22 maggio 2022. Domenica 6a di Pasqua
 UN DIO SENZA FISSA DIMORA.

6° domenica di Pasqua.
Preghiamo. O Dio, che hai promesso di stabilire la tua dimora in quanti ascoltano la tua parola e la mettono in pratica, manda il tuo Spirito, perché richiami al nostro cuore tutto quello che il Cristo ha fatto e insegnato e ci renda capaci di testimoniarlo con le parole e con le opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
  Dagli Atti degli Apostoli 15,1-2.22-29
In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».
Salmo 66  Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti.
Gioiscano le nazioni e si rallegrino, perché tu giudichi i popoli con rettitudine, governi le nazioni sulla terra.
Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti. Ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo 21,10-14.22-23
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.
Dal Vangelo secondo Giovanni 14,23-29
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.  Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

 UN DIO SENZA FISSA DIMORA. Don Augusto Fontana

 Dio abita “oltre”.
«Alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: “Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi”…Paolo e Barnaba si opponevano risolutamente e discutevano animatamente contro costoro».
Alla Chiesa è vietata la nostalgia. Non tutti, all’interno della Chiesa, accettano la novità. È sempre in agguato la nostalgia delle «cose di prima», ormai superate. Ne fa prova il dibattito che si era acceso nella chiesa di An­tiochia (prima lettura). Erano arrivati dalla Giudea certi individui che contestavano il metodo missionario di Paolo e Barnaba e pretendevano di im­porre ai neo convertiti dal paganesimo anche le osservanze della Legge ebraica, a cominciare dal rito di «iniziazione»: la circon­cisione. Rendendo così insufficienti il battesimo e la fede in Gesù. Paolo avverte che non è in gioco semplicemente il suo metodo pastorale, ma l’essenza stessa della novità cristiana. La questione viene portata dinanzi alla chiesa madre di Ge­rusalemme. I contrasti e le tensioni furono superate con un dibattito aper­to, dove ognuno ebbe la possibilità di esporre le proprie ragio­ni e con un ascolto umile della voce dello Spirito. Il guaio degli integrismi di tutti i tempi è la pretesa di im­porre pesi opprimenti e inutili, di aggiungere, al giogo «libe­rante» del Cristo, un giogo supplementare e strangolante, fatto di carabattole varie e di anacronistici fagotti che appesantiscono il cammino e soffocano ogni slancio. Alcuni provano un gusto quasi sadico a chiedere sacrifici assurdi, col risultato di produrre spaccature all’interno della comunità. Questi nostalgici malati delle «cose di prima» sono gli spe­cialisti dell’accessorio a scapito del necessario. Il loro peccato d’origine è l’incapacità di tener dietro alle iniziative innovatrici dello Spirito. Sono in ritardo sugli avve­nimenti, e quindi sull’azione di Dio nella storia[1].
Dio abita “la città”.
«L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa…Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio».
L’amore che propone Gesù è “architettonico”[2] cioè destinato a modificare la realtà, la città. I nomi delle nostre città dovrebbero avere nomi di uomo e di donna. In Genesi 4,17 troviamo un’ispirazione di fondo, da prendere con le pinze di una lettura critica: «Poi Caino conobbe sua moglie, che concepì e partorì Enoc. Quindi si mise a costruire una città, a cui diede il nome di Enoc, dal nome di suo figlio». Caino non è certo un modello proponibile, ma di lui la Scrittura ricorda che il suo progetto di città aveva un nome di figlio, di uomo. Nelle nostre città non ci viene più voglia di accendere il fuoco neppure per un eventuale ospite di passaggio. Pensiamo che i giochi ormai siano fatti e niente di nuovo busserà alla nostra porta, che non ci saranno più nè soprassalti di gioia per una buona notizia nè trasalimenti di stupore per un’improvvisata e neppure fremiti di dolore per una tragedia umana. Siamo a corto di speranza, siamo delusi dai surrogati di promesse inesplose che mettono in dubbio anche le promesse di Dio. Ossa inaridite e disperse sulle quali il profeta Ezechiele (37, 1-14) invoca lo Spirito di rianimazione politica e di resurrezione vitale: «…il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa tutte inaridite…Mi disse: Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel vostro paese…L’ho detto e lo farò».
Un certo spiritualismo odierno ha la tendenza a dissolvere le componenti spaziali della santità: per loro il centro della santità non sarebbe più la Città o la Terra, ma la Chiesa. Oggi la teologia della «Chiesa locale», radicata su un territorio, ci aiuta a rielaborare la teologia della città. Per molti secoli la cristianità si è dibattuta nel dilemma della Gerusalemme celeste contrapposta alla Gerusalemme terrestre[3]. La Gerusalemme terrestre non doveva essere altro che un riflesso della Gerusalemme celeste. Un midrash[4] rabbinico invece spiega bene la diversa ottica biblica: «Voi trovate anche che c’è una Gerusalemme in alto, corrispondente alla Gerusalemme in basso. Per puro amore della Gerusalemme terrestre, Dio se ne è fatta una in cielo». La letteratura talmudica ebraica pone sorprendenti parole nella bocca di Dio stesso: «Io non entreró nella Gerusalemme celeste finchè non sarò entrato prima nella Gerusalemme terrestre»[5]. Il valore di queste tradizioni sta nel sottolineare che la pienezza spirituale non può essere raggiunta riducendo al minimo la sfera storica con le sue realtà materiali, sociali e politiche. Il Concilio Vaticano II° (GS n.1 e 40) ha scritto pagine indelebili: «La Chiesa è già presente qui sulla terra, ed è composta da uomini membri della Città terrena, chiamati a formare già nella storia dell’umanità la famiglia dei figli di Dio, che deve crescere costantemente fino all’avvento del Signore».
L’evangelista Matteo (5,13-16) ci ricorda quale sia il nostro reale compito come credenti in Cristo che vivono in questa città come cittadini: «Voi siete il sale della terra…Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta, e non si accende una lampada per metterla sotto un recipiente; anzi la si mette sul candeliere ed essa fa luce a tutti quelli che sono in casa».
Nel 597 gli ebrei vengono deportati a Babilonia.  Chiedono al profeta Ezechiele deportato con loro a Babilonia (Ez 33,10): «Come possiamo vivere senza Tempio?».  Ci vorrà la sua genialità per permettere di credere che anche a Babilonia essi possono incontrare Dio.  In una celebre visione (Ez. 8-11), questo profeta descriverà la “Shekhinah” (la sua Presenza) che si allontana dal tempio di Gerusalemme per recarsi esule a Babilonia e vivere la solidarietà con i deportati.  Dio stesso parlando di loro può dire: «Certo li ho dispersi sulle terre, ma per loro io sono, un po’, un santuario sulle terre dove sono giunti» (Ez.11,16). Qualcosa della presenza di Dio ora è a Babilonia. Qualcosa, un po’ (“mehat” dice il testo ebraico o “micron” diranno i traduttori greci).  E quando Nabucodonosor distruggerà definitivamente Gerusalemme e il suo tempio, Geremia (29,5-7) scrive una lettera ai deportati: «Lì dove siete, costruite case e abitatele; piantate giardini e mangiatene il frutto…Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene». E mentre in Babilonia si va consolidando la cultura della resistenza attiva, beffando il male col bene, Geremia, in una Gerusalemme avvolta ancora nel caos, fa il gesto simbolico, anacronistico in tempi senza futuro, di comprare un campo (Ger. 32, 2-15): «Dice il Dio di Israele: Prendi i contratti di acquisto e mettili in un vaso di terra, perché si conservi a lungo. Poiché dice Dio di Israele: Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese».
Nel profeta Ezechiele troviamo un altro potente messaggio religioso e sociale: «[Il Signore] mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente… Mi disse: “Queste acque escono di nuovo nella regione orientale, scendono nell’Araba ed entrano nel mare: sboccate in mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà”».  (47,1ss).
Luigino Bruni, economista e biblista, così commenta[6]: «Il tempio può essere sorgente zampillante di acqua vivificante se quell’acqua non rimane chiusa e gelosamente custodita dentro il tempio. Solo se da lì parte per inondare il mondo…Quell’acqua nasce dentro, ma scorre fuori. È un’acqua laica, civile, secolare. L’Ezechiele sacerdote di Gerusalemme crede che il tempio è il luogo della presenza della gloria di YHWH sulla terra. Ma l’Ezechiele profeta sa e dice che quella presenza non è lì per essere consumata nel culto dai suoi fedeli, perché è generata per essere donata a chi si trova al di fuori del tempio… Ezechiele, che riceve questa visione dopo che il tempio era stato distrutto da Nabucodonosor, intuisce che se ci sarà ancora un nuovo tempio, dopo l’esilio, la fede e il tempio non potevano restare quelli di prima; ogni grande crisi cambia il rapporto tra fede e culto. Il tempio è troppo piccolo per contenere l’Amore e l’acqua della sapienza».
Dio abita “dentro”.
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ». Dov’è Dio? Dove abita? Dove andarlo a cercare? Quanta strada bisogna fare? Abbiamo bisogno di localizzare Dio, di metterlo dentro un tempio fatto di mattoni, dove poterlo onorare, ma anche per metterlo, in modo subdolo, sotto il nostro controllo, sotto formalina. E’ successo anche nella storia d’Israele. Il re Davide abitava in un bellissimo palazzo mentre l’arca dell’alleanza era sotto una tenda. Il senso di colpa gli suggerisce di progettargli un tempio degno. E Dio gli manda a dire per mezzo del profeta Natan: “Davide, lascia perdere! L’universo intero non mi può contenere, e tu penseresti di cacciarmi dentro un cubo di cedro o di freddi mattoni?”(2 Sam.7,1-16). Il vangelo di oggi ci indica dove Dio ha scelto di abitare: “Se uno mi ama, metterà in pratica la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Noi siamo persone “abitate”; già S. Paolo lo aveva detto: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi?” (1Cor 3,16). In Esodo 25,15 si parla della costruzione dell’Arca dell’Alleanza. Una nobile cassa dotata di stanghe laterali infilate negli anelli per poterla portare; le stanghe non dovevano mai essere sfilate anche se erano più lunghe dello spazio della tenda chiamata “Santo dei Santi” (1 Re 8,8). Il filosofo ebreo Levinas offre una spiegazione midrashica: “La Legge-Torà, deposta nell’Arca, è sempre pronta al movimento, non è legata a nessun punto dello spazio e del tempo, ma è pronta per essere trasportabile in ogni momento”. Agli ebrei non andava bene questo Dio liquido, troppo pellegrino e quotidiano, troppo bersaglio mobile. La reazione fu idolatra: si costruiscono un vitello d’oro, immagine del vero Dio ma trasformato in idolo monumentale perché fossilizzato da un’icona statica e immobile. Questo fu ed è il nostro peccato originale. Anche l’evangelista Giovanni è ossessionato dal “dove” di Gesù (per 40 volte circa: Dove vado io voi non potete venire…Signore dove abiti?…Di dove sei?…Dimmi dove lo hai posto…ecc). Per Giovanni l’identità non si scopre dal «Chi sei?», ma dal «Dove sei?». In realtà il chi sono io è dato da dove io sto, cioè dalle relazioni che io ho. Ecco perché nel 4° Vangelo il dimorare, essere in, abitare diventa così importante. Abitare significa che ormai dove io sono ho tutta una serie di relazioni, la mia è una situazione ambientale, “ecologica”. E poi io devo restare, dimorare, devo avere continuità. Giovanni ci dice che per capire Gesù la prima domanda che si deve fare il lettore è dove si colloca, dove dimora Gesù? E la risposta che comincia a dare nel Prologo al suo Vangelo è che Gesù sta «presso il Padre», sta in Dio. E da quella situazione è venuto a stare «in mezzo a noi», mettendo la sua tenda in mezzo a noi. Gesù è un’Arca con le stanghe e senza fondamenta, perché possa seguirci là dove andiamo: “Se uno mi ama, metterà in pratica la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. S.Agostino dirà: “A lungo ti ho cercata, bellezza nascosta, tardi ti ho trovata; io ti cercavo fuori di me, e tu eri in me”.
In conclusione.
Il biblista G. Ravasi, così sintetizza il messaggio delle letture liturgiche di questa domenica: «La dinamicità che impedisce alla Chiesa di essere nostalgica, la fedeltà che impedisce alla Chiesa di es­sere sbandata, la pazienza che impedisce alla Chiesa di essere frenetica, la profezia che fa comprendere alla Chiesa i segni dei tempi, la tolleranza e il dialogo che impediscono alla Chiesa la malattia dell’integralismo, la speranza che fa superare alla Chiesa esitazioni e incertezze. Ma su tutto deve dominare la fede nello Spirito, guida ultima e viva della Chiesa».


[1] A. Pronzato, PAROLA DI DIO. Commenti alle letture della domenica anno C, Gribaudi editore.
[2] Balducci in “Il mandorlo e il fuoco” anno C pag.152.
[3] cf. Giordano Frosini Babele o Gerusalemme? Per una teologia della città, Ed. Paoline, 1992.
[4] Midrash Tanhumah, inizio della sezione Pequdey
[5] B. Ta’anith 5 b.
[6] Avvenire 11/05/2019. L’esilio e la promessa/Cantico della laicità




15 maggio 2022. Domenica 5a di Pasqua
NUOVO

Quinta domenica di Pasqua.

Preghiamo. O Dio che nel Cristo tuo Figlio rinnovi gli uomini e le cose, fa che accogliamo come fondamento della nostra vita il comandamento dell’amore, per amare te e amare i nostri fratelli come tu ci ami, e così manifestare al mondo la forza rinnovatrice del tuo Spirito. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dagli Atti degli Apostoli  (14,21b-27)
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.  Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.
 Salmo 144,8-13)(145) Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno e parlino della tua potenza.
Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno.
Il tuo regno è un regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (21,1-5a)
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:  «Ecco la tenda di Dio con gli uomini!  Egli abiterà con loro  ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
Dal vangelo secondo Giovanni (13,31-33a.34-35)
Quando Giuda fu uscito[dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

LA NOVITA’. Don Augusto Fontana.
Una parola-chiave di questa domenica: la novità.
Due ambiti ove accade la novità: la città, l’amore.
Spesso confondiamo novità con diversità. Noi siamo abituati a dire “Nuova Repubblica, nuovo Governo, nuovo lavoro, nuovo giornale…”. Spesso si tratta di qualcosa diverso dal primo, ma non necessariamente “nuovo”. Non ci vogliono molte argomentazioni per dimostrarlo. Spesso si tratta di robe vecchie riciclate, diligentemente mascherate. Spesso si tratta di trasformismo.
<Ecco faccio nuove tutte le cose…; vidi un cielo nuovo e una terra nuova…; vidi la nuova Gerusalemme scendere dal cielo…> dice Apocalisse.
<Vi dò un comandamento nuovo…> dice Gesù nel Vangelo.
Non voglio disprezzare la diversità, perchè spesso è a forza di diversità che ci si avvicina al nuovo.
Alcune considerazioni:
1- Non abbiamo molta voglia di novità, in quanto la novità chiede di ristrutturarci. Il trasformismo è meno aggressivo nei confronti delle scelte da fare; spesso si cambiano le cose per lasciare tutto come prima. Invece gli apostoli dicevano: <E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio>. La novità ha dei costi iniziali, è un investimento a rischio, fatto nella fede e nella fiducia. Nelle famiglie si pensa maggiormente a cambiare posto ai mobili, pur di non affrontare il problema che nascerebbe da una nuova impostazione dei sentimenti e degli orizzonti della famiglia. Nella Chiesa si fanno molti documenti sul ruolo della donna, si fanno i Consigli pastorali, ma di fatto le parrocchie sono ancora tutte incentrate sul ruolo del prete. Si fanno molte cose per i poveri, ma i poveri non costituiscono il tessuto della Chiesa.
2- La novità, a differenza della diversità e del trasformismo, va a toccare il centro della persona e delle organizzazioni. Il trasformismo, invece, tocca gli aspetti periferici della vita. <Chi non rinasce di nuovo non può entrare nel Regno dei cieli> diceva Gesù a Nicodemo il quale ribatteva:<Come può un uomo rientrare nel seno materno?> dimostrando di non aveva colto che Gesù parlava di una vita nuova e non semplicemente di una vita ricominciata da capo con le stesse condizioni di prima, più o meno. Ecco perchè parlare di novità significa parlare di rinascita e non di semplice crescita.
3- La novità nasce da una sorgente, da un principio: “Dio è diverso da come lo sto pensando”. Se la sorgente butta acqua inquinata, l’acqua che bevo non sarà mai nuova, ma solo diversa. Perchè solo il Padre di Gesù e nessun altro è portatore di novità. La novità non è qualcosa che costruisco, ma qualcosa che accetto. Tutto l’mmobilismo e il trasformismo della nostra vita religiosa e cristiana nasce da questo equivoco di fondo: abbiamo capito male Dio, ci stiamo rapportando in modo equivoco con Lui.
4- La novità offerta dal Padre non ci interessa più di tanto. La novità inizia dalla Resurrezione, passa attraverso la storia, si completa nel Regno dei cieli. Gli effetti della novità sono descritti dalla pagina dell’Apocalisse. La novità non consiste nel non piangere più, ma nel fatto che Dio asciugherà ogni lacrima; non viene eliminata la morte, ma la morte non è la fine. Forse per questo, la novità non mi interessa. Perchè le novità che attendo sono diverse da quelle che mi vengono offerte. E mi giro da un’altra parte. Oppure mi rivolgo al Dio di Gesù Cristo per ottenere una vita un po’ più frizzantina, ma non nuova. Impaurito dalle novità di Dio, nella mia preghiera faccio resistenza e pronuncio una preghiera-bestemmia:<Signore liberami dalle tue novità; tientele; dàlle ad altri; preferisco una mediocrità accettabile piuttosto che una inaccettabile novità pasquale. Non permettere che nessuno mi offuschi l’immagine rassicurante che mi sono costruito di Te; mi vai bene così, con qualche benedizione, qualche bel rito di prima comunione, un prete simpatico e che stia sempre in canonica per farmi un certificato di battesimo appena ne ho bisogno, un rametto d’ulivo, una bella predica possibilmente corta: dammi cose diverse che siano un diversivo, ma che non raggiungano la novità. Dopo si vedrà.>

L’amore e la città.
Quando Gesù dona il suo testamento parlando di comandamento nuovo dell’amore, lo fa nella cornice della sua passione e a contatto con il tradimento. Gesù non si trovava in una idilliaca apericena: si trovava dentro la morsa della storia che lo stava sconfiggendo e schiacciando. Il precetto dell’amore non è un precetto ai margini della realtà, ma nel cuore della cronaca.  La volontà di Gesù e la nostra vocazione è di costruire una città santa raggiungendo i confini della terra e della creazione.
L’amore che propone Gesù è “architettonico”[1] cioè destinato a modificare la realtà, non a passarvi sopra come una sterile nebbia che nasconde le cose o che sconsacra i sacrosanti tentativi dei deboli di impedire che i forti facciano loro del male.
L’amore nuovo architettonico ci viene descritto dalla pagina di oggi dell’apocalisse: Dio dimora con noi, asciuga le lacrime. Non ci viene garantito che non piangeremo, ma solo che ci verrà impedito di essere affogati dalle lacrime. La novità radicale è che Dio ci vuole bene.

  • L’amore nuovo architettonico viene prospettato come un amore “politico”, cioè che ricostruisce il tessuto di una città, di una convivenza.
  • L’amore nuovo architettonico ha una caratteristica: amatevi come io vi ho amato. E’ quel “come” che dichiara la novità. Un amore creativo, che arriva a dare la vita, che sceglie la debolezza, rifiuta ogni forma di violenza, rispetta la libertà, promuove la dignità, respinge ogni discriminazione, mette in conto la tribolazione.
  • L’amore nuovo architettonico è un amore che deve essere visibile:<Da questo riconosceranno che siete miei discepoli>. Non sarà l’abito o i distintivi o il tipo di culto che distinguerà gli appartenenti a questa nuova comunità, ma questo tipo di amore. Ciò che quaggiù viene edificato nell’amore, non andrà perduto, ma sarà trasfigurato.

Per raggiungere questa novità occorre acclimatarsi. Compiere passi di avvicinamento. Se non ci è concesso ancora di gustare la novità, ci sia concesso almeno di lavorare per la diversità della nostra impostazione di vita.
Siamo venuti all’eucarestia domenicale per sperimentare tutto quanto ci è stato annunciato.
Ci attende una settimana per sperimentare ciò che ci è stato donato.


[1] Balducci in “Il mandorlo e il fuoco” anno C pag.152




8 maggio 2022. Domenica 4 di Pasqua
PECORE MA NON PECORONI.

Quarta domenica di Pasqua – 8 maggio 2022

Preghiamo. O Dio, fonte della gioia e della pace, che hai affidato al potere regale del tuo Figlio le sorti degli uomini e dei popoli, sostienici con la forza del tuo Spirito, e fa’ che nelle vicende del tempo, non ci separiamo mai dal nostro pastore che ci guida alle sorgenti della vita. Egli è Dio, e vive e regna con te…
Dagli Atti degli Apostoli 13,14.43-52
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
SalMO 99.  Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.
Acclamate il Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza.
Riconoscete che solo il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo.
Perché buono è il Signore, il suo amore è per sempre, la sua fedeltà di generazione in generazione.
 Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo 7,9.14-17
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
Dal Vangelo secondo Giovanni 10,27-30
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

PECORE MA NON PECORONI. Don Augusto Fontana.
Ho fatto il mio dovere di contribuente lavoratore dipendente e pensionato. Modulo 730, redditi, ritenute, detrazioni e diavolerie varie: tutto diligentemente compilato, insieme con la sottoscrizione per la destinazione dell’otto per mille. Ogni anno l’addetto del CAF sgrana gli occhi ed io gli leggo la domanda: come mai un prete cattolico appone la firma per destinazioni diverse dalla chiesa cattolica? Ebbene sì. Sono convinto che l’ecumenismo non passa solo attraverso le asettiche celebrazioni interconfessionali, ma anche attraverso l’otto per mille interscambiato. Una rotazione ecumenica, per anticipare tempi, se verranno, quando ogni porzione del gregge di Dio offrirà all’altro l’accesso al proprio pascolo. Una competizione di cortesie che farebbe disorientare un mondo che conosce solo il “mio” e il “tuo”. Un atto di fede nel Signore che ha pregato il Padre: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. …Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Giovanni 17, 20-21; 10, 14-16). Anche l’otto per mille crea o abbatte recinti, allarga o restringe ovili, unifica o moltiplica pastori: «Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime» scriveva Pietro[1].
Oggi le Letture bibliche ci dicono ancora una volta come è difficile “dire Dio”: Gesù è chiamato pastore ma anche contemporaneamente agnello: “l’Agnello… sarà il loro pastore”. Linguaggi e teologie estranee al nostro conversare e pensare quotidiano. E quanto è difficile parlare di chiesa come gregge di pecore, ma non di pecoroni. Anzi: gregge di pastori.
Un pastore che condivide.
Gesù pastore. Per di più buono (“bello”). L’immagine si apre su vasti orizzonti di mistica, di organizzazione pastorale, di leadership ecclesiale, di psicologia delle masse, di ecumenismo. Immagine teologica e dolce insieme; ma oggi lontana dall’immaginario europeo dei più. L’esperienza dei pastori dell’antico oriente rappresenta un riferimento lontano dalle attuali nostre condizioni di vita; nella nostra civiltà industriale e urbanizzata, l’immagine del pastore ha perso molto della sua forza e del suo mordente. Questo richiede un maggiore sforzo di ricerca.
Il gregge. E’ in marcia per la transumanza. Si seguono i ritmi stagionali alla ricerca di nuovi pascoli. In primavera si vaga in terreni liberi. In estate si chiede ospitalità a popolazioni sedentarie e agricole alle quali si chiede di poter portare il gregge. I trasferimenti costituiscono situazioni spesso drammatiche: la necessità di trasferirsi velocemente è ostacolata da pecore incinte o che hanno appena partorito; lupi predatori minacciano pastori e greggi, i clan sedentari accusano i pastori di essere ladri e di portare malattie o di essere una classe socialmente inferiore e pericolosa.
Il pastore semita non è solo guida che conduce ad un’oasi o ad un pascolo. Lui sa dare certezza e sicurezza perchè i sentieri dispersivi o errati sono scartati con precisione dal suo bastone, quindi è un salvatore. Il pastore è anche compagno di viaggio per cui le sue ore sono quelle del gregge: i rischi, la fame, la sete, il sole, la pioggia. Non solo guida, ma anche condivide: « pur essendo Figlio, imparò tuttavia l`obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Ebrei 5, 8-9).
Il Salmo biblico 23 canta: «Signore, pastore mio! Non manco (non mancherò) di nulla! Mi fa posare in pascoli di erba, mi conduce verso acque di riposo (tranquille), mi restituisce vita (vitalità), mi guida su sentieri giusti (di giustizia) Dovessi anche passare per la valle più oscura, non temo il male, poichè tu sei con me».
«Sei il mio pastore». Non sfuggo la domanda: «Chi guida o anima veramente la mia vita?». La domanda non è solo per i mistici. Quale autorevolezza e signoria ha Gesù nella mia esistenza, nel determinare i miei sentieri? Come si esprime la sua leadership sui nostri regimi di vita?
«Tu sei con me, non manco di nulla». Non manco di nulla perchè di fatto non mi faccio mancare nulla? E chi manca di tutto come in Ucraina, in Sudan, in Yemen, come può pronunciare questa preghiera? Quale sono le graduatorie di valore produttrici delle mie felicità? “Siete stati arricchiti in Lui di ogni cosa” (1 Cor.1,5) .
«La valle oscura», le tempeste della vita: chi ci vive dentro ha bisogno di sentire un Dio condividente: «Non temere vermiciattolo, larva! Non temere perchè io sono con te, non smarrirti perchè io sono il tuo Dio» (Isaia 41, 10. 14). «Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno; mai permetterà che il giusto vacilli» (Salmo 55,23). «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Isaia 43,1-5). «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Lettera ai Romani 8, 35).<< nessuno le strapperà dalla mia mano>>.
Scriveva il teologo Carlo Molari[2]: «Mi sembra sia Anthony de Mello a raccontare di una sua preghiera che non trovava risposta. Di fronte ad una madre in pianto perchè il figlio moriva e non sapeva cosa fare, egli pregava: “Che stai facendo, mio Dio, per questa madre a cui muore il figlio? Non vedi come soffre?”. L’unica risposta era il silenzio. Solo dopo lungo pregare sentì chiara la risposta: “Che faccio? Per questa madre ho fatto te!” . Pregare quindi non è chiedere a Dio di intervenire al nostro posto, ma è aprirsi alla sua azione per diventare capaci di accoglierla in modo così ricco da essere in grado di compiere per noi e per gli altri ciò che la vita ci chiede».
La figura del Dio-pastore nasce prevalentemente dall’esperienza del deserto dell’esodo: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te. Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo»[3].
Il deserto è un evento durante il quale due partner si conoscono e si ri-conoscono. Succede anche nella vita: ci si conosce stando insieme, litigando e perdonandosi, servendosi a vicenda. Un beduino espulso dal proprio clan o viene accolto da un altro clan o muore.
Il deserto è una lezione che l’uomo riceve: per la vita non basta il pane, occorre la Parola di Dio. Il deserto è “assenza di…”: nella sabbia non si può nè costruire città nè piantare orti e giardini; anzi il deserto tende ad invadere l’area coltivata. «Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni e non c’è acqua da bereVagavano nel deserto, nella steppa, non trovavano il cammino per una città dove abitare. Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie. Li condusse sulla via retta, perché camminassero verso una città dove abitare»[4].
Il deserto rappresenta ogni tempo dove è possibile maturare come succede per l’apprendistato, il fidanzamento, l’adolescenza.
Il deserto rappresenta una lunga dilazione della promessa e della sua realizzazione; è un tempo intermedio che raccoglie e rappresenta sentimenti diversi: attesa, speranza, rassegnazione, disperazione, impazienza, mormorazione, costanza, tenacia, resistenza, fedeltà.
Nel deserto si cammina. In questo cammino dell’esodo Dio si presenta come uno che accompagna, che guida, che precede, come un pastore. Dio di fatto sembra dare direzioni generiche del tipo “Andate verso Nord!” e spetta quindi all’uomo precisare il proprio cammino. Il simbolo di questa assistenza è la nube che si ferma, si avvia, sceglie la direzione; successivamente sarà l’Arca della alleanza a dimostrare che il popolo pellegrino desidera camminare dietro il suo Signore. Gesù dirà a Pietro che vuole mettersi davanti a lui: «Torna dietro a me, Satana!» (Mc.8,33). Può accadere infatti che i suoi sentieri non siano i nostri sentieri e che quindi li si smarriscano, smarrendo anche noi stessi. Bisogna quindi cercare il Signore fin che si fa trovare, dice Isaia (Is.55,6-8).

In quale contesto Giovanni presenta Gesù come pastore? Nel cap. 9 ricorda la guarigione di un cieco dalla nascita. Ma contestualmente presenta anche la rigidità mentale dei farisei che non riescono a gioire delle recuperate funzioni relazionali del cieco. E si beccano una poco simpatica risposta di Gesù: «Se foste ciechi non avreste colpa, ma siccome dite “Ci vediamo” allora il vostro peccato rimane». Ciechi che guidano altri ciechi: dice Giovanni. E per questo colloca qui la pagina del capitolo 10: Gesù è la porta dell’ovile, è il pastore del gregge. Probabilmente ai tempi di Giovanni già una comunità organizzata offriva spunti di riflessione a causa di certi presbiteri o responsabili non all’altezza.: «hanno pasciuto se stessi, non hanno dato forza alle pecore deboli, non hanno cercato quella malata, nè fasciato quella ferita, non hanno ricondotto la smarrita, nè cercato quella che era perduta ed hanno oppresso con durezza quella robusta»[5]. Giovanni sente la necessità di ricordare chi è il vero e unico pastore della chiesa e, comunque, a quale modello devono riferirsi quelli che si fanno chiamare pastori o a quale modello dovesse riferirsi una comunità che volesse esercitare il proprio ministero pastorale nel mondo.
Una comunità “pastorale”?
Scrive Papa Francesco[6]Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 120). Bisogna guardarsi dalla mentalità che separa preti e laici, considerando protagonisti i primi ed esecutori i secondi, e portare avanti la missione cristiana come unico Popolo di Dio, laici e pastori insieme. Tutta la Chiesa è comunità evangelizzatrice…La parola “vocazione” non va intesa in senso restrittivo, riferendola solo a coloro che seguono il Signore sulla via di una particolare consacrazione. Tutti siamo chiamati a partecipare della missione di Cristo di riunire l’umanità dispersa e di riconciliarla con Dio… Siamo chiamati a essere custodi gli uni degli altri, a costruire legami di concordia e di condivisione, a curare le ferite del creato perché non venga distrutta la sua bellezza. Insomma, a diventare un’unica famiglia nella meravigliosa casa comune del creato, nell’armonica varietà dei suoi elementi… La vocazione, come d’altronde la santità, non è un’esperienza straordinaria riservata a pochi. Come esiste la “santità della porta accanto” (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6-9), così anche la vocazione è per tutti, perché tutti sono guardati e chiamati da Dio…Mettiamoci allora in ascolto della Parola, per aprirci alla vocazione che Dio ci affida! E impariamo ad ascoltare anche i fratelli e le sorelle nella fede, perché nei loro consigli e nel loro esempio può nascondersi l’iniziativa di Dio, che ci indica strade sempre nuove da percorrere…Come cristiani, siamo non solo chiamati, cioè interpellati ognuno personalmente da una vocazione, ma anche con-vocati. Siamo come le tessere di un mosaico, belle già se prese ad una ad una, ma che solo insieme compongono un’immagine. Brilliamo, ciascuno e ciascuna, come una stella nel cuore di Dio e nel firmamento dell’universo, ma siamo chiamati a comporre delle costellazioni che orientino e rischiarino il cammino dell’umanità, a partire dall’ambiente in cui viviamo. Questo è il mistero della Chiesa: nella convivialità delle differenze, essa è segno e strumento di ciò a cui l’intera umanità è chiamata. Per questo la Chiesa deve diventare sempre più sinodale: capace di camminare unita nell’armonia delle diversità, in cui tutti hanno un loro apporto da dare e possono partecipare attivamente».

Papa Francesco il 28 marzo 2013 si era rivolto al clero di Roma così: “Questo vi chiedo: di essere pastori con l’odore delle pecore. L’unzione non è per profumare noi stessi e tanto meno perche’ la conserviamo in un’ampolla, perche’ l’olio diventerebbe rancido e il cuore amaro“.


[1] 1 Lettera di Pietro 2, 25.
[2] Carlo Molari Pregare ancora? in ROCCA 21/96 Pag. 50-51.
[3] Deuteronomio 8
[4] Numeri 20,5; Salmo 107,4-5.
[5] Ezechiele 34, 2. 4
[6] Messaggio dell’8 maggio 2022 per la 59a giornata mondiale di preghiera per le vocazioni.




1 maggio 2022. Domenica 3a di Pasqua
PASQUA AL LAVORO

Domenica 3° di Pasqua –
Preghiamo. Padre misericordioso, accresci in noi la luce della fede, perché nei segni sacramentali della Chiesa riconosciamo il tuo Figlio, che continua a manifestarsi ai suoi discepoli, e donaci il tuo Spirito, per proclamare davanti a tutti che Gesù è il Signore.
Dagli Atti degli Apostoli (5,27b-32.40b-41)
In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
Salmo 29(30) Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza, Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni aposto­lo (5,11-14)
Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.
Dal Vangelo secondo Giovanni (21,1-19)
(forma breve)
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.

PASQUA AL LAVORO. Don Augusto Fontana
Nel cap. 38 del Siracide c’è un elenco di arti e mestieri come erano allora conosciuti. La Bibbia dice, di questi lavoratori, che “confidano nelle loro mani e ciascuno è abile nel suo mestiere. Senza di loro la città non può essere costruita e nessuno potrebbe avere ciò che occorre alla vita“. Poi l’autore sacro aggiunge un’espressione molto bella: “Queste persone assicurano il funzionamento del mondo e il loro lavoro intelligente è una vera preghiera“.
Oggi i piedi del risorto si posano nelle vicinanze di una pescheria, dove la gente si guadagna volgarmente la pagnotta senza sospettare né attendere mistici incontri: «Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva» (Giovanni 21, 1-14). L’evento accade anche al di fuori di quel giorno – l’ottavo giorno – che siamo ormai abituati a riconoscere come il giorno dedicato alla memoria liturgica e comunitaria, grande coordinata temporale della pasqua. L’evangelista non ne fa cenno. C’è una laicità suggerita, in questo incontro pasquale accaduto su un luogo e in un tempo di lavoro. Qualcuno storcerà la bocca ricordandomi che il mestiere di pescatore evoca la più “nobile” attività pastorale e missionaria: «Gesù disse loro: Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini» (Marco 1, 17).  Il capitolo 21 di Giovanni è un’appendice aggiunta molto tardivamente da una comunità di discepoli effettivamente stressati da alti e bassi di fecondità e infecondità pastorali. Comunque sia, l’infecondità e l’aridità che affiora nell’annotazione evangelica descrive bene le ombre crepuscolari di molti, operai del Regno, dell’educazione, dell’ascesi o del lavoro: «…ma in quella notte non presero nulla». Per ricordarci, se ce ne fosse ancora bisogno: «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla»[1]. La laicità di quel tempo e spazio è mitigata solo dalla ritualità di un pasto, che ha il sapore della cena pasquale di qualche sera prima. Ritualità solennizzata nei sogni dell’Apocalisse (Apocalisse 5, 11-14).  Ma spero che nessuno neghi che la Risurrezione ha consanguineità e parentela con quel corpo seminudo del pescatore Pietro (che non ha modo di rivestirsi di paramenti liturgici per andare incontro al suo Signore) o con la nostra fede offuscata di discepoli che faticano a riconoscere il loro Signore davanti ad un cespuglio acceso in un freddo ed infruttuoso tempo di lavoro.
Per 26 anni (ora sono in pensione) ho fatto fatica a cercare e trovare coordinate pasquali nel mio lavoro, ma non ho mai smesso di cercarle con il naso all’insù o ficcato dentro gli eventi. Come la moglie del Rabbi di Berditschev che, mentre cuoceva i pani per il Sabato, usava pregare: «Signore del mondo, ti prego, aiutami; quando il mio Rabbi sabato prossimo dirà la benedizione su questi pani, abbia nel suo cuore tutto ciò che io ho nel mio cuore in quest’ora che li impasto e li cuocio»[2].
Quando hai nascosto il Tuo volto…
«Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo (Gemello), Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”.  Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”.  Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla». Sembrerebbe una chiesa meticcia e a ranghi ridotti. Sono in sette: giudei, galilei ed ex pagani. Il capitolo 21 è stato aggiunto all’evangelo di Giovanni forse nel 130-140 d.C. Con molta probabilità la missione ha già disperso gli apostoli. Forse alcuni dei primi grandi testimoni e protagonisti sono morti e sono subentrati i discepoli, quelli noti e quelli anonimi. Pietro guida il lavoro e la missione, ma non ci sono garanzie: «Nella mia prosperità ho detto: «Nulla mi farà vacillare!».  Nella tua bontà, o Signore, mi hai posto su un monte sicuro; ma quando hai nascosto il tuo volto, io sono stato turbato» (Salmo 30, 7-9). Ci sono tempi in cui preferiremmo il contrasto aperto che ha il vago sapore di martirio o di testimonianza eroica: «Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (Atti 5, 27-41).  Ci toccano invece aride fatiche o assonnate indifferenze circostanti, improvvisamente accostate da rare Sue visite che accogliamo con l’usuale confusa fede: «Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù». Scrive Franco Barbero che questo capitolo dell’evangelo di Giovanni: «…è una pungente parabola del nostro cammino di fede. Anche quando Dio tace e non ci da’ le risposte che noi ci aspetteremmo, non è indifferente alla nostra vita: “senza il silenzio di Dio non possiamo diventare uomini e donne […] Dio rimane silenzioso affinché uomini e donne possano parlare, protestare e lottare. Dio rimane silenzioso affinché possiamo diventare realmente noi stessi. Quando Dio è silenzioso e gli uomini e le donne gridano, Dio grida in solidarietà con loro; ma Dio non interviene, Dio aspetta le grida di protesta. Quindi Dio comincia a parlare di nuovo, ma in dialogo con noi”» (Elsa Tamez, Concilium 1/2001, pag. 33). [3]
Gesù arriva all’alba. «Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino, ecco la gioia» (Salmo 30). Perché il Signore nasconde il suo volto fino ad un’ora mattutina che pare non giungere mai? Perché questo nostro tempo è così ipercinetico, attivo, produttivo e genera fantasmi e ci restituisce pochi euro e scarsa umanità? Penso al grande alveare umano del lavoro, al correre infinito dietro le ore, agli incastri sempre più fitti di attività e impegni e servizi. E insieme ascolto lamenti e odo l’urlo dell’anima dei colpiti, degli sconfitti, dei frustrati: «Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami, Signore: tremano le mie ossa. L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando…? Volgiti, Signore, a liberarmi, salvami per la tua misericordia. Sono stremato dai lungi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto. I miei occhi si consumano nel dolore, invecchio fra tanti miei oppressori» (Salmo 6). Lamenti agonici di chi attende che si realizzi la promessa del Salmo 125: « Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni». Il raccolto tarda nell’attesa di un suggerimento: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Forse abbiamo gettato le reti dalla parte sbagliata?  «Se manca il suggerimento dello Spirito, la Chiesa rischia di scegliere sempre la parte sbagliata. Per gli ebrei il lato destro è quello della benedizione di Dio. La grande quantità di pesci è stata tirata su dalla docilità alla Parola»[4]. Gesù non accompagna i suoi nella pesca, come invece ricorda Luca: «Salì in una barca, che era di Simone». Non sta “in mezzo a loro”, in barca, ma li assiste stando sulla spiaggia che è il limite del mare e rappresenta il terminale della storia, come commenta S. Agostino[5]. Giunge un tempo  – e forse è il nostro – che diventa tempo di responsabilità, tempo in cui Lui è vicino ma non “in mezzo”, è a media portata dei nostri ascolti e delle nostre intuizioni. È il tempo delle sensazioni di solitudine e della precarietà delle scelte e delle obbedienze. È il tempo del lavoro in attesa del pasto liturgico dove, accostandoci, possiamo vederlo più da vicino e portare anche il nostro pesce a friggere con il suo, quello che lui ha preso chissà come e chissà dove:  «Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: Portate un po’ del pesce che avete preso ora».
I suoi pesci con i miei. E i suoi pani.
Una delle realtà umane più diffuse è il lavoro.  Chi studia si sta preparando al lavoro, gli adulti lavorano, i disoccupati cercano lavoro, i pensionati sono reduci della produzione, espulsi e quindi fuori dal circuito di chi conta.  Il lavoro costituisce una condizione talmente normale da farci rischiare di non accorgerci che esiste come problema e come chance. È cioè una condizione data per scontata, mentre scontati non sono i problemi connessi con l’evangelizzazione, con la catechesi e con la moralizzazione delle attività professionali, sindacali, corporative. Esemplifico:

  • la generale richiesta di moralizzazione del servizio pubblico non è rivolta solo ai vertici dei pubblici servizi, ma anche ai singoli operatori, impiegati, professionisti da cui dipende in larga misura l’efficienza e l’efficacia dei servizi. Dove spariscono i cristiani che alla domenica hanno celebrato l’Eucarestia pasquale e durante la settimana dovrebbero attenersi a rigorosi e rispettosi comportamenti professionali? La perdurante immoralità e corruzione non richiama la Chiesa ad uno scatto di urgente ri-evangelizzazione di un paganesimo pratico e idolatra che si consuma negli ambienti di lavoro?
  • la tendenza attuale a ragionare in termini corporativi e non di “bene comune” pone seri problemi non solo al sindacato o alla Confindustria, ma anche a chi, come la Chiesa, sta a cuore una equa ridistribuzione del reddito e dei benefici sociali, perché i beni sono di Dio/di tutti e noi ne siamo solo amministratori.
  • la ricerca di una equità fiscale che attenui la divaricazione tra poveri sempre più poveri e garantiti sempre più garantiti non è estranea all’Evangelo dei profeti e di Gesù. L’equità fiscale non sarà solo frutto di nuove leggi o di uno stato poliziesco, ma primariamente di una nuova coscienza. Anche pasquale. Se la logica della croce non incomincia a concretarsi in qualche martirio quotidiano, dove andrà a posarsi?  «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» dicono gli apostoli guadagnandosi così una pesante fustigazione. Per molto meno, a noi, viene chiesto non il martirio, ma ….di pagare l’IVA su beni e servizi.
  • la prassi diffusa del doppio lavoro e del lavoro nero, la condizione dei turnisti, il lavoro precario o interinale, la gestione del bilancio familiare, sono o non sono problemi per i quali la comunità cristiana deve saper offrire un contributo di denuncia, di consolazione, di annuncio?
  • la crisi del sindacato e della militanza sindacale é finalmente una liberazione oppure é il segno di un rigurgito di individualismo e di una abdicazione di responsabilità di cui e per cui la Chiesa soffre?
  • La crescita del mercato e la diminuzione della solidarietà hanno qualcosa da spartire con l’annuncio che Dio é Padre?

Scriveva Teilhard de Chardin[6] nel suo “L’ambiente divino”: «Non penso di esagerare affermando che per i nove decimi dei cristiani praticanti, il lavoro umano resta allo stato di «impaccio spirituale». Nonostante la pratica della retta intenzione e della giornata quotidianamente offerta a Dio, la massa dei fedeli cova oscuramente l’idea che il tempo trascorso in ufficio, nel proprio studio, nei campi o nella fabbrica sia sottratto all’adorazione.  Certo, è impossibile non lavorare.  Ma è anche impossibile proporsi quella profonda vita religiosa riservata a coloro che hanno il tempo di pregare o predicare tutto il giorno.  Nella vita alcuni minuti possono essere recuperati per Dio.  Ma le ore migliori sono sperperate o per lo meno svalorizzate dalle occupazioni materiali.  Oppressi da questo sentimento, moltissimi cattolici conducono in realtà una doppia vita o una vita impacciata: hanno bisogno di abbandonare la veste umana per ritenersi cristiani e, per di più, cristiani di second’ordine. Certo, nelle nostre giornate, esistono minuti particolarmente nobili e preziosi, quelli della preghiera e dei sacramenti, in mancanza dei quali il fluire della presenza divina e la visione che ne abbiamo, si indebolirebbero.  Tuttavia perchè temere che l’occupazione più banale, assorbente o affascinante ci costringa ad uscire da Dio? In virtù della creazione e ancor più dell’Incarnazione, niente è profano quaggiù per chi sa vedere. Invece tutto è sacro per chi sa distinguere in ogni creatura la particella di essere sottoposta all’attrazione di Cristo. Se, con l’aiuto di Dio, riconoscete la relazione che collega il vostro lavoro all’edificazione del Regno di Dio, quando lascerete la chiesa per la città rumorosa avrete la sensazione di continuare ad immergervi in Dio.  Se il lavoro vi sembra insipido od estenuante, cercate rifugio nell’interesse riposante ed inesauribile di progredire nella vita divina.  Se il lavoro vi appassiona, trasferite nel desiderio di Dio quello slancio spirituale che la Materia vi comunica.  Mai, comunque, acconsentite a fare qualcosa senza aver riconosciuto prima e aver ricercato poi, tutto il significato ed il valore positivo in Cristo Gesù.  Questa è, secondo la vocazione di ognuno, la stessa via della santità.  Nella Chiesa vediamo gruppi i cui membri si dedicano alla pratica perfetta del distacco, dei riti, della missione, della contemplazione.  Perchè non vi potrebbero essere anche uomini votati a dare con la loro vita l’esempio della santificazione dello sforzo umano? Dalle mani che l’impastano sino alle mani che la consacrano, la Grande Ostia universale dovrebbe essere preparata e maneggiata solo con adorazione.  Allora veramente ben poco separerà la vita del monastero da quella dei laici. Tanti cristiani, troppo poco coscienti delle responsabilità “divine” della loro vita, vivono come gli altri uomini, in uno sforzo dimezzato, senza conoscere il pungolo o l’ebbrezza del regno di Dio da promuovere in tutti i campi dell’attività umana. Il cristianesimo non è, come a volte lo si rappresenta o lo si pratica, un sovraccarico di pratiche e obblighi che appesantiscono oneri già gravosi o moltiplicano vincoli già così paralizzanti della vita sociale.  Esso è invece un’anima potente che conferisce significato, fascino e nuova scioltezza a quanto già facciamo».

Ci presentiamo a mani vuote. Il pasto è già stato predisposto da Lui. Ma ci chiede di far scivolare quei due pesciolini tirati su da quelle rare obbedienze alla sua parola: «Gettate le reti dal lato destro, quello della benedizione di Dio».


[1] Giovanni 15,5
[2] Fonte: SeFeR  n. 93/2001 pag.3.
[3] http://web.tiscalinet.it/viottoli/
[4] A.Pronzato PAROLA DI DIO. Commenti alle 3 letture della domenica Ciclo C, Gribaudi editore, Torino, 1988, pag. 105
[5] Agostino, Comment. in Ioan., 122, 6 s.
[6] Le Milieu divin. Essai de vie intérieure; scritto nel 1926 dal padre gesuita, scienziato evoluzionista (1881-1955). La traduzione è stata leggermente modificata per facilitarne la comprensione.




24 aprile 2022. Domenica 2a di Pasqua
CREDENTI CREDIBILI

2° domenica di Pasqua – 24 aprile 2022

Preghiamo. O Padre, che nel giorno del Signore raduni il tuo popolo per celebrare colui che è il Primo e l’Ultimo, il Vivente che ha sconfitto la morte, donaci la forza del tuo Spirito, perché, spezzati i vincoli del male, ti rendiamo il libero servizio della nostra obbedienza e del nostro amore, per regnare con Cristo nella gloria. Egli è Dio, e vive e regna con te…
 Dagli Atti degli Apostoli 5,12-16
Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti.
Sal 117  Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre». Dica la casa di Aronne: «Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore: «Il suo amore è per sempre».
La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!
Ti preghiamo, Signore: Dona la salvezza! Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore. Il Signore è Dio, egli ci illumina.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo 1,9-13.17-19
Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù. Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alla sette Chiese. Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo.
Dal Vangelo secondo Giovanni 20,19-31
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato [letteralmente nel testo greco: il primo dei sabati], mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo [gemello], non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”. Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

CREDENTI CREDIBILI. Don Augusto Fontana.
Gesù gli disse: “… beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”…
Nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava
Credere ed essere credibili: sono le due fatiche che conosciamo bene. Alla prima fatica dedicano più attenzione i battezzati laici i quali ritengono ancora che la seconda fatica debba invece essere soprattutto la fatica dei preti, del Papa, dei vescovi.
In giro per il mondo e per la Chiesa esistono situazioni di grande sofferenza tra settori della Chiesa che cercano di rendere credibile la novità pasquale attraverso gesti di generosità, di onestà di vita e di parola, di condivisione con le realtà mortificanti. Ma esistono anche altri settori che, per ragioni diplomatiche o legalistiche, contrastano o abbandonano i testimoni scomodi al loro destino di emarginazione. Il problema oggi si è fatto acuto perchè esiste un fenomeno di “identificazione parziale” con la Chiesa sia da parte del mondo laico non credente o scettico e sia anche da parte di molti cristiani che si identificano nella Chiesa con un piede dentro e uno fuori.

Credenti.
«Se non vedo non credo…Beati quelli che crederanno senza aver visto…Questi segni sono stati scritti perchè crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiate la vita» (Giovanni 20 19-31).
La chiesa è il luogo dove avviene la crescita della fede, dove si elabora, fra mille dubbi e difficoltà, questo atteggiamento. Giovanni ha concentrato in Tommaso la <resistenza alla fede>. Tommaso era chiamato “Didimo” cioè “il gemello”. Gemello di chi? Di me, di te.
Scrive padre Ermes Ronchi:  «Tommaso sperimenta la fatica di credere, come noi. Eppure in nessuna parte del Vangelo è detto che la fede senza dubbi sia più sicura e affidabile della fede intrecciata alle domande (anzi la prima parola di Maria non è un «sì», è invece una domanda… come è possibile che io diventi madre?). Non esiste fede esente da domande e da dubbi. Tommaso però, pur dissentendo dagli altri apostoli, non abbandona il gruppo e rimane; e il gruppo, a sua volta, non lo esclude. Modello per le nostre assemblee: quando i dubbi sorgono, quando situazioni difficili o errori della comunità ti scoraggiano, non andartene, non isolarti, non sentirti escluso, resta all’interno della comunità. Non stancarti di porre le tue domande: qualcuno, custode della luce, ti porterà la risposta.
Otto giorni dopo venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo… Mi conforta pensare che se trova chiuso, Gesù non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì. Gesù viene e si dirige verso colui che dubita: Metti qua il tuo dito, stendi la tua mano, tocca!. E nella mano di Tommaso, che trema, ci sono tutte le nostre mani. Tommaso passa dall’incredulità all’estasi: Mio Signore, mio Dio. “Mio” come lo è il respiro e, senza, non vivrei» .
La finale del Vangelo di Marco (16,14) precisa: «Apparve agli undici, mentre erano a tavola, e rimproverò la loro incredulità e durezza di cuore, perchè non avevano creduto». Così Matteo 28,17: «Alcuni però dubitavano». La fede pasquale non è frutto di una facile esaltazione e di visioni di dubbia origine, ma nasce dopo resistenze negative.
Nell’itinerario della fede della Chiesa non esistono percorsi garantiti, schemi pianificati, ma una maturazione personale con tempi e modalità proprie. C’è posto per chi dubita e per chi sta crescendo. Crescita non significa allevamento o addestramento. La Chiesa tiene aperte le porte a coloro che cercano, si interrogano, si dibattono nell’incertezza, incespicano. C’è spazio anche per i ritardatari.
Credibili.
L’onere della prova della risurrezione non è più affidata alla tomba vuota, ma alla prassi dei credenti: «Aumentava il numero di coloro che credevano nel Signore…il popolo esaltava i discepoli…e portavano i loro malati e tutti venivano guariti» (Atti 5,12-16). «Io Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione e nella costanza in Gesù» (Apocalisse 1,9-19).
E’ vero che la credibilità non è questione di adesioni di massa: a volte la massa non corre dietro ai profeti e sembra disertare i luoghi del vero benessere. Tuttavia all’epoca di Papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II° la Chiesa sembrava aver riacquistato udienza presso tutti gli uomini di buona volontà. Oggi Papa Francesco pare abbia riaperto i giochi; ma nel lungo periodo dovrà trasformare anche le strutture ecclesiastiche, affrontare i nodi della Sinodalità e dei Ministeri/Servizi che da decenni sono nel cassetto e nel cuore amareggiato di molti di noi. Ma affidare tutto al Papa è una imperdonabile delega. Nel profondo di ciascuno si annida il desiderio di incontrare uomini di speranza, di condivisione, di liberazione. La corsa forsennata verso le madonne parlanti e le devozioni pellegrinanti è una spia di allarme che la dice lunga sul bisogno dell’uomo d’oggi di reincontrare il mistero di un Dio che circola ancora tra noi come portatore di novità di vita, di sollievo, di benessere. Soprattutto la folla ha bisogno di gente che diventa credibile per il fatto che diventa compartecipe, dall’interno, della passione e della tribolazione quotidiana, proprio come si autodefinisce Giovanni all’inizio dell’Apocalisse: fratello e compagno delle vostre tribolazioni e fedeltà. Ed occorre anche pregare per questa Chiesa credibile sparsa nel mondo e che paga duro pur nell’ostilità interna ed esterna ed anche nella indifferenza, forse, mia e tua.
Credenti che abitano una politica credibile.
Che cos’è la politica? È possibile “fare politica” in modo giusto, sensato, mite, umano?
A queste domande il biblista Luciano Manicardi, monaco del Monastero di Bose, risponde con la sua breve ma intensa pubblicazione: “Spiritualità e politica. Dall’interiorità all’azione” (Edizioni Qiqajon) € 9,00; pagg. 80.  Manicardi spiega che “la qualità della politica è legata alla qualità umana di chi si impegna in essa, alla sua capacità di governare se stesso: come i profeti biblici che, spesso in situazioni storiche di tenebra, hanno saputo creare futuro e dare speranza”. E “la speranza ha il suo effetto nell’oggi, aiutando gli esseri umani a vivere, a orientarsi e a camminare insieme”. Per Manicardi “ogni essere umano, chiamato a divenire se stesso, ha anche il compito di costruirsi in relazione con gli altri, di costruire dunque un ‘noi’, e ha la responsabilità di costruire non solo ‘con’, ma anche ‘per’ gli altri la casa comune. La responsabilità per gli altri è direttamente la responsabilità per il futuro e per le generazioni future”. Che legame ci può essere, allora, tra politica e spiritualità? Sempre più in questi ultimi anni esse appaiono come dimensioni estranee se non opposte… Attraverso un affascinante percorso che si basa sulle riflessioni di pensatori come Simone Weil, Max Weber, Hanna Arendt e Blaise Pascal, Manicardi cerca di far comprendere “come ogni azione, ogni impegno sociale e politico trovino il loro fondamento nell’interiorità, nel profondo di noi stessi”. Ecco allora, secondo Manicardi, “l’importanza di una parola trasparente, responsabile e coraggiosa, della creatività e dell’immaginazione, per costruire un futuro luminoso di speranza, non costretto nelle logiche della paura”.




17 aprile 2022.
PASQUA. DI CHI? E PER CHI?

PASQUA. Di chi? E per chi? – 17 aprile 2022

 Dagli Atti degli Apostoli. 10, 34. 37-43
In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
Salmo 117. RIT: Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo.
Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
La destra del Signore si è innalzata, la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore.
La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi. 3, 1-4
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
oppure
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 5, 6-8
Fratelli, non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete àzzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con àzzimi di sincerità e di verità.
Dal vangelo secondo Giovanni. 20, 1-9
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario che era stato sul suo capo non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

MY LORD, WHAT A MORNING! [1] Mio Signore, che mattino!

Giorno di Pasqua: la madre di tutte le domeniche; la data delle date.
<Gesù crocifisso è risorto!>: la notizia madre di tutto il Vangelo, come dichiara Pietro nella prima lettura di oggi (Atti degli Apostoli 10, 37-43): noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
La Pasqua di Risurrezione è il cardine attorno a cui dovrebbe ruotare tutto l’anno liturgico e tutta la vita del cristiano. Si dice “dovrebbe”, al condizionale, perchè di fatto dal punto di vista del culto e delle devozioni cristiane pare che si dia più attenzione al Natale, alle feste della Madonna e dei santi o al culto del defunti, relegando la festa di Pasqua in posizioni arretrate nella hit parade dei gusti tradizionali cattolici. Per non parlare poi della vita quotidiana personale o collettiva del cristiano dove non pare che le scelte siano determinate da quell’evento che coinvolge non solo Gesù ma anche il cristiano, come annuncia Paolo nella Lettera ai Colossesi 3, 1-10: «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo regna accanto a Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete già come morti e la vostra vera vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora si vedrà anche la vostra gloria, insieme con la sua. Fate morire dunque quegli atteggiamenti che appartengono a questo mondo: immoralità, passioni, desideri cattivi e quella insaziabile voglia di possedere che è idolatria. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece buttate via tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole volgari. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito l’uomo nuovo. Ormai Dio vi rinnova continuamente per portarvi alla perfetta conoscenza e farvi essere simili a Lui che vi ha creati». Occorre dunque riascoltare il battito di questo cuore della nostra fede perchè <se Cristo non fosse risorto, vana è la nostra fede> (1 Cor. 15,17).
Avremo tempo 50 giorni, fino alla Pentecoste, per masticare, metabolizzare, digerire, assimilare l’evento e l’annuncio. Ripercorriamo oggi, quella mattina, questa mattina, con il Vangelo di Giovanni 20, 1-9.

 <Il primo giorno dopo il sabato>…

Oggi si annuncia l’avvio del computo nuovo del tempo e dei giorni: da quel primo giorno dopo il sabato, Dio ricomincia ad abitare il TEMPO, prima ancora che il TEMPIO. Ovunque scorra il tempo con i suoi giorni, Gesù Vivente abita con noi, è compagno dei nostri giorni. Nasce di qui il termine “DOMENICA” che proviene dalla frase latina “DIES DOMINICA” cioè “GIORNO-DEL-SIGNORE”. E’ il Giorno che, nelle intenzioni originali ebraiche e cristiane, è sottratto alla tristezza, al non-senso, al lavoro, alla solitudine, alla oppressione, per diventare il Giorno-cardine su cui gira la settimana che lo precede e quella che lo segue. L’Evangelista Giovanni ci tiene a questi INIZI. Già nel 1° capitolo del suo Evangelo aveva ricordato, con una frase, che la creazione del mondo ricominciava con la nascita di Gesù: <In principio era la Parola…e la Parola si fece carne>; la frase richiama la prima pagina della Bibbia e della creazione <In principio Dio creò il cielo e la terra>, creò l’uomo ed il tempo con la successione dei suoi giorni.
Domenica. Settimo Giorno che dovrebbe essere servito dagli altri sei giorni, ma che oggi è violentato e stuprato dai giorni che lo precedono e che lo seguono. Domenica giorno di guerra oggi più che mai, giorno di lavoro per molti sottoposti alle ragioni di un’economia che ha sottomesso tutti alle sue logiche produttivistiche. Domenica, giorno di acquisti e lavori domestici a cui ci sentiamo obbligati per alcune ragioni difendibili e per molte ben poco difendibili. Domenica, week end di riposo, ma non giorno di quiete. Domenica, giorno di viaggi/fuga  più che di pellegrinaggi all’eucarestia e alla comunità, ai malati, ai vecchi soli o alla propria recuperata interiorità.
“Così è se vi pare, e se non vi pare è così lo stesso” sembriamo dirci a vicenda, malinconicamente succubi di questa macchina infernale del tempo che tritura il culto ad un piccolo frammento di Messa “mordi e fuggi”, tritura la solidarietà in qualche frammento di visita a malati o vecchi purchè parenti, che tritura la gioia nelle òle degli stadi, che tritura il dialogo familiare nell’inebetito ascolto della grande sorella televisiva, che tritura l’amicizia in 15 scatti telefonici consumati per sapere dall’amico come va la salute.
Abbiamo perso il senso della vita e con esso il Vivente e con Lui, forse, anche la vita eterna, cioè la vita in pienezza.
Credere nell’evento accaduto il primo giorno dopo il sabato significa avere il coraggio di rimettere in discussione il nostro modo di vivere la Domenica, reimpostandola sulle coordinate della grande rivelazione:<Ricordati di santificare il mio Giorno santo>.
Gesù oggi è diventato Signore-Cristo: la Domenica è il giorno in cui fisicamente e visibilmente il cristiano afferma la signoria di Gesù su di sè e rigetta ogni altra signoria.
Dio nel 7° Giorno della creazione < si riposò> o, come dice letteralmente il testo di Esodo 31,17, <riprese fiato> ( in ebraico: wajjinnafash). Gesù, il servo di Dio e degli uomini, oggi <riprende fiato – riprende il fiato> e chiede ai suoi fratelli di partecipare alla espansione polmonare della sua vita: “riprendete fiato, respirate, riposatevi; riprendete l’alito di Dio, la sua energia ossigenante, la sua parola, il suo pane, la sua comunità”.
Gesù vuole che in questo giorno anche i poveri, i deboli, i malati, gli stanchi, gli sfiduciati “riprendano fiato” attraverso la nostra amicizia e il conforto del punto di vista della parola di Dio sulla loro situazione. Vuole che “riprendano fiato” anche i rapporti familiari attraverso l’ascolto reciproco e la reciproca comunicazione.
Vuole che “riprenda fiato”, nella preghiera liturgica e personale, la nostra fede resa asfittica dalle smentite e dall’asprezza della vita quotidiana. Questo è il giorno fatto dal Signore; rallegriamoci ed esultiamo in esso. Allelujah!

Maria, Simone e Giovanni
La risurrezione lascia segni enigmatici, discutibili, deboli, provocatori:

  • la tomba vuota
  • le apparizioni (o rivelazioni) del Signore con i segni della passione e del pane spezzato
  • la testimonianza delle donne e dei discepoli
  • le Sante Scritture e la memoria delle Parole di Gesù.

Nel testo evangelico di Giovanni emerge il “segno” della tomba vuota  che sorprende i visitatori provocando reazioni che sono il simbolo delle tre tappe dell’itinerario della fede pasquale. Maria di Magdala rappresenta la risposta del cuore pieno di umanissimo affetto per il Gesù storico, ma ancora fermo alla sconfitta della croce ed invaso dallo smarrimento e dall’impotenza: Vide che la pietra era stata rotolata via dal sepolcro ma dice: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto» (Gv. 20,1-9). Maria è ancora ferma al Gesù “secondo la carne”. S. Paolo dirà: <Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così.> (2 Corinti 5,16). E di fronte alla tomba vuota, d’istinto, la spiegazione è una sola: <Hanno portato via il Signore dal sepolcro>. E’ l’unica risposta della ragione: la morte resta morte.
Ma ci sono altre due reazioni.
Pietro arriva. L’evangelista dice: <Vide…>, e basta. Luca aggiunge (Lc. 24, 12):< e tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto>. Stupirsi è l’anticamera della fede. Non c’è fede quando non c’è stupore. Non c’è fede perchè siamo diventati incapaci di stupore meditativo e contemplante.
Per l’apostolo Giovanni, invece,  l’evangelo dice che <vide e credette>.
Il vedere, dunque, ha 3 esiti diversi: resta il dubbio, avanza lo stupore, matura la fede. Costituiscono le tappe del mio permanente e tribolato itinerario cristiano.
La lentezza dell’itinerario verso la fede ha, per l’evangelista, una causa: <Non avevano ancora compreso la Santa Scrittura>.
Per concludere.
Fare Pasqua è la carta d’identità del cristiano. Non per niente ha una cadenza settimanale e non annuale (come il Natale) appunto perchè se perdiamo la Pasqua perdiamo l’identità, cadiamo nel tradimento del giovedì, nella crisi del venerdì e nella immobilità putrefatta del sabato. Fare Pasqua significa voltare pagina. La Pasqua settimanale ci aiuta a voltare progressivamente le pagine del libro della vita che scriviamo quotidianamente.
Non lasciamoci defraudare della Pasqua settimanale, non permettiamo che diventi uno qualsiasi dei giorni o un semplice “fine settimana”.E’ il giorno del Signore, il giorno dell’uomo, della famiglia, della comunità, della vita, della Bibbia, della carità solidale e fraterna, della gioia. Buona prima Pasqua!

 

Ascolta se vuoi: https://www.youtube.com/watch?v=51E9b8DwpJw 

Testo

My Lord, what a morning!  My Lord, what a morning! Oh, my Lord, what a morning when the stars begin to fall….

Traduzione del testo
Mio Signore, che mattina! Mio Signore, che mattina! Oh, mio Signore, che mattina quando le stelle cominciano a cadere.
Oh, sentirai il suono della tromba per svegliare le nazioni sotterranee,
Guardando alla mano destra del mio Signore quando le stelle cominciano a cadere.
Oh, vedrai il mio Gesù venire, La sua gloria splende come il sole,
Guardando alla mano destra del mio Signore quando le stelle cominciano a cadere.
Oh, sentirai tutti i cristiani gridare, perché c’è un nuovo giorno,
Guardando alla mano destra del mio Signore quando le stelle cominciano a cadere
Mio Signore, che mattina! Mio Signore, che mattina! Oh, mio Signore, che mattina quando le stelle cominciano a cadere.

[1] da un Canto spiritual dei negri schiavi in America.

 




10 aprile 2022. Domenica di Passione
UNA PASSIONE, UN AMORE. (7 pagine di passione meditata)

UNA PASSIONE, UN AMORE…. secondo Luca[1]

Il racconto della passione/risurrezione di Gesù è il primo e originario nucleo attorno al quale è cresciuto e si è strutturato il resto del Vangelo. Se un qualche dittatore mi obbligasse a distruggere il Vangelo permettendomi di tenere solo alcune pagine, senz’altro salverei questi ultimi capitoli, perchè QUESTI SONO L’EVANGELO. Gli altri capitoli sono un commento a questi. Il resto della Bibbia ci rivela Dio di spalle: ci dice ciò che ha fatto per noi. Qui invece lo vediamo faccia a faccia, in ciò che si è fatto per noi. Dio non ha più veli: <Quando avrete innalzato il Figlio dell’Uomo, allora saprete che IO-SONO> (Giov.8,28), cioè conoscerete JaHWeH.
La croce è la distanza che Dio si è preso dalla cattiva immagine che abbiamo di Lui e dalla diffidenza che il serpente ha suggerito all’uomo.
Sulla croce Dio tace, ma il suo silenzio grida la sua essenza che è amore nel quale Dio e uomo diventano <una sola carne>.
Nella Natività di Gesù, Dio si è fatto carne; nella Attività Messianica di Gesù adulto, Dio si è fatto tenerezza e parola; nella Passione di Gesù Dio si è fatto morte, dolore e dono, nella Resurrezione Dio si è fatto vita.
Il racconto della Passione, di per sè non andrebbe commentato perchè tutta la Santa Scrittura è un commento già fatto a questi eventi e a sua volta trova nella croce la chiave interpretativa del suo enigma. Dovrebbe essere solo una Parola da proclamare, pregare, baciare, adorare. Ciò che noi proviamo per Lui passa in secondo piano rispetto a ciò che Lui prova per noi.
Tuttavia, essendo ancora bambini, abbiamo bisogno che certi bocconi siano preventivamente triturati. Il nostro commento apparirà come un goffo tentativo di sbocconcellare il racconto non per un godimento estetico o intellettuale, ma per una auspicabile contemplazione.

Capitolo 22.

[1]Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua,
Il tempo ebraico, il tempo di Gesù e quello della chiesa è scandito non dai cicli astrali, ma da un evento storico: la Pasqua. Anche per la Chiesa la pasqua è l’evento centrale della Liturgia, costituisce l’ottica con cui valutare ogni singolo accadimento della vita personale e collettiva, diventa il ritmo con cui scandire il tempo. La Domenica è la Memoria pasquale settimanale che favorisce il raduno dei discepoli per obbedire ad un invito:<Fate questo in memoria di me>.  Che senso sto dando alla mia Domenica?
 [2]e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano come toglierlo di mezzo, poiché temevano il popolo.  [3]Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici. [4]Ed egli , allontanatosi, andò a discutere con i sommi sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo nelle loro mani.
Giuda è l’unico del quale si ripete sempre che “era uno dei Dodici“. Sarebbe stato facile rimuovere questo particolare. Invece, resta “uno dei Dodici” e rappresenta quel peccato dal quale la Chiesa (ciascuno di noi) ha sempre bisogno di essere salvata. Giuda “si allontana da Gesù” cambiando campo, con un movimento contrario a quello della sequela.
[5]Essi si rallegrarono e si accordarono di dargli del denaro. [6]Egli fu d’accordo e cercava l’occasione propizia per consegnarlo loro di nascosto dalla folla.
<Non si può servire due padroni, Dio e il denaro> dice Luca 16,13. Il denaro è la nostra falsa coscienza, l’economo della morte. E come ogni idolo, promette per poi deludere e uccidere i suoi adoratori, come succederà a Giuda. Il denaro diventa il campo su cui si gioca l’economia del dono o quella della morte.
Nota che si incomincia a usare e ripetere strani verbi:  qui consegnare“.
Signore, morirò con trenta denari in tasca perchè non appartengo alla categoria dei poveri. Ma dimmi: quando mai ti ho consegnato per denaro?
[7]Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. [8]Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: “Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare”. [9]Gli chiesero: “Dove vuoi che la prepariamo?”. [10]Ed egli rispose: “Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà [11]e direte al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? [12]Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata; là preparate”.[13]Essi andarono e trovarono tutto come aveva loro detto e prepararono la Pasqua.
Gli elementi principali che emrgono dal racconto precedente sono 5:

  1. La <Pasqua ebraica> è la cornice in cui si deve leggere tutta la vita di Gesù. Luca nomina per 6 volte la Pasqua ebraica; quella di Gesù sarà la settima e definitiva Pasqua in cui è compiuto ciò che nella Pasqua ebraica era promesso e iniziato. La creazione raggiunge in Dio il suo settimo giorno, il suo riposo.
  2. La Pasqua è <preparata>. E’ troppo insistente questo verbo (5 volte) per non contenere un messaggio rivelante: l’incarico dei discepoli non è quello di preparare l’agnello, come facevano invece tutti gli ebrei. Qui l’agnello è già pronto. I discepoli devono solo “preparare il luogo”.
  3. La Pasqua è <immolata>. Cioè la nostra liberazione avviene “a caro prezzo”, come dice S. Paolo in 1 Cor. 6,20.
  4. La Pasqua è <prevista e voluta>. Non è un incidente, una sorpresa inattesa. Dice il Libro degli Atti 14,22: <E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio>. Pietro, nella sua Prima Lettera 2,19 scrive <E’ una grazia, per chi conosce Dio, subire afflizioni soffrendo ingiustamente>. Chi fa determinate scelte conosce già in anticipo il pedaggio da pagare ed i rischi che si corrono.
  5. La Pasqua avviene <nella stanza superiore della casa>. Luca usa la parola <stanza> (gr. Katàlyma) anche in occasione della nascita imminente di Gesù quando dice che i genitori “non trovarono posto nella Katàlyma (stanza d’albergo)”. Ora Gesù trova la sua “stanza d’albergo” (la Chiesa? la coscienza di ciascuno?): <Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me> (Apoc. 3,20). In questa <stanza> si accede solo dopo aver incontrato un uomo che porta una brocca d’acqua. Luca gioca sulla assonanza di due termini in lingua greca: bastàzon=colui che porta e baptìzon=colui che battezza. Il battesimo ci introduce nella stanza superiore dove si mangia la Cena Pasquale. E’ un luogo <superiore>, posto in alto e fuori delle normali occupazioni, dei rumori e degli stordimenti. E un luogo <grande>, capace di contenere il Signore e chiunque voglia entrare. Questo luogo è il centro della mia persona.

[14]Quando fu l’ora, si sdaiò a tavola e gli apostoli con lui, [15]e disse: “Ho desiderato ardentemente (letteralmente: con desiderio) di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione,[16]poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”.[17]E preso un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e distribuitelo tra voi, [18]poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”.  [19]Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi, fate questo in memoria di me”. [20]Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”.

E’ l’ora; questa pasqua è il vertice del tempo. L’ora di Dio coincide con l’ora del male in modo che tutto sia colmo dell’amore di Dio.
Si sdraia. E’ strano questo atteggiamento di Gesù, visto che la Pasqua doveva essere mangiata in piedi e in fretta (Esodo 12,11). Forse si fa riferimento al ritornello del Cantico dei Cantici (2,6; 8,3) dove l’amato si sdraia accanto all’amata: <La tua sinistra è sotto il mio capo e la tua destra mi abbraccia> o a Geremia 31,22-23.
Si sdraiano con Lui. “Stare con…” : è la definizione dei discepoli.
Ho desiderato con desiderio: è Lui che desidera sostituendosi alla nostra pigra malavoglia e agli alibi che avanziamo. All’ Eucarestia domenicale ci si va per suo desiderio desiderante, prima ancora che per nostra decisione o convinzione.
Fino a che sarà compiuta nel Regno: “Annunciamo la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa del tuo ritorno”. L’Eucarestia apre il tempo all’eternità.
Nuova Alleanza.  Come preannuncia Geremia 31,33: <Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri dicendo “Riconoscete il Signore”, perchè tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande perchè io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato>.
Prendete e mangiate. Nel Libro degli Atti degli Apostoli (27,34-36) si narra un fatto che potrebbe aiutare a comprendere questo invito. Paolo, naufrago su una nave carica di grano, dice ai 276 naufraghi come lui in un mare tempestoso: <Vi esorto a prendere cibo; è necessario per la vostra salvezza>. Detto questo prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. Tutti si sentirono rianimati e anch’essi presero cibo. E’ un’eucarestia cosmica, celebrata in un mare in tempesta e davanti a tutti e per tutti quelli che sono sulla stessa barca.
Fate questo in memoria di me: prendere, distribuire, mangiare, spezzare, dare: sono i verbi eucaristici. Ci vengono lasciati in eredità, non tanto per una reiterazione ritualistica e celebrativa, ma esistenziale. Gesù lascia le consegne non tanto perchè vuole le moltiplicazioni delle Messe, ma  vuole la moltiplicazione di quei verbi nella esistenza.
[21]«Ma ecco, la mano di chi mi tradisce (letteralmente: mi consegna) è con me, sulla tavola. [22]Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai (letteralmente: ahimè!) a quell’uomo dal quale è tradito». [23]Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò. [24]Sorse anche una lite, chi di loro poteva esser considerato il più grande. [25]Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. [26]Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. [27]Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. [28]Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; [29]e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me,[30]perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.
Giuda. E’ indimenticabile l’omelia di Don Primo Mazzolari per il Giovedì santo: “Nostro fratello Giuda” (https://www.youtube.com/watch?v=Innx7Ug8DMk). Ogni discepolo ha il sospetto di avere una quota di partecipazione nella società a delinquere rappresentata da Giuda. Ma il vero peccato di Giuda non fu il tradimento, ma la successiva sfiducia di poter essere perdonato. La nostra libertà non è quella di non fare il male, ma quella di non rifiutare il perdono. Ritorna la simbologia della mano che , che prende e che consegna. Sulla stessa tavola eucaristica della domenica ci sarà sempre il nostro peccato e il suo perdono, in un incrocio di mani che danno, che prendono e che consegnano.
Ahimè! Più che un “guai!” di minaccia è un “ahimè! ahi a mè!” di lamento e di invocazione che il danno non ricada su Giuda, ma su Gesù stesso. La croce è l’ <ahimè> di Dio per il male del mondo. Esso è così grave da distruggere il senso della creazione: sarebbe infatti meglio non essere nati.
La lite. Il termine greco usato da Luca, e solo qui in tutta la Bibbia, è philo-neikìa che significa amor di vittoria: è il desiderio di prevalere sull’altro, di vincere, di farla da protagonista, di autoaffermarsi. Mentre Dio dà, di sè, la più improbabile delle definizioni: <Io sono in mezzo a voi come colui che serve>.
[31]Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; [32]ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”.[33]E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”.[34]Gli rispose: “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”. [35]Poi disse: “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”. Risposero: “Nulla”. [36]Ed egli soggiunse: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. [37]Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. [38]Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade”. Ma egli rispose “Basta!”.
Ho pregato per te Simone / Pietro. Tutti saranno provati. La preghiera di Gesù non garantisce l’impeccabilità, ma la fermezza della fede. Paolo nella 2° Lettera ai Corinti 12,7-9 scriverà:<Perchè non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perchè io non vada in superbia. Per questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto:”Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perchè dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte>.
Gesù prima ci chiama con il nostro nome umano (Simone) che rappresenta la nostra debolezza ed i pii desideri di fedeltà; poi ci chiama con il nome che Lui ci ha imposto (Kefà=Pietra) e che rappresenta la stabilizzazione ricevuta dalla preghiera di Cristo.
[39]Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono.[40]Giunto sul luogo, disse loro: “Pregate, per non entrare in tentazione”. [41]Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: [42]”Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. [43]Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. [44]In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. [45]Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. [46]E disse loro: “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”.
Notte. La Bibbia ci riferisce di 3 notti altissime. La prima fu quella in cui Dio creò il mondo dal caos. La seconda fu quando Dio lottò con Giacobbe e creò il nuovo popolo. La terza è questa, quando Gesù lotta con Dio e fa risuonare il vero nome di Dio: Abbà.
Nella Tra-sfigurazione, sul Tabor, il Padre chiama Gesù con il nome di Figlio; nella Sfigurazione, nell’orto, il Figlio chiama Dio con il nome di Padre. Là l’umanità lasciò trasparire la bellezza della divinità; qui la divinità viene resa trasparente e rivela la sua essenza fatta di sangue umano, che trasuda. La Trasfigurazione è speculare alla Sfigurazione: i due eventi dovrebbero essere celebrati insieme.
O felice notte, in cui Dio entra in tutte le notti, e sono tante!, dell’uomo. Da questa notte, ogni angolo di perdizione verrà sempre visitato dalla salvezza.
Il monte degli ulivi. E’ il luogo dove Davide pianse la ribellione di suo figlio (2 Sam. 15,30-32); ora Gesù piange la ribellione dei fratelli. E’ il luogo da cui Ezechiele vide che la Gloria di Dio fuggiva dal Tempio (Ezechiele 11,23); ora Gesù contempla il silenzio di Dio. È il luogo da cui si attendeva la venuta del Messia per la lotta definitiva contro il male (Zaccaria 14,4); ora Gesù inizia la sua definitiva agonia/lotta.
È chiamato anche Getsemani che significa in ebraico Luogo del torchio: l’umanità di Gesù, spremuta, lascerà apparire la sua essenza: gocce di tenerezza.
La tentazione. La vera tentazione non si gioca sulla morale, ma sulla fede: Dio ha ragione si o no? Ha ragione Dio o gli uomini? Dio è onnipotente o impotente? Dio vive il dolore per l’amore o l’amore per il dolore? E’ sufficiente arrivare fino alla Cena o bisogna proseguire fino al Luogo del torchio (Getsemani) e al Luogo del cranio (Golgothà)?
La preghiera. Per 5 volte Luca accenna alla preghiera, al termine di un Vangelo dove la preghiera di Gesù è stata reiteratamente ricordata. Nella preghiera si lotta con quel Dio che noi consideriamo nemico e si lotta fino al punto di arrenderci a Lui: questa è la vera nostra vittoria e questa è l’unica preghiera biblica /cristiana. <Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti; la pace di Dio, che supera ogni attesa, custodirà i vostri cuori in Cristo Gesù> (Fil.4,6).  La preghiera del discepolo é accettare di tenere aperti gli occhi su Gesù che prega e che suda. Dopo il peccato, Adamo si guadagna il pane con il sudore della fronte; in questo nuovo Eden, il nuovo Adamo ci dona il vero pane con il sudore di sangue.
[47]Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. [48]Gesù gli disse: “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”. [49]Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”.[50]E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. [51]Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì. [52]Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: “Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? [53]Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre”.
Il brano è strutturato sulla contrapposizione tra Gesù e tutti gli altri. E’ l’ora delle tenebre. Da una parte c’è lui, solo, circondato da Giuda, dalla folla, dai discepoli. Dall’altra parte c’è un gioco di denari, spade, bastoni e falsi baci: sono le carte con cui il nemico, da sempre, gioca la storia umana.
Lo guarì. Dopo questa guarigione, cessa l’attività di Gesù ed inizia la passione. Si passa da ciò che fa per noi a ciò che Lui si fa per noi e a ciò che noi facciamo di Lui. Ora, fatto oggetto di possesso, non fa più nulla. Spesso la Chiesa fa delle difese improprie e sbagliate di Gesù, tagliando alla gente le “orecchie”, cioè togliendo alla gente la capacità di ascoltare Gesù. Che il Signore ci lasci sempre un lobo d’orecchio per saperlo ascoltare! (Amos 3,12). Se la fede viene dall’ascolto(Rom.10,17) la spada di Pietro è la figura di tutti i nostri strumenti pastorali “potenti” che impediscono l’ascolto e la fede perchè sono della stessa natura degli strumenti dei nemici di Gesù.
Gesù dice “Adesso smettete!”. In Siracide 20,4 c’è una frase che colpisce:<Chi vuole imporre la giustizia con la violenza è come un eunuco impotente che vuole violentare una ragazza>.
[54]Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. [55]Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. [56]Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: “Anche questi era con lui”. [57]Ma egli negò dicendo: “Donna, non lo conosco!” [58]Poco dopo un altro lo vide e disse: “Anche tu sei di loro!”. Ma Pietro rispose: “No, non lo sono!”. [59]Passata circa un’ora, un altro insisteva: “In verità, anche questo era con lui; è anche lui un Galileo”. [60]Ma Pietro disse: “O uomo, non so quello che dici”.  E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. [61]Allora il Signore, voltatosi, guardò dentro Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. [62]E, uscito, pianse amaramente.
Lo condussero. Dio diventa puro oggetto nelle mani dell’uomo: è preso, consegnato, introdotto, condotto via, crocefisso. Faranno di Lui ciò che vorranno.
Pietro lo seguiva da lontano. Segue Gesù perchè gli vuol bene e si ricorda delle parole dette poco prima:<Con te sono pronto ad andare in galera e alla morte>. Tiene conto del proprio amore, ma non ancora della propria fragile condizione. E’ notte e fa freddo e quel fuoco sembra un calore tenue, in quanto la vera luce e il vero fuoco è altrove, lontano. Pietro subisce tre tentazioni, come Gesù nel deserto. Verrà vagliato, come si vaglia il grano dalla paglia; perderà le scorie della propria presunzione e rimarrà il grano pulito della fedeltà del suo Signore. La testimonianza cristiana si gioca nel cortile della vita quotidiana, in mezzo agli altri colleghi servi. Mentre nelle alte stanze del processo, Gesù rivela la sua identità, qui nel cortile della vita quotidiana il discepolo mette a nudo la propria identità di uomo facile ai compromessi, agli alibi, alle paure, alle incoerenze, al peccato.
Con lui. La serva dà una definizione giusta del discepolo: <Costui era con lui>. Luca continua imperterrito a ripetere qual è l’identità del discepolo: colui che sta con Gesù. Tra poco, sulla croce, Gesù dirà al malfattore pentito: <Oggi, sarai con me>.
Non lo conosco. Ha ragione, Pietro, a dire di non conoscere  questo Gesù; il Gesù che lui conosce è un altro, quello che fa miracoli e che è potente. La prima tentazione del discepolo è quella di dimenticare che Gesù è un crocifisso e che bisogna stare con lui non solo alla cena, ma anche nella via Crucis. Paolo scriverà in 1° Cor. 2,2: <Ritenni di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo e questi crocifisso>.
O uomo, io non sono….Gesù tra poco dirà: Io-sono. Il Nome di Dio è “Io-sono”. Qui Pietro definisce invece se stesso come uno che non-è-dei-Suoi. La seconda tentazione del credente è quella di far consistere la propria identità nell’appartenenza formale alla comunità, senza stare con Lui.
Non so cosa dici: anche se il mio linguaggio e la mia cultura sono cristiani, io non sto con Lui perchè non intendo e non capisco nulla. La terza tentazione del cristiano è di confondere la fede con il cristianesimo. S.Giacomo nella sua Lettera 2,19 avverte i cristiani: <Tu credi che c’è un Dio solo?Fai bene: anche i demoni lo credono e tremano>. Sapere senza sperimentare è l’inferno del discepolo.
All’improvviso. L’avverbio è normalmente usato in occasione dei miracoli. Qui sta per avvenire il più grande miracolo: la fede nel Vangelo. Il gallo che annuncia la fine della notte, si mette a cantare:<La notte sta per finire e il giorno si avvicina>(Romani 13,12).  E’ Gesù che si volta verso Pietro e non viceversa. L’uomo è incapace di voltarsi verso Dio. Dio sa <che il nostro amore è come una  nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce>(Osea 6,4). Il racconto è tutto un gioco di occhi puntati su Pietro, prima quelli della serva, poi quelli del servo, poi quelli di Gesù. Nello sguardo di Gesù Pietro riconosce le due verità complementari del Vangelo: il proprio peccato e il Suo perdono. Il pianto di Pietro è il suo vero battesimo dopo che lo sguardo penetrante di Gesù ha fatto cadere le foglie di fico delle varie presunzioni religiose ed ha messo Pietro nudo, nella sua responsabilità di accettare l’amore perdonante. Pietro si ricorda delle parole dette precedentemente da Gesù: ricordarsi della Parola del Signore è il principio della conversione.
il Signore, voltatosi, guardò dentro Pietro…
Salmo 139: [1] Signore, tu mi scruti e mi conosci, [2]tu sai quando seggo e quando mi alzo.

[63]Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, [64]gli velavano il volto e gli dicevano: “Indovina: chi ti ha colpito?”. [65]E molti altri insulti dicevano contro di lui. [66]Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: [67]”Se tu sei il Cristo, diccelo”. Gesù rispose: “Anche se ve lo dico, non mi crederete; [68]se vi interrogo, non mi risponderete. [69]Ma da questo momento  il Figlio dell’uomo starà seduto alla destra della potenza di Dio”. [70]Allora tutti esclamarono: “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”. Ed egli disse loro: “Lo dite voi stessi: io – sono”. [71]Risposero: “Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca”.
Gli velavano il volto. La Sapienza è derisa, la potenza è percossa e la Gloria di Dio è velata. Ma questa velazione è la rivelazione totale. Il velo del tempio nasconde la maestà di Dio; il velo del male del mondo lo rivela come amore. Dio ha perso la sua faccia e i suoi connotati, per noi. Mosè chiese a Dio <Mostrami la tua Gloria>(Esodo 33, 20), il credente implora: <Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi> (Salmo 88). Gesù dice: <Chi vede me vede il Padre> (Giov. 14,9; 1,18). Sembra incredibile. Dopo secoli attraverso i quali l’uomo ha rincorso Dio per cercare di vederGli la faccia oltre che le spalle, ora si trova di fronte al volto di Dio e gli mette uno straccio sopra. La bestemmia è non riconoscere Dio dietro quegli sputi.
Chi ti ha colpito? Ed egli taceva. Colui che passò beneficando e risanando tutti, ora è colpito dal male di tutti coloro che Lui aveva risanato. Ha reso la propria faccia dura come pietra (Isaia 50,6). Tace e non dice chi è il colpevole: Dio preferisce essere percosso piuttosto che accusare.
Io-sono. Il Nome di Dio rivelato nel cespuglio ardente di Mosè, ora è rivelato nella carne bruciata di Gesù. Ora si rivela non per quello che fa, ma per quello che è e che ne facciamo. Questa rivelazione ci guarisce da ogni falsa immagine di Dio.  Gesù verrà ucciso per queste due parole: IO-SONO.

Capitolo 23

[1]Tutta l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato [2]e cominciarono ad accusarlo: “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. [3]Pilato lo interrogò: “Sei tu il re dei Giudei?”. Ed egli rispose: “Tu lo dici”.[4]Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: “Non trovo nessuna colpa in quest’uomo”. [5]Ma essi insistevano: “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui”. [6]Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo [7]e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme. [8]Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. [9]Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. [10]C’erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. [11]Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato.[12]In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro. [13]Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, [14]disse: “Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo; ecco, l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; [15]e neanche Erode, infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. [16]Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò”. [18]Ma essi si misero a gridare tutti insieme: “A morte costui! Dacci libero Barabba!”. [19]Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio. [20]Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. [21]Ma essi urlavano: “Crocifiggilo, crocifiggilo!”. [22]Ed egli, per la terza volta, disse loro: “Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò”. [23]Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. [24]Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. [25]Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.
Questo brano ci narra il grande baratto: la vita del delinquente barattata con la morte del Giusto. L’uccisione di Dio è la salvezza dell’uomo. Per 6 volte esce la parola <liberare>. La nostra libertà costa la consegna di Gesù.
La sua innocenza è sottolineata 3 volte da Pilato. Gesù fu crocifisso unicamente perchè per i politici era re giusto e  per i religiosi era Dio santo.
Questo brano ha una funzione importante per capire chi e perchè ha condannato Gesù.
Chi lo ha condannato? Tutti, nessuno escluso. Il male ha preso la mano a tutti.
Perchè? Perchè non ha fatto nulla di male.
Quali conseguenze? Le prime conseguenze le godono due assassini, Barabba e uno dei due crocifissi con Gesù. Vengono graziati e salvati inaugurando l’infinita catena di balordi giustificati, tra cui io e te.
Bar-abbà in ebraico significa “figlio-del-padre” ed era un modo  per indicare i trovatelli, i figli di nessuno, i figli di padre ignoto. Bar-abbà è il gemello di ogni uomo. Dopo la sua liberazione diventa veramente fratello di Gesù e quindi “figlio-del-Padre”.
[26]Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù. [27]Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. [28]Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. [29]Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. [30]Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! [31]Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”. [32]Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati.
Il brano ci presenta 3 istantanee: il cireneo, le donne di Gerusalemme, i due malfattori. Sono i tre modi d’incontro dell’uomo con Gesù.
Nel Cireneo vediamo chi è il vero discepolo che pur non avendo fatto professione di fede e non avendo partecipato alla Cena Eucaristia, tuttavia porta la croce dietro Gesù. Per ironia del caso, si chiama Simone come Pietro. Il Cireneo è discepolo di Gesù non per sua scelta di volontariato: Questo ci dice che essere discepoli non dipende da un atto di volontariato, ma da un dono gratuito, quasi fortuito e certo non coincidente con le nostre buone disposizioni interiori. Il cireneo stava tornando stanco dai campi e gli è toccata la disavventura di portare la croce di uno sconosciuto Dio, partecipando così, anche lui, alla salvezza del mondo. Grazie Simone di Cirene!
O Gesù, non riesco a capire se sono io il tuo cireneo che porta la tua croce o se sei tu il mio cireneo che porta la mia croce! Portando la tua croce di fatto portiamo quella che è destinata a noi e portando la nostra, di fatto portiamo la tua croce gloriosa.
Nelle donne di Gerusalemme vediamo chi è il vero popolo di Dio e cioè non fatto dai capi, ma da quelle persone che hanno per Gesù lo stesso sentimento che Lui ha per loro: la compassione. Gesù non piange su di sè, ma sulla città che non riconosce di essere stata visitata dal Signore. E’ preoccupato di quelli che lo rifiutano.
Nei due malfattori vediamo l’umanità intera davanti alla propria morte. Tutti siamo mal-fattori e siamo legno secco da bruciare.
[33]Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. [34]Gesù diceva: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte. [35]Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. [36]Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: [37]”Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. [38]C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei. [39]Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. [40]Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? [41]Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. [42]E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. [43]Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.
Salva te stesso. Ripetuto 3 volte, come 3 tentazioni provenienti da 3 tipi di soggetti.
La salvezza è passare dalla lettura che ne fa il primo malfattore alla lettura che ne fa il secondo.
La bestemmia, peccato contro Dio, è non riconoscere Dio sulla croce dove si rivela senza veli. Staccare Dio dalla croce è togliergli la sua gloria e confonderlo con l’idolo.. Questa bestemmia è comune anche a noi cristiani. che ci comportiamo da nemici della croce.
Qualunque prodigio Dio avesse potuto fare in mio favore, non mi avrebbe persuaso del suo amore.
Di per se Gesù non mi salva dal male, ma dalla sua radice che è il non sentirmi amato e accolto. Questa è la liberazione fondamentale.
Gesù, ricordati di me. L’uomo teme di essere dimenticato. Ma Dio non abbandona: <Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se questa donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai> (Isaia 49, 15).
Oggi sarai con me. Gesù lo rende discepolo: “essere con Lui“. Quello che a Gesù non riuscì di fare con i suoi discepoli, ora gli riesce con questo balordo che “sarà con Lui ora e per sempre“. Qui è il centro del nuovo Giardino/Paradiso. Da questi alberi pendono frutti dolci. Sotto quegli alberi Adamo/Gesù ed Eva/malfattore diventano <una sola carne>.
[44]Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. [45]Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. [46]Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò. [47]Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: “Veramente quest’uomo era giusto”. [48]Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. [49]Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.[50]C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. [51]Non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. [52]Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. [53]Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. [54]Era il giorno della parascève e gia splendevano le luci del sabato. [55]Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, [56]poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento.
E la tenebra fu. In principio Dio disse: <sia la luce!> e la luce fu. Gesù catturato dice: <Questa è l’ora delle tenebre> e la tenebra fu su tutta la terra. Il peccato è principio della regressione della creazione al caos primordiale. La tenebra richiama anche la grande piaga, la notte che coprì l’Egitto quando furono uccisi i primogeniti. Segna la fine della schiavitù e l’inizio del nuovo esodo. La tenebra allude anche alla profezia  di Amos 8,9:<In quel giorno farò tramontare il sole a mezzogiorno per fare come un lutto per la morte del figlio primogenito>. Tutta la creazione partecipa al dolore del Padre per la morte del Figlio. Gesù disse:<Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perchè la vostra liberazione è vicina>. E’ la notte della ri-creazione. Il sole vecchio scompare e la città sarà illuminata dall’Agnello (Apocalisse 22,5).
Il velo squarciato.  Nel Tempio c’era un tendone che separava, dagli altri locali, il luogo dove si teneva l’Arca. Solo una volta all’anno, per il rito dell’espiazione e della riconciliazione, il Sommo sacerdote varcava quella soglia. Ora la Gloria di Dio, con il peso del suo amore traboccante, squarcia tutto ed invade l’area umana come un’alluvione. I tendoni separatori, messi dagli uomini religiosi, non tengono più. Non esiste più un luogo profano. Ora siamo tutti santificati e santi, suoi parenti e suo tempio santo (Efesini 2,14-22).
Esclamando a gran voce. L’ora nona, le tre del pomeriggio, era l’ora in cui si suonavano le trombe per l’inizio della preghiera pomeridiana. Gesù unisce la sua voce a quella del popolo in preghiera. Si unisce a tutti quelli che sono arrivati alla loro sera.
Nelle tue mani affido il mio spirito.  Luca, a differenza di Marco e Matteo, non cita il famoso Salmo 22 (Dio, perchè mi hai abbandonato?), ma il Salmo 31 (O Signore, poiché ho confidato in te, fa’ che io non sia mai confuso) che ti invito a pregare con Cristo e con tutti i profeti odierni minacciati, con i malati, gli anziani, i profughi, i traditi ingiustamente, gli indios in estinzione, i crocifissi dalle economie da rapina, gli operai senza tutele e senza garanzie, gli strangolati dagli usurai, i depressi, gli emarginati dalle Chiese, i perdenti, gli agonizzanti, i figli di nessuno, le bambine prostitute, i barboni, i torturati, quelli che attendono l’esecuzione della pena di morte, gli abortiti di ogni genere e specie.
E il sabato cominciava a risplendere.

 


[1]Trascrivo, rielaborandolo, l’ottimo commento “UNA COMUNITA’ LEGGE IL VANGELO DI LUCA”. Ed. Dehoniane – Bologna.




3 Aprile 2022. Domenica 5 Quaresima
COLPEVOLE GRAZIATA

Quinta domenica Quaresima

Preghiamo. «Dio di bontà, che rinnovi in Cristo tutte le cose, davanti a te sta la nostra miseria: tu che hai mandato il tuo Figlio non per condannare ma per salvare il mondo, perdona ogni nostra colpa e fa che rifiorisca nel nostro cuore il canto della gratitudine e la gioia del saper perdonare».
Isaia 43, 16-21.
Così dice il Signore che offrì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti che fece uscire gli Egiziani con carri e cavalli, esercito ed eroi; essi giacciono morti: mai più si rialzeranno; si spensero come un lucignolo, sono estinti. Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.
Salmo 126. Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb[1].
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni.
Lettera di Paolo ai Filippesi 3.
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.  Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Dal Vangelo secondo Giovanni 8, 1-11.
Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio e, la posero mezzo, e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia poichè insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo e la donna era là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più».

COLPEVOLE GRAZIATA. Don Augusto Fontana

 La giustizia e la giustificazione.
Era uno di quei poveri diavoli che anche tu hai incontrato almeno una volta nella vita. Era un povero, per la sua sprovveduta arte di arrangiarsi e per quell’innocente colpevolezza che gli derivava da un’infanzia vissuta tra le muffe dei muri e degli affetti. Era un diavolo dalla mano lesta, un artista a sfilare cellulari, portafogli e borsellini. Effeminato, con un incedere che non dava adito a dubbi anche per quel timbro di voce che pareva che gli venisse dalle tonsille. Ora è qui nell’aula del tribunale. Gli occhi sono un po’ spauriti e imbarazzati, in contrasto con gli occhi curiosi della piccola folla di pensionati guardoni che, come ogni mattina per perdere un po’ di tempo, fanno crocchio dietro le transenne in attesa di qualche interrogatorio pruriginoso. Io sapevo che l’aveva fatta grossa.  Anche lui era certo che non se la sarebbe cavata; mi aveva detto tutto. Per questo, stava lì, remissivo, in attesa del rientro della Corte. Attorno al suo caso l’opinione pubblica si era spaccata: innocentisti e colpevolisti.  Nell’aula i colpevolisti avevano rischiato di essere buttati fuori dal giudice, quando, in attesa dell’inizio del dibattimento, avevano tirato fuori degli striscioni: Difendiamo i nostri bambini da questi porci ! – Colpirne uno per educarne cento! Il giudice, con le giugulari gonfiate, aveva tuonato: «Qui non siamo in piazza. Qui si amministra la giustizia! Rimuovete quegli striscioni o faccio sgomberare!». Le sentenze popolari, scritte su quegli straccetti, furono pigramente arrotolate con un inchino riverente all’unica scritta ammessa in quel santuario: La legge è uguale per tutti.  L’amico che mi sta a fianco disquisisce: «Cosa c’entra la giustizia con la legge?». Ottima occasione per piazzargli tutta la mia cultura biblica: « S.Paolo parla spesso di giustizia e di giustificazione. Mi ha sempre colpito il fatto che la parola giustificazione è composta da due termini latini e cioè “iustum-fàcere” e che tradotta bene significa “rendere giusti”. Ora, l’amministrazione della giustizia umana può raggiungere il massimo quando dichiara che un uomo ha veramente compiuto o non compiuto il delitto di cui è accusato. La Bibbia, invece, dice che Dio giustifica, cioè rende giusti. Ci può essere una giustizia umana che dichiara la conformità o meno dei comportamenti ad una legge di riferimento, ma non potrà mai compiere il miracolo di ristrutturare la persona, il suo passato e il suo futuro. Dio invece crea dal nulla, rende giusti gli imputati e i giudici, i guardoni e i preti, gli innocentisti e i colpevolisti. E qui, in quest’aula, si amministra la giustizia, ma non la giustificazione». L’amico ha lo sguardo appannato. Capisco che non capisce. E questo mi manda in ansia perchè non so come farò a spiegare, domenica prossima, alle vecchiette della mia parrocchia, il fatto di Gesù che “giustifica” l’adultera. Entra la Corte. Tutti in piedi, come quando in chiesa si ascolta il Vangelo. «Visti gli articoli tal dei tali, comma secondo e l’articolo tale, comma primo…in nome del popolo italiano….dichiaro l’imputato non colpevole perchè i fatti non sussistono». «Come “non sussistono”?», penso io. E perchè “non colpevole”?  Il povero diavolo femminiello continua le sue scorribande tra borsellini e cellulari, ma i bambini non li ha più molestati. Non so se per paura, per convinzione, per giustizia o per …giustificazione.
Faccio nuove tutte le cose (Isaia 43).
 Quasi tutti siamo reduci da sogni. Il sogno che le guerre in Ucraina, Yemen, Tigrai siano finite; che in Afghanistan sia cessato il potere dei barbuti; che i poveri contino come o più dei ricchi. Il risveglio ci ha resi superstiti e stanchi realisti. Fu così al tempo del discepolo di Isaia. I suoi concittadini deportati erano caduti in una fede rattrappita e erano sul punto di lasciarsi andare. Molti erano rimasti ancoràti al passato; nel loro esasperato attaccamento alle tradizioni, non erano più in grado di attendersi cose nuove da parte di Dio. A loro dice: «Il Signore nel passato costruì una strada nel mare…in futuro aprirà una strada nel deserto». Mare e deserto sono due circostanze geografiche improbabili per tracciarvi strade e sentieri. La strada nel mare è un ricordo vivo dell’esodo dall’Egitto, centro della fede e della liturgia ebraica. Evento ora smentito e cancellato dalla condizione di deportazione. Resta un evento bello da ricordare e da celebrare, ma ormai troppo lontano e quindi ridotto a reperto archeologico o nostalgico; ridotto ad una fortuna capitata ad altri, non ripetibile.  Passano gli anni e si tende ad ammucchiare delusioni, rese ancora più amare da qualche smagliante ricordo. Il profeta, dissipando ogni illusione nostalgica, ricava, dal dato originario della fede, una risposta adeguata alla storia: il Dio dell’Esodo è capace di rinnovare altri esodi e il Dio della creazione è capace di plasmare un popolo nuovo (v.21). A Babilonia le situazioni sono mutate: non c’è più il mare e c’è invece il deserto, ma le situazioni si equivalgono perchè ambedue sono situazioni improbabili per sognarvi dentro un sentiero tracciato. Ciro, pagano, prende il posto del leader maximo Mosè: un evento davvero improbabile, come fu imprevedibile la novità di vita del fariseo Saulo e dell’adultera del vangelo di oggi.
Neanch’io ti condanno(Giovanni 8,1-11)[2]
Individuare i personaggi della narrazione evangelica è facile, ma deve essere fatto in funzione di una mia (tua) identificazione. A chi sono assimilabile io: ai falsi giusti moralisti che giudicano e condannano chi sbaglia e mettono Dio in tentazione? Oppure sono sovrapponibile a chi ha sbagliato senza alibi e si trova faccia a faccia con la gente e con Gesù? Oppure posso identificarmi con quel Gesù che ricrea un futuro per chi ha sbagliato? Oppure dentro di me convivono tutte e tre i personaggi?
Cosa fanno i moralisti?
– «Gli conducono un’adultera…la pongono nel mezzo»: altre volte i deboli vengono presentati a Gesù dalla comunità (il paralitico sulla barella, il cieco Bartimeo…) ma per finalità ben diverse da questa. Qui si inscena un processo. La …santa Inquisizione sarà sempre una tentazione per la Chiesa, per le Istituzioni politiche, per i gruppi ed anche per i singoli.
– «Se ne andarono…cominciando dai più anziani»: dopo essere entrati in scena come testimoni e giudici di un processo, se ne escono; non si sa se sconfitti o pentiti. Come i vecchi sporcaccioni che hanno insidiato Susanna per poi portarla in tribunale (Libro di Daniele Cap. 13).
Cosa fa Gesù?
– «Si china, per due volte, a scrivere nella polvere»: sono stati versati fiumi di inchiostro per interpretare questo gesto. Si fa l’ipotesi che il gesto trovi la sua ispirazione in una frase di Geremia 17,13: «Quanti si allontanano da Te saranno scritti nella polvere, perchè hanno abbandonato Te, fonte di acqua viva, Signore». Con quel gesto profetico Gesù vuole richiamare che tutti quelli che stanno davanti a lui sono adulteri infedeli e che la conversione riguarda personalmente tutti.
– «E la donna stava nel mezzo»: cioè nella stessa posizione in cui era stata messa dai testimoni-giudici, ma ora è messa al centro di una salvezza anzichè di un giudizio: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perchè il mondo si salvi per mezzo di Lui» (Giovanni 3,17).
Cosa fa la Donna?
Semplicemente «sta in mezzo». Questa frase, questa “posizione”, viene posta dall’evangelista all’inizio e alla fine del testo quasi ad incorniciare l’evento. A differenza della donna prostituta che in casa di Simone piange, profuma e bacia Gesù, questa donna adultera è passiva, statuaria, congelata nei fatti incontestabili, senza quegli slanci che conosciamo in altri personaggi (la donna mestruata, Zaccheo, il cieco, il lebbroso). Qui lei non si confessa, non implora, non chiede. Semplicemente si lascia trasportare dallo scontro tra giudizio e misericordia, tra giustizia e giustificazione.
Cosa dicono i moralisti?
 A Gesù dicono tre cose: gli raccontano un fatto («questa donna è stata colta sul fatto»),gli fanno ripassare il Catechismo («la nostra santa Legge ordina di lapidare»[3]), gli pongono un quesito insidioso e compromettente («tu che ne dici?»). Stanno cercando una copertura legale per potere in seguito condannare anche Gesù: se avesse contestato la Toràh avrebbero avuto una prova in più, se avesse confermato la Toràh si sarebbe screditato presso la gente per la sua incoerenza. Non bisogna sottovalutare questo tono processuale dell’intero episodio. Esso tocca una delle costanti della rivelazione biblica. Tutta la storia sacra non è altro che un immenso processo in cui si tratta di sapere chi ha ragione: Dio o gli uomini?
Cosa dice Gesù?
– «Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra»[4]: i moralisti gli hanno appena fatto ripassare il Catechismo citando strumentalmente un versetto della Santa Scrittura e Gesù li mette nell’impossibilità di eseguire la sentenza rifacendosi ad un altro articolo di quella Toràh che loro avevano usato per intrappolarlo.  Quell’articolo della Legge di Mosè prescrive che il testimone accusante fosse il primo a lapidare il colpevole, per dimostrare di essere immune da colpa. Il “peccato” a cui Gesù fa riferimento, non è, tuttavia, solo il peccato di adulterio, ma “qualsiasi forma di peccato”[5].  Non entra, dunque, nel merito delle procedure giudiziarie e, comunque, vuol far sapere che non ci si può servire del suo nome per condannare qualcuno: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Luca 6,37).
– «Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno. Va’ e non peccare più»: siamo alla sentenza finale di colui che non è venuto per i sani e i giusti, ma per i malati e i peccatori.  S. Agostino commenta: «Vengono lasciati soli in due: la misera e la misericordia». Dopo l’agitarsi degli scribi e farisei e dopo la tensione drammatica, tutto si risolve in una parola di speranza: la vita continua ed un futuro diverso si prospetta in forza di questa parola.
Cosa dice la Donna.
 «Nessuno, Signore»: è l’unica frase della donna che si rivolge a Gesù chiamandolo con il Nome pasquale di «Signore». Questo è il segno che la Donna rappresenta la Chiesa post-pasquale, credente e peccatrice, capace di debolezze e tradimenti, ma anche di stare davanti a Lui in attesa paziente della sentenza di giustificazione. Non è obbligata nè a fare l’elenco delle colpe, nè a circostanziarle, nè a sottostare al tariffario delle pene e delle penitenze. Lei è lì per dichiarare una grazia e non una colpa. Magari fossero così tutte le confessioni! Magari tutti i confessionali si trasformassero in quei pochi metri quadrati di polvere su cui è incisa la sentenza di giustificazione, su cui rimangono inerti le pietre destinate alla nostra o altrui lapidazione, su cui tutti hanno saputo sostenere il dialogo serrato con il Santo riconoscendosi racchiusi, tutti, sotto la disobbedienza (Romani 11,32).

Il processo contro il crimine è fatto, ieri come oggi, di cronaca quotidiana ed obbliga tutti a riflettere su una responsabilità che va ben oltre l’incriminato. Chi può dirsi veramente innocente? Nessuna condanna risolve veramente il problema del male nella società. Anzi, può essere fonte di pericolose illusioni in quanto ci potrebbe far credere di aver riparato il male, mentre in realtà lo lascia esistere nella radice che esso ha in ciascuno di noi e nella società. Anche un processo è, per Gesù, una occasione di evangelizzazione e di invito alla conversione per mettersi in sintonia con la strategia della misericordia o del “perdono attivo”. Anche il peccato è occasione di grazia.


[1] Il Negheb è un deserto a sud di Israele. I suoi torrenti sono secchi d’estate ma a primavera si gonfiano d’acqua; la semina è un’attesa, la mietitura è una festa. Tutto questo rispecchia la storia d’Israele che ai momenti d’aridità, d’attesa e di pianto, Dio fa seguire abbondanza, gioia e libertà.
[2] Il brano dell’adultera pare sia stato inserito impropriamente nel Vangelo di Giovanni. Di fatto la terminologia, il linguaggio e l’impostazione teologica appartengono al Vangelo di Luca.
[3] Deut. 22,22
[4] Deut. 13,9-10; 17,7
[5] «Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi, perchè mentre giudichi gli altri condanni te stesso…Ti prendi gioco della bontà di Dio, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione» (Romani 2,1).




27 marzo 2022. Domenica 4 Quaresima
LASCIATEVI RICONCILIARE

4 Domenica quaresima C
Preghiamo: O Dio Padre buono e grande nel perdono, accogli nell’abbraccio del tuo amore, tutti i figli che tornano a te con animo pentito; ricoprili delle splendide vesti di salvezza, perchè possano gustare la tua gioia nella Cena pasquale dell’Agnello. Per Cristo nostro Signore. AMEN
 Dal libro di Giosuè 5,9-12
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».  Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.  Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.
Salmo 33  Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato.
Guardate a lui e sarete raggianti, i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 5,17-21
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.  In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.  Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
Dal Vangelo secondo Luca 15,1-3.11-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze (il testo greco scrive: ton biòn = la vita). Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
LASCIATEVI RICONCILIARE. Don Augusto Fontana
Come il termine CONVERSIONE, anche il termine RICONCILIAZIONE si è deteriorato a forza di “tenerselo in bocca” anzichè “inghiottirlo” in alcune scelte precise di vita.
Giosuè 5,9-12: Dio dona all’uomo una patria e una Pasqua.
Ho allontanato da voi l’infamia d’Egitto.  <La liturgia di oggi parte subito col piede sbagliato>, mi disse alcuni anni fa un confratello che predicava la conversione della mente e del cuore ad un gruppo di pie signore dell’aristocratico Rotary e che non voleva sentir parlare del Dio troppo politicizzato dell’Esodo. «Il cuore, caro don Augusto, il cuore e la mente bisogna convertire!», mi diceva il confratello davanti all’Agenzia di viaggi dove aveva prenotato una vacanza cultural-religiosa alle Maldive. Ed io, gli ripetevo che potrò dire di essere ritornato a Dio solo quando il mio cuore e la mente si porteranno dietro – per essere restituiti – petrolio, caffè, cacao, platino, oro, diamanti rubati ai miei schiavetti che lavorano, per me e per i miei amici, in Costa d’Avorio, in Brasile, in Somalia. Saremo riconciliati quando Dio ci defrauderà del potere di indebitare i popoli e di pagare sottocosto il lavoro delle loro mani e il prodotto del loro suolo. E i poveri si riconosceranno pienamente riconciliati nel momento in cui sarà riscattata la vita infame di chi non ha autosufficienza economica ed autodeterminazione politica.  L’infamia d’Egitto era l’infamia della mancanza di un luogo dove riconoscersi popolo riunito. Nel deserto erano state superate mormorazioni e tentazioni nostalgiche, idolatrie e lotte fra tribù. Ora Dio ha raccolto questo popolo come si raccoglie una ragazza denudata, violentata e picchiata a sangue ai margini di una strada e le ha dato una casa accogliente, nuova dignità, abiti puliti, gioielli; con la speranza che con questi doni non vada poi a prostituirsi (leggi, per cortesia, i capitoli 2 e 11 di Osea).
Celebrarono la Pasqua a Galgala. La celebrazione liturgica a Galgala nasce dopo un evento constatato: Dio ci ha liberati dall’infamia dell’Egitto. Ogni liturgia che non nasce da eventi storici precedenti è simile ad un abito appeso al porta-abiti nell’armadio.  Inizialmente la constatazione della paternità liberante di Dio si celebrava in famiglia (Esodo 12), successivamente si celebrerà in località occasionali (Galgala significa, in ebraico “circolo di pietre“) in cui verranno costruiti poi dei “santuari” (Deuter.16). L’usanza di celebrare la Pasqua era anteriore alla liberazione dall’Egitto ed era una festa di pastori che celebravano le primizie dei greggi nella prima notte di luna piena del mese primaverile di Nisan. Successivamente la Pasqua divenne una festa degli agricoltori che celebravano le primizie della terra mangiando le schiacciatine azzime di farina non lievitata dette, in ebraico, massòt. Nel testo della liturgia odierna si fondono i motivi tradizionali con la nuova constatazione della liberazione dall’infamia. Ormai Israele pare diventato adulto: Dio fa smettere la manna ed il popolo dovrà coltivarsi il proprio pane togliendolo dalla fecondità della terra che gli è stata donata.
La Chiesa continua a celebrare, alla domenica, la constatazione della liberazione dalla sua infamia (quale?), mangiando il pane azzimo eucaristico che ci fa compagnia in questa terra (il Regno di Dio) ormai raggiunta, ma mai conquistata definitivamente.
Luca 15, 1-3. 11-32: Dio dona all’uomo una relazione.
Nel Cap. 15 di Luca ci sono tre Parabole…con un cappello (Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro»). La simpatia di Gesù per gli esclusi dal circuito sociale e religioso, costituisce uno dei temi centrali di Luca. I giudei osservanti di ieri e di oggi vogliono che Dio sia severo con i peccatori e che, di conseguenza, i peccatori paghino un prezzo di penitenza per ritornare nella comunità. Non accettano quindi questo Gesù permissivo e lassista. Contro questa incriminazione risponde Luca con il suo Capitolo 15 detto anche “il Capitolo dei perduti”: la pecora smarrita, il denaro perduto, il figlio scappato. Tutte e tre le Parabole hanno alcuni punti in comune: innanzitutto sono tutte una risposta alle critiche di “chi si credeva nel giusto” (Lc.18,9), tutte sono percorse dall’invito alla gioia, in tutte si gioca sul contrasto “perdere-trovare”. Ma la terza parabola ha qualche novità nei confronti delle prime due.
Questo capitolo 15 è un vangelo nel vangelo; e la Parabola del Padre misericordioso viene considerata il culmine del messaggio di Luca. Il vero centro della parabola è l’invito del Padre: <Facciamo festa!>.
E’ la parabola del Padre più che del figliol prodigo o del fratello maggiore. Radice del peccato comune dei due figli è la cattiva o distorta opinione sul Padre: l’uno, per liberarsene, instaura la “strategia del piacere” che lo porta ad esprimere la ribellione e la dimenticanza verso il Padre e la degradazione verso se stesso; l’altro, per imbonirselo, instaura la “strategia del dovere” con una religiosità servile che sacrifica la gioia di vivere restando un burocrate della virtù senza un guizzo di vita.
L’intento primario della Parabola, visti anche i versetti introduttivi al Cap.15, è di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia.
Emergono anche altre due intenzioni: quella di indurre i fratelli, maggiori o minori, a passare dall’attenzione verso l’io all’attenzione verso Dio e quella di indurre i fratelli a convincersi che devono comunque convertirsi sia dalla delusione per le proprie debolezze che dalla presunzione della propria giustizia. Dio ci ama non perchè siamo buoni, ma perchè Lui è Padre.
E c’è un equivoco di fondo: nessuno dei due ha capito suo padre. Il figlio minore, ritornando, gli chiede di essere trattato come “uno dei servi”; il figlio maggiore gli ricorda “io ti servo da tanti anni”.
Un padre ha generato figli che si sentono servi.
La Parabola inizia col fratello minore, termina col fratello maggiore ed ha, al centro, il Padre che adottando la strategia della misericordia invita ad assumere la stessa strategia, come Luca aveva già ricordato nel cap. 6,36: “Siate misericordiosi perché (in greco=cathòs) è misericordioso il Padre vostro”.
La Parabola è movimentata da entrate e uscite di scena: partenza e ritorno del minore, uscita del Padre verso il minore che rientra, rifiuto del maggiore di entrare, uscita del Padre verso il maggiore.
Dal punto di vista psicologico emerge che il minore pare non abbia, inizialmente, dei sentimenti, ma solo dei bisogni; di fatto usa spesso la parola “Padre” prima, durante e dopo la fuga; il maggiore, invece non usa mai la parola “Padre”. Il Padre manifesta invece sentimenti di commozione e di gioia che vuole condividere ed espandere.
La nostra eredità. Al figlio minore spettava, vivente il padre, il possesso, ma non l’uso, di un terzo del patrimonio liquido. Il figlio della parabola rivendica oltre ai soldi anche l’indipendenza, in quanto vede nel padre un antagonista. In questa rivendicazione si vede chiaramente, in filigrana, la vicenda di Adamo: il peccato sta nel voler rubare ciò che è lì a disposizione come dono. L’eredità donataci, poi, da Dio sarà ben superiore alle nostre attese: oltre alle sue cose, dona se stesso. Le cose che i due figli chiedono (soldi e capretti) sono meschine e inferiori a quanto di fatto viene loro dato.  Il minore scappa portandosi via tutto e lasciando in casa l’amore del padre, ritenuto un bene inservibile e non spendibile. Il capitale si consumerà presto e vi sarà carestia di beni essenziali; tutte le sue sostanze verranno meno, anche la sua “sostanza” di figlio e di uomo. Allora incomincia il bisogno. Domenica scorsa abbiamo visto Mosè che si avvicina a Dio “per curiosità”; oggi vediamo un uomo che ritorna a Dio per “bisogno”. Sembrerebbero due sentieri poco ortodossi per camminare verso Dio eppure così sappiamo che l’importante non è starsene seduti, ma incominciare ad avvicinarsi a Lui.
Dal Padre al Padrone al Padre. Nel versetto 15,  il testo greco di Luca usa un termine strano ed interessante. La traduzione italiana dice “si mise a servizio” ; il testo greco usa il termine “ecollethe” che potrebbe essere efficacemente tradotto con “andò ad incollarsi a…”. Chi emigra da Dio, sua vera casa, va ad “incollarsi” ad un estraneo al quale cede la propria libertà. Chi aveva sofferto della vicinanza del Padre, va a servire padroni stranieri. Respinto Dio, che lascia liberi anche quando si sbaglia, si va a servire necessariamente l’idolo. L’uomo non è ateo: è idolatra. E l’idolo lo prende a proprio servizio assimilando l’uomo a sè e mandandolo a servire le proprie porcherie. L’idolo sazia per un momento, ma poi la fame profonda ritorna a far sentire i propri stimoli. Allora l’uomo può avere l’occasione se non di pentirsi, almeno di rinsavire. Prima era fuori di sè; ora “rientra in se stesso e pensa“. Oggi diciamo che stiamo tutti male perchè abbiamo costruito la nostra vita su valori fasulli o falsi valori, sulla disumanità.
Per 5 volte il figlio pronuncia la parola “Padre” con una nostalgia che gli serve per mettersi in moto “scollandosi” dall’idolo.
Il Padre dal figlio minore al figlio maggiore. In rapida successione vengono elencati i verbi della…conversione del Padre: vide, si commosse, scese. Erano i verbi del Dio di Mosè di domenica scorsa. Sono i verbi del Buon Samaritano.
Nel Libro del profeta Giona (cap.3, vers.9) c’è un’espressione sorprendente: Dio, vedendo il pentimento degli abitanti di Ninive, “si convertì“. E’ probabile che l’unico convertito, in questa Quaresima, sarà Dio il quale “tornerà a voltare il suo volto verso di noi, commuovendosi, abbracciandoci e baciandoci “.
“Mi baci con i baci della tua bocca” dice il Cantico dei cantici (1,2): tutti i doni di Dio sono contenuti ed espressi da questo bacio che trasmette il soffio dello Spirito Santo e la saliva della creazione di Adamo o della guarigione del cieco nato. Con questo bacio viene ricreato un uomo e gli vengono aperti gli occhi e riscaldato il cuore.
La vestizione liturgica con abiti nuovi diventerà il segno che è nato un nuovo Adamo: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Galati 3,27).
E tutti i doni confluiscono nella festa del Banchetto eucaristico dove si proclama il motivo del brindisi: “perchè questo mio figlio era morto ed ora rivive, era perduto ed ora è ritrovato”.
In rapida successione vengono anche elencati i verbi del figlio maggiore: udì, si informò, si arrabbiò, non voleva entrare. Come è facile constatare, sono i verbi contrari a quelli del Padre. Il figlio maggiore riconosce il Padre, ma non il fratello: “questo tuo figlio”. E il Padre non accetta la sua furbizia grossolana e gli riconsegna un fratello: “Questo tuo fratello”.
E il Padre introduce un motivo per partecipare all’Eucarestia: “Fallo per me, con-gioisci con me. Dimenticati. E vieni anche tu, perchè finchè manca uno non riuscirò a godere pienamente della festa”.
Dopo 2000 anni non sappiamo ancora se il figlio maggiore andò a sedersi a tavolo nè se si lasciò abbracciare e abbracciò.
La Parabola resta aperta a chi le vuol dare seguito e conclusione.




20-03-2022. Domenica 3 Quaresima
IL LEGNO E I FRUTTI

3° domenica quaresima C

Preghiamo. Padre Santo e misericordioso, che mai abbandoni i tuoi figli e riveli ad essi il tuo Nome, infrangi la durezza della mente e del cuore perchè sappiamo accogliere con semplicità i tuoi insegnamenti e portiamo frutti di vera e continua conversione. Per Gesù Cristo nostro Signore. AMEN
Dal libro dell’Èsodo 3,1-8.13-15
In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».  Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
Salmo 102  Il Signore ha pietà del suo popolo.
Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia.
Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d’Israele.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 10,1-6.10-12
Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
Dal Vangelo secondo Luca 13,1-9
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».  Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

IL LEGNO E I FRUTTI. Don Augusto Fontana
Trascrivo, a consolazione e vergogna, alcune parti del Documento Conciliare “GIOIA E SPERANZA”(GAUDIUM ET SPES): «E’ dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi ed interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonchè le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatica. L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche sulla vita religiosa.E come accade in ogni crisi di crescita, questa trasformazione reca con sè non lievi difficoltà. Così mentre l’uomo estende la sua potenza, non sempre riesce però a porla a suo servizio. Si sforza di penetrare nel più intimo del suo animo, ma spesso appare più incerto di se stesso. Scopre più chiaramente le leggi della vita sociale, ma resta poi esitante sulla direzione da imprimervi. Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenze economiche e tuttavia una gran parte degli uomini è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria e intere moltitudini sono ancora analfabete. Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà e intanto si affermano nuove forme di di schiavitù sociale e psichica. E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, viene poi violentemente spinto in direzioni opposte a causa di forze tra loro contrastanti; infatti permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, nè è venuto meno il pericolo di una guerra totale capace di annientare ogni cosa. Aumenta lo scambio di idee, ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti umani, assumono, nelle diverse ideologie, significati assai diversi. Con ogni sforzo si vuol costruire un ordine terreno più perfetto, senza che cammini, di pari passo, il progresso spirituale. Immersi in così contrastanti condizioni, molti nostri contemporanei non sono in grado di  identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli con quelli che man mano scoprono. Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Il quale sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta (n.4). Il popolo di Dio, mosso dalla fede, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni a cui prende parte insieme agli altri, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo e perciò guida verso soluzioni pienamente umane (n.11)».
Al termine potremmo solo aggiungere l’invito che oggi Gesù ci rivolge, dopo aver meditato con i discepoli alcuni fatti tragici accaduti in quei giorni: <Se non vi convertirete,  perirete tutti>.
L’uomo davanti al cespuglio di Dio (Esodo 3,1-15).
Martin Buber nel suo libro I racconti dei chassidim riferisce un aneddoto: «Ad un rabbi si presentò un discepolo e gli chiese: “Prima esistevano uomini che hanno visto Dio faccia a faccia. Perchè oggi non ne esistono più?”. E il rabbi rispose: “Perchè oggi nessuno sa chinarsi così profondamente”».
Dov’è andato Dio? Si può ancora incontrare Dio? Crediamo in <un> Dio oppure in <quel> Dio che la Storia del popolo ebraico e Gesù ci hanno fatto conoscere? Dal momento in cui pronuncio la frase <io credo> faccio una scelta che fa appello a tutta la realtà del mio essere non solo interiore, ma anche economico e sociale. Qualcuno pensa che si possa perdere la fede come si perde un portafoglio, ma può capitare qualcosa di più grave ed è quando la fede non scuote più le mie scelte. Lo scrittore Giorges Bernanos diceva :”La fede non c’è più non solo quando la si perde, ma anche quando essa non dà più forma alla vita, ecco tutto“.
Stava pascolando. Mosè è un latitante fuggiasco a causa di un omicidio compiuto. Non c’è nulla che faccia prevedere il suo ruolo di leader religioso. Vaga nel deserto non per incontrare Dio, ma per trovare pascolo per i suoi animali. Anche gli apostoli stavano aggiustando le reti e pare che il loro mestiere non rendesse facile la frequenza in Sinagoga.
Il Monte Oreb diventa il luogo classico dell’incontro tra Dio e Israele. La storia di Israele è caratterizzata da determinati luoghi in cui Jahwè si è manifestato; non si tratta mai di luoghi in cui Jahwè dimora, ma di località di apparizioni ed incontri. Sembra che Dio preferisca non essere imprigionato in religiose galere, ma voglia essere dove è la gente, incontrandola più sul fango e sulla sabbia che sui lucidi lastricati dei santuari. Poi verrà la istituzionalizzazione delle religioni e Lui si adatterà ai Tabernacoli che sono più un bisogno nostro che Suo.
<Mosè!>….<Eccomi>. Davanti alla situazione di oppressione del popolo, Dio inizialmente sembra dire “Ci penso io!”.  Più avanti sembra ripensarci e dice a Mosè: “Voglio mandarti da Faraone. Avanti! Tocca a te!”.  Dio ha bisogno di noi? La conversione di Mosè ha significato il passare dalla condizione di fuggiasco e di ribelle a quella di servo della liberazione della sua gente. Prima ha vissuto comodamente nel palazzo del faraone, come suo portaborse e lacchè; poi si ritira a farsi i fatti propri lontano dalle sofferenze del popolo. La sua conversione segna il ritorno alla solidarietà col popolo che soffre. E mentre compirà un’opera politica di leader, compirà anche un’evangelizzazione, annunciando per sempre il NOME di JAHWE’. Colui che un giorno è stato toccato dal fuoco di Dio non può far altro che “andare”. Mosè si accosta per curiosità, ma il contatto di Dio lo brucia. Ogni esperienza autentica di Dio non si risolve in godimento estatico. Lo abbiamo visto anche domenica scorsa sul Tabor. Dio si rivela non per soddisfare la nostra curiosità o per fornirci informazioni gratuite, bensì per informarci di ciò che attende da noi. Mosè va per vedere e si ritrova qualcosa da fare; si mette in ginocchio per ritrovarsi in piedi[1].  Si toglie i sandali per adorare, ma poi se li rimetterà per camminare col suo popolo.
Ho osservato, ho udito, conosco, sono sceso per liberare. Sono i verbi di Dio, messi in successione, per sottolineare  l’iniziativa di Dio che parte da un interessamento partecipato e termina con una “incarnazione” (“sono sceso”). Gesù costituirà l’atto terminale di questa successione di verbi di Dio (“si fece carne e pose la sua tenda fra noi”). A questo forte protagonismo di Dio, si intreccia la missione collaboratrice di Mosè che, come tutti i profeti, sente lo scarto tra il compito affidatogli e il limite personale (“Chi sono io?”). A questo dubbio, Dio pone il sigillo del suo nuovo nome (“Io sarò con te”).
Dio davanti al cespuglio dell’uomo (Luca 13,1-9).
Nella prima Lettura ci è stato presentato l’uomo Mosè davanti al “cespuglio” di Dio, stupito e pazientemente in attesa per raccogliere i frutti del fuoco della Rivelazione e della missione. Ora, nel Vangelo, le parti si invertono; é Dio che si pone davanti ai cespugli un po’ secchi degli uomini per cercarne i frutti: « Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò».  I fichi e l’uva avevano, per gli ebrei, un forte significato simbolico evocativo perchè erano i primi frutti che avevano incontrato quando si installarono nella Terra Promessa. Il fico, nell’insegnamento rabbinico, simboleggia, per la sua dolcezza, la Parola di Dio, la Torah. E’ una pianta che si usava piantare nei vigneti e diventava il simbolo della legge di Dio piantata nella vigna-Israele. La vigna, infatti, fu presa dai profeti come il simbolo del popolo piantato dal Signore non come pianta ornamentale da appartamento, ma come albero da frutta. Dio viene incontro all’uomo e cerca il frutto dell’amicizia. Fin dalla prima sera della creazione, Egli ama passeggiare con l’uomo (Genesi 3,8) e lo cerca <Adamo dove sei?> .  Ma Dio pare sfortunato. La sterilità del nostro legno secco sarà vinta dal legno della croce da cui pende il frutto dolce che è Gesù.
Noi restiamo questo fico che succhia e si appropria dei doni della terra, gonfiandosi di foglie senza far frutti; non solo non produciamo frutti, ma impoveriamo e rendiamo improduttiva la terra.  Ora veniamo “lasciati (perdonati)” per <un anno>, che è il periodo della nostra vita, per permetterci di innestarci come tralci sulla vite che è Cristo (Giov.15).
Dio e uomo si cercano nel fogliame quotidiano.
Per rielaborare la meditazione biblica non posso non pescare a piene mani nel cuore e nella parola di Mons. Tonino Bello[2]:
«Qualcuno ha scritto che la meraviglia è la base dell’adorazione.  Anzi, l’empietà più grande non è tanto la bestemmia o il sacrilegio, la profanazione di un tempio o la dissacrazione di un calice, ma la mancanza di stupore. Oggi c’è crisi di estasi. E’ in calo il fattore sorpresa.  Non ci si esalta per nulla.  C’è in giro un insopportabile ristagno di cose già viste, di esperienze già fatte, di sensazioni sottoposte a ripetuti collaudi. Siamo appiattiti dagli standard, omologati dagli schemi, prigionieri della ripetizione modulare.  La fantasia agonizza.  Occorrerebbe riutilizzare il Salmo, nel quale si densifica il rapimento estatico di chi contempla la gloria di Dio: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (Sal 8, 1). Se avessimo gli occhi dei bambini, dovremmo essere capaci di leggere questa scritta su tutta la curva del cielo, da oriente a occidente.  Incoraggiare l’attitudine allo stupore.  Non disdegnare, come cedimento alla serietà organica del pensiero, il tentativo di indicare nella bellezza la strada privilegiata attraverso cui Dio si rivela. Il mare in tempesta o il firmamento nelle notti d’agosto, il colore dei fiori che spuntano sui crepacci o l’incantesimo delle vette innevate, lo struggimento degli alberi che si torcono nella bufera o lo splendore degli occhi di una donna, non hanno smesso di proclamare su tutta la grandezza della terra il nome di Dio. Senza stupore è difficile l’incontro con Dio.  Senza rapimenti estatici è impossibile parlargli.  Al massimo, con Dio ci potrà essere rapporto mercantile, basato sulle contrattazioni della domanda e dell’offerta: soprattutto nei momenti della paura o dello smacco. Ma non incontro personale, né abbandono di fiducia, e tanto meno, ebbrezza d’amore.
«Non ti dimenticherò mai… Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,15-16).  Sapere che, questa frase di Isaia, Dio la ripete a te, a me, a tutti, fin da quando siamo stati concepiti nel grembo materno, non può non alzare la soglia del rapporto personale con lui. Lui che, come dice il profeta Baruc, «chiama le stelle per nome, ed esse gli rispondono “eccomi” brillando di gioia!» (Baruc 3,34-35).  Lui che non deposita negli archivi i nostri volti, ma li sottrae all’usura delle stagioni, illuminandoli con la luce dei suoi occhi.  Lui che non seppellisce i nostri nomi nel parco delle rimembranze, ma li evoca a uno a uno dalla massa indistinta delle nebulose e, pronunciandoli, con la passione struggente dell’innamorato, li incide sulle rocce dei colli eterni.
E ho provato a pensare se  ci possa mai essere qualche angolo del mondo sottratto, per così dire, all’invadenza del Nome di Dio. Ma non mi è riuscito di trovarlo. La gloria del Signore JHWH straripa da tutte le parti. Non ci sono zolle di terra che non si lascino inumidire dalla sua rugiada. Neppure gli spazi dove si imbastardiscono le trame più inique sono impermeabili all’azione di Dio. Lì, nei santuari dove la gente si raccoglie in cerca di pace; ma anche oltre la siepe del giardino comunale disseminato di siringhe. Nelle celle del monastero di clausura impregnate di preghiera, ma anche giù nei sotterranei delle metropoli dove si sfrenano ogni giorno le orge della dissolutezza. La verità è che la terra non è oggetto di spartizione tra l’impero del bene e l’impero del male. A Dio non  appartengono solo le aree del sacro. Egli riempie d’olio tutte le lampade della vita, fa ardere i roghi della storia, accende le fiammelle della cronaca, illumina i crepuscoli delle nostre stagioni spirituali. E Dio non si macera nel timore che l’uomo un giorno o l’altro debba trafugargli i brevetti delle sue invenzioni. Non considera l’uomo come suo rivale, ma come partner che collabora con lui nel cantiere sempre aperto della creazione, Come socio, cioè, di pari dignità, nella sua cooperativa di lavoro».


[1] Da A.Pronzato PAROLA DI DIO anno C, Ed.Gribaudi pag. 76.
[2] T.Bello,  Non c’è fedeltà senza rischio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2000.