18 maggio 2025. Domenica 5a di Pasqua
NUOVO

Quinta domenica di Pasqua.

Preghiamo. O Dio che nel Cristo tuo Figlio rinnovi gli uomini e le cose, fa che accogliamo come fondamento della nostra vita il comandamento dell’amore, per amare te e amare i nostri fratelli come tu ci ami, e così manifestare al mondo la forza rinnovatrice del tuo Spirito. Per Cristo nostro Signore.
Dagli Atti degli Apostoli  (14,21b-27)
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.
Salmo 144,8-13)(145) Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno e parlino della tua potenza.
Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno.
Il tuo regno è un regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (21,1-5a)
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:  «Ecco la tenda di Dio con gli uomini!  Egli abiterà con loro  ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
Dal vangelo secondo Giovanni (13,31-33a.34-35)
Quando Giuda fu uscito[dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

LA NOVITA’. Don Augusto Fontana

Una parola-chiave di questa domenica: la novità. Due ambiti ove accade la novità: la città, l’amore.
Spesso confondiamo novità con diversità. Noi siamo abituati a dire “Nuova Repubblica, nuovo Governo, nuovo lavoro, nuovo giornale…”. Spesso si tratta di qualcosa diverso dal primo, ma non necessariamente “nuovo”. Non ci vogliono molte argomentazioni per dimostrarlo. Spesso si tratta di robe vecchie riciclate, diligentemente mascherate. Spesso si tratta di trasformismo.<Ecco faccio nuove tutte le cose…; vidi un cielo nuovo e una terra nuova…; vidi la nuova Gerusalemme scendere dal cielo…> dice Apocalisse. <Vi dò un comandamento nuovo…> dice Gesù nel Vangelo. Non voglio disprezzare la diversità, perchè spesso è a forza di diversità che ci si avvicina al nuovo.
Alcune considerazioni:
1- Non abbiamo molta voglia di novità, in quanto la novità chiede di ristrutturarci. Il trasformismo è meno aggressivo nei confronti delle scelte da fare; spesso si cambiano le cose per lasciare tutto come prima. Invece gli apostoli dicevano: <E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio>. La novità ha dei costi iniziali, è un investimento a rischio, fatto nella fede e nella fiducia. Nelle famiglie si pensa maggiormente a cambiare posto ai mobili, pur di non affrontare il problema che nascerebbe da una nuova impostazione dei sentimenti e degli orizzonti della famiglia. Nella Chiesa si fanno molti documenti sul ruolo della donna, si fanno i Consigli pastorali, ma di fatto le parrocchie sono ancora tutte incentrate sul ruolo del prete. Si fanno molte cose per i poveri, ma i poveri non costituiscono il tessuto della Chiesa.

2- La novità, a differenza della diversità e del trasformismo, va a toccare il centro della persona e delle organizzazioni. Il trasformismo, invece, tocca gli aspetti periferici della vita. <Chi non rinasce di nuovo non può entrare nel Regno dei cieli> diceva Gesù a Nicodemo il quale ribatteva:<Come può un uomo rientrare nel seno materno?> dimostrando che non aveva colto che Gesù parlava di una vita nuova e non semplicemente di una vita ricominciata da capo con le stesse condizioni di prima, più o meno. Ecco perchè parlare di novità significa parlare di rinascita e non di semplice crescita o progresso.

3- La novità nasce da una sorgente, da un principio: “Dio è diverso da come lo sto pensando”. Se la sorgente butta acqua inquinata, l’acqua che bevo non sarà mai nuova, ma solo diversa.  Tutto l’immobilismo e il trasformismo della nostra vita religiosa e cristiana nasce da questo equivoco di fondo: abbiamo capito male Dio, ci stiamo rapportando in modo equivoco con Lui.

4- La novità offerta dal Padre non ci interessa più di tanto. La novità inizia dalla Resurrezione, passa attraverso la storia, si completa nel Regno dei cieli. Gli effetti della novità sono descritti dalla pagina dell’Apocalisse. La novità non consiste nel non piangere più, ma nel fatto che Dio asciugherà ogni lacrima; non viene eliminata la morte, ma la morte non è la fine. Forse per questo, la novità non ci interessa. Perchè le novità che attendiamo sono diverse da quelle che ci vengono offerte. E ci giriamo da un’altra parte. Oppure ci rivolgiamo al Dio di Gesù Cristo per ottenere una vita un po’ più frizzantina, ma non nuova.

Impaurito dalle novità di Dio, nella mia preghiera faccio resistenza e pronuncio una preghiera-bestemmia:<Signore liberami dalle tue novità; tienile per te o dalle ad altri; preferisco una mediocrità accettabile piuttosto che una inaccettabile novità pasquale. Non permettere che nessuno mi offuschi l’immagine rassicurante che mi sono costruito di Te; mi vai bene così, con qualche benedizione, qualche bel rito di prima comunione, un prete simpatico e che stia sempre in canonica per farmi un certificato di battesimo appena ne ho bisogno, un rametto d’ulivo, una bella predica possibilmente corta: dammi cose diverse che siano un diversivo, ma che non raggiungano la novità. Dopo si vedrà>.
L’amore e la città.
Quando Gesù dona il suo testamento parlando di comandamento nuovo dell’amore, lo fa nella cornice della sua passione e a contatto con il tradimento. Gesù non si trovava in una idilliaca apericena: si trovava dentro la morsa della storia che lo stava sconfiggendo e schiacciando. Il precetto dell’amore non è un precetto ai margini della realtà, ma nel cuore della cronaca.
L’amore che propone Gesù è “architettonico”[1] cioè destinato a modificare la realtà, non a passarvi sopra come una sterile nebbia che nasconde le cose o che sconsacra i sacrosanti tentativi dei deboli di impedire che i forti facciano loro del male. L’amore nuovo architettonico ci viene descritto dalla pagina di oggi dell’apocalisse: Dio dimora con noi, asciuga le lacrime. Non ci viene garantito che non piangeremo, ma solo che ci verrà impedito di essere affogati dalle lacrime. La novità radicale è che Dio ci vuole bene.

  • L’amore nuovo architettonico viene prospettato come un amore “politico”, cioè che ricostruisce il tessuto di una città, di una convivenza.
  • L’amore nuovo architettonico ha una caratteristica: amatevi come io vi ho amato. E’ quel “come” che dichiara la novità. Un amore creativo, che arriva a dare la vita, che sceglie la debolezza, rifiuta ogni forma di violenza, rispetta la libertà, promuove la dignità, respinge ogni discriminazione, mette in conto la tribolazione.
  • L’amore nuovo architettonico è un amore che deve essere visibile:<Da questo riconosceranno che siete miei discepoli>. Non sarà l’abito o i distintivi o il tipo di culto che distinguerà gli appartenenti a questa nuova comunità, ma questo tipo di amore. Ciò che quaggiù viene edificato nell’amore, non andrà perduto, ma sarà trasfigurato.

Per raggiungere questa novità occorre acclimatarsi. Compiere passi di avvicinamento. Se non ci è concesso ancora di gustare la novità, ci sia concesso almeno di lavorare per la diversità della nostra impostazione di vita. Andiamo all’eucarestia domenicale per sperimentare tutto quanto ci è stato annunciato.
Ci attende una settimana per sperimentare ciò che ci è stato donato.


[1] Balducci in “Il mandorlo e il fuoco” anno C pag.152




11 maggio 2025. Domenica 4a di Pasqua
Pastore e pastori, pecore e pecoroni.

Quarta domenica di Pasqua

Preghiamo. O Dio, fonte della gioia e della pace, che hai affidato al potere regale del tuo Figlio le sorti degli uomini e dei popoli, sostienici con la forza del tuo Spirito, perchè non ci separiamo mai dal nostro pastore che ci guida alle sorgenti della vita. Egli è Dio, e vive e regna con te…
Dagli Atti degli Apostoli 13,14.43-52
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
Salmo 99.  Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.
Acclamate il Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza.
Riconoscete che solo il Signore è Dio:  egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo.
Perché buono è il Signore, il suo amore è per sempre, la sua fedeltà di generazione in generazione.
 Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo 7,9.14-17
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
Dal Vangelo secondo Giovanni 10,27-30
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

PASTORE E PASTORI, PECORE E PECORONI. Don Augusto Fontana

Nella chiesa ognuno è pastore responsabile dell’altro e non solo Papa Leone XIV. Ogni battezzato partecipa al carisma di Gesù: avere cura dei propri fratelli e sorelle.
Ho fatto il mio dovere di contribuente lavoratore dipendente pensionato. Modulo 730, redditi, ritenute, detrazioni e diavolerie varie: tutto diligentemente compilato, insieme con la sottoscrizione per la destinazione dell’otto per mille. Ogni anno l’addetto del CAF sgrana gli occhi ed io gli leggo la domanda: come mai un prete cattolico appone la firma per destinazioni diverse dalla chiesa cattolica? Ebbene sì. Sono convinto che l’ecumenismo non passa solo attraverso le asettiche celebrazioni interconfessionali, ma anche attraverso l’otto per mille interscambiato. Una rotazione ecumenica, per anticipare tempi, se verranno, quando ogni porzione del gregge di Dio offrirà all’altro l’accesso al proprio pascolo. Una competizione di cortesie che farebbe disorientare un mondo che conosce solo il “mio” e il “tuo”. Un atto di fede nel Signore che ha pregato il Padre: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. …Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Giovanni 17, 20-21; 10, 14-16). Anche l’otto per mille crea o abbatte recinti, allarga o restringe ovili, unifica o moltiplica pastori: «Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime» scriveva Pietro[1].
Oggi le Letture bibliche ci dicono ancora una volta come è difficile “dire Dio”: Gesù è chiamato pastore ma anche contemporaneamente agnello: “l’Agnello… sarà il loro pastore”. Un agnello che ha fatto…carriera: è diventato pastore! Linguaggi e teologie estranee al nostro conversare e pensare quotidiano. E quanto è difficile parlare di chiesa come gregge di pecore, ma non di pecoroni. Anzi: comunità di pastori.
Un pastore che condivide.
Gesù pastore. Per di più buono (“bello”). L’immagine si apre su vasti orizzonti di mistica, di organizzazione pastorale, di leadership ecclesiale, di psicologia delle masse, di ecumenismo. Immagine teologica e dolce insieme; ma oggi lontana dall’immaginario europeo dei più. L’esperienza dei pastori dell’antico oriente rappresenta un riferimento lontano dalle attuali nostre condizioni di vita; nella nostra civiltà industriale e urbanizzata, l’immagine del pastore ha perso molto della sua forza e del suo mordente.
Mi dicono che il pastore non è solo guida che conduce ad un’oasi o ad un pascolo. Lui sa dare certezza e sicurezza perchè i sentieri dispersivi o errati sono scartati con precisione dal suo bastone, quindi è un salvatore. Mi dicono che il pastore è anche compagno di viaggio per cui le sue ore sono quelle del gregge: i rischi, la fame, la sete, il sole, la pioggia. Non solo guida, ma anche compagno: «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Ebrei 5, 8-9).
Il Salmo biblico 23 canta: «Signore, pastore mio! Non manco (non mancherò) di nulla».
«Sei il mio pastore». Non sfuggo la domanda: «Chi guida o anima veramente la mia vita?». La domanda non è solo per i mistici. Quale autorevolezza ha Gesù nella mia esistenza, nel determinare i miei sentieri? Come si esprime la sua leadership sui nostri regimi di vita?
«Tu sei con me, non manco di nulla». Non manco di nulla perchè di fatto non mi faccio mancare nulla? E chi manca di tutto, come può pronunciare questa preghiera? Quale sono le graduatorie di valore produttrici delle mie felicità? “Siete stati arricchiti in Lui di ogni cosa, di ogni parola e scienza” (1 Cor.1,5) “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”( 1 Cor. 3, 22-23).
«La valle oscura», le tempeste della vita: chi ci vive dentro ha bisogno di sentire un Dio condividente: «Non temere vermiciattolo, larva! Non temere perchè io sono con te, non smarrirti perchè io sono il tuo Dio» (Isaia 41, 10. 14). «Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno; mai permetterà che il giusto vacilli» (Salmo 55,23). «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Lettera ai Romani 8, 35).
Scriveva il teologo Carlo Molari[2]: «Mi sembra sia Anthony de Mello a raccontare di una sua preghiera che non trovava risposta. Di fronte ad una madre in pianto perchè il figlio moriva e non sapeva cosa fare, egli pregava: “Che stai facendo, mio Dio, per questa madre a cui muore il figlio? Non vedi come soffre?”. L’unica risposta era il silenzio. Solo dopo lungo pregare sentì chiara la risposta: “Che faccio? Per questa madre ho fatto te!” . Pregare quindi non è chiedere a Dio di intervenire al nostro posto, ma è aprirsi alla sua azione per diventare capaci di accoglierla in modo così ricco da essere in grado di compiere per noi e per gli altri ciò che la vita ci chiede».
La figura del Dio-pastore nasce prevalentemente dall’esperienza del deserto dell’esodo: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni…Custodisci i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo»[3].
Il deserto è un evento durante il quale due partner si conoscono e si ri-conoscono. Succede anche nella vita: ci si conosce stando insieme, litigando e perdonandosi, servendosi a vicenda. Un beduino espulso dal proprio clan o viene accolto da un altro clan o muore.
Il deserto è una lezione che l’uomo riceve: per la vita non basta il pane, occorre la Parola di Dio. Il deserto è “assenza di…”: nella sabbia non si può nè costruire città nè piantare orti e giardini; anzi il deserto tende ad invadere l’area coltivata. Il deserto rappresenta ogni tempo dove è possibile maturare come succede per l’apprendistato, il fidanzamento, l’adolescenza. Il deserto rappresenta una lunga dilazione della promessa e della sua realizzazione; è un tempo intermedio di attesa, speranza, rassegnazione, disperazione, impazienza, mormorazione, costanza, tenacia, resistenza, fedeltà.  Nel deserto si cammina. In questo cammino dell’esodo Dio si presenta come uno che accompagna, che guida, che precede, come un pastore. Dio di fatto sembra dare direzioni generiche del tipo “Andate verso Nord!” e spetta quindi all’uomo precisare il proprio cammino. Il simbolo di questa assistenza è la nube che si ferma, si avvia, sceglie la direzione; successivamente sarà l’Arca della alleanza a dimostrare che il popolo pellegrino desidera camminare dietro il suo Signore. Gesù dirà a Pietro che vuole mettersi davanti a lui: «Torna dietro a me, Satana!» (Mc.8,33). Può accadere infatti che i suoi sentieri non siano i nostri sentieri e che quindi li si smarriscano, smarrendo anche noi stessi. Bisogna quindi cercare il Signore fin che si fa trovare, dice Isaia (Is.55,6-8).
In quale contesto Giovanni presenta Gesù come pastore? Probabilmente ai tempi di Giovanni già una comunità organizzata offriva spunti di riflessione a causa di certi presbiteri o responsabili non all’altezza.: «hanno pasciuto se stessi, non hanno dato forza alle pecore deboli, non hanno cercato quella malata, nè fasciato quella ferita, non hanno ricondotto la smarrita, nè cercato quella che era perduta ed hanno oppresso con durezza quella robusta»[4]. Giovanni sente la necessità di ricordare chi è il vero e unico pastore della chiesa e, comunque, a quale modello devono riferirsi quelli che si fanno chiamare pastori o a quale modello dovesse riferirsi una comunità che volesse esercitare il proprio ministero pastorale nel mondo.
Una comunità “pastorale”?
Scriveva Papa Francesco[5]Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 120). Bisogna guardarsi dalla mentalità che separa preti e laici, considerando protagonisti i primi ed esecutori i secondi, e portare avanti la missione cristiana come unico Popolo di Dio, laici e pastori insieme. Tutta la Chiesa è comunità evangelizzatrice… Siamo chiamati a essere custodi gli uni degli altri, a costruire legami di concordia e di condivisione, a curare le ferite del creato perché non venga distrutta la sua bellezza. Insomma, a diventare un’unica famiglia nella meravigliosa casa comune del creato, nell’armonica varietà dei suoi elementi… La vocazione, come d’altronde la santità, non è un’esperienza straordinaria riservata a pochi. Come esiste la “santità della porta accanto” (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6-9), così anche la vocazione è per tutti, perché tutti sono guardati e chiamati da Dio…Mettiamoci allora in ascolto della Parola, per aprirci alla vocazione che Dio ci affida! Per questo la Chiesa deve diventare sempre più sinodale: capace di camminare unita nell’armonia delle diversità, in cui tutti hanno un loro apporto da dare e possono partecipare attivamente».
Papa Francesco il 28 marzo 2013 si era rivolto al clero di Roma così: “Questo vi chiedo: di essere pastori con l’odore delle pecore. L’unzione non è per profumare noi stessi e tanto meno perchè la conserviamo in un’ampolla, perchè l’olio diventerebbe rancido e il cuore amaro“.


[1] 1 Lettera di Pietro 2, 25.
[2] Carlo Molari Pregare ancora? in ROCCA 21/96 Pag. 50-51.
[3] Deuteronomio 8
[4] Ezechiele 34, 2. 4
[5] Messaggio dell’8 maggio 2022 per la 59a giornata mondiale di preghiera per le vocazioni.




4 maggio 2025. Domenica 3a di Pasqua
SANTUARIO LAVORO

Domenica 3° di Pasqua – 

Preghiamo. Padre misericordioso, accresci in noi la luce della fede, perché nei segni sacramentali della Chiesa riconosciamo il tuo Figlio, che continua a manifestarsi ai suoi discepoli, e donaci il tuo Spirito, per proclamare davanti a tutti che Gesù è il Signore.
Dagli Atti degli Apostoli (5,27b-32.40b-41)
In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
Salmo 29(30) Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza, Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni aposto­lo (5,11-14)
Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.
Dal Vangelo secondo Giovanni (21,1-19) (forma breve)
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.

SANTUARIO LAVORO. Don Augusto Fontana

Nel cap. 38 del Siracide c’è un elenco di arti e mestieri come erano allora conosciuti. La Bibbia dice, di questi lavoratori, che “confidano nelle loro mani e ciascuno è abile nel suo mestiere. Senza di loro la città non può essere costruita e nessuno potrebbe avere ciò che occorre alla vita“. Poi l’autore sacro aggiunge un’espressione molto bella: “Queste persone assicurano il funzionamento del mondo e il loro lavoro intelligente è una vera preghiera“.
Oggi i piedi del risorto si posano nelle vicinanze di una pescheria, dove la gente si guadagna volgarmente la pagnotta senza sospettare né attendere mistici incontri: «Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva» (Giovanni 21, 1-14). L’evento accade anche al di fuori di quel giorno – l’ottavo giorno – che siamo ormai abituati a riconoscere come il giorno dedicato alla memoria liturgica e comunitaria, grande coordinata temporale della pasqua. L’evangelista non ne fa cenno. C’è una laicità suggerita, in questo incontro pasquale accaduto su un luogo e in un tempo di lavoro. Qualcuno storcerà la bocca ricordandomi che il mestiere di pescatore evoca la più “nobile” attività pastorale e missionaria: «Gesù disse loro: Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini» (Marco 1, 17).  Il capitolo 21 di Giovanni è un’appendice aggiunta molto tardivamente da una comunità di discepoli effettivamente stressati da alti e bassi di fecondità e infecondità pastorali. Comunque sia, l’infecondità e l’aridità che affiorano nell’annotazione evangelica descrivono bene le ombre crepuscolari di molti operai del Regno, dell’educazione, dell’ascesi o del lavoro: «…ma in quella notte non presero nulla». Per ricordarci, se ce ne fosse ancora bisogno: «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla»[1]. La laicità di quel tempo e spazio è mitigata solo dalla ritualità di un pasto, che ha il sapore della cena pasquale di qualche sera prima. Ritualità solennizzata nei sogni dell’Apocalisse (Apocalisse 5, 11-14).  Ma spero che nessuno neghi che la Risurrezione ha consanguineità e parentela con quel corpo seminudo del pescatore Pietro (che non ha modo di rivestirsi di paramenti liturgici per andare incontro al suo Signore) o con la nostra fede offuscata di discepoli che faticano a riconoscere il loro Signore davanti ad un cespuglio acceso in un freddo ed infruttuoso tempo di lavoro.
Per 26 anni (ora sono in pensione) ho fatto fatica a cercare e trovare coordinate pasquali nel mio lavoro si prete-operaio, ma non ho mai smesso di cercarle con il naso all’insù o ficcato dentro gli eventi. Come la moglie del Rabbi di Berditschev che, mentre cuoceva i pani per il Sabato, usava pregare: «Signore del mondo, ti prego, aiutami; quando il mio Rabbi sabato prossimo dirà la benedizione su questi pani, abbia nel suo cuore tutto ciò che io ho nel mio cuore in quest’ora che li impasto e li cuocio»[2].
Quando hai nascosto il Tuo volto…
«Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo (Gemello), Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”.  Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”.  Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla». Sembrerebbe una chiesa meticcia e a ranghi ridotti. Sono in sette: giudei, galilei ed ex pagani. Il capitolo 21 è stato aggiunto all’evangelo di Giovanni forse nel 130-140 d.C. Con molta probabilità la missione ha già disperso gli apostoli. Forse alcuni dei primi grandi testimoni e protagonisti sono morti e sono subentrati i discepoli, quelli noti e quelli anonimi. Pietro guida il lavoro e la missione, ma non ci sono garanzie: «Nella mia prosperità ho detto: «Nulla mi farà vacillare!». Nella tua bontà, o Signore, mi hai posto su un monte sicuro; ma quando hai nascosto il tuo volto, io sono stato turbato» (Salmo 30, 7-9). Ci sono tempi in cui preferiremmo il contrasto aperto che abbia il vago sapore di martirio o di testimonianza eroica: «Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (Atti 5, 27-41).  Ci toccano invece aride fatiche o assonnate indifferenze circostanti, improvvisamente accostate da rare Sue visite che accogliamo con l’usuale confusa fede: «Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù». Scrive Franco Barbero che questo capitolo dell’evangelo di Giovanni: «…è una pungente parabola del nostro cammino di fede. Anche quando Dio tace e non ci dà le risposte che noi ci aspetteremmo, non è indifferente alla nostra vita: senza il silenzio di Dio non possiamo diventare uomini e donne […] Dio rimane silenzioso affinché uomini e donne possano parlare, protestare e lottare. Dio rimane silenzioso affinché possiamo diventare realmente noi stessi. Quando Dio è silenzioso e gli uomini e le donne gridano, Dio grida in solidarietà con loro; ma Dio non interviene, Dio aspetta le grida di protesta. Quindi Dio comincia a parlare di nuovo, ma in dialogo con noi» (Elsa Tamez, Concilium 1/2001, pag. 33). [3]
Gesù arriva all’alba. «Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino, ecco la gioia» (Salmo 30). Perché il Signore nasconde il suo volto fino ad un’ora mattutina che pare non giungere mai? Perché questo nostro tempo è così ipercinetico, attivo, produttivo e genera fantasmi e ci restituisce pochi euro e scarsa umanità?
Penso al grande alveare umano del lavoro, al correre infinito dietro le ore, agli incastri sempre più fitti di attività e impegni e servizi. E insieme ascolto lamenti e odo l’urlo dell’anima dei colpiti, degli sconfitti, dei frustrati: «Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami, Signore: tremano le mie ossa. L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando…? Volgiti, Signore, a liberarmi, salvami per la tua misericordia. Sono stremato dai lungi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto. I miei occhi si consumano nel dolore, invecchio fra tanti miei oppressori» (Salmo 6). Lamenti agonici di chi attende che si realizzi la promessa del Salmo 125: « Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni». Il raccolto tarda nell’attesa di un suggerimento: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Forse abbiamo gettato le reti dalla parte sbagliata?  «Se manca il suggerimento dello Spirito, la Chiesa rischia di scegliere sempre la parte sbagliata. Per gli ebrei il lato destro è quello della benedizione di Dio. La grande quantità di pesci è stata tirata su dalla docilità alla Parola»[4].
Gesù non accompagna i suoi nella pesca, come invece ricorda Luca: «Salì in una barca, che era di Simone». Non sta “in mezzo a loro”, in barca, ma li assiste stando sulla spiaggia che è il limite del mare e rappresenta il terminale della storia, come commenta S. Agostino[5]. Giunge un tempo  – e forse è il nostro – che diventa tempo di responsabilità, tempo in cui Lui è vicino ma non “in mezzo”, è a media portata dei nostri ascolti e delle nostre intuizioni. È il tempo delle sensazioni di solitudine e della precarietà delle scelte e delle obbedienze. È il tempo del lavoro in attesa del pasto liturgico dove, accostandoci, possiamo vederlo più da vicino e portare anche il nostro pesce a friggere con il suo, quello che lui ha preso chissà come e chissà dove: «Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: Portate un po’ del pesce che avete preso ora».
I suoi pesci con i miei. E i suoi pani.
Una delle realtà umane più diffuse è il lavoro.  Chi studia si sta preparando al lavoro, gli adulti lavorano, i disoccupati cercano lavoro, i pensionati sono reduci della produzione, espulsi e quindi fuori dal circuito di chi conta.  Il lavoro costituisce una condizione talmente normale da farci rischiare di non accorgerci che esiste come problema e come chance. È cioè una condizione data per scontata, mentre scontati non sono i problemi connessi con l’evangelizzazione, con la catechesi e con la moralizzazione delle attività professionali, sindacali, corporative. Esemplifico:

  • la generale richiesta di moralizzazione del servizio pubblico non è rivolta solo ai vertici dei pubblici servizi, ma anche ai singoli operatori, impiegati, professionisti da cui dipende in larga misura l’efficienza e l’efficacia dei servizi. Dove spariscono i cristiani che alla domenica hanno celebrato l’Eucarestia pasquale e durante la settimana dovrebbero attenersi a rigorosi e rispettosi comportamenti professionali? La perdurante immoralità e corruzione non richiama la Chiesa ad uno scatto di urgente ri-evangelizzazione di un paganesimo pratico e idolatra che si consuma negli ambienti di lavoro?
  • la tendenza attuale a ragionare in termini corporativi e non di “bene comune” pone seri problemi non solo al sindacato o alla Confidustria, ma anche a chi, come alla Chiesa, sta a cuore una equa ridistribuzione del reddito e dei benefici sociali, perché i beni sono di Dio/di tutti e noi ne siamo solo amministratori.
  • la ricerca di una equità fiscale che attenui la divaricazione tra poveri sempre più poveri e garantiti sempre più garantiti non è estranea all’Evangelo dei profeti e di Gesù. L’equità fiscale non sarà solo frutto di nuove leggi o di uno stato poliziesco, ma primariamente di una nuova coscienza. Anche pasquale. Se la logica della croce non incomincia a concretarsi in qualche martirio quotidiano, dove andrà a posarsi?  «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» dicono gli apostoli guadagnandosi così una pesante fustigazione. Per molto meno, a noi, viene chiesto non il martirio, ma testimonianze che hanno un loro costo.
  • la prassi diffusa del doppio lavoro e del lavoro nero, la condizione dei turnisti, il lavoro precario o interinale, la gestione del bilancio familiare, sono o non sono problemi per i quali la comunità cristiana deve saper offrire un contributo di denuncia, di consolazione, di annuncio?
  • la crisi del sindacato e della militanza sindacale é finalmente una liberazione oppure é il segno di un rigurgito di individualismo e di una abdicazione di responsabilità di cui e per cui la Chiesa soffre?
  • La crescita del mercato e la diminuzione della solidarietà hanno qualcosa da spartire con l’annuncio che Dio é Padre?

[1] Giovanni 15,5
[2] Fonte: SeFeR  n. 93/2001 pag.3.
[3] http://web.tiscalinet.it/viottoli/
[4] A.Pronzato PAROLA DI DIO. Commenti alle 3 letture della domenica Ciclo C, Gribaudi editore, Torino, 1988, pag. 105
[5] Agostino, Comment. in Ioan., 122, 6 s.




27 aprile 2025. Domenica 2a di Pasqua
CREDENTI E CREDIBILI

2° domenica di Pasqua
Preghiamo. O Padre, che nel giorno del Signore raduni il tuo popolo per celebrare colui che è il Primo e l’Ultimo, il Vivente che ha sconfitto la morte, donaci la forza del tuo Spirito, perché, spezzati i vincoli del male, ti rendiamo il libero servizio della nostra obbedienza e del nostro amore, per regnare con Cristo nella gloria. Egli è Dio, e vive e regna con te…
 Dagli Atti degli Apostoli 5,12-16
Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti.
Sal 117  Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne: «Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore: «Il suo amore è per sempre».
La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!
Ti preghiamo, Signore: Dona la salvezza!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Il Signore è Dio, egli ci illumina.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo 1,9-13.17-19
Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù. Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alla sette Chiese. Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo.
Dal Vangelo secondo Giovanni 20,19-31
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato [letteralmente nel testo greco: il primo dei sabati], mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo [gemello], non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”. Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Credenti e credibili. Don Augusto Fontana

beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”… Nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava

Credere ed essere credibili: sono le due fatiche che conosciamo bene. Alla prima fatica dedicano più attenzione i battezzati laici i quali ritengono ancora che la seconda fatica debba invece essere soprattutto la fatica dei preti, del Papa, dei vescovi.
In giro per il mondo e per la Chiesa esistono situazioni di grande sofferenza tra settori della Chiesa che cercano di rendere credibile la novità pasquale attraverso gesti di generosità, di onestà di vita e di parola, di condivisione con le realtà mortifiche e mortificanti. Ma esistono anche altri settori che, per ragioni diplomatiche o legalistiche, contrastano o abbandonano i testimoni scomodi al loro destino di emarginazione.
Il problema oggi si è fatto acuto perchè esiste un fenomeno di “identificazione parziale” con la Chiesa sia da parte del mondo laico non credente o scettico e sia anche da parte di molti cristiani che si identificano nella Chiesa con un piede dentro e uno fuori. Ne abbiamo una prova in questi giorni di lutto per la morte di Papa Francesco: abbiamo sentito parole di ipocrita lode. E abbiamo ricordato la Santa Scrittura (Matteo 23,29) Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti“.
Credenti.
«Se non vedo non credo…Beati quelli che crederanno senza aver visto…Questi segni sono stati scritti perchè crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiate la vita» (Giovanni 20 19-31).  La chiesa è il luogo dove avviene la crescita della fede, dove si elabora, fra mille dubbi e difficoltà, questo atteggiamento. Giovanni ha concentrato in Tommaso la <resistenza alla fede>. Tommaso era chiamato “Didimo” cioè “il gemello”. Gemello di chi? Di me, di te.
Scrive padre Ermes Ronchi: «Tommaso sperimenta la fatica di credere, come noi. Eppure in nessuna parte del Vangelo è detto che la fede senza dubbi sia più sicura e affidabile della fede intrecciata alle domande (anzi la prima parola di Maria non è un «sì», è invece una domanda: come è possibile che io diventi madre?). Non esiste fede esente da domande e da dubbi. Tommaso però, pur dissentendo dagli altri apostoli, non abbandona il gruppo e rimane; e il gruppo, a sua volta, non lo esclude. Modello per le nostre assemblee: quando i dubbi sorgono, quando situazioni difficili o errori della comunità ti scoraggiano, non andartene, non isolarti, non sentirti escluso, resta all’interno della comunità. Non stancarti di porre le tue domande: qualcuno, custode della luce, ti porterà la risposta. Otto giorni dopo venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo… Mi conforta pensare che se trova chiuso, Gesù non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì. Gesù viene e si dirige verso colui che dubita: Metti qua il tuo dito, stendi la tua mano, tocca!. E nella mano di Tommaso, che trema, ci sono tutte le nostre mani. Tommaso passa dall’incredulità all’estasi: Mio Signore, mio Dio. “Mio” come lo è il respiro e, senza, non vivrei» .
La finale del Vangelo di Marco (16,14) precisa: «Apparve agli undici, mentre erano a tavola, e rimproverò la loro incredulità e durezza di cuore, perchè non avevano creduto». Così Matteo 28,17: «Alcuni però dubitavano». La fede pasquale non è frutto di una facile esaltazione e di visioni di dubbia origine, ma nasce dopo resistenze negative.
Nell’itinerario della fede della Chiesa non esistono percorsi garantiti, schemi pianificati, ma una maturazione personale con tempi e modalità proprie. C’è posto per chi dubita e per chi sta crescendo. Crescita non significa allevamento o addestramento. La Chiesa tiene aperte le porte a coloro che cercano, si interrogano, si dibattono nell’incertezza, incespicano. C’è spazio anche per i ritardatari.
Credibili.
L’onere della prova della risurrezione non è più affidata alla tomba vuota, ma alla prassi dei credenti.
«Aumentava il numero di coloro che credevano nel Signore…il popolo esaltava i discepoli…e portavano i loro malati e tutti venivano guariti» (Atti 5,12-16). «Io Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione e nella costanza in Gesù» (Apocalisse 1,9-19).
E’ vero che la credibilità non è questione di adesioni di massa: a volte la massa non corre dietro ai profeti e sembra disertare i luoghi del loro vero benessere. Tuttavia all’epoca di Papa Giovanni XXIII e del Concilio la Chiesa sembrava aver riacquistato udienza presso tutti gli uomini di buona volontà. Oggi Papa Francesco pare abbia riaperto i giochi; ma nel lungo periodo dovrà trasformare anche le strutture ecclesiastiche, affrontare i nodi della Sinodalità e dei Ministeri/Servizi che da decenni sono nel cassetto e nel cuore amareggiato di molti di noi. Ma affidare tutto al Papa è una imperdonabile delega. Nel profondo di ciascuno si annida il desiderio di incontrare uomini di speranza, di condivisione, di liberazione. La corsa forsennata verso le madonne parlanti e le devozioni pellegrinanti è una spia di allarme che la dice lunga sul bisogno dell’uomo d’oggi di reincontrare il mistero di un Dio che circola ancora tra noi come portatore di novità di vita, di sollievo, di benessere.
Soprattutto la folla ha bisogno di gente che diventa credibile per il fatto che diventa compartecipe, dall’interno, della passione e della tribolazione quotidiana, proprio come si autodefinisce Giovanni all’inizio dell’Apocalisse: fratello e compagno delle vostre tribolazioni e fedeltà.
Ed occorre anche pregare per questa Chiesa credibile sparsa nel mondo e che paga duro pur nell’ostilità interna ed esterna ed anche nella indifferenza, forse, mia e tua.




LIEVITO DI PASQUA AL LAVORO
Don Augusto Fontana

LIEVITO DI PASQUA AL LAVORO. Don Augusto Fontana
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L come Lievito.
Ho cercato un’immagine che potesse esprimere il significato della Pasqua ebraica, di Cristo e della Chiesa. L’ho trovata nel segno del lievito. Del lievito se ne parla nella Bibbia una ventina di volte nell’Antico e nel Nuovo Testamento.  In particolare Paolo scrive ai Corinti (1 Cor 5): «Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?  Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi». Parlerò dunque del “Fattore L” cioè del lievito come chiave interpretativa della Pasqua di Gesù e della Chiesa.
Risaliamo a circa 2000 anni prima di Cristo, quando agli ebrei, in occasione della loro Pasqua, veniva intimato, pena l’eliminazione dalla comunità, di buttare via il lievito vecchio per una settimana affinchè nella farina del nuovo raccolto non andasse a finire un lievito vecchio, ma venisse fermentata da lievito nuovo. Mettere il lievito vecchio nella pasta del pane ricavata dal nuovo raccolto del grano significava profanarne la santità: «Il 14 del primo mese di Nisan sarà per voi un memoriale e lo festeggerete come festa del Signore di generazione in generazione come rito perenne. Nel primo giorno, e per 7 giorni, farete sparire il lievito dalle vostre case. Non mangerete niente di lievitato e mangerete pani azzimi». Il lievito se è vecchio corrompe, se è nuovo dà volume, bontà e consistenza. Gesù ha usato il lievito per parlare di sè e del Regno di Dio: «È simile al lievito, che una donna prese e nascose in tre misure di farina» (Lc 13,21).
Lievito al lavoro.
Lievito al lavoro” potrebbe significare: “Il lievito è già al lavoro” cioè attualmente il lievito del Regno di Dio “sta lavorando” e occorre scoprirne la sua presenza per proteggere, aiutare, annunciare questa nascosta fermentazione. “Lievito al lavoro” potrebbe anche significare “occorre più lievito nel lavoro!” perchè il lavoro è sempre più simile a un pane azzimo secco per tempi di sopravvivenza, piuttosto che ad una pagnotta lievitata da umanizzazione ed eucarestia. Anche la comunità cristiana, in tutto il suo impegno di catechesi e liturgia, non può tenere troppo a lungo separati la farina e il lievito; è urgente tornare a mescolare il lievito al lavoro e il lavoro al lievito, per evangelizzare il lavoro, l’economia, la politica (CEI Evangelizzare il sociale, 1992).
Lievito al lavoro” potrebbe anche significare: “occorre onorare l’attività lavorativa di uomo e donna, riconoscendole valore lievitante per la vita personale e per la convivenza”. È giusto che la chiesa riconosca al lavoro un valore aggiunto oltre quello di pura sussistenza. Per proclamare questo “Credo” occorre saper rispondere alla domanda: nell’organizzazione del lavoro, negli ambienti di lavoro, nei lavoratori, nella attenzione della comunità cristiana verso i lavoratori sta davvero lievitando qualcosa di evangelico? Dove? Come?
Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 4) scrive tra l’altro: «Sappiamo che l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale dell’uomo… Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo».
La Pasqua è al lavoro non solo nelle celebrazioni del Triduo Santo o nella Pasqua settimanale, ma anche quando il ritmo pasquale (uscire da schiavitù, camminare per deserti, entrare come popolo, celebrare) pulsa nella liturgia scalza del lavoro, delle relazioni inclusive, del volontariato, della politica.
Nel giorno della Pasqua di Gesù mi è venuto spesso il sospetto che fin dal giorno della Incarnazione Dio avesse nascosto, nella piccola e povera carne e storia di Gesù, il lievito dell’uomo nuovo. Ci sono voluti 33 anni di lievitazione, ora finalmente Dio approva la vita di Gesù e ne fa l’icona di ogni uomo che voglia navigare con le vele rigonfiate dal soffio dello Spirito.  La liturgia dell’Epifania ogni anno ci fa proclamare che la festa di Pasqua è il lievito di tutte le feste. Occorre togliere il vecchio lievito di generiche religiosità per far passare le domeniche, le feste dei santi, di Maria, del Natale, alla loro vera funzione pasquale. Non celebrazioni light, inconsistenti, consolatorie; ma che provochino le nostre uscite dalle sacrestie, il nostro coraggio, la dimensione comunitaria della fede.
Nascosti nella farina.
Il fattore L permette di reinterpretare le vicende della vita in chiave pasquale. Mi basti citare un breve passo dell’Enciclica Evangelii nuntiandi di Paolo VI :«Il campo proprio dei laici è il vasto e complicato mondo della politica, della realtà sociale, dell’economia; così pure della cultura, delle scienze, delle arti, della vita internazionale, degli strumenti di comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza» (E.N. 70).
Per tornare al segno del lievito: occorre mettere a terra le beatitudini che sono un assaggio della resurrezione. Ci fu un tempo in cui occorrevano santi re, papi e regine; ci fu un tempo in cui occorrevano santi preti e monaci; oggi è tempo di santi laici negli ambiti della famiglia, del lavoro, della politica e dell’economia: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prende e nasconde in tre misure di farina, finché la pasta sia tutta lievitata» (Mt 13,33). Come il lievito diffonde la sua forza in tutta la pasta, cosí anche voi – vuol dire Gesú – dovete trasformare il mondo intero “nascondendovi dentro” alla farina (e non solo accostandovi alla farina o sfiorandola). «Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani» (Lettera a Diogneto, 6).
Nell’epoca che Zygmunt Bauman ha ricon­dotto alla categoria della liquidità, diventa flut­tuante anche la fede cristiana, come un salvagente mezzo sgonfio nel mare aperto del mercato spirituale contempo­raneo. In fondo la liquidità tende a liqui­dare o diluire anche ogni fede. Se la comunità cristiana attenua la propria radicalità e si trasforma in un cristianesimo all’acqua di rose, finisce per perdere la sua carica d’interesse e di attra­zione. Non c’è una ricetta cristiana, ma c’è la permanente pos­sibilità di essere un lievito, un sapore, dentro un faticoso processo di uma­nizzazione. In esso la radicalità evangelica si presenta spoglia ma forse, proprio per questo, in grado di dire una parola credibi­le alle donne e agli uomini del mondo con­temporaneo. «Il Giubileo inizia fuori dal tempio con azioni concrete e in piazza» scrive l’economista e biblista Luigino Bruni (Avvenire 08/04/25, pag 15). E’ dunque ora che i cristiani ritrovino l’essenziale: annunciare la risur­rezione, praticare la giustizia, evangelizzare il sociale.




13 aprile 2025
Passione di Gesù detto il Cristo, secondo Luca 

Il racconto della passione/risurrezione di Gesù è il primo e originario nucleo attorno al quale è cresciuto e si è strutturato il resto del Vangelo. Se un qualche dittatore mi obbligasse a distruggere il Vangelo permettendomi di tenere solo alcune pagine, senz’altro salverei questi ultimi capitoli, perchè QUESTI SONO L’EVANGELO. Gli altri capitoli sono un commento a questi.
Il resto della Bibbia ci rivela Dio di spalle: ci dice ciò che ha fatto per noi. Qui invece lo vediamo faccia a faccia, in ciò che si è fatto per noi. Dio non ha più veli: <Quando avrete innalzato il Figlio dell’Uomo, allora saprete che IO-SONO> (Giov.8,28), cioè conoscerete JaHWeH. La croce è la distanza che Dio si è preso dalla cattiva immagine che abbiamo di Lui e dalla diffidenza che il serpente ha suggerito all’uomo. Sulla croce Dio tace, ma il suo silenzio grida la sua essenza che è amore nel quale Dio e uomo diventano <una sola carne>. Nella Natività di Gesù, Dio si è fatto carne; nei 3 anni di vita pubblica di Gesù adulto, Dio si è fatto tenerezza e parola; nella Passione di Gesù, Dio si è fatto morte, dolore e dono; nella Resurrezione Dio si è fatto vita.
Il racconto della Passione, di per sè non andrebbe commentato perchè tutta la Santa Scrittura è un commento già fatto a questi eventi e a sua volta trova nella croce la chiave interpretativa del suo enigma. Dovrebbe essere solo una Parola da proclamare, pregare, baciare, adorare. Ciò che noi proviamo per Lui passa in secondo piano rispetto a ciò che Lui prova per noi. Tuttavia, essendo ancora bambini, abbiamo bisogno che certi bocconi siano preventivamente triturati. Il nostro commento apparirà come un goffo tentativo di sbocconcellare il racconto non per un godimento estetico o intellettuale, ma per una auspicabile contemplazione.

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca  (22,14-23,56)

Quando venne l’ora, [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi. Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a quell’uomo dal quale egli viene tradito!». Allora essi cominciarono a domandarsi l’un l’altro chi di loro avrebbe fatto questo.
Prendere, spezzare, distribuire, dare: sono i verbi eucaristici lasciati da Gesù in eredità a noi. Gesù vuole che moltiplichiamo quei verbi non solo nel rito della Messa ma anche nella nostra vita quotidiana.
E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele. Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi». Poi disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra gli empi”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli disse: «Basta!».
Sulla mensa eucaristica della domenica ci sarà sempre il nostro peccato e il suo perdono in un incrocio di mani che danno, prendono e consegnano.
Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde in ginocchio e pregava dicendo: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».
Mentre ancora egli parlava, ecco giungere una folla; colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, li precedeva e si avvicinò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?». Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate! Basta così!». E, toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Come se fossi un ladro siete venuti con spade e bastoni. Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre». Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche Pietro sedette in mezzo a loro. Una giovane serva lo vide seduto vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: «Anche questi era con lui». Ma egli negò dicendo: «Donna, non lo conosco!».  Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei uno di loro!». Ma Pietro rispose:  Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questi era con lui; infatti è Galileo». Ma Pietro disse:«O uomo, non so quello che dici». E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.
La nostra testimonianza cristiana ce la giochiamo nei cortili della vita quotidiana dove mettiamo a nudo i nostri compromessi, gli alibi, le paure, le incoerenze. Ma Gesù non smette di incrociare il suo sguardo con la nostra coscienza.
E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo picchiavano, gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?». E molte altre cose dicevano contro di lui, insultandolo.  Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i capi dei sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al loro Sinedrio e gli dissero: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi». Rispose loro: «Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo siederà alla destra della potenza di Dio». Allora tutti dissero: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?». Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono». E quelli dissero: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca». Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re».  Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna». Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.  Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia. Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere. Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?». Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori. Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».  Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo:«Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male. Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Le prime conseguenze dell’amore crocifisso di Gesù si vedono subito: è stato liberato Barabba e ora è accolto un altro assassino. Si inaugura così l’infinita catena di balordi salvati, tra cui io e te.
Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.
Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo.
Ci uniamo a tutti i profeti minacciati, ai malati, gli anziani, i profughi, i traditi ingiustamente, gli indios crocifissi dalle economie da rapina, gli operai senza tutele, gli strangolati dagli usurai, le donne minacciate e violate, gli emarginati dalle Chiese, i perdenti, gli agonizzanti, i figli di nessuno, le bambine prostituite, i barboni, i torturati.
Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatèa, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parascève e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto.




6 aprile 2025. Domenica 5a Quaresima
COLPEVOLE GRAZIATA

Quinta domenica Quaresima

Preghiamo. «Dio di bontà, che rinnovi in Cristo tutte le cose, davanti a te sta la nostra miseria: tu che hai mandato il tuo Figlio non per condannare ma per salvare il mondo, perdona ogni nostra colpa e fa che rifiorisca nel nostro cuore il canto della gratitudine e la gioia del saper perdonare».
Isaia 43, 16-21
 Così dice il Signore che offrì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti che fece uscire gli Egiziani con carri e cavalli, esercito ed eroi; essi giacciono morti: mai più si rialzeranno; si spensero come un lucignolo, sono estinti. Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.
Salmo 126. Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni.
Lettera di Paolo ai Filippesi 3.
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.  Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Dal Vangelo secondo Giovanni 8,1-11
Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio e, la posero in mezzo, e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia poichè insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo e la donna era là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

COLPEVOLE GRAZIATA. Don Augusto Fontana

 Cosa c’entra la giustizia con la legge?  S.Paolo parla spesso di giustizia e di giustificazione. Mi ha sempre colpito il fatto che la parola giustificazione è composta da due termini latini e cioè “iustum-fàcere” e che tradotta bene significa “rendere giusti“. Ora, l’amministrazione della giustizia umana può raggiungere il massimo quando dichiara che un uomo ha veramente compiuto o non compiuto il delitto di cui è accusato. La Bibbia, invece, dice che Dio giustifica, cioè rende giusti. La giustizia umana non potrà mai compiere il miracolo di ristrutturare la persona, il suo passato e il suo futuro. Dio invece crea dal nulla, rende giusti gli imputati e i giudici, i guardoni e i preti, gli innocentisti e i colpevolisti. Sono in ansia perchè non so come farò a spiegare, domenica prossima, alle vecchiette della mia parrocchia, il fatto di Gesù che “giustifica” l’adultera.
Faccio nuove tutte le cose (Isaia 43).
 Quasi tutti abbiamo avuto prima o poi dei sogni. Il risveglio ci ha resi superstiti, stanchi realisti. Fu così al tempo del discepolo di Isaia. I suoi concittadini deportati erano caduti in una fede rattrappita e erano sul punto di lasciarsi andare. Molti erano rimasti ancorati al passato; nel loro esasperato attaccamento alle tradizioni, non erano più in grado di attendersi cose nuove da parte di Dio. A loro dice: «Il Signore nel passato costruì una strada nel mare…in futuro aprirà una strada nel deserto». Mare e deserto sono due circostanze geografiche improbabili per tracciarvi strade e sentieri. La strada nel mare è un ricordo vivo dell’esodo dall’Egitto, centro della fede e della liturgia ebraica. Evento ora smentito e cancellato dalla condizione di deportazione. Resta un evento bello da ricordare e da celebrare, ma ormai troppo lontano e quindi ridotto a reperto archeologico o nostalgico; ridotto ad una fortuna capitata ad altri, non ripetibile.  Passano gli anni e si tende ad ammucchiare delusioni, rese ancora più amare da qualche smagliante ricordo. Il profeta, dissipando ogni illusione nostalgica, ricava, dal dato originario della fede, una risposta adeguata alla storia: il Dio dell’Esodo è capace di rinnovare altri esodi e il Dio della creazione è capace di plasmare un popolo nuovo (v.21). A Babilonia le situazioni sono mutate: non c’è più il mare e c’è invece il deserto, ma le situazioni si equivalgono perchè ambedue sono situazioni improbabili per sognarvi dentro un sentiero tracciato. Ciro, pagano, prende il posto del leader maximo Mosè: un evento davvero improbabile, come fu imprevedibile la novità di vita del fariseo Saulo e dell’adultera del vangelo di oggi.
Neanch’io ti condanno (Giovanni 8,1-11)[2].
Individuare i personaggi della narrazione evangelica è facile, ma deve essere fatto in funzione di una mia (tua) identificazione. A chi sono assimilabile io: ai falsi giusti moralisti che giudicano e condannano chi sbaglia e mettono Dio in tentazione? Oppure sono sovrapponibile a chi ha sbagliato senza alibi e si trova faccia a faccia con la gente e con Gesù? Oppure posso identificarmi con quel Gesù che ricrea un futuro per chi ha sbagliato? Oppure dentro di me convivono tutte e tre i personaggi?
Cosa fanno i moralisti? «Gli conducono un’adultera…la pongono nel mezzo»: altre volte i deboli vengono presentati a Gesù dalla comunità (il paralitico sulla barella, il cieco Bartimeo…) ma per finalità ben diverse da questa. Qui si inscena un processo. La …santa Inquisizione sarà sempre una tentazione per la Chiesa, per le Istituzioni sociali, per i gruppi ed anche per i singoli.
«Se ne andarono…cominciando dai più anziani»: dopo essere entrati in scena come testimoni e giudici di un processo, se ne escono; non si sa se sconfitti o pentiti. Come i vecchi sporcaccioni che hanno insidiato Susanna per poi portarla in tribunale (Libro di Daniele Cap. 13).
Cosa fa Gesù? «Si china, per due volte, a scrivere nella polvere»: sono stati versati fiumi di inchiostro per interpretare questo gesto. Io penso che il gesto trovi la sua ispirazione in una frase di Geremia 17,13: «Quanti si allontanano da Te saranno scritti nella polvere, perchè hanno abbandonato Te, fonte di acqua viva, Signore». Con quel gesto profetico Gesù vuole richiamare che tutti quelli che stanno davanti a lui sono adulteri infedeli e che la conversione riguarda personalmente tutti.
«E la donna stava nel mezzo»: cioè nella stessa posizione in cui era stata messa dai testimoni-giudici, ma ora è messa al centro di una salvezza anzichè di un giudizio: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perchè il mondo si salvi per mezzo di Lui» (Giovanni 3,17).
Cosa fa la Donna?  Semplicemente «sta in mezzo». Questa frase, questa “posizione”, viene posta dall’evangelista all’inizio e alla fine del testo quasi ad incorniciare l’evento. A differenza della donna prostituta che in casa di Simone piange, profuma e bacia Gesù, questa donna adultera è passiva, statuaria, congelata nei fatti incontestabili, senza quegli slanci che conosciamo in altri personaggi (la donna mestruata, Zaccheo, il cieco, il lebbroso). Qui lei non si confessa, non implora, non chiede. Semplicemente si lascia trasportare dallo scontro tra giudizio e misericordia, tra giustizia e giustificazione.
Cosa dicono i moralisti?  A Gesù dicono tre cose: gli raccontano un fatto («questa donna è stata colta sul fatto»), gli fanno ripassare il Catechismo («la nostra santa Legge ordina di lapidare»[3]), gli pongono un quesito insidioso e compromettente («tu che ne dici?»). Stanno cercando una copertura legale per potere in seguito condannare anche Gesù: se avesse contestato la Toràh avrebbero avuto una prova in più, se avesse confermato la Toràh si sarebbe screditato presso la gente per la sua incoerenza. Tutta la storia sacra non è altro che un immenso processo in cui si tratta di sapere chi ha ragione: Dio o gli uomini?
Cosa dice Gesù? «Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra»[4]: i moralisti gli hanno appena fatto ripassare il Catechismo citando strumentalmente un versetto della Santa Scrittura e Gesù li mette nell’impossibilità di eseguire la sentenza rifacendosi ad un altro articolo di quella Toràh che loro avevano usato per intrappolarlo.  Quell’articolo della Legge di Mosè prescrive che il testimone accusante fosse il primo a lapidare il colpevole, per dimostrare di essere immune da colpa. Il “peccato” a cui Gesù fa riferimento, non è, tuttavia, solo il peccato di adulterio, ma “qualsiasi forma di peccato”[5].  Non entra, dunque, nel merito delle procedure giudiziarie e, comunque, vuol far sapere che non ci si può servire del suo nome per condannare qualcuno: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Luca 6,37)
«Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno. Va’ e non peccare più»: siamo alla sentenza finale di colui che non è venuto per i sani e i giusti, ma per i malati e i peccatori. S. Agostino commenta: «Vengono lasciati soli in due: la misera e la misericordia». Dopo l’agitarsi degli scribi e farisei e dopo la tensione drammatica, tutto si risolve in una parola di speranza: la vita continua ed un futuro diverso si prospetta in forza di questa parola.
Cosa dice la Donna.  «Nessuno, Signore»: è l’unica frase della donna che si rivolge a Gesù chiamandolo con il Nome pasquale di «Signore». Questo è il segno che la Donna rappresenta la Chiesa post-pasquale, credente e peccatrice, capace di debolezze e tradimenti, ma anche di stare davanti a Lui in attesa paziente della sentenza di giustificazione. Non è obbligata nè a fare l’elenco delle colpe, nè a circostanziarle, nè a sottostare al tariffario delle pene e delle penitenze. Lei è lì per testimoniare una grazia e non confessare una colpa. Magari fossero così tutte le confessioni! Magari tutti i confessionali si trasformassero in quei pochi metri quadrati di polvere su cui è incisa la sentenza di giustificazione, su cui rimangono inerti le pietre destinate alla nostra o altrui lapidazione, su cui tutti hanno saputo sostenere il dialogo serrato con il Santo riconoscendosi racchiusi, tutti, sotto la disobbedienza (Romani 11,32).
Il processo contro il crimine è fatto, ieri come oggi, di cronaca quotidiana ed obbliga tutti a riflettere su una responsabilità che va ben oltre l’incriminato. Chi può dirsi veramente innocente? Nessuna condanna risolve veramente il problema del male nella società. Anzi, può essere fonte di pericolose illusioni in quanto ci potrebbe far credere di aver riparato il male, mentre in realtà lo lascia esistere nella radice che esso ha in ciascuno di noi e nella società. Anche un processo è, per Gesù, una occasione di evangelizzazione e di invito alla conversione per mettersi in sintonia con la strategia della misericordia o del “perdono attivo”. Anche il peccato è occasione di grazia.


[1] Il Negheb è un deserto a sud di Israele. I suoi torrenti sono secchi d’estate ma a primavera si gonfiano d’acqua; la semina è un’attesa, la mietitura è una festa. Tutto questo rispecchia la storia d’Israele che ai momenti d’aridità,  d’attesa e di pianto, Dio fa seguire abbondanza, gioia e libertà.
[2] Il brano dell’adultera è stato inserito impropriamente nel Vangelo di Giovanni. Di fatto la terminologia, il linguaggio e l’impostazione teologica appartengono al Vangelo di Luca.
[3] Deut. 22,22.
[4] Deut. 13,9-10; 17,7.
[5] «Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi, perchè mentre giudichi gli altri condanni te stesso…Ti prendi gioco della bontà di Dio, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione» (Romani 2,1).




30 marzo 2025.Domenica 4a Quaresima
LASCIATEVI RICONCILIARE

4 Domenica quaresima C

Preghiamo: O Dio Padre buono e grande nel perdono, accogli nell’abbraccio del tuo amore, tutti i figli che tornano a te con animo pentito; ricoprili delle splendide vesti di salvezza, perchè possano gustare la tua gioia nella Cena pasquale dell’Agnello. Per Cristo nostro Signore. AMEN
Dal libro di Giosuè 5,9-12
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».  Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.  Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.
Salmo 33  Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato.
Guardate a lui e sarete raggianti, i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 5,17-21
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.  In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.  Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
Dal Vangelo secondo Luca 15,1-3.11-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze (il testo greco scrive: ton biòn = la vita). Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

LASCIATEVI RICONCILIARE.  Don Augusto Fontana

Come il termine CONVERSIONE, anche il termine RICONCILIAZIONE mi si è deteriorato a forza di “tenermelo in bocca” anzichè “inghiottirlo” in alcune scelte precise di vita.
Giosuè 5,9-12: Dio dona all’uomo una patria e una Pasqua.
Ho allontanato da voi l’infamia d’Egitto.  <La liturgia di oggi parte subito col piede sbagliato>, mi disse alcuni anni fa un confratello che predicava la conversione della mente e del cuore ad un gruppo di pie signore dell’aristocratico Rotary e che non voleva sentir parlare del Dio troppo politicizzato dell’Esodo. «Il cuore, caro don Augusto, il cuore e la mente bisogna convertire!», mi diceva davanti all’Agenzia di viaggi dove aveva prenotato una vacanza cultural-religiosa alle Maldive. Ed io, gli ripetevo che potrò dire di essere ritornato a Dio solo quando il mio cuore e la mente si porteranno dietro, per essere restituiti, petrolio, caffè, cacao, terre rare, oro, diamanti rubati ai miei schiavetti che lavorano, per me e per i miei amici, in Costa d’Avorio, in Brasile, in Somalia. Saremo riconciliati quando Dio ci defrauderà del potere di indebitare i popoli e di pagare sottocosto il lavoro delle loro mani e il prodotto del loro suolo. E i poveri si riconosceranno pienamente riconciliati nel momento in cui sarà riscattata la vita infame di chi non ha autosufficienza economica ed autodeterminazione politica. L’infamia d’Egitto era l’infamia della mancanza di un luogo dove riconoscersi popolo riunito. Nel deserto erano state superate mormorazioni e tentazioni nostalgiche, idolatrie e lotte fra tribù. Ora Dio ha raccolto questo popolo come si raccoglie una ragazza denudata, violentata e picchiata a sangue ai margini di una strada e le ha dato una casa accogliente, nuova dignità, abiti puliti, gioielli; con la speranza che con questi doni non vada poi a prostituirsi (leggi, per cortesia, i capitoli 2 e 11 di Osea).
Celebrarono la Pasqua a Galgala. La celebrazione liturgica a Galgala nasce dopo un evento constatato: Dio ci ha liberati dall’infamia dell’Egitto. Ogni liturgia che non nasce da eventi storici precedenti è simile ad un abito appeso al porta-abiti nell’armadio.  Inizialmente la constatazione della paternità liberante di Dio si celebrava in famiglia (Esodo 12), successivamente si celebrerà in località occasionali (Galgala significa, in ebraico “circolo di pietre“) in cui verranno costruiti poi dei “santuari” (Deuter.16). L’usanza di celebrare la Pasqua era anteriore alla liberazione dall’Egitto ed era una festa di pastori che celebravano le primizie dei greggi nella prima notte di luna piena del mese primaverile di Nisan. Successivamente la Pasqua divenne una festa degli agricoltori che celebravano le primizie della terra mangiando le schiacciatine azzime di farina non lievitata dette, in ebraico, massòt. Nel testo della liturgia odierna si fondono i motivi tradizionali con la nuova constatazione della liberazione dall’infamia. Ormai Israele pare diventato adulto: Dio fa smettere la manna ed il popolo dovrà coltivarsi il proprio pane togliendolo dalla fecondità della terra che gli è stata donata.
La Chiesa continua a celebrare, alla domenica, la constatazione della liberazione dalla sua infamia (quale?), mangiando il pane azzimo eucaristico che ci fa compagnia in questa terra (il Regno di Dio) ormai raggiunta, ma mai conquistata definitivamente.
Luca 15, 1-3. 11-32: Dio dona all’uomo una relazione.
Nel Cap. 15 di Luca ci sono tre Parabole…con un cappello (Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro»). La simpatia di Gesù per gli esclusi dal circuito sociale e religioso, costituisce uno dei temi centrali di Luca. I giudei osservanti di ieri e di oggi vogliono che Dio sia severo con i peccatori e che, di conseguenza, i peccatori paghino un prezzo di penitenza per ritornare nella comunità. Non accettano quindi questo Gesù permissivo e lassista. Contro questa incriminazione risponde Luca con il suo Capitolo 15 detto anche “il Capitolo dei perduti”: la pecora smarrita, il denaro perduto, il figlio scappato. Tutte e tre le Parabole hanno alcuni punti in comune: innanzitutto sono tutte una risposta alle critiche di “chi si credeva nel giusto” (Lc.18,9), tutte sono percorse dall’invito alla gioia, in tutte si gioca sul contrasto “perdere-trovare”.
Questo capitolo 15 è un vangelo nel vangelo; e la Parabola del Padre misericordioso viene considerata il culmine del messaggio di Luca. Il vero centro della parabola è l’invito del Padre: <Facciamo festa!>.
E’ la parabola del Padre più che del figliol prodigo o del fratello maggiore. Radice del peccato comune dei due figli è la cattiva o distorta opinione sul Padre: l’uno, per liberarsene, instaura la “strategia del piacere” che lo porta ad esprimere la ribellione e la dimenticanza verso il Padre e la degradazione verso se stesso; l’altro, per imbonirselo, instaura la “strategia del dovere” con una religiosità servile che sacrifica la gioia di vivere restando un burocrate della virtù senza un guizzo di vita.
L’intento primario della Parabola, visti anche i versetti introduttivi al Cap.15, è di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia.
Emergono anche altre due intenzioni: quella di indurre i fratelli, maggiori o minori, a passare dall’attenzione verso l’io all’attenzione verso Dio e quella di indurre i fratelli a convincersi che devono comunque convertirsi sia dalla delusione per le proprie debolezze che dalla presunzione della propria giustizia. Dio ci ama non perchè siamo buoni, ma perchè Lui è Padre.
E c’è un equivoco di fondo: nessuno dei due ha capito suo padre. Il figlio minore, ritornando, gli chiede di essere trattato come “uno dei servi”; il figlio maggiore gli ricorda “io ti servo da tanti anni”. Un padre ha generato figli che si sentono servi.
La Parabola inizia col fratello minore, termina col fratello maggiore ed ha, al centro, il Padre che adottando la strategia della misericordia invita ad assumere la stessa strategia, come Luca aveva già ricordato nel cap. 6,36: “Siate misericordiosi perché è misericordioso il Padre vostro”.
La Parabola è movimentata da entrate e uscite di scena: partenza e ritorno del minore, uscita del Padre verso il minore che rientra, rifiuto del maggiore di entrare, uscita del Padre verso il maggiore. Dal punto di vista psicologico emerge che il minore pare non abbia, inizialmente, dei sentimenti, ma solo dei bisogni; di fatto usa spesso la parola “Padre” prima, durante e dopo la fuga; il maggiore, invece non usa mai la parola “Padre”. Il Padre manifesta invece sentimenti di commozione e di gioia che vuole condividere ed espandere.
La nostra eredità. Al figlio minore spettava, vivente il padre, il possesso, ma non l’uso, di un terzo del patrimonio liquido. Il figlio della parabola rivendica oltre ai soldi anche l’indipendenza, in quanto vede nel padre un antagonista. In questa rivendicazione si vede chiaramente, in filigrana, la vicenda di Adamo: il peccato sta nel voler rubare ciò che è lì a disposizione come dono. L’eredità donataci poi da Dio sarà ben superiore alle nostre attese: oltre alle sue cose, dona se stesso. Le cose che i due figli chiedono (soldi e capretti) sono meschine e inferiori a quanto di fatto viene loro dato.
Il minore scappa portandosi via tutto e lasciando in casa l’amore del padre, ritenuto un bene inservibile e non spendibile. Il capitale si consumerà presto e vi sarà carestia di beni essenziali; tutte le sue sostanze verranno meno, anche la sua “sostanza” di figlio e di uomo. Allora incomincia il bisogno. Domenica scorsa abbiamo visto Mosè che si avvicina a Dio “per curiosità”; oggi vediamo un uomo che ritorna a Dio per “bisogno”. Sembrerebbero due sentieri poco ortodossi per camminare verso Dio eppure così sappiamo che l’importante non è starsene seduti, ma incominciare ad avvicinarsi a Lui.
Dal Padre al padrone al Padre. Nel versetto 15,  il testo greco di Luca usa un termine strano ed interessante. La traduzione italiana dice “si mise a servizio” ; il testo greco usa il termine “ecollethe” che potrebbe essere efficacemente tradotto con “andò ad incollarsi a…”. Chi emigra da Dio, sua vera casa, va ad “incollarsi” ad un estraneo al quale cede la propria libertà. Chi aveva sofferto della vicinanza del Padre, va a servire padroni stranieri. Respinto Dio, che lascia liberi anche quando si sbaglia, si va a servire necessariamente l’idolo. L’uomo non è ateo: è idolatra. E l’idolo lo prende a proprio servizio assimilando l’uomo a sè e mandandolo a servire le proprie porcherie. L’idolo sazia per un momento, ma poi la fame profonda ritorna a far sentire i propri stimoli. Allora l’uomo può avere l’occasione se non di pentirsi, almeno di rinsavire. Prima era fuori di sè; ora “rientra in se stesso e pensa“. Oggi diciamo che stiamo tutti male perchè abbiamo costruito la nostra vita su valori fasulli o falsi valori, sulla disumanità.
Per 5 volte il figlio pronuncia la parola “Padre” con una nostalgia che gli serve per mettersi in moto “scollandosi” dall’idolo.
Il Padre dal figlio minore al figlio maggiore. In rapida successione vengono elencati i verbi della…conversione del Padre: vide, si commosse, scese. Erano i verbi del Dio di Mosè di domenica scorsa. Sono i verbi del Buon Samaritano.
Nel Libro del profeta Giona (cap.3, vers.9) c’è un’espressione sorprendente: Dio, vedendo il pentimento degli abitanti di Ninive, “si convertì“. E’ probabile che l’unico convertito, in questa Quaresima, sarà Dio il quale “tornerà a voltare il suo volto verso di noi, commuovendosi, abbracciandoci e baciandoci “.
“Mi baci con i baci della tua bocca” dice il Cantico dei cantici (1,2): tutti i doni di Dio sono contenuti ed espressi da questo bacio che trasmette il soffio dello Spirito Santo e la saliva della creazione di Adamo o della guarigione del cieco nato. Con questo bacio viene ricreato un uomo e gli vengono aperti gli occhi e riscaldato il cuore.
La vestizione liturgica con abiti nuovi diventerà il segno che è nato un nuovo Adamo: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Galati 3,27).
E tutti i doni confluiscono nella festa del Banchetto eucaristico dove si proclama il motivo del brindisi: “perchè questo mio figlio era morto ed ora rivive, era perduto ed ora è ritrovato”.
In rapida successione vengono anche elencati i verbi del figlio maggiore: udì, si informò, si arrabbiò, non voleva entrare. Come è facile constatare, sono i verbi contrari a quelli del Padre. Il figlio maggiore riconosce il Padre, ma non il fratello: “questo tuo figlio”. E il Padre non accetta la sua furbizia grossolana e gli riconsegna un fratello: “Questo tuo fratello”.
Dopo 2000 anni non sappiamo ancora se il figlio maggiore andò a sedersi a tavolo nè se si lasciò abbracciare e abbracciò. La Parabola resta aperta a chi le vuol dare seguito e conclusione.
Riconciliazione.
Tutta questa manovra di riconciliazione si scarica sulla persona di Gesù. Il testo greco di Paolo, al versetto 21, descrive Cristo usando un’espressione che, tradotta letteralmente, suona quasi blasfema: “Dio Lo fece peccato“. Il fratello maggiore della Parabola aveva preso le distanze dal fratello minore sciagurato; Gesù invece si è immedesimato nella colpa del fratello minore, se ne è fatto corresponsabile, lo è andato a cercare tornando ambedue infangati a farsi rivestire e festeggiare dal Padre. Per questa riconciliazione a caro prezzo, Paolo supplica: Lasciatevi riconciliare con Dio per mezzo di Cristo e del nostro abbraccio.




23 marzo 2025. Domenica 3a Quaresima
Dio e uomo si cercano nel fogliame della vita

3° domenica quaresima C

Preghiamo. O Dio dei nostri padri,che ascolti il grido degli oppressi, concedi ai tuoi fedeli di riconoscere nelle vicende della storia il tuo invito alla conversione, per aderire sempre più saldamente a Cristo,roccia della nostra salvezza che vive e regna con te e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli AMEN.
 Dal libro dell’Èsodo 3,1-8.13-15
In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».  Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
Salmo 102  Il Signore ha pietà del suo popolo.
Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia.
Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d’Israele.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 10,1-6.10-12
Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
Dal Vangelo secondo Luca 13,1-9
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».  Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

DIO E UOMO SI CERCANO NEL FOGLIAME DELLA VITA. Don Augusto Fontana

Trascrivo, a consolazione e vergogna, alcune parti del Documento Conciliare “GIOIA E SPERANZA”(GAUDIUM ET SPES): «E’ dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi ed interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonchè le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatica. L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche sulla vita religiosa. E come accade in ogni crisi di crescita, questa trasformazione reca con sè non lievi difficoltà…Immersi in così contrastanti condizioni, molti nostri contemporanei non sono in grado di  identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli con quelli che man mano scoprono. Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra speranza e angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Il quale sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta».
Al termine potremmo solo aggiungere l’invito che oggi Gesù ci rivolge, dopo aver meditato con i discepoli alcuni fatti tragici accaduti in quei giorni: «Se non vi convertirete,  perirete tutti».
L’uomo davanti al cespuglio di Dio (Esodo 3,1-15).
Martin Buber nel suo libro I racconti dei chassidim riferisce un aneddoto: «Ad un rabbi si presentò un discepolo e gli chiese: “Prima esistevano uomini che hanno visto Dio faccia a faccia. Perchè oggi non ne esistono più?”. E il rabbi rispose: “Perchè oggi nessuno sa chinarsi così profondamente”».
Dov’è andato Dio? Si può ancora incontrare Dio? Crediamo in un Dio oppure in quel Dio che la Storia del popolo ebraico e Gesù ci hanno fatto conoscere? Dal momento in cui pronuncio la frase io credo faccio una scelta che fa appello a tutta la realtà del mio essere non solo interiore, ma anche economico e sociale. Qualcuno pensa che si possa perdere la fede come si perde un portafoglio, ma può capitare qualcosa di più grave ed è quando la fede non scuote più le mie scelte. Lo scrittore Giorges Bernanos diceva :”La fede non c’è più non solo quando la si perde, ma anche quando essa non dà più forma alla vita, ecco tutto“.
Stava pascolando. Mosè è un latitante fuggiasco a causa di un omicidio compiuto. Non c’è nulla che faccia prevedere il suo ruolo di leader religioso. Vaga nel deserto non per incontrare Dio, ma per trovare pascolo per i suoi animali. Anche gli apostoli stavano aggiustando le reti e pare che il loro mestiere non rendesse facile la frequenza in Sinagoga.
Il Monte Oreb diventa il luogo classico dell’incontro tra Dio e Israele. La storia di Israele è caratterizzata da determinati luoghi in cui Jahwè si è manifestato; non si tratta mai di luoghi in cui Jahwè dimora, ma di località di apparizioni ed incontri. Sembra che Dio preferisca non essere imprigionato in religiose galere, ma voglia essere dove è la gente, incontrandola più sul fango e sulla sabbia che sui lucidi lastricati dei santuari. Poi verrà la istituzionalizzazione delle religioni e Lui si adatterà ai Tabernacoli che sono più un bisogno nostro che Suo.
«Mosè!»…. «Eccomi». Davanti alla situazione di oppressione del popolo, Dio inizialmente sembra dire “Ci penso io!”.  Più avanti sembra ripensarci e dice a Mosè: “Voglio mandarti da Faraone. Avanti! Tocca a te!”.  Dio ha bisogno di noi? La conversione di Mosè ha significato il passare dalla condizione di fuggiasco e di ribelle a quella di servo della liberazione della sua gente. Prima ha vissuto comodamente nel palazzo del faraone, come suo portaborse e lacchè; poi si ritira a farsi i fatti propri lontano dalle sofferenze del popolo. La sua conversione segna il ritorno alla solidarietà col popolo che soffre. E mentre compirà un’opera politica di leader, compirà anche un’evangelizzazione, annunciando per sempre il NOME di JAHWE’. Colui che un giorno è stato toccato dal fuoco di Dio non può far altro che “andare”. Mosè si accosta per curiosità, ma il contatto di Dio lo brucia. Ogni esperienza autentica di Dio non si risolve in godimento estatico. Lo abbiamo visto anche domenica scorsa sul Tabor. Dio si rivela non per soddisfare la nostra curiosità o per fornirci informazioni gratuite, bensì per informarci di ciò che attende da noi. Mosè va per vedere e si ritrova qualcosa da fare; si mette in ginocchio per ritrovarsi in piedi[1].  Si toglie i sandali per adorare, ma poi se li rimetterà per camminare col suo popolo.
Ho osservato, ho udito, conosco, sono sceso per liberare. Sono i verbi di Dio, messi in successione, per sottolineare  l’iniziativa di Dio che parte da un interessamento partecipato e termina con una “incarnazione” (“sono sceso”). Gesù costituirà l’atto terminale di questa successione di verbi di Dio (“si fece carne e pose la sua tenda fra noi”). A questo forte protagonismo di Dio, si intreccia la missione collaboratrice di Mosè che, come tutti i profeti, sente lo scarto tra il compito affidatogli e il limite personale (“Chi sono io?”).
Dio davanti al cespuglio dell’uomo (Luca 13,1-9).
 Nella prima Lettura ci è stato presentato l’uomo Mosè davanti al “cespuglio” di Dio, stupito e pazientemente in attesa per raccogliere i frutti del fuoco della Rivelazione e della missione. Ora, nel Vangelo, le parti si invertono; é Dio che si pone davanti ai cespugli un po’ secchi degli uomini per cercarne i frutti: « Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò».  I fichi e l’uva avevano, per gli ebrei, un forte significato simbolico evocativo perchè erano i primi frutti che avevano incontrato quando si stabilirono nella Terra di Canaan. Il fico, nell’insegnamento rabbinico, simboleggia, per la sua dolcezza, la Parola di Dio, la Torah. E’ una pianta che si usava piantare nei vigneti e diventava il simbolo della legge di Dio piantata nella vigna-Israele. La vigna, infatti, fu presa dai profeti come il simbolo del popolo piantato dal Signore non come pianta ornamentale da appartamento, ma come albero da frutta. Dio viene incontro all’uomo e cerca il frutto dell’amicizia. Fin dalla prima sera della creazione, Egli ama passeggiare con l’uomo (Genesi 3,8) e lo cerca «Adamo dove sei?».  Ma Dio pare sfortunato. La sterilità del nostro legno secco sarà vinta dal legno della croce da cui pende il frutto dolce che è Gesù. Noi restiamo questo fico che succhia e si appropria dei doni della terra, gonfiandosi di foglie senza far frutti; non solo non produciamo frutti, ma impoveriamo e rendiamo improduttiva la terra.  Ora veniamo “lasciati (perdonati)” per un anno, che è il periodo della nostra vita, per permetterci di innestarci come tralci sulla vite che è Cristo (Giov.15).
Dio e uomo si cercano nel fogliame quotidiano.
Per rielaborare la meditazione biblica non posso non pescare a piene mani nel cuore e nella parola di Mons. Tonino Bello[2]:  «Qualcuno ha scritto che la meraviglia è la base dell’adorazione.  Anzi, l’empietà più grande non è tanto la bestemmia o il sacrilegio, la profanazione di un tempio o la dissacrazione di un calice, ma la mancanza di stupore. Oggi c’è crisi di estasi. E’ in calo il fattore sorpresa.  Non ci si esalta per nulla.  C’è in giro un insopportabile ristagno di cose già viste, di esperienze già fatte, di sensazioni sottoposte a ripetuti collaudi. Siamo appiattiti dagli standard, omologati dagli schemi, prigionieri della ripetizione modulare.  La fantasia agonizza.  Senza stupore è difficile l’incontro con Dio.  Senza rapimenti estatici è impossibile parlargli.  Al massimo, con Dio ci potrà essere rapporto mercantile, basato sulle contrattazioni della domanda e dell’offerta: soprattutto nei momenti della paura o dello smacco. Ma non incontro personale, né abbandono di fiducia, e tanto meno, ebbrezza d’amore.  «Non ti dimenticherò mai… Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,15-16).  Sapere che, questa frase di Isaia, Dio la ripete a te, a me, a tutti, fin da quando siamo stati concepiti nel grembo materno, non può non alzare la soglia del rapporto personale con lui. E ho provato a pensare se  ci possa mai essere qualche angolo del mondo sottratto, per così dire, all’invadenza del Nome di Dio. Ma non mi è riuscito di trovarlo. La gloria del Signore JHWH straripa da tutte le parti. Non ci sono zolle di terra che non si lascino inumidire dalla sua rugiada. Neppure gli spazi dove si imbastardiscono le trame più inique sono impermeabili all’azione di Dio. Lì, nei santuari dove la gente si raccoglie in cerca di pace; ma anche oltre la siepe del giardino comunale disseminato di siringhe. Nelle celle del monastero di clausura impregnate di preghiera, ma anche giù nei sotterranei delle metropoli dove si sfrenano ogni giorno le orge della dissolutezza. La verità è che la terra non è oggetto di spartizione tra l’impero del bene e l’impero del male. A Dio non  appartengono solo le aree del sacro. Egli riempie d’olio tutte le lampade della vita, fa ardere i roghi della storia, accende le fiammelle della cronaca, illumina i crepuscoli delle nostre stagioni spirituali. E Dio non si macera nel timore che l’uomo un giorno o l’altro debba trafugargli i brevetti delle sue invenzioni. Non considera l’uomo come suo rivale, ma come partner che collabora con lui nel cantiere sempre aperto della creazione, Come socio, cioè, di pari dignità, nella sua cooperativa di lavoro».


[1] Da A.Pronzato PAROLA DI DIO anno C, Ed.Gribaudi pag. 76.
[2] T.Bello,  Non c’è fedeltà senza rischio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2000.




16 marzo 2025. Domenica 2a Quaresima
TRASFIGURAZIONE. QUESTIONE DI SGUARDO GUARITO

2° Domenica Quaresima C

Preghiamo. O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito, perché possiamo godere la visione della tua gloria. Per Cristo nostro Signore. AMEN.
Dal libro della Gènesi 15,5-12.17-18
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo».  Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».
SalMO 26  Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?
Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:  «Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési  3, 20 – 4, 1 (forma breve).
Fratelli, la nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!
Dal Vangelo secondo Luca 9,28-36
[Circa otto giorni dopo questi discorsi][1],  Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto (lett.”il suo volto divenne altro/diverso”) e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto. [Il giorno seguente, quando essi scesero dal monte…]. 

TRASFIGURAZIONE. QUESTIONE DI SGUARDO GUARITO. Don Augusto Fontana

L’esodo: la nube e la tenda.
L’evento della manifestazione sul Tabor viene collocato da Luca tra due annunci della passione. Appena prima, Gesù aveva fatto una celere inchiesta: “Cosa dice la gente di me? Ed io chi sono per voi?“. Pietro aveva risposto con una solenne professione di fede: “Sei il Cristo di Dio!“. E Gesù: “Bisogna che il Figlio dell’uomo soffra molto e sia ucciso e il terzo giorno risorga. Anzi chi vuol essere mio discepolo deve rinnegare se stesso, sollevare la sua croce ogni giorno e seguirmi”.
Otto giorni dopo questi discorsi avviene la manifestazione sul Tabor che Luca presenta come tentazione per una Chiesa che, tra sonnolenza ed entusiasmi, vorrebbe rimuovere e dimenticare presto i discorsi fatti da Gesù.  L’ottavo giorno è un modo di indicare “il giorno di domenica, giorno del Signore” che vedeva riunita la Chiesa per celebrare l’Eucarestia pasquale. Ancora una volta Luca richiama la comunità al dovere del ritorno alla vita quotidiana dopo essere stati rifocillati nella liturgia pasquale: bisogna scendere a valle per riprendere il cammino verso gli appuntamenti conflittuali.
Come se non bastasse, Luca, dopo il testo della manifestazione sul Tabor, riporta un altro richiamo di Gesù: “Mettetevi ben in testa che il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini“; poi annota che i discepoli fecero finta di non aver sentito ed evitarono di approfondire l’argomento (Lc 9,45).
Durante questo esodo/cammino ci vengono concessi dei segni della presenza di Dio.
Tra questi segni, come durante l’esodo nel deserto, ci sono la nube e la tenda: “Allora la nube coprì la tenda dell’assemblea e la Gloria del Signore riempì quel luogo” (Esodo 40, 34-35).
La Bibbia, l’Eucarestia e i poveri sono la nostra “Nube parlante”, segni che svelano e, insieme, velano la presenza del Signore. La tenda è la comunità costruita da mani d’uomo e che deve avere i picchetti sempre pronti per essere tolti quando si tratta di riprendere il cammino della vita quotidiana e della testimonianza fra gli uomini.
Luca 9: trasfigurazione, metamorfosi, teofania, sogno, visione o fede?
Occorre innanzitutto intenderci su alcuni termini.
Pensiamo al termine “ascensione al cielo“(che ha prodotto l’immagine di una ascesa in verticale sopra un ascensore-nuvoletta che ha sottratto Gesù alle incombenze di una presenza ingombrante) oppure ai termini “miracolo, comandamento, fare memoria” ecc. Anche il termine “trasfigurazione” necessita di una rivisitazione.  Trascuriamo, per ora, la questione della diversa connotazione temporale degli eventi (otto giorni oppure sei giorni dopo?) e andiamo a meditare gli elementi dell’evento: Matteo 17 e Marco 9 usano il termine trasfigurazione (in greco: metamorfosis); Luca parla di “volto altro” (in greco: prosopou eteron). Solo Luca annota che l’evento accade mentre Gesù pregava. Luca e Matteo riferiscono del volto, non accennato da Marco. Unico dato comune a tutti e 3 sono le (la) vesti.
E se fosse tutta questione di sguardo guarito?
Per Luca prevale l’evento della preghiera (salì sul monte a pregare. Mentre pregava). La preghiera di Gesù, cioè la sua familiarità con il Padre, costituisce l’evento scatenante di una Rivelazione, di una Epifania, di una Teofania[2]. Gesù con la sua umanità quotidiana e debilitata è il luogo scelto da Dio per rivelarsi, come anticamente aveva scelto un cespuglio bruciante da cui rivelarsi a Mosè: “Il Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto che non si consumava” (Esodo 3). Il legno della croce non poteva che appartenere alla discendenza evoluta di quel cespuglio di migliaia di anni prima.
Abbiamo un altro precedente biblico dell’evento della “trasfigurazione”, nella figura di Mosè che sul monte Sinai familiarizza con Dio e scende con il volto trasfigurato a fare da mediatore tra Dio e il popolo (Esodo 33 e 34):  “Mosè disse al Signore: <Mostrami la tua Gloria>. Il Signore rispose:<Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio Nome. Ma tu non potrai vedere il mio volto perchè nessun uomo può vedermi e restare vivo. Ecco tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finchè sarò passato. poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere….>.Quando Mosè scese da monte Sinai non si era accorto che la pelle del suo viso era diventata raggiante perchè aveva conversato con Lui. Ma Aronne e tutti gli israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui…Mosè allora si pose un velo sul viso. Quando Mosè andava davanti al Signore a parlare con Lui, si toglieva il velo, fin quando fosse uscito”.
Nell’evento della “trasfigurazione” ci troviamo, dunque, di fronte ad un modo di trasmettere un’esperienza fatta dai discepoli. Sono gli stessi discepoli che avevano raccolto la tradizione orale che riferiva quello che era successo sotto la croce: “ Gesù dando un forte grido spirò. Il velo del tempio si squarciò in due. Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo disse: <Veramente quest’uomo era Figlio di Dio> (Mc. 15,38-39). Anche sulla croce, dunque accade una “trasfigurazione“, ma non è il crocifisso che si trasfigura bensì gli occhi del soldato pagano. La croce diventa diafana e trasparente, si lascia attraversare dallo stupore e lascia intravedere la risurrezione in atto: « Questo ucciso, è Dio! ».
Nel volto e nella veste lacerata.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno, tuttavia restarono svegli e videro la sua Gloria” (Lc 9,32). La Gloria, nel linguaggio biblico, è il termine che descrive la presenza percepibile di Dio sia nello spazio che nella coscienza: la presenza ingombrante di Dio si rivela dunque sul volto e sulla tunica dell’uomo di Nazaret con cui i discepoli hanno vissuto da ormai qualche anno, forse annoiandosi un po’ (“erano oppressi dal sonno” come succederà tra qualche tempo nel bosco del Getsemani).
Il simbolo della veste è l’unico elemento comune ai tre evangelisti nella sezione che stiamo meditando. E torniamo sotto la croce dove Gesù viene denudato dei suoi abiti umani e spogliato della sua veste regale e sacerdotale, : “I quattro soldati, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti e presero la tunica. Quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo” (Giov.19, 23-24). E’ lo stesso Giovanni che, nel racconto del processo, aveva annotato: “Gli misero addosso un mantello di color rosso…e gli davano schiaffi sulla faccia“.
Anche Luca non ha mancato, durante il racconto del processo, di evidenziare: “Allora Erode…lo insultò … poi lo rivestì di una splendida veste(Lc.23,11).
Facciamo un’escursione veloce nell’Apocalisse (1,13-15): “Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
E concediamoci anche una pagina del profeta Daniele 10,5-8: ” Alzai gli occhi e guardai ed ecco un uomo vestito di lino, con ai fianchi una cintura d’oro; la sua faccia aveva l’aspetto della folgore, i suoi  occhi erano come fiamme di fuoco, le sue braccia e le gambe  somigliavano a bronzo lucente e il suono delle sue parole pareva il  clamore di una moltitudine. Soltanto io, Daniele, vidi la visione, mentre gli uomini che erano  con me non la videro, ma un gran terrore si impadronì di loro e  fuggirono a nascondersi”.
E’ in ballo dunque la domanda: secondo te dove si incontra Dio? Oggi pare balenare una rivelazione: Dio si manifesta nell’interiorizzazione e nella debolezza palese.
Nell’interiorizzazione. Quel che è accaduto durante quelle ore di intimità fra i discepoli e Gesù, è che loro si sono messi a guardarlo, ad ascoltarlo, a vederlo come sempre era, fra loro, ma come essi mai se n’erano accorti. L’hanno visto pregare e diventare trasparente al Padre, nella sua relazione filiale col Padre e ne sono rimasti trasfigurati anch’essi. Fu una Risurrezione anticipata. Oppure, meglio, una rilettura post-pasquale di quell’esperienza di ritiro sul Tabor. La trasfigurazione non fu uno spettacolo fotografabile (come non fu documentata la Risurrezione), ma un’esigenza di ciascuno di noi: capire il senso della normalità di Dio nella vita di Gesù e diventare finalmente quel che vogliamo essere e che abitualmente non siamo capaci di essere.
Nella debolezza palese. La trasfigurazione non è un prodigio; è lo svelamento di una realtà permanente alla quale avevamo dedicato, fino a quel momento, sguardi assonnati e increduli. Per manifestarsi, Dio non ha più bisogno di lampi e tuoni e fiaccole che attraversano animali squartati; gli basta un poveraccio, un decaduto dalla nostra stima e che ha perso la sua veste regale, un umiliato privato della veste sacerdotale della sua dignità, uno sfigurato dagli schiaffi della vita, della malattia, della vecchiaia e dei prepotenti. Anzi, a Dio basta una vita ordinaria, come gli è bastato un Gesù ordinario, denudato di tutte le insegne di riconoscimento per essere più trasparente. La croce è trasparente di divinità, perchè chi vi è sopra è nudo e gli resta solo la debolezza di dover essere amato.

Potrebbe essere utile <creare un Tabor> dedicandosi ad un po’ di preghiera contemplativa e silenziosa oppure guardare – con occhio trasfigurato – un povero, un detenuto, un anziano, un ammalato, una prostituta, uno straniero, un ubriaco, un balordo.


[1] Non capisco perché il Lezionario ometta questa importante indicazione temporale e teologica. Marco e Matteo scrivono “Sei giorni dopo”. Insomma: questo “settimo” o “ottavo” giorno non può essere cancellato impunemente perché l’evento della Trasfigurazione verrebbe mutilato, come si vedrà nel commento.
[2] Il termine TEOFANIA non deve fare paura. Deriva da 2 parole cucite insieme: Theos + fanìa dove THEOS significa DIO e FANIA significa MANIFESTAZIONE.
TEOFANIA = MANIFESTAZIONE / RIVELAZIONE DI DIO. Chiunque farebbe fatica a descrivere ad altri l’esperienza di aver sentito Dio vicino. Viene spontaneo usare termini “eccessivi”: terremoto, fuoco, nube, luce, voce, emozioni.