati non dai miracoli, ma dall’ascolto della Parola di Dio. Nel vangelo di Giovanni si narra che di fronte alla rianimazione di un altro che aveva stranamente lo stesso nome (Lazzaro), non è garantita la conversione, anzi “da quel momento decisero di uccidere Gesù”. Il tempo della chiesa è il tempo nostro, fratelli del ricco anonimo, per accettare le provocazioni urgenti della Parola di Dio.

3-Quale fu il peccato del ricco? Non quello di essere ricco, né di aver rubato. La sua colpa non consiste in ciò che ha fatto, ma in ciò che non ha fatto. Non ha visto Lazzaro e quindi non lo ha amato. L’autosufficienza mette in condizione di peccato strutturale. I poveri dipendono dalla mollica di pane che i ricchi lasciano cadere dopo essersi pulite le dita, visto che non si usavano posate. Ora la posizione si ribalta: la sorte dei ricchi dipende da Lazzaro. Dipendiamo dai poveri, abbiamo bisogno di loro per de-satellizzarci e divenire capaci di accogliere il TUTT’ALTRO. Abbiamo bisogno delle piaghe di Gesù.

4- La parabola non è un invito a rassegnarsi, a non indignarsi contro l’ingiustizia aspettando solo un al-di-là nel quale Dio regolerà tutti i disordini e gli eccessi umani. Inteso così, il messaggio evangelico favorirebbe un conformismo spregiudicato che aiuterebbe a mantenere il disordine stabilito. Certo: la parabola è una promessa per il futuro, ma guarda alla vita presente e viene rivolta ai cinque fratelli del ricco, a chi, come noi, viene concesso ancora un po’ di tempo, come a quel fico sterile della parabola di Luca (cap 13,6-9): «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai».

5- Il Dio dei profeti e di Gesù non è amico di una religione che separa il culto dalla vita, l’incenso dalla pratica dell’amore al prossimo. Questo Dio, secondo il Salmo 145 di oggi, condivide la sorte del povero, dell’orfano, della vedova e dello straniero; con tutti quelli a cui i potenti hanno ridotto il diritto di una vita vissuta con dignità. Scrisse Georges Bernanos: “Io affermo che i poveri salveranno il mondo e che lo salveranno senza volerlo, lo salveranno nonostante se stessi e che non chiederanno nulla in cambio, semplicemente perché non sapranno il prezzo del servizio che hanno prestato”.   A distruggere il mondo non sarà il terrorismo, ma la rabbia dei poveri.
«Se non agiamo adesso, nei prossimi anni le disuguaglianze saranno gigantesche e si trasformeranno in una bomba ad orologeria che esploderà in faccia ai nostri figli» (J.Wolfensohn, ex Presidente della Banca Mondiale). Che è come dire: se non per convinzione, facciamolo almeno per paura.




21 settembre 2025. Domenica 25a
AMMINISTRATORE SAGGIO CERCASI.

Domenica 25a

Preghiamo. O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla avidità delle ricchezze, e fa’ che, alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Amos 8,4-7.
Ascoltate queste parole, voi che schiacciate i poveri e trattate gli umili come prigionieri di guerra.  Proprio voi che dite: «Quant’è lungo il sabato! Ma quando finisce la festa della luna nuova? Noi dobbiamo vendere il nostro grano! Possiamo aumentare i prezzi, falsificare le misure e truccare le bilance. Venderemo anche il grano di scarto! Ci saranno certamente dei poveri che non possono pagare i loro debiti, neppure per un paio di sandali. Allora li compreremo come schiavi». Per l’arroganza dei discendenti di Giacobbe il Signore ha giurato: «Non dimenticherò mai i loro misfatti».
Salmo 112.  Benedetto il Signore che rialza il povero.
Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore.
Sia benedetto il nome del Signore, da ora e per sempre.
Su tutte le genti eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria.
Chi è come il Signore, nostro Dio, che siede nell’alto e si china a guardare sui cieli e sulla terra?
Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i prìncipi, tra i prìncipi del suo popolo.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 2,1-8
Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
Dal Vangelo secondo Luca 16,1-13
Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto (tes adikias=di ingiustizia), perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza (gr: mamôna)».

AMMINISTRATORE SAGGIO CERCASI. Don Augusto Fontana

Quante volte hai visto dai telegiornali le forze dell’ordine che, dopo aver scoperto bunker segreti scavati dai mafiosi sotto terreni e coltivazioni, mostravano tra gli arredi anche Bibbie consunte contornate da murales di immaginette sacre da far invidia ai migliori santuari. Come dire: Dio in una mano e il sangue di Abele o il pizzo estorto nell’altra. Ma io, che mafioso non sono, non mi sento poi così tranquillo in coscienza, in qualità di amministratore dei beni consegnatimi dal mio Signore.
L’importanza di chiamarsi furbi[1]
Le tre letture della Messa odierna concentrano la loro attenzione in modo curioso su una figura oggi molto attuale e discussa: quella dell’amministratore.
Per la verità, la liturgia ci offre tre differenti profili di questa professione:
– l’amministratore di beni propri (1a lettura)
– l’amministratore delegato (Vangelo)
– il pubblico amministratore: i re e tutti quelli che stanno al potere (2a lettura).
Sappiamo tutti anche troppo bene che una tentazione abbastanza comune tra chi amministra qualsiasi genere di bene materiale è quella della disonestà. I giornali e la TV ci presentano ogni giorno una rassegna incredibile di furberie e scaltrezze di ogni genere, mirate al raggiungimento di un solo obiettivo: l’esclusivo profitto e interesse personale. S. Paolo esorta a pregare intensamente per tutti i pubblici amministratori, perché non cadano in questa tentazione e ci garantiscano pace e giustizia.
Ma anche la furbizia (quella disonesta!) nell’ambito del privato viene stigmatizzata duramente. Nella prima lettura Amos ci riporta queste gravi parole del Signore: “Mai dimenticherò le opere loro”. E Luca ci riporta il “titolo onorifico” con cui Gesù aveva lodato il protagonista della sua parabola: amministratore “di ingiustizia” (greco: tes adikias). Non ci deve scandalizzare il fatto che Gesù stesso, nel Vangelo (Mt 10,16), ci esorti: «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». Ovviamente la Parola di Dio condanna tutto ciò che è disonesto e fraudolento, ma ci offre oggi nel Vangelo una chiave di riflessione originale sul tema della saggezza/furbizia.
Fede “low cost”.
Oggi impazzano i viaggi “low cost”, a basso costo; ci abbiamo fatto l’abitudine e il giochino ha infettato tutto, anche la mia dimensione di fede, la mia condizione di discepolo: sono un cristiano/prete “low cost” o, come ho detto in altre occasioni, ho una “fede light”, leggera come certi formaggi senza grassi. L’incombere della persecuzione o della continua venuta di Cristo poneva la comunità di Luca nella necessità di essere pronti a decisioni rapide, efficaci, efficienti e talvolta estreme. Anche noi oggi desidereremmo essere efficaci. Ma quando un cristiano e un non cristiano pronunciano la parola “efficacia” parlano la stessa lingua? Gesù, per esempio, ha detto: «Senza di me non potete far nulla, come il tralcio che non sta attaccato alla vite».
Ci viene richiesto di partecipare al culto, di pregare: quando una preghiera é efficace?
Siamo chiamati non a ritirarci dal mondo, ma ad essere nel mondo senza essere del mondo. Spesso il nostro cuore pulsa nelle vicinanze del borsellino (Luca 12,34: Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore). Come possiamo nutrire una spiritualità pasquale amministrando la nostra vita quotidiana? Nel XIV secolo lo scrittore mistico domenicano Giovanni Taulero, nella festa di Ognissanti parlava dei laici così: «Viene infine la folla della gente comune che va a Dio nelle cose e con le cose».
La Pasqua che celebriamo ricrea urgenze, disarciona le sicurezze, demitizza i nostri assoluti, rinfranca gli umili sapienti e i poveri di cuore e di mani.
Riascoltiamo le Letture.
Amos é un pastore. Viene riconosciuto profeta al di fuori delle confraternite ufficiali dei profeti. Siamo nel 750 circa a.C. Le guerre dell’VIII secolo e i cambiamenti sociali avevano moltiplicato da un lato fiorenti gruppi di trafficanti al mercato nero e usurai e, dall’altro, gente che si impoveriva e veniva sfruttata. Ma il problema più grave era che gli approfittatori andavano al tempio oppure approfittavano del riposo festivo per tramare sfruttamenti e inganni. Amos enumera le contraddizioni di questi uomini religiosi ma non pii: truccare le bilance, diminuire le misure, aumentare i prezzi. Ma poi non parla solo di merci; parla anche di uomini trattati da merce. Culto e ingiustizia per i profeti è come un incesto, un tabù. Paolo raccomanda di pregare con mani pure, senza ira e senza conflitti.
Luca 16, 1-13 (meglio se fino al 16:«[14]I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e ridevano di lui. [15]Egli disse:  «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio. [16]La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi»).
Luca sta illustrando la polemica di Gesù contro i farisei di tutti i tempi, ma anche il comportamento che i discepoli devono assumere nel tempo che precede la manifestazione finale di Gesù.
Sarebbe grave che non ci accorgessimo del tempo di emergenza e ci adagiassimo stupidamente accomodandoci nella logica della stoltezza, come dice il Salmo 49, 13: «L’uomo nella prosperità non capisce. È come una bestia». Domenica prossima celebreremo la parabola del ricco e del mendicante Lazzaro, strettamente congiunta alla lettura biblica di oggi.
Questa prossimità del regno crea la necessità di agire «con forza». Matteo (11,12) scrive: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli è preso a forza (in greco: biazetai) e i violenti (in greco: biastai) se ne impadroniscono».  Anche Luca usa la stessa terminologia al v. 16: «viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi».  Si entra nel Regno “con forza”, cioè occorre essere avveduti con lucidità, cercare una soluzione, prendere decisioni, restare fedeli nella decisione.
Mettiamo in chiaro innanzitutto alcuni termini:

  • Se vogliamo dare un titolo a questa parabola, non sarà certo “La parabola dell’amministratore infedele” ma piuttosto “dell’amministratore avveduto/saggio”. Alcuni esegeti dicono che, secondo la legislazione giudaica, l’amministratore poteva applicare, sul recupero debiti, una provvigione per sé che però doveva essere giusta e non usuraia; questi autori suppongono quindi che la quota cancellata dall’amministratore riguardi la provvigione usuraia che egli aveva imposto ai debitori; il danneggiato, dunque non sarebbe il padrone[2]. È giusto dire che questa interpretazione non convince altri esegeti e si armonizza poco con il contesto narrativo. Comunque sia, l’amministratore è stato saggio perché ha agito tempestivamente di fronte all’urgenza che incombeva sulla sua vita. Ha preferito rinunciare a un po’ di denaro pur di guadagnarsi buoni rapporti personali (…ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua).
  • L’amministratore é saggio (e non “scaltro”). Il termine greco “fronimòs” viene dal vocabolario biblico sapienziale ed é applicato dai vangeli a colui che vive con sapienza evangelica dentro le urgenze createsi con la venuta di Gesù.
  • Mammona: in ebraico mamōn e in aramaico māmônā sono termini la cui radice linguistica ‘aman ci porta al significato di “fidarsi, credere”. Mammona di iniquità allora é ciò in cui ti fidi, ma poi ti pianta in asso. E’ tutto l’opposto della parola AMEN che significa credere, fidarsi della roccia su cui appoggio il piede.
  • Contrapposto a disonesto é “fedele”. Amministratore disonesto, é come dire “amministratore che appartiene alla logica di questo mondo”. L’iniquità non é guadagnare con imbroglio ma anche contare sulla ricchezza guadagnata onestamente. Tra l’altro mi chiedo spesso: quale ricchezza é guadagnata onestamente?

Allora:
Approfittare del tempo per mettere ordine nelle cose, scegliendo quelle eternizzabili, per esempio i rapporti umani: «fatevi degli amici!».
Siate saggi amministratori dei beni terreni, se volete che Dio vi consegni i beni del Regno.
Siate avveduti, decisi e fedeli.
Così si attende la beata speranza e che venga il Regno del nostro Signore Gesù Cristo.


[1] di  Alvise Bellinato
[2] Radermakers-Bossuyt, LETTURA PASTORALE DEL VANGELO DI LUCA, EDB, Pag.352




14 settembre 2025
PERDERE LA CROCE PER RITROVARE IL CROCIFISSO

14 settembre 2025

Dal libro dei Numeri 21,4b-9
In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero».  Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo.  Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.
Salmo 77 (78). Non dimenticate le opere del Signore!
Ascolta, popolo mio, la mia legge, porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la mia bocca con una parabola, rievocherò gli enigmi dei tempi antichi.
Quando li uccideva, lo cercavano e tornavano a rivolgersi a lui,
ricordavano che Dio è la loro roccia e Dio, l’Altissimo, il loro redentore.
Lo lusingavano con la loro bocca, ma gli mentivano con la lingua:
il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza.
Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa, invece di distruggere.
Molte volte trattenne la sua ira e non scatenò il suo furore.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 2,6-11
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Dal vangelo secondo Giovanni 3,13-17
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.  Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

PERDERE LA CROCE PER RITROVARE IL CROCIFISSO. Don Augusto Fontana
La Chiesa cattolica, molti gruppi protestanti, e gli ortodossi celebrano la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre, anniversario della consacrazione della Chiesa del Santo Sepolcro in Gerusalemme.
Quella di oggi è una festa nata – pare – dal ritrovamento da parte della regina Elena, madre dell’imperatore Costantino, del luogo della crocifissione a Gerusalemme. Quel luogo fu conservato con devozione durante tre secoli, malgrado Roma imperiale avesse fatto di tutto per farlo dimenticare e lì, dopo lo scavo del sepolcro, fu ritrovata dalla regina Elena in una cisterna la presunta croce di Gesù. Grandissimo scalpore suscitò quella scoperta e le comunità cristiane si ritrovarono in un ventennio dall’essere perseguitate al vedere portata la croce trionfalmente a Costantinopoli.
A partire dal secolo VII, la festa voleva commemorare anche il recupero della preziosa reliquia della croce fatto dall’imperatore Eraclio nel 628, trafugata quattordici anni prima dal re persiano Cosroe Parviz durante la conquista di Gerusalemme. Della croce si persero definitivamente le tracce nel 1187, quando venne tolta al vescovo di Betlem che l’aveva portata nello scontro ad Hattin tra musulmani e Crociati. Alla faccia della…croce! La genesi di questa festa è dunque un po’ trionfalistica, come quella di Cristo Re e del Corpus Domini. La Riforma Liturgica, nata dal Concilio Vaticano II, ha tentato di candeggiare queste feste, ma nell’immaginario collettivo dei cattolici persiste il vecchio DNA.
Della croce abbiamo già una solenne celebrazione nel triduo Santo, al venerdì. E potrebbe bastare. Forse non sarebbe male che una attenta Riforma Liturgica non duplicasse questa ed altre feste, soprattutto quando cadono di domenica. Ma forse è solo un mio sogno malsano.
Come pure mi sorge il dubbio che il termine “esaltazione” riferito alla Croce possa essere una trappola: il dolorismo religioso e sacrificale, è usato – e talvolta abusato – nella catechesi, nella predicazione, nelle devozioni e perfino nei testi liturgici. Talvolta è comprensibile: la nostra vita ha le stigmate di traumi e di violenze, di dolori e di morte, di rinunce e sacrifici. E’ comprensibile che ne cerchiamo il senso in questo legno di tortura e di salvezza, in questo Dio così originale e inedito, come l’icona (quasi magica) del serpente bruciante, esposta da Mosè: ciò che provoca morte diventa itinerario per camminare verso la guarigione e la vita. Spesso il Vangelo si presenta come un ossimoro, una contraddizione, un paradosso senza logica: «chi perderà la vita per me la troverà…». La «vita nella morte» è un ossimoro, una contraddizione, come dire “silenzio assordante”. L’evangelista Giovanni, ben più dei tre vangeli sinottici, presenta la passione e la morte di Gesù come un vero ossimoro: Gesù è Cristo (Signore) già sulla croce e non dopo la risurrezione.
Scriveva Enzo Bianchi: «La passione come la narra Giovanni è l’antidoto contro ogni strumentalizzazione pornografica della vicenda delle ultime ore di Gesù, l’antidoto contro ogni abuso osceno o sadico. E’ una passione in cui emerge la gloria, il peso di Dio nella vita di Gesù e il peso dell’amore di Gesù, che tutto ha compiuto non per eseguire una volontà del Padre che pretendeva la sua morte, ma per restare fedele al Padre, che chiede a ogni uomo amore, perdono, giustizia. E’ restando fedele alla volontà di Dio sulla forma della vita dell’uomo, che Gesù ha incontrato una morte inflittagli dagli uomini ingiusti perché, in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere condannato, rifiutato, ucciso. I cristiani, allora, quando leggono o ascoltano la passione, contemplano sì un volto sfigurato, ma sapendolo ormai glorioso e trasfigurato: non si arrestano alla morte come se fosse una realtà definitiva. Per ben dodici secoli i cristiani di oriente e di occidente si sono rifiutati di rappresentare Gesù morto in croce: per i primi tre secoli, quelli precedenti la cristianità, non hanno mai raffigurato la croce, poi hanno dipinto un Cristo in croce ritto, con gli occhi aperti, glorioso, in posizione di Signore e di Risorto. Sapienza di una chiesa che, senza analgesie né dolorismi, manteneva intatto l’equilibrio morte-risurrezione[1]. Per i cristiani è proprio il crocifisso colui che ha narrato Dio: “Nessuno ha mai visto Dio, ma Gesù lo ha raccontato, lo ha spiegato” dice il Vangelo di Giovanni (Gv 1,18). Ora, questa “spiegazione” è avvenuta soprattutto sulla croce, come scrive san Paolo ai cristiani di Corinto(“Tra di voi io ho voluto conoscere solo Cristo, e Cristo crocifisso”) nella consapevolezza che tale annuncio era scandalo per gli uomini religiosi ebrei in cerca di segni ed era follia per gli intellettuali greci in cerca di cultura[2]».
Dire “esaltazione della croce” non vuol dire, dunque, una qualche forma di feticismo sotto sembianze religiose, né vuol dire ostinarsi a fare battaglie di libertà per i crocifissi nei luoghi pubblici, su scollature vellutate o pettorali palestrati e glabri. Né tanto meno vuol dire esaltazione della sofferenza e di un Dio che chiede morte, sofferenza e sacrificio per essere placato, soddisfatto e rimborsato.
I Padri della Chiesa e tutta la tradizione ci insegnano che il grande movimento con cui Gesù si fa uomo si chiama Kenosi, cioè abbassamento: con il linguaggio di oggi noi chiameremmo questo movimento contaminazione. Gesù si è “sporcato”  di umanità. Se fosse rimasto…nella Trinità noi staremmo nei guai. Dio si è misericordiosamente piegato sulla storia.
Il 15 settembre 1993 a Palermo la mafia uccideva don Pino Puglisi. Quanto mi piacerebbe sapere da lui cosa scriverebbe di questa festa. Dimmi don Pino: «E’ poi vero che l’abbassamento è innalzamento ed esaltazione? Perché io, con tutti questi ossimori che mi ha mandato il Signore non ci capisco più niente. Nella mia vita i conti non tornano; e nella tua?».


[1] La Stampa, 9 aprile 2004
[2] La Stampa, 18 aprile 2003




7 settembre 2025. Domenica 23a
MA QUANTO CI COSTA?

23a Domenica C

Preghiamo. O Dio, tu sai come a stento ci raffiguriamo le cose terrestri, e con quale maggiore fatica possiamo rintracciare quelle eterne; donaci la sapienza del tuo Spirito, perché da veri discepoli portiamo la nostra croce ogni giorno dietro il Cristo tuo Figlio. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen
Dal libro della Sapienza 9,13-18
Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».
Salmo 89.  Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l’erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca.
Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio: rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda.
Dalla lettera a Filèmone 1,9-10.12-17
Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.  Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
Dal Vangelo secondo Luca 14,25-33
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.  Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». 

MA QUANTO CI COSTA? Don Augusto Fontana

Il Vangelo produce miele, ma ha anche un pungiglione: «Chi mi segue senza portare la sua croce non può essere mio discepolo»; da noi basta un raffreddore e la nostra sequela si affloscia. Eppure, sotto altre forme meno drammatiche ma altrettanto severe, anche da noi l’essere discepoli comporta dei costi e, grazie a Dio, qualcuno sta conducendo la sua buona testimonianza (in greco si dice martyrìa che ha il sapore del martirio). La vita di un cristiano che ci crede è spesso soggetta a un martirio non cruento (detto martirio bianco secondo i monaci cenobiti del IV secolo). Pare che il filosofo Kierkegaard abbia detto: “se Cristo venisse oggi fra noi, forse sceglierebbe il martirio del ridicolo”, cioè quella particolare coerenza tra il Vangelo e la vita, che rende un cristiano così anticonformista. Come Simone di Cirene: «Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù» (Luca 23,26); non sappiamo se si sia mai convertito, se abbia accettato di buon animo l’ordine datogli, se abbia compatito il Cristo o se lo abbia maledetto. I discepoli di allora, passivi e paurosi, accettarono che fosse un estraneo a portare la croce di Gesù.
«…molta gente accompagnava Gesù durante il suo viaggio». L’evangelista usa, in greco, il verbo sun-eporeuonto che si traduce con “accompagnare, viaggiare insieme; verbo molto diverso da quello che Gesù mi chiede di vivere con lui: “seguire me!” (akoloutheô moi) o “venire presso/con me” (erchomai pros me).  Anche allora c’era una chiesa di massa fatta di curiosi a corrente alternata (“oggi vado, ma domenica prossima si vedrà…dipenderà…”) o di cercatori di miracoli, presto delusi come fungaioli incostanti e debosciati se i cesti restano vuoti dopo pochi passi nel bosco. Per essere cristiano, la chiesa italiana esige in realtà molto poco. Si battezzano i neonati e non si esige quasi nulla dai suoi genitori; al massimo, un incontro preparatorio al rito del battesimo e un vago impegno di educare cristianamente (!) il bambino. Ma al principio non era così. A chi provava ad essere discepolo, Gesù lo invitava a pensarci seriamente: «Se uno di voi decide di costruire una casa…si mette a calcolare la spesa per vedere se ha soldi abbastanza per portare a termine i lavori…». Saremmo pochi (e, credimi, penso anche a me), se dovessimo davvero compiere le tre condizioni che Gesù esige dai suoi discepoli.
Per la prima condizione (“se uno vuol venire con me e non mi preferisce a suo padre e a sua madre, a sua moglie e ai suoi figli, ai suoi fratelli e sorelle, e persino a se stesso, non può essere mio discepolo“) il discepolo deve essere disposto a subordinare, ridimensionare, relativizzare tutto all’adesione al Signore e alle esigenze del Vangelo. Gesù e il suo piano di creare una società alternativa al sistema mondano stanno al di sopra dei legami famigliari. Ma attenzione: non chiede di scegliere tra famiglia e parrocchia, ma di scegliere Lui nei legami familiari. Diceva Padre Ernesto Balducci[1]: «La caratteristica dell’annuncio evangelico non è la squalificazione dei rapporti di sangue ma l’apertura costante di un orizzonte che va al di là del gruppo a cui si appartiene e che apre possibilità non contenute nei vincoli di parentela o del gruppo etnico. Gesù additando se stesso come degno di amore molto più che il padre, la madre, la moglie e i figli, non getta indifferenza su questi rapporti, ma chiama all’universalità dell’amore e della dedizione. Seguire lui nell’ombra della croce significa seguirlo nella dedizione per tutti gli esseri. La novità del Cristo è la rottura di tutti questi vincoli, la loro relativizzazione. Perché Gesù è stato messo in croce e gli apostoli furono perseguitati? Per la loro opposizione diretta alla presunzione di un gruppo (della famiglia o della nazione) di essere l’intero orizzonte di Dio».
Per la seconda condizione (“chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo“) non si tratta di fare sacrifici o di mortificarsi, ma di accettare concretamente che l’adesione a Gesù comporti dei costi di fronte alle pressioni conformistiche della società. Ilario, vescovo di Poitiers, nel 360 scrive: «Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga. Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci dà la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro».
La terza condizione (“chiunque non rinuncia a tutto ciò che ha non può essere mio discepolo“) ci sembra eccessiva. Si tratta, senza dubbio, di una formulazione estrema che va interpretata. Il discepolo deve essere disposto persino a rinunciare a ciò che ha, se questo è d’ostacolo a porre fine ad una società ingiusta nella quale pochi accaparrano i beni della terra di cui altri necessitano per sopravvivere. Per quanti di noi tolgono con frequenza il pungiglione al Vangelo e preferirebbero che le parole e i gesti di Gesù fossero meno radicali, leggere questo testo risulta duro e tremendamente esigente. Non invano il libro della Sapienza formula oggi un interrogativo: «Chi tra gli uomini potrà mai sapere quel che il Signore vuole?».  Per questo preghiamo: «Nessuno ha conosciuto la tua volontà se non eri tu a dargli la sapienza, se dal cielo non gli mandavi il tuo Spirito Santo».
Fratel Enzo Bianchi scrisse[2]: «Alla Chiesa è chiesto di stare nel mondo, nel pieno degli impegni e delle problematiche, senza pregiudizi né atteggiamenti ideologici, e senza logiche di inimicizia. Di certo, nell’opera di edificazione della polis che li accomuna agli altri uomini, i cristiani non hanno certezze o ricette: il Vangelo non fornisce formule magiche in base alle quali indicare la via che conduce infallibilmente alla realizzazione degli obiettivi di una polis. L’obbedienza creativa al Vangelo abilita invece il cristiano a immergersi nella storia, nella compagnia degli uomini, portando sempre un messaggio profetico, un messaggio per l’uomo…In una società come la nostra, caratterizzata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, i cristiani sono chiamati a vivere una differenza proprio nella qualità delle relazioni, divenendo quella comunità alternativa che esprima, a favore di tutti gli uomini, la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco.
Forse non giungeremo mai a vivere con questa radicalità le esigenze di Gesù, ma non dobbiamo rinunciarci, per quanto ci possiamo trovare ad anni luce da questa utopia: smettere di essere cristiani normali.

[1] Padre Ernesto Balducci (muore nel 1992 a 69 anni, in incidente stradale), presbitero-teologo-scrittore, Profeta dimenticato dalle generazioni che non hanno avuto la fortuna di essere lambite dall’irruenza urticante delle sue letture bibliche e le lucide analisi sociali.. L’ostilità della Curia gli valse l’allontanamento da Firenze. Fu un sostenitore dell’obiezione di coscienza al servizio militare e nel 1964 fu condannato  per apologia di reato.
[2] Rivista IL MULINO, 24 dicembre 2019




31 agosto 2025. Domenica 22a
VINCE CHI PERDE

22 domenica C

Preghiamo. O Dio, che chiami i poveri e i peccatori alla festosa assemblea della nuova alleanza, fa’ che la tua Chiesa onori la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, e tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla tua mensa. Per Gesù Cristo, il nostro Signore.

Dal libro del Siràcide 3,19-21.30-31
Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso.  Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,  ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato. Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male. Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
Salmo 67. Hai preparato, o Dio, una casa per il povero.
I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia.
Cantate a Dio, inneggiate al suo nome: Signore è il suo nome.
Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora.
A chi è solo, Dio fa abitare una casa, fa uscire con gioia i prigionieri.
Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato
e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio.
Dalla lettera agli Ebrei 12,18-19.22-24
 Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.  Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.
Dal Vangelo secondo Luca 14,1.7-14
 Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

VINCE CHI PERDE. Don Augusto Fontana

«Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire » (Mc 10,44).
In questi giorni si continua a parlare del ritorno dal grande esodo. Anche l’evangelista Luca ha impostato il suo Vangelo descrivendo un lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme e descrivendo incontri, scontri e riflessioni come se fossero tappe intermedie e nuove partenze. Durante una di queste tappe è invitato a cena di sabato e guarisce un uomo idropico, gonfiato da un grave edema[1]. Ed è polemica perché di sabato, secondo alcuni, non si poteva neppure guarire qualcuno.  Di seguito a Gesù non sfuggono alcune piccole strategie degli invitati per assicurarsi i posti più vicini all’onorevole e noto padrone di casa. Quello che avviene in quella sala avviene su più grande scala anche nella vita: aspirazioni a primeggiare, scavalcamenti reciproci, indifferenze agli altri, emarginazione dei meno dotati. Quello che Gesù dice agli invitati vale dunque anche per noi. Ed é un problema che non riguarda solo gli ambienti mondani e aristocratici dove si consumano le fiere delle vanità né soltanto gli ambienti di lavoro dove ciascuno tenta di accaparrarsi posti migliori; riguarda anche la vita interna alle comunità cristiane. Sarà capitato anche a noi di vedere o intuire manovre simili. Io, da parroco, ho sentito raccontare storie di piccole liti per inginocchiatoi o banchi privilegiati in chiesa; da operaio e da amministratore pubblico ho visto sgomitare, intrallazzare e tramare per incarichi, livelli di carriera, cerchi magici.
Era accaduto anche ai discepoli: «Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Che cosa volete che io faccia per voi?”.  Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”[…]Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni.  Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.  Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Marco 10, 32-44).
Scrive P. Ermes Ronchi:[2]« Nella vita siamo sedotti da tre verbi malefici, che fanno il male dell’uomo e della donna, e per questo li possiamo definire “maledetti”, e sono: prendere, salire, dominare. Ad essi Gesù oppone tre verbi “benedetti”, che contengono e generano il bene della persona, e sono: dare, scendere, servire».
Hai preparato, o Dio, una casa per il povero.
L’apostolo Giacomo fu costretto a scrivere in sua lettera: «Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo. Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito bene, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito bene e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui sullo sgabello dei miei piedi», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri  nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha  promesso a quelli che lo amano?» (Giac. 2,1-4). Non é quindi una questione di galateo o di carità cristiana. Certi gesti rivelano o oscurano la logica di Dio.
Gesù fa riflettere un po’ alla volta, forse riferendosi ad un testo biblico già conosciuto: «Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: “Sali quassù” piuttosto che essere umiliato davanti a uno superiore» (Proverbi 25, 6). Una regola di prudenza che Gesù interpreta con una profondità e ampiezza ben superiore. E’ uno stile di vita e di scelta che non riguarda solo il momento di una cena ma Gesù lo estende a ogni momento della vita ecclesiale e sociale.
Parte da alcune considerazioni più elementari e, si direbbe, poco spirituali e terra terra. Comincia col far osservare l’eventualità che chi si affretta a occupare i primi posti può rischiare di essere invitato a spostarsi in fondo coperto dal ridicolo. E’ una vignetta, una caricatura con cui il Vangelo sembra farci ridere di quelle gaffe che rivelano quanto sia controproducente, anche solo a livello umano, la superbia tronfia. Gesù é nella linea della tradizione biblica sapienziale che dedica pagine e pagine a queste piccole/grandi virtù della convivenza mite e sapiente.
Ma non si tratta, abbiamo detto, solo di galateo o di calcolo. Nella prima lettura abbiamo sentito annunciare: «Quanto più sei grande tanto più fatti piccolo, così troverai grazia davanti al Signore».
Il popolo di Dio ha sperimentato a volte che Dio abbatte i superbi ed esalta gli umili. Oggi io sono molto confuso: Dio esalta e Putin abbatte, Dio esalta e Hamas violenta, Dio esalta e Netanyahu massacra e affama. Il salmo di oggi é uno dei tanti che cantano questa esperienza che sentiamo poi sussurrare dalla bocca di Maria, pur tramortiti da genocidi senza fine.
Al discorso negativo (“Non invitare amici e parenti”) si aggiunge una raccomandazione più positiva: «Invita quelli che non possono ricambiarti». Adottare la logica di Dio: fare il bene senza attendere il tornaconto. Chi di noi ha sperimentato la beatitudine della gioia più grande nel dare che nel ricevere? (Atti 20,35). Quasi a dire che l’evangelo ci invita a restare sempre in debito e non tentare di andare a credito con nessuno, né con Dio né con gli altri.
Ec-centrici, fuori-dal-centro.
Per suggerire una qualche forma di interpretazione cito una pagina di Enzo Bianchi che parla di MINORITÀ[3]: «Se c’è un testo teologicamente fondativo dell’esser minori questo mi pare rintracciabile nella Prima Lette­ra ai Corinzi. Dice Paolo rivolto ai troppi par­titi della Chiesa di Corinto: «La parola della croce è stol­tezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ra­gionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sa­pienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di sal­vare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo po­tenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltez­za di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,17-25). La minorità è un modo di essere e non un modo di parlare o di scrivere. E’ uno stile di vita diffuso, capillare. E’ un metodo relazionale da non confondersi con la falsa modestia, con l’occultamento del proprio ruolo o capacità. La minorità non è una virtù: è un punto di vista sul mondo e su di sè. E’ una “lateralizzazione” di sé rispetto al mondo, un abbandono della posizione di frontalità (o centralità), un mettersi fuori o, piuttosto, ai margini, è un “diventare eccentrici”. Il “farsi piccoli” implica uno stare nel mondo in un certo modo più che un giudizio sul mondo. Il minore è povero non perché è “meno” degli altri, ma perché è portatore di una diversità che non può dar conto compiutamente, persuasivamente, efficacemente, delle sue ragioni; la sua è una povertà argomentativa. Per comprendere il senso di questa scelta abbiamo solo il rovesciamento della logica mondana, il paradosso delle Beatitudini. Essendo un paradosso non si può credibilmente argomentare, persuasivamente formulare, efficacemente comunicare. La ragione non può nulla contro i paradossi e i paradossi sono impotenti e retrocedono di fronte alle argomentazioni. La minorità, come l’amore, vive solo di GESTI, come ha fatto san Francesco. La “mimica” di san Francesco dello spogliarsi davanti al vescovo è il riconoscimento dell’incapacità del linguaggio di “dire” la minorità che appartiene invece all’orizzonte del comportamento “sine glossa” più che a quello delle dichiarazioni di principio o dei documenti».


[1] «Il lievito dei farisei porta all’avere di più (12,15); riempie l’uomo di possesso e di rapina e lo riduce a un idropico, che trasforma in acqua morta tutto ciò che mangia e cresce tanto da non passare poi per la porta stretta. Qui Gesù illustra lo spirito nuovo di chi è guarito dall’idropisia: è l’umiltà, il contrario di quel protagonismo di cui fanno mostra i tanti piccoli idropici che vede scegliere i primi posti» (AA.vv., Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB 1991, pag. 179)
[2] AVVENIRE, 25 agosto 2022
[3] da HOREB, n. 3/1997




24 agosto 2025. Domenica 21a
CORRI! STANNO CHIUDENDO LA PORTA.

21a DOMENICA anno C

Preghiamo. O Padre, che chiami tutti gli uomini per la porta stretta della croce al banchetto pasquale della vita nuova, concedi a noi la forza del tuo Spirito, perché, unendoci al sacrificio del tuo Figlio, gustiamo il frutto della vera libertà e la gioia del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

 Dal libro del profeta Isaia 66,18-21
Così dice il Signore:  «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan[1], alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti. Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di Gerusalemme – dice il Signore –, come i figli d’Israele portano l’offerta in vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti levìti, dice il Signore».
Salmo 116  Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra.
Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte, nazioni, dategli gloria.
Forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno.
Dalla lettera agli Ebrei 12,5-7.11-13
Fratelli, avete dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: “Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio”.   È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? In verità, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e fate passi diritti con i vostri piedi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
Dal Vangelo secondo Luca 13,22-30
In quel tempo, tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi (agonizeste=continuate a lottare) di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà  (egherze=risorgerà) e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da est e da ovest, da nord e da sud e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

CORRI! STANNO CHIUDENDO LA PORTA. Don Augusto Fontana

“Signore, sono pochi quelli che si salvano?”.
Tutte le religioni sono un tentativo di risposta a questa domanda e propongono o un’illuminazione o un’ascesi o una rivoluzione mediante cui l’uomo possa salvarsi. In realtà, per la Bibbia, all’uomo è impossibile “salvarsi” (Luca 18,26-27: Quelli che ascoltavano dissero: «Allora chi potrà salvarsi?». Rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio»). “Salvare” per la Bibbia è un verbo da coniugarsi prevalentemente al passivo: “essere salvato“. La porta è strettissima per chi si vuol salvare con le opere religiose. Per essa invece passano tutti i poveri, gli storpi, i ciechi, gli zoppi. Unico biglietto di ingresso è riconoscere di “aver bisogno”.  Resta fuori solo chi “sta bene”[2].
Il biblista Josef Ernst si sofferma sulla questione della “porta stretta” e ne offre una diversa e intrigante interpretazione[3]: “per Luca il punto di vista decisivo è l’esortazione a un agire risoluto nell’ultimo momento ancora possibile. E’ un urgente appello ad agire finché si è in tempoPrima o poi viene il momento in cui il padrone di casa si alza e chiude la porta“. Non sarebbe dunque la porta che è stretta, ma è il tempo che è corto.
Luca ha ripreso da Matteo, modificandola, l’immagine della porta stretta. Matteo forse pensava al portone grande di una città, che veniva chiuso a una certa ora della notte, ma nel quale o accanto al quale si trovava una porticina per i ritardatari. Luca invece pensa alla porta di una casa che il padrone, dopo averla chiusa, riapre eventualmente solo a conoscenti o parenti; collega poi il suo testo con la parabola delle 10 ragazze in cui la porta viene chiusa dopo l’arrivo dello sposo. Gesù allora indirizzandosi a “voi”, si rivolge anche a noi lettori del Vangelo e ci assegna il posto dei ritardatari che non riescono a farsi riconoscere dal padrone di casa: “non so da dove siete; via da me, voi tutti, operatori di ingiustizia” (v. 27). Inutilmente diremo: “abbiamo mangiato e bevuto davanti a te”. Infatti non è questo che fa di noi dei parenti del Signore. Gesù l’aveva già chiaramente indicato quando aveva risposto a quelli della sua famiglia: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,21). Allora chi si siederà al banchetto messianico? L’opposizione non è tra arabi ed ebrei, devoti o miscredenti, ma tra obbedienti e disobbedienti, qualunque sia la loro origine etnica[4].
 Come si può entrare dalla porta?
Gesù sta continuando il suo viaggio a Gerusalemme, verso la croce, passando per villaggi nei quali insegnava. In questo contesto, un tale domanda al Signore: «Signore sono pochi quelli che si salveranno?» Come si vede, la domanda punta al numero: «quanti ci salveremo, pochi o molti?». La risposta di Gesù sposta l’attenzione dal “quanti” al “come” essere salvati. Il Vangelo di Luca è stato redatto quando si era all’incirca alla terza generazione del movimento di Gesù. In molti fratelli e sorelle della comunità l’amore, il fervore e l’impegno delle origini si erano affievoliti. Non è un caso che il capitolo dal quale è tratto questo brano inizi con la parabola del fico sterile: «Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai» (Luca 13, 7-9).
Anche la comunità corre il rischio, secondo Luca, di cadere nella routine e nella mediocrità. Il vino nuovo del Vangelo lentamente viene annacquato. Naturalmente la cosa potrebbe interessare anche noi discepoli di oggi.
Quindi, cosa dice Gesù rispetto al modo di essere salvati?
Non serve, o non basta, il fatto di appartenere a una determinata tradizione o istituzione: “abbiamo mangiato e bevuto con te e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Gesù risponde “non so di dove siete [non vi conosco]“.
La salvezza non è un titolo di merito o di proprietà, ma un coinvolgimento personale nella persona e vita di Gesù: “io sono la porta” dice Gesù (Giovanni 10,7).
Al brano del vangelo fanno eco le parole di Isaia che annunciano la salvezza per il popolo d’Israele e, insieme, per tutte le genti (Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan). La salvezza è immaginata come un immenso pellegrinaggio al termine del quale tutti i popoli verranno e il risultato sarà (udite! udite!): “Anche tra i non-circoncisi mi sceglierò sacerdoti leviti, dice il Signore”.
Non sono le pratiche religiose che ci danno la garanzia della salvezza. Gesù ha ripetuto: “non tutti quelli che mi dicono «Signore, Signore», entreranno nel Regno dei cieli, ma quelli che fanno la volontà del Padre mio che sta nei cieli” (Mt. 7,21). Mangiare e bere alla Mensa del Signore, ascoltare la sua Parola, moltiplicare le preghiere è importante ma non è sufficiente per raggiungere la salvezza: “non posso sopportare falsità e solennità” (Isaia 1,13). Al rito deve unirsi la vita, la preghiera deve orientarsi alla pratica della carità, la liturgia deve aprirsi alla giustizia e al bene della salvezza.
Gesù è la porta stretta:  «Io sono la porta dell’ovile» (Gv 10). Anche il Cristo è passato attraverso la porta della sua umanità, attraverso la porta dell’incarnazione, una porta che lui ha sfondato e ha aperto.  Il verbo greco usato da Luca “agonizesthe” andrebbe tradotto con “continuate a lottare” indicando così una specie di “agonia” che coinvolge tutta la persona nel cammino di fedeltà a Dio.
I devoti fanno ressa davanti alla porta e impediscono a tanti di entrare.
Accanto alla porta succedono tante cose. Marco narra uno di questi eventi: «Si seppe che [Gesù] era in casa e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunciava loro la parola. Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico» (Marco 2,1-4).
I devoti curiosi (di ieri e di oggi) si accalcano davanti alla porta. Si direbbe che sono troppo concentrati per accorgersi che qualcuno chiede il permesso di entrare. La porta è aperta per accogliere storpi, zoppi, paralitici. Ma una porzione di chiesa sta ingombrando il passaggio all’altra porzione di chiesa (i 4 anonimi portantini e il paralitico) che dovrebbe avere la precedenza. E’ una porzione di chiesa «dove ogni cosa è sistemata per bene. C’è tutto là dentro. Non c’è posto per altro. Non passa più nulla. Non entra l’avvenimento, l’imprevisto. Viene negato l’accesso all’inatteso»[5].
Scrive fratel MichaelDavide[6]: «La Chiesa dei nostri giorni si trova purtroppo a pagare le amare conseguenze di una ripresa del funzionamento religioso e sacrale che ha creato una casta – quella clericale, che non va identi­ficata solo con i chierici, ma pure con i laici clericali – la quale, come i farisei e i sadducei ai tempi di Gesù, invece di servire il vangelo, è tentata di servirsi del vangelo. Una Chiesa che riparte dal vangelo è una Chiesa che si spoglia di privilegi desunti da altre forme religiose, ri­nunciando alla pretesa di creare delle caste esclusive che si arrogano il diritto di escludere gli altri in nome di una vocazione e di un’inve­stitura dall’alto che, in realtà, non può che venire dal basso. Tutto ciò non può avvenire se prima non si accetta la relatività di tutta una serie di isti­tuzioni e di funzionamenti, che, se sono stati utili – almeno in par­te – fino a oggi, non è detto che siano ancora adeguati e augurabili. La rottura evangelica con la mentalità socio-religiosa del suo tempo da parte di Gesù di Nazaret, come è attestata nei vangeli, non può non invitare ad affrontare coraggiosamente e con decisione la lotta a ogni forma di esclusività e a ogni forma di esclusione. Come dimenticare il posto che le donne hanno nella comunità dei discepoli (Lc 8,1-3) e il loro ruolo eminente nei racconti pasquali? … I bambini, le donne, gli stranieri, i disabili, i diversamente affettivi, i peccatori, gli esclusi e quanti sono avvertiti come un pericolo, per il loro diverso atteggiamento nella vita e di fronte alla vita, diventano il centro dell’attenzione di Gesù e fanno parte della comunità di vita e di annuncio che si crea attorno alla sua persona e al suo messaggio. Per questo la comunità dei discepoli non può e non deve organizzarsi a partire da uno schema di purità, ma in un respiro di universalità, non solo geografica, ma prima di tutto antropologica, che sia capace di evolvere dalla benevola tolleranza all’inclusione radicale».


[1] Nel tempo in cui un discepolo della Scuola di Isaia scriveva i capitoli 56-66, i Giudei vivevano dispersi in Diaspora fra molti popoli (Tarsis=Sardegna o Spagna; Put=Egitto; Lud=Asia Minore; Mesech, Ros, Tubal= popolazioni assire nella zona del Mar Nero; Iavan=Grecia). La visione finale della Scuola profetica vede i popoli che fanno un pellegrinaggio a Gerusalemme portando sulle braccia i Giudei per una offerta gradita al Tempio. Questa profezia ha una connotazione universalistica inaudita e quanto mai esplosiva per i tempi che viviamo nei territori di Gaza e Cisgiordania. Il popolo di Israele rinnovato sarà composto anche da gente non discendente da Abramo. Isaia 56,6-7 «Gli stranieri, che hanno aderito a me per amarmi e per servirmi, si guardano dal profanare il sabato e restano fedeli alla mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera.  I loro olocausti e i loro sacrifici mi saranno graditi, perché il mio tempio si chiamerà “casa di preghiera per tutti i popoli”».
[2] AA.VV. Una comunità legge il vangelo di Marco,  EDB.
[3] Josef Ernst, Il Vangelo secondo Luca (Ed. Morcelliana)
[4] Daniel Attinger, Evangelo secondo Luca, Qiqajon 2015, pag. 393
[5] A.Pronzato, Un cristiano comincia a leggere il vangelo di Marco, Vol.1, Gribaudi, 1979, pag.128
[6] In La semina del profeta, EDB, 2019, pagg. 68-70




17 agosto 2025. Domenica 20a
SEGNO DI CONTRADDIZIONE

20° domenica C

Preghiamo. O Dio, che nella croce del tuo Figlio, segno di contraddizione, riveli i segreti dei cuori, fa’ che l’umanità non ripeta il tragico rifiuto della verità e della grazia, ma sappia discernere i segni dei tempi per essere salva nel tuo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Dal libro del profeta Geremìa 38,4-6.8-10.
In quei giorni, i capi dissero al re: «Si metta a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male». Il re Sedecìa rispose: «Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi».  Essi allora presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna di Malchìa, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremìa con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremìa affondò nel fango. Ebed-Mèlec uscì dalla reggia e disse al re: «O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremìa, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città». Allora il re diede quest’ordine a Ebed-Mèlec, l’Etiope: «Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremìa dalla cisterna prima che muoia».
 Salmo 39.  Signore, vieni presto in mio aiuto.
Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude;
ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio.
Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore.
Ma io sono povero e bisognoso: di me ha cura il Signore.
Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare.
 Dalla lettera agli Ebrei 12,1-4
Fratelli, anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento.  Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.
Dal Vangelo secondo Luca 12,49-53 (+ 54-57)
Gesù dice ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Aggiungo i seguenti versetti che non ascolterai nella proclamazione liturgica ma che ritengo utili per la comprensione del testo.
[54 Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. 55 E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade.
56Ipocriti! Sapete giudicare il volto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? 57 E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?].

 SEGNO DI CONTRADDIZIONE. Don Augusto Fontana

Su Internet si possono consultare le previsioni del tempo fino a 5 giorni. Spesso su queste previsioni si elaborano programmazioni e si fissano i trend di andamento di affari, viaggi, attacchi armati, interventi sulle coltivazioni. Anche i palestinesi del tempo di Gesù sapevano che se tirava vento dal Mar Mediterraneo sarebbe piovuto mentre sarebbe stato sereno se il vento proveniva dal deserto siro-arabico. Si prevede e si decide di conseguenza. Comunque la decisione connota l’ingresso nell’età adulta. Chi non sa mai prendere una decisione, chi vuole l’una e l’altra cosa o, come si usa dire, “la botte piena e la moglie ubriaca”, non é mai uscito dalla fase infantile. Questo comporta delle rinunce, soprattutto la rinuncia al compromesso.
Gesù usa una parola dura: «Ipocriti! Sapete riconoscere i segni atmosferici per comportarvi di conseguenza e non sapete riconoscere i tempi provvidenziali (kairòi) di Dio».
Fuoco che scalda, ustiona e plasma.
Con il brano evangelico di oggi si conclude praticamente l’insegnamento del Cap. 12 di Luca che ci ha accompagnato per 3 domeniche dicendoci, in sintesi: non dormite; la situazione che vivete é di massima allerta; é questione di qualità di vita oggi e di vita eterna; schiodatevi dalle poltrone, prendete i vostri bagagli essenziali, prima di tutto la vita e il Regno di Dio; non affannatevi per capitalizzare; condividete a vicenda pane e bagagli; parlatevi insieme per sostenere le speranze e per discernere quali sono i sentieri del Signore, i tempi provvidenziali (kairòi) e le decisioni conseguenti.
Proprio come devono fare in questi giorni molte famiglie circondate dagli incendi dei boschi o dalle alluvioni in vari territori.
Il discernimento comporta, secondo il Nuovo Testamento, una capacità di confronto tra la Parola di Dio e gli avvenimenti (“questo tempo”) per capire i sintomi della presenza del Signore, per leggere la storia non solo alla luce del presente e del suo passato, ma anche alla luce della tensione verso il futuro di Dio. Il Signore ci lascia nella nostra responsabilità: «Perché non giudicate da voi stessi ciò che é giusto?» (Lc. 12,57).
A me, tiepido comatoso, è rivolta questa Parola: «All’angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Apocalisse 3, 14-20).
A me, sonnolente abitudinario, è rivolta questa Parola dal profeta Michea che Gesù conosceva bene e a cui si è probabilmente ispirato: «Povero me! In questa regione non c’è più una persona fedele a Dio, nessuno è onesto. I capi hanno pretese, i giudici esigono compensi illeciti, gli uomini influenti dicono senza vergogna quel che desiderano e tutti tramano per ottenerlo… Non credete al compagno, non fidatevi dell’amico, state attenti a quel che dite anche a vostra moglie. I figli insultano i padri, le figlie si ribellano alle madri, le nuore alle suocere: ognuno ha i suoi nemici nella propria famiglia. Ma io mi rivolgo al Signore, ripongo la mia speranza in Dio che mi salva» (Michea 7, 1-7).
Gesù ha fatto di tutto, ma proprio di tutto, per non illuderci; non ha sbandierato una proposta facile e slavata. Non ci ha fatto credere che seguirlo avrebbe comportato qualche garanzia assicurativa in più nella vita; anzi, ci ha chiaramente illustrato le esigenti richieste della sequela contro ogni posizione neutrale del “piede in due scarpe”. Gesù diventa così segno di contraddizione, come aveva preannunciato Simeone tenendo sulle sue braccia questo bambino nel Tempio (Lc,2,34): «Egli é qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione».
Luca in questo Capitolo 12 ricorda una frase di Gesù: «Credete che sia venuto a portare la pace sulla terra? No. Anzi sono venuto a portare la divisione (Matteo 10, 34 parla di spada)». L’immersione (il battesimo) nella Sua morte diventa anche per me oggi un caso serio, un segno di contraddizione. L’esperienza cristiana della nostra Chiesa nordica e occidentale è diventata una religione pacioccona, buona per tutte le stagioni, saldi compresi. Il crocifisso è diventato simbolo slavato, appeso qua e là ovunque, su scollature audaci o toraci villosi, sui muri di pubblica utilità e tra mani impure di politici atei e devoti. Se lo guardo, il crocifisso non mi schianta più né più mi intenerisce. Ai piedi di quel Crocifisso è sorto un cimitero di morti viventi, una spianata di fedeli smunti e comatosi; e raramente produce sussulti di scelte selettive di vita.
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso». Gesù ha mandato il fuoco della Pentecoste[1] (Atti 2,3-4) e ha fatto bruciare il cuore di due discepoli delusi che avevano avuto il coraggio di voltargli le spalle fuggendo verso Emmaus (Lc 24)[2]. Lui è Fuoco, non melassa; è bruciore incompatibile con le pomate emollienti che io ho spalmato sulle mie scelte-non-scelte per troppi anni nella mia vita.
Signore, resta per me segno di contraddizione, bruciatura e fuoco. Tormento e innamoramento. Resta il profeta del mio discernimento!
Già fu così la storia dei profeti.  Geremia 6,10-21: «Perché dal piccolo al grande tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna. Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: “Va bene, va tutto bene!” ma bene non va. Ascolta, o terra! Ecco, io mando contro questo popolo la sventura perchè non hanno prestato attenzione alle mie parole e hanno rigettato la mia legge. I vostri olocausti non mi sono graditi e non mi piacciono i vostri sacrifici. Perciò, dice il Signore: “Ecco, io porrò per questo popolo pietre di inciampo, in esse inciamperanno insieme padri e figli; vicini e amici periranno”».
Gesù prima di scatenare un dramma nella vita degli altri, ha vissuto sulla sua pelle questa urgenza: «Fuoco sono venuto a portare sulla terra e io stesso ci cadrò dentro come in un battesimo».
Il Profeta nella contraddizione della storia.
La figura di Geremia (Geremia 38,4-10), profeta insanguinato, anticipa la figura di Gesù. I suoi connazionali non hanno saputo interpretare il senso delle sue parole e l’importanza dei suoi gesti profetici e sono rimasti ciechi e sordi.
Narro un po’ di storia, per chi è curioso di conoscere il contesto confuso in cui si muove la profezia di Geremia. Tra il 625 e il 605 a.C. la potenza assiro-babilonese calpesta popolazioni e territori. In questo periodo Manasse, re in Giuda, incredulo, idolatra, era un alleato degli assiri. Geremia é di stirpe sacerdotale e inizia la sua azione profetica in questo confuso periodo politico e religioso.  Il re Giosia succede a Manasse tenta una ardita riforma religiosa e cultuale e si allea con Babilonia ma perde la vita nella battaglia di Meghiddo (609). Gli succede il figlio Joachim che tenta l’indipendenza da Babilonia, ma questo provoca l’invasione babilonese con l’occupazione di Gerusalemme e la deportazione di tutta la corte reale e l’aristocrazia a Babilonia.
Nabucodonosor pone sul trono di Giuda il re Sedecia che però, con mosse sbagliate, provoca una seconda invasione che distrugge Gerusalemme e il tempio (586). Geremia esce dalla sua vita tranquilla, contesta i burocrati, il popolo, i colleghi sacerdoti; contesta al re Sedecia di sfidare la potenza babilonese. Viene incarcerato durante l’assedio di Gerusalemme perché é accusato di scoraggiare i soldati e i cittadini. I capi lo gettano in una cisterna accusandolo di disfattismo, poi per ordine del re viene liberato.
La sua profezia si mescola con la politica. La Parola trascendente di Dio è ad un bivio: o sta lassù nel cielo incontaminato, nel silenzio eterno profumato di incensi o si mescola con gli avvenimenti contingenti della storia, dentro al frastuono di risa e lamenti o nel profumo delle pinete o nell’odore del sangue. È difficile e rischioso restare coscienza critica negli eventi contingenti quotidiani.
Crisis è discernimento[3].
La parola “Crisi” deriva dal verbo greco krinein che significa “separare”, passare al setaccio. Proprio ciò che fa una crisi: ci vaglia mettendoci alla prova. Il disagio è proprio l’essere messo a nudo. Leggere la Parola di Dio da credente vuol dire accettare che mi metta in crisi.
Zaccaria 13,9: «Farò passare un terzo del mio popolo attraverso il fuoco e lo purificherò come si purifica l’argento, lo proverò come si prova l’oro».
Prima Lettera di Pietro 1,6-7: «Perciò siate contenti, anche se ora, per un po’ di tempo, dovete sopportare prove di ogni genere. Anche l’oro, benché sia una cosa che non dura in eterno, deve passare attraverso il fuoco, perché si veda se è genuino. Lo stesso avviene per la vostra fede, che è ben più preziosa dell’oro: è messa alla prova dalle difficoltà, perché si veda se è genuina. Solo così voi riceverete lode, gloria e onore, quando Gesù Cristo si manifesterà a tutti gli uomini».
Il rischio della crisi è che ci costringa a guardare dove noi non vogliamo, che ci faccia vedere cose che non vogliamo vedere. Temo di aver passato la vita senza vedere nel profondo di me.
La Santa Scrittura, e Gesù, hanno una forza critica che, se ascoltata, può veramente favorire un processo di conversione. La sua capacità discernente, cioè di giudicare, valutare e vagliare sono presenti in molti testi biblici, ad esempio Ebrei 4,12-13: «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta (in greco: kriticòs, mette in crisi) i sentimenti e i pensieri del cuore».  La Parola ha la forza efficace di mettere in crisi, di distinguere e fare chiarezza tra pensieri e sentimenti del cuore. Avviene più volte che di fronte a una pagina della Scrittura (anche attraverso un’omelia, una spiegazione, una lettura personale…) ci si sente radiografati, come se essa leggesse cosa si muove in noi, come se l’episodio riguardasse nessun’altro al di fuori di noi stessi e la Scrittura desse le parole per descrivere ciò che sta avvenendo in noi.
E’ l’esperienza del profeta Geremia 20,8-9: «Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

Gesù è il fuoco che avanza per dividere il mio passato dal mio futuro (“il padre dal figlio”), l’oro della mia fede dalle scorie della mia religione (“la nuora dalla suocera”). Siamo pregati di non chiamare i pompieri!


[1] «Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo».
[2] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?».
[3] Elaboro da: Luciano Manicardi, Nelle tenebre una luce. Itinerari di vita nella sofferenza, Ed. Centro Volontari della Sofferenza, 2004.




10 agosto 2025. Domenica 19a
PADRE, SEI UN TESORO!

Domenica 19 C

Preghiamo. Arda nei nostri cuori, o Padre, la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino, e non si spenga la nostra lampada, perché vigilanti nell’attesa della tua ora siamo introdotti da te nella patria eterna. Per Gesù Cristo nostro Signore.

Dal libro della Sapienza 18,6-9 [traduzione dalla Bibbia interconfessionale in lingua corrente].
I nostri antenati furono preavvisati di questa notte memorabile della liberazione. Sapevano dunque a quali promesse avevano creduto e in piena sicurezza potevano rallegrarsi. Perciò il tuo popolo aveva aspettato questa notte come salvezza per i tuoi fedeli e rovina dei loro nemici. Sì, perché le stesse cose ti servono per castigare i nostri nemici  e per glorificare noi, il popolo che hai chiamato e voluto per te. In segreto i discendenti di una stirpe santa ti offrivano sacrifici nella loro fedeltà e si accordavano per rispettare questa legge divina: quelli che appartengono solo a te devono essere solidali tra loro nei momenti belli e in quelli difficili. Essi cantavano i canti del loro popolo.
Salmo 32  Beato il popolo scelto dal Signore.
Esultate, o giusti, nel Signore; per gli uomini retti è bella la lode.
Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore, per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.
Dalla lettera agli Ebrei  11,1-2.8-12
Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
Dal Vangelo secondo Luca 12,32-48
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?».  Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore affidabile e sapiente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.  A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

PADRE, SEI UN TESORO! Don Augusto Fontana

Molti di noi forse possono raccontare di persone che hanno vissuto esperienza di vita terribili restando credenti e fedeli, oranti, resistenti e pieni di speranza avendo trovato in Gesù il piolo dove attaccare la propria vita stracciata. Oltre a singole persone esistono anche piccoli gruppi che sanno restare nella speranza attiva, vigilante e resistente. Il vescovo di Recife, Hélder Câmara[1] in un discorso tenuto a Wurzburg (Germania) parlava, nell’ormai lontano 1971, di «minoranze abramitiche» con chiaro riferimento ad Abramo, diventato il simbolo del credente non solo per gli ebrei ma anche per il cristiano (come apertamente dichiara la seconda lettura biblica di oggi): «La Provvidenza si é incaricata di seminare ovunque – in tutti i paesi,  razze, lingue, religioni, gruppi umani – delle minoranze caratterizzate dal desiderio di servire, dall’irriducibile fame e sete di un mondo più giusto e più umano. Io le chiamo minoranze abramitiche perché, come Abramo, sperano contro ogni speranza…Parla con i tuoi amici, con quelli di casa tua, del tuo vicinato, della scuola, del tuo posto di lavoro, coi tuoi compagni di svago e avrai la sorpresa di scoprire che la tua “minoranza abramitica” esiste già e tu non lo sapevi. Se gli uomini di buona volontà facessero lo sforzo di collegare tra loro queste minoranze abramitiche, la pressione morale liberatrice scatenata acquisterebbe la potenza inimmaginabile dell’energia nucleare che ha sonnecchiato per milioni di anni in seno all’atomo, ma poi é esplosa[2]».
Gesù dice nel Vangelo: «Non temere, piccolo (in greco micròn= microscopico) gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno». (Lc.12,32). Le minoranze abramitiche sono fatte da gente che ha cercato il regno di Dio come un tesoro e vi ha depositato lì il proprio cuore: «Il regno di Dio è simile a un tesoro nascosto in un campo. Un uomo lo trova, lo nasconde di nuovo, poi, pieno di gioia corre a vendere tutto quello che ha e compra quel campo. Il regno di Dio è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose. Quando ha trovato una perla di grande valore, egli va, vende tutto quel che ha e compra quella perla» (Matteo 13, 44-46).
Non è facile per me perché la mia fede è messa costantemente in crisi dalla vita o é rimasta un evento intellettuale o rituale. Domenica scorsa ci siamo sentiti dire: «Tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni». È in gioco la vita. La domanda é seria: da chi dipende la mia vita? Su cosa è appesa o verso dove pende? Il testo evangelico di domenica scorsa prosegue con un brano non utilizzato dalla liturgia, ma che occorre citare perché potrebbe offrire spunti per una risposta: «[22]Poi disse ai discepoli: «Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. [23]La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. [24]Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! [25]Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? [26]Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? [28]Se dunque Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede? [29]Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: [30]di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo (i pagani); ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. [31]Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta». A questo brano fa seguito il brano proclamato nella liturgia di oggi (Lc. 12,33-34) a cui segue una serie di piccole unità letterarie che arrivano fino al cap. 13,21 incentrate sulla vigilanza nell’attesa del Signore. Nella rivelazione biblica é frequente l’affermazione della protezione di Dio. Si ricorre ad immagini (padre, sposo, madre, pastore, guida, custode) e a simboli (ombra, ali, tenda, fortezza, roccia, rifugio). Tutto per rappresentare il rapporto di alleanza e di di amicizia. Parlare di fiducia, attesa vigilante e operativa, resistenza, speranza significa rivisitare la nostra relazione con il Signore.
Dal complesso della rivelazione biblica si possono raccogliere i brani dedicati alla protezione di Dio sotto 3 tipologie: come confessione, come esperienza e come invocazione.

  • Come confessione (Il Signore é…): Siracide 34: «[14]Chi obbedisce al Signore non ha paura di nulla, e non teme perché egli è la sua speranza. [15]Beata l’anima di chi teme il Signore. A chi si appoggia? Chi è il suo sostegno? [16]Gli occhi del Signore sono su coloro che lo amano, protezione potente e sostegno di forza, riparo dal vento infuocato e dal sole, difesa contro gli ostacoli, soccorso nella caduta; [17]solleva l’anima e illumina gli occhi, concede sanità, vita e benedizione».
  • Come esperienza (Il Signore ha fatto…): Giosuè 24: «[17] ll Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati». Salmo 125: «[1] Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. [2]Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Allora si diceva tra i popoli: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. [3]Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia».
  • Come invocazione (Signore fai…): Salmo 17: «[8]Custodiscimi come pupilla degli occhi, proteggimi all’ombra delle tue ali».

Si tratta di confessioni, esperienze e invocazioni che non possono essere capite al di fuori del regime di fede e di relazione con il Signore, sentita come vitale. Chi sono infatti quelli che possono confessare, raccontare e invocare la protezione di Dio?

  • I giusti : «Egli riserva ai giusti la sua protezione, è scudo a coloro che agiscono con rettitudine» (Proverbi 2,7) «Quanto è preziosa la tua grazia, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie». (Salmo dell’onesto 34,8-9)
  • Coloro che amano Dio: «Gli occhi del Signore sono su coloro che lo amano, protezione potente e sostegno di forza, riparo dal vento infuocato e riparo dal sole del mezzogiorno, difesa contro gli ostacoli, soccorso nella caduta; solleva l’anima e illumina gli occhi, concede sanità, vita e benedizione»(Sir. 34,13-17).
  • Quanti cercano Lui prima che i suoi beni: «Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: «Chi è il Signore?», oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio».( Proverbi 30,5-9). «Il Signore è scudo per quanti si rifugiano in lui. C’è forse un dio come il Signore; una rupe fuori del nostro Dio?» (2 Samuele 22,31-32).

Le immagini usate nei salmi sono la trasposizione della fede in storie quotidiane di salvezza: la fortezza che ha salvato dall’assalto del nemico, la roccia sporgente che é stata riparo durante un temporale, diventano eventi in cui la fede del credente arriva a leggere e confessare la mano provvidente di Dio: Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza. (Salmo 17,3). Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre. (72,26).
La mia fede difficile.
La mia fede spesso è un corpo a corpo con il Signore. Il cristiano non può prescindere da come Gesù ha percepito la protezione del Padre. E’ significativa l’esperienza di Gesù che nel Getsemani confessa Dio come “Abbà” e gli chiede che passi quell’ora, ma «non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc.14,36) e «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt. 26,39). C’è dunque un contenuto (secondo Marco: ciò che tu…) e una modalità (secondo Matteo: come tu…) della fede. Anche se persiste una dimensione di enigma: «Possiamo stare sereni pur non avendo ottenuto i beni promessi, ma avendoli solo visti e salutati da lontano…». Gesù continua a proclamare anche sulla croce che Dio é il Suo Dio: «Dio mio …». La protezione che Dio offre non coincide con le forme di rassicurazione che l’uomo si dà; anzi le critica. Io spesso attendo la protezione di un Dio tappabuchi, rimedio alla mia impotenza. È l’idolo che deve obbedire alla mia preghiera intesa come ingiunzione a un Dio sempre disponibile e immediatamente accessibile. La sete del miracolistico e del taumaturgico sembra andare in questo senso. Vorrei che la protezione di Dio sii rivelasse anche nel dolore e nel male. In questa prospettiva vanno colti gli inviti alla vigilanza.  Nel capitolo 4 del Libro di Tobia leggiamo: «5Ogni giorno, o figlio, ricordati del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandi. Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia. 6Se agirai con rettitudine, riusciranno le tue azioni, come quelle di chiunque pratichi la giustizia. 7Dei tuoi beni fa’ elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio. 8La tua elemosina sia proporzionata ai beni che possiedi: se hai molto, da’ molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. 9Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, 10poiché l’elemosina libera dalla morte e salva dall’andare tra le tenebre».


[1] Vescovo brasiliano profeta. Divenne per molti, anche nella Chiesa, come fumo negli occhi. Dalla metà degli anni ’70 in poi, subì un crescente ostracismo e una progressiva emarginazione sia da parte dei politici brasiliani sia da parte della Chiesa. Lo ferì il fatto che non fosse stato chiamato da Papa Paolo VI al Sinodo del 1971 sulla Giustizia nel mondo, lui che era il vescovo che maggiormente si era impegnato a livello mondiale su questo tema. Nel 1977, andato a Roma due volte per parlare con Paolo VI, ne fu impedito dalla stessa Segreteria di Stato. Giovanni Paolo II, quando visitò la sua diocesi di Recife (1980) lo chiamò: “Fratello dei poveri, mio fratello”. Morì novantenne il 27 agosto 1999.
[2] H.Camara Violenza dei pacifici,Massimo, Milano, 1973.