26 marzo 2023. Domenica 5 Quaresima
ATTENDO

5° domenica Quaresima

Preghiamo.  Eterno Padre, la tua gloria è l’uomo vivente; tu che hai manifestato la tua compassione nel pianto di Gesù per l’amico Lazzaro, guarda oggi l’afflizione della Chiesa che piange e prega per i suoi figli morti a causa del peccato, e con la forza del tuo Spirito richiamali a vita nuova. Per Cristo nostro Signore.
Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò».
Salmo 129  Il Signore è bontà e misericordia.
Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica.
Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono: così avremo il tuo timore.
Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola.
L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora.
Più che le sentinelle l’aurora, Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,8-11
Fratelli, quelli che seguono le inclinazioni dell’egoismo non possono piacere a Dio, perché vivono secondo il proprio egoismo. Voi, però, non vivete così: vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi. Ma se qualcuno non ha lo Spirito donato da Cristo, non gli appartiene. Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita. Se lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, lo stesso Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche a voi, sebbene dobbiate ancora morire, mediante il suo Spirito che abita in voi.
Dal Vangelo secondo Giovanni 11,1-45 (Forma breve: Gv 11, 3-7.17.20-27.33b-45)
In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!».Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Gesù si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

ATTENDO[1]. Don Augusto Fontana

 Il nostro Symbolum (il Credo Niceno) non dice “credo” nella risurrezione dei morti, ma “aspetto” la risurrezione dei morti. Sono pochi a crederci, ma molti a sperarla. La spera chi è stato ferito a morte da un’improvvisa scomparsa di un familiare che era carne della sua carne, la aspetta chi è sfinito dalle velenose porzioni di morti sul lavoro e stragi di piazza o dei Caini di casa, la spera chi vede i giorni rosicchiati dalla malattia o accelerati dalla vecchiaia. Molti la sperano con occhi accecati dalle lacrime, molti con occhi chiusi sul baratro della preghiera, molti mormorando un dolce o amaro rimprovero al Padre del Crocifisso: «Dio, se tu fossi stato qui mio fratello Gesù non sarebbe morto». Sì, perché la storia di Lazzaro racconta tutti noi e anticipa l’altro sepolcro, quello di Gesù, con bende, massi e pianti al seguito, e dubbi e dialoghi e stupori sospesi e incredulità e adoranti prostrazioni. Tutto ciò che accade a Betania accade nel giardino del sepolcro di Cristo. E la Chiesa è la stessa, quella militante seppur ancora catecumena di Marta, Maria e discepoli, quella spettatrice curiosa, inquirente e scettica dell’entourage giudaica. E al centro sempre Lui, Gesù, un Dio in ritardo sulle nostre aspettative, un Dio capace di amicizia e di pianto, un Dio che non teme la puzza di vite putrefatte, un Dio che chiama il mio nome con la voce di una madre che risveglia da un sonno che tornerà e da una morte che non tornerà mai più: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?».  Signore, per ora non credo, ma lo attendo. Anche perché non so cosa intendi per “risurrezione dai morti”. Quando diciamo Dio, vita, morte, risurrezione, occorre il rispetto che ci ha chiesto la Bibbia: Non nominare invano, a sproposito…Anche quando diciamo RISURREZIONE occorre l’afasia adorante e il silenzio rispettoso che si conviene al Nome di Dio. Tra l’altro quella di Lazzaro non fu vera risurrezione ma solo rianimazione di cadavere. Ma è un segno. Cioè un evento che ci fa sospettare di essere dirimpettai di un mistero davanti al quale non potremo mai dire “Adesso ho capito!”.
Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo».[12]Gli dissero allora i discepoli:  «Signore, se s’è addormentato, guarirà».
C’è un fraintendimento. Pare che Gesù e i suoi interlocutori parlino due linguaggi diversi. Anzi pare che Gesù attenda che ciò avvenga per poter procedere nel proprio annuncio. L’evangelista Giovanni in altre parti del suo Vangelo dimostra questo scontro di incomprensioni. Gesù parla di «rinascere dall’alto».  E  quel burlone di Nicodèmo gli chiede se deve «rientrare nell’utero della madre» (Gv 3, 3-4).  Gesù offre alla samaritana « acqua viva».  E lei, sveglia, gli fa notare  «Signore, tu non hai un secchio per attingere e il pozzo è profondo» (Gv 4, 10-11). Gesù parla ai discepoli di «lievito» e loro pensano che li stia sgridando perché si erano dimenticati di prendere il pane per la colazione; e lui: «Come mai non capite ancora che non alludevo al pane?» (Mt 16, 6-12). Equivoci, diversi livelli di ascolto, allusioni incomprensibili, mancate sintonie tra Gesù e noi. Gesù parla in una lingua diversa dalla nostra; il nostro ascolto è fatto a partire dalle idee che abbiamo già dentro di noi. E’ difficile imparare la lingua di Dio. Gesù, spesso, quando parlava della resurrezione o compiva opere stupende, ordinava ai suoi di non parlarne a nessuno: perché gli eventi che sono al livello alto, che toccano perciò le fibre più profonde delle nostre attese, possono, nella promiscuità con le altre parole, deturparsi e cambiare senso. A questa legge appartengono parole come “risurrezione”, come “vita” e, ogni volta che dobbiamo parlarne, dobbiamo farlo con cautela ed impegnarci a capire il perché di questa indecifrabilità, di questa impronunciabilità. Noi preti gridiamo, dai microfoni e dai video, parole che diventano profane ed equivoche. Da una parte l’annuncio va gridato, dall’altra va taciuto.
Scoperchiare i sepolcri.
La parola “vita”, in questi tempi, rimbalza in ogni ambiente, dall’utero alle guerre alle povertà estreme. Chi non è per la vita? Tutti sono per la vita e però molti sono per la vita in modo mortale e la difendono accanitamente spargendo sangue. E’ una parola pericolosa. Io intanto devo prendere atto che la resurrezione di cui parla Gesù è una resurrezione globale e integrale. Noi comunque dobbiamo dichiarare guerra ai sepolcri e a tutti coloro che li costruiscono. Io so che ogni volta che noi scegliamo la logica del potere, le sue astute diplomazie o quando terrorizziamo anche una sola coscienza, noi siamo dalla parte della morte. Questo è tanto più vero oggi, perché il confronto tra due potenze – morte e vita – si è fatto radicale e si è esteso dovunque. Ma questa speranza dobbiamo custodirla nel segreto e nel pudore. Per poterla gridare dobbiamo pagarla attraverso tutti i giorni della nostra vita. Allora possiamo dire: “resusciterò” ma dopo che avremo in concreto lottato contro ogni opera di morte: «Togliete la pietra… liberatelo e lasciatelo andare». A noi non compete far risuscitare, ma togliere la pietra, slegare, rimettere in pista. Dare una mano al nostro Dio. Marta reagisce: “Signore, già puzza… è di quattro giorni!”. Gesù incalza la fede debole delle sorelle e coinvolge anche gli spettatori con tre verbi imperativi. Tutti possono fare qualcosa per la risurrezione di un morto, di una persona spenta, depressa, schiavizzata. Siamo invitati ad essere figli ed operatori di risurrezione, a partire dalle concrete piccole situazioni della vita quotidiana. Così pare ci riveli anche la straordinaria pagina della prima Lettura presa dal profeta Ezechiele: «Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe… Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete…L’ho detto e lo farò». (Ez. 37, 12-14). Il profeta scrive dall’esilio di Babilonia per svegliare il popolo alla fiducia e far riemergere l’orizzonte della fine della deportazione. Ma anche per noi il pericolo di vivere congelati nelle abitudini, rassegnati a subire ciò che gli altri decidono per noi, costituisce un vivere nei sepolcri. Il vento di Dio, il Suo soffio vitale ci spinge ad uscire, a “risorgere” dai nostri sepolcri: «Lazzaro, vieni fuori!». Ci chiama tutti per nome ad “uscire” dai sepolcri della morte, della schiavitù, dell’egoismo, della paura. Forse ci crediamo vivi mentre siamo morti. Lazzaro è un nome promettente. Il suo significato ebraico è EL-AZAR=”Dio aiuta”.  Dunque la risurrezione è per noi una speranza fondata sulla Parola di Dio, ma la risurrezione è prima di tutto una strada da percorrere. Le nostre risurrezioni, i segni di risurrezione che poniamo, i piccoli passi di risurrezione che compiamo – in attesa di quelli definitivi – sono sempre fragili, precari, provvisori, incompleti. Ognuno di noi è tentato di rientrare in qualche “sepolcro” e deve ricollocarsi ogni giorno sui sentieri della risurrezione, non darla mai come una realtà scontata ed acquisita per sempre. Per questo leggiamo le Scritture, preghiamo, ci lasciamo correggere e cerchiamo di discernere i segni che Dio ci fa giungere dalla vita di ogni giorno. Risurrezione fa rima con conversione perché alla risurrezione occorre convertirci quotidianamente.
Dio è mio amico, che piangerà per me quando morirò.
Disse Gesù «Il nostro amico Lazzaro…»…[36]Dissero allora i Giudei:  «Vedi come lo amava!»…
«Gesù si reca a Betania chiamato dall’amicizia. Di Lazzaro non sappiamo nulla se non che era amico di Gesù. Questa la sua identità: colui che Gesù amava molto. Di Lazzaro sappiamo anche tutte le lacrime versate per la sua morte: piangono Marta e Maria, i giudei, Gesù stesso. È questa la salvezza: il pianto di Dio. Io non morirò per sempre a causa del Suo amore che non accetta di finire»[2].
[34]«Gesù si commosse profondamente, si turbò….[35]Gesù scoppiò in pianto… [38]Intanto Gesù, ancora profondamente commosso…».  Nella scena di Betania, la nostra attenzione è richiamata dalla efficace frequenza con cui l’evangelista mostra la commozione di Gesù. Il brano della resurrezione di Lazzaro è un compendio della Cristologia, un evento fondamentale della rivelazione di Gesù. Ecce homo: ecco qui l’uomo perfetto nella sua umanità, che piange la morte dell’amico. Ecce Deus: ecco qui Dio, il Signore della vita e della storia. Umano, molto umano, uguale a noi in tutto. Maria piange, tutti piangono. Gesù si commuove. Quando i poveri piangono, Gesù si emoziona e piange. Dinanzi al pianto di Gesù, gli altri concludono: “Vedi come l’amava!” Questa è la caratteristica delle comunità di Giovanni (e nostra?): l’amore mutuo tra Gesù e i membri della comunità. Alcuni ancora non credono e dubitano: “Non poteva costui, che ha aperto gli occhi del cieco, fare che questi non morisse?” Per la terza volta Gesù si commuove (Gv 11,33.35.38). È così che Giovanni mette l’accento sull’umanità di Gesù contro quelli che, alla fine del primo secolo, spiritualizzavano la fede e negavano l’umanità di Gesù.

«Attendere da Dio salvezza è credere in una potenza capace di fare cose impossibili e mai viste. Marta e Maria non si adeguano alla morte del fratello, ma interrogano Dio e lo pungolano affinché si sbrighi a trasformare la realtà secondo le sue promesse di giustizia. Il perfetto disperato è un uomo tranquillissimo e annoiato che si è seduto impassibile davanti al cadavere di suo fratello. Noi comprendiamo che Gesù è uomo di speranza quando piange e grida di non voler morire, quando risuscita da morte e promette che risusciterà anche noi nell’ultimo giorno. Dio è morto per dirci che sta dalla nostra parte e che mai dobbiamo rassegnarci a morire. Croce e risurrezione sono inscindibili ormai, in Dio e nella storia dell’umanità: la speranza sorge dal grido di un crocifisso e dalle buie cavità di una tomba rimasta vuota»[3].


[1]Rielaborazione da: Ernesto Balducci, Adista 26/02/05;  P. Stefani, Un tempo per cercare, Morcelliana, Brescia, 1997; Franco Barbero.
[2] P. Ermes Ronchi La fede che resiste al dolore
[3] Daniele Garota, Fame di redenzione, Paoline.




19 marzo 2023. Domenica 4a Quaresima
Alla tua luce vediamo la luce (Salmo 35,10)

4° Domenica di Quaresima

 Preghiamo. O Dio, Padre della luce, tu vedi le profondità del nostro cuore: non permettere che ci domini il potere delle tenebre, ma apri i nostri occhi con la grazia del tuo Spirito, perché vediamo colui che hai mandato a illuminare il mondo e crediamo in lui solo, Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore. Amen.
Dal primo libro di Samuèle 1 Sam 16,1b.4.6-7.10-13
In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato. Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore». Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.
Salmo 22 (23) R. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia. R/.
Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. R/.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca. R/.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni. R/.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni Ef 5,8-14
Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».
Dal vangelo secondo Giovanni Gv 9,1-41
In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». 

Alla tua luce vediamo la luce (Salmo 35,10).Don Augusto Fontana

 Cieco dalla nascita. Nervo ottico inesistente, compromesso irreparabilmente. Si può giocare a “mosca cieca” bendandosi gli occhi come facevamo da ragazzi, urtando gli ostacoli tra le risate divertite dei compagni, ma era solo per gioco e per un momento. Poi via la benda e si tornava a vedere. Ma il cieco nato ha poco da divertirsi. Ha un’impotenza visiva radicale, insanabile. Mi sono chiesto come possa un cieco totale immaginare cose che non ha mai visto, il volto della sua ragazza, un panorama assolato, un pugno di cime dolomitiche. Forse vede toccando, odorando e, così, crea il mondo nei suoi occhi spenti. Mi dicono che i ciechi affinano un invidiabile senso dello spazio e del movimento ma soprattutto ascoltano, odono fruscii delle cose e sussurri dell’anima. Così doveva essere quel cieco davanti a Gesù. Così sono io, vedente e non-vedente nello stesso tempo: «Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero:“Siamo forse ciechi anche noi?”. Gesù rispose loro:  “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane”» (Gv 9,40-41).  Anche le Chiese, come quella di Laodicea al tempo del veggente Giovanni, hanno occhi cisposi. Ce lo rivela l’Apocalisse (3, 14-17) «Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Tu dici  “Sono ricco, non ho bisogno di nulla”,  ma non sai di essere un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista». Preti, laici, comunità: «ciechi che guidano altri ciechi, cadendo tutti nella stessa fossa»? (Mt 15,14).
Il “vedere” è una vera ossessione biblica, un ginepraio contorto di divieti a guardare e di inviti a vedere, di sguardi e di cecità, di illuminazioni improvvise e altrettanto improvvise oscurità: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi».  E’ una Parola di Dio attraversata dal grido: «L’anima mia ha sete del Dio vivente: quando vedrò il volto di Dio?» (Salmo 41,3); paradossale invocazione di visioni, proprio in quella Bibbia che proibisce di andare a cercare Dio con gli occhi:« Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo» (Esodo 20,4). E per chi nutrisse ancora dubbi, ecco un mistico racconto di Esodo (33, 18-23): «Mosè disse al Signore:  “Mostrami la tua Gloria!”. Rispose il Signore:“Farò passare davanti a te tutto il mio splendore…ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo…Quando passerà la mia Gloria, io ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”».  Amo gli iconoclasti[1], coloro che spezzano l’immagine. E, se mi affidassi al mio istinto, vorrei esserlo anch’io, almeno un po’. In giro, oggi, c’è troppa bulimia di immagini sacre. E’ vero tuttavia che, con l’Incarnazione, Dio si è come fatto “vedere”: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Gesù donandoci il Pane pasquale non ci ha chiesto «Prendete e guardate!», ma «Prendete e mangiate!». Pane da ruminare nell’ascolto, nella stanza catacombale dei miei sepolcri putridi o nella stanza sponsale delle mie incomunicabili gioie luminose. E anche nella Trasfigurazione, agli apostoli istupiditi da un’apparizione straordinaria, il Padre sussurra: «Lui è mio Figlio: ascoltatelo!». Premessa di quell’inquietante domanda del Signore alla chiesa di ogni tempo, un po’ inchiodata al cielo dell’Ascensione: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (Atti 1,11).

Eppure sembra che il vedere diventi la parabola che ci racconta il nostro ascoltare e credere. Forse per questo Gesù ha guarito tanti ciechi e ne ha dato facoltà anche alla chiesa. I Battezzati, originariamente, venivano chiamati “gli illuminati”.
Guardare, vedere, credere.
L’evangelista Giovanni, soprattutto nel racconto della Risurrezione, usa tre verbi greci diversi (blepô, theôreô e horaô) per indicare quello che noi traduciamo con l’unico appiattito verbo “vedere”.
Blepô è usato per designare uno sguardo affrettato che accarezza la vernice dei fatti e dei volti: è riferito a Maria che si ferma a vedere solo la pietra del sepolcro. L’esito? Maria lascia il sepolcro pensando che Gesù sia stato portato via; rappresenta la fase di ricerca nel dubbio. Avrà bisogno di un …supplemento.  Theôreô è usato per designare una visione sempre materiale però più attenta e scrutante: è applicato a Pietro che osserva attentamente le bende e il sudario piegato. L’esito? «E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto» (Lc 24,12); rappresenta la fase di silenziosa rielaborazione interiore. Horaô è usato per designare una visione in profondità, oltre la cortina dell’appariscente materia ed esprime l’atteggiamento di chi è lì sulla soglia, alla vigilia del credere: è il verbo usato per il giovane discepolo che corre con Pietro al sepolcro. L’esito? «Vide e credette»; rappresenta la fase della fede che si sta incamminando verso il “credere senza aver visto” o il “credere per poter vedere”: «Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto  crederanno!”» (Gv 20, 29).
C’è dunque un cammino catecumenale per diventare “illuminati”. C’è un credere germinale o seminale, un credere acerbo, un credere maturo. Un esegeta francese, Jacques Briend, ha scritto: «Il credente deve accettare, se gli viene richiesto, di entrare in questa zona di turbolenza in cui egli oscilla tra la fiducia e il dubbio».
L’itinerario catecumenale.
La guarigione del cieco nato é narrato come una liturgia e come atto ecclesiale. E’ facile riconoscervi un modello di itinerario catecumenale così com’era praticato delle primitive comunità cristiane. Il tutto avviene in 3 contesti:

  • é un evento comunitario che coinvolge altri soggetti oltre il diretto interessato;
  • é un evento dialogico/catechetico dove lo scambio di battute rivela le perplessità e i conflitti che l’annuncio cristiano suscita, ed anche una necessaria progressione dell’adesione di fede del soggetto.
  • é un evento simbolico/sacramentale dove il segno visibile gioca un ruolo efficace ed espressivo: lo sputo era la solidificazione dell’alito di vita (quasi un’acqua battesimale e creativa abitata dallo Spirito); la terra richiamava la creta del Dio vasaio e la terra da cui fu tratto Adamo; lo spalmare era l’unzione di consacrazione; la piscina era l’acqua del Mar Rosso e la tomba pasquale.

Tutto accade dunque in un contesto ad alta densità liturgica. Una vera proclamazione di ciò che accade quando celebriamo di domenica in domenica.
Gesù vede[2].
«Passando Gesù vede un uomo cieco dalla nascita».  Gesù è un veden­te attento, si accorge del mondo che lo circonda. Il suo non è un passare distratto di uno che non si interessa. Ed egli vede dentro, coglie il senso. Dentro le cose egli vede il mistero: «È così perché…­» (v. 3). Il libro dell’Apocalisse dice di Gesù: «Aveva gli occhi fiam­meggianti come fuoco».
Gesù dona la vista con segni e parole.
Egli è anche colui che può donare la vista. Il gesto è evidentemente estremo, come a dire che nessuna forma di cecità gli può resistere. Ma è un gesto anche so­speso, che troverà il suo esito felice solo dopo essersi lavato nella piscina, cioè solo dopo essersi fidato della Pa­rola che lo inviava alle acque battesimali. E’ la Parola che guarisce; Parola solidificata nel segno liturgico e caritativo: senza questa «neanche se uno risuscitasse dai morti» (cf. Lc 16,31) si potrebbe arriva­re a credere.
Gesù è la luce
«Finché sono nel mon­do, sono la luce del mondo» (v. 5). Il gesto miracoloso ha riguardato quel cieco, ma è qualcosa che vale sempre e per tutti. Per questa luce è possibile relazio­narsi, è possibile gustare bellezze, è possibile scansare ostacoli. Luce e vita, se ci pensi, sono sinonimi, così come luce e bellezza, bontà. Non a caso quando nasce un bambino si dice che è venuto alla luce, oppure di una persona santa si dice che la sua vita è stata luminosa. Per quanto impalpabile, come l’aria che si respi­ra, ma per la quale si può vivere, la luce è la condizione stessa del poter vedere.
Gesù va visto
Gesù è anche colui che va visto, cioè riconosciuto nella fede. Il racconto del cieco nato ha il suo vertice non nel momento in cui si compie il miracolo, bensì quando il cieco guarito vede bene Gesù, cioè lo riconosce nella fede. «”Tu credi nel Figlio dell’uomo?… Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo Signore!”. E gli si prostrò innanzi» (vv. 3,38). La fede fa appartenere alla luce stessa, che non sta solo fuori, ma penetra dentro, prende dimora. La fede non solo consente di vedere con occhi nuovi, non solo fa riconoscere la lu­ce al di fuori, ma illumina interiormente. Coltivata, fa ­risplendere a propria volta, trasfigura. Come per Mosè (Esodo 34,29): «Quando Mosè scese dal monte Sinai con le due tavole della Testimonianza, non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio».
Il combattimento per credere
Non faremmo piena giustizia al testo di Gio­vanni se non accennassimo all’ampia parte centrale, riguardante i diversi e incrocianti dialoghi con l’ex cieco e con i personaggi che lo circondano. Questi dialoghi ci fanno intendere che, contraria­mente a una specie di luogo comune, il miracolo resta tutt’altro che evi­dente. L’incertezza sul riconosci­mento del cieco («Alcuni dicevano: “È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”»), introduce un elemento quasi comico per la sua tragicità. Che aumenta quando si tratta di riconoscere chi può aver compiuto un miracolo del ­genere, mai visto «da che mondo è mondo». La gamma di quanto si dice di Gesù si presenta davvero ampia e diversificata: «Uomo che si chiama Gesù» (v.11); «Uomo che non viene da Dio» (v. 15); » «Profeta»(v. 17); «Peccatore» (v. 24); «Uno di cui non si sa di dove sia» (v. 29); «Timo­rato di Dio e che fa la sua volontà» (v. 31); «da Dio» (v. 33); «Figlio dell ‘uomo» (v.­35); «Signore» (v. 36).
Il cammino per arrivare a chiamare col suo titolo più appropriato («Signore») quell’uo­mo «che si chiama Gesù» è tutt’altro che li­neare e scontato e appare anzi come un vero e proprio dibattimento, come un vero e pro­prio conflitto. Arrivare a credere e dunque a vederci chiaro, a vedere dentro, fino a «prostrarsi in­nanzi» (v. 38), è insieme dono, ma an­che frutto di limpidezza del cuore. «Si vede bene solo col cuore», scrive Saint-Exupéry ne Il pic­colo principe.


[1] Movimento sorto nel 730 e durato fino al 787 quando il Papa Adriano I° convince la reggente imperatrice Irene a convocare un concilio a Nicea in cui si deciderà che le icone possono essere venerate ma non adorate e scomunicherà gli iconoclasti.
[2] Elaboro un articolo di Natanaele Fantini




12 marzo 2023. Domenica 3 Quaresima
ABBIAM BISOGNO DI AVER BISOGNO

3 domenica quaresima 2023

Preghiamo. O Dio, sorgente della vita, tu offri Cristo salvatore all’umanità riarsa dalla sete d’acqua viva della grazia che scaturisce dalla roccia; concedi al tuo popolo il dono dello Spirito, perché sappia professare con forza la sua fede, e annunzi con gioia le meraviglie del tuo amore.  Per Cristo nostro Signore. Amen
 Dal libro dell’Èsodo 17,3-7
In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».
Sal 94   Ascoltate oggi la voce del Signore: non indurite il vostro cuore.
Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo,in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5,1-2.5-8
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. [Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica»]. Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

ABBIAMO BISOGNO DI AVER BISOGNO. don Augusto Fontana[1]

Dopo l’incontro nella notte con Nicodemo (l’uomo della Legge di Mosè) e quello con il profeta Giovanni Battista, c’è l’incontro con la donna di Samaria. Due maschi e una donna. Due itinerari di “cattolici praticanti” e un cammino di una donna che rappresenta “gli eretici” e gli “erranti”. Storie di sete, di desideri più profondi.
Protagonista di fondo è l’acqua, origine della vita. Ma c’è acqua e acqua. Come c’è vita e vita. L’evangelista Giovanni ama giocare sugli equivoci che Gesù crea quando pronuncia alcune parole (acqua, vita, nascere…) che hanno bisogno di molto dialogo e ascolto per essere raggiunte nella loro profondità. C’è infatti un’acqua stagnante, morta, inquinata come c’è una vita vegetativa, stanca, rutinaria.
Giovanni sembra aprire il suo Vangelo con l’ossessione dell’acqua, sempre abbinata allo Spirito. Nel capitolo 1 c’è l’acqua del battesimo di Gesù nello Spirito; nel capitolo 2, alle nozze di Cana, si parla di anfore (brocche) vuote e di acqua diventata vino sponsale di gioia; nel capitolo 3, con Nicodemo, c’è la proposta di nascita dall’acqua e dallo Spirito; ora, al capitolo 4, vediamo Gesù e la donna che parlano di sete e, per 9 volte, di acqua; nel capitolo 5, alla piscina di Betzaetà, abbiamo la guarigione di uno della moltitudine di paralitici «essiccati», in attesa dell’acqua prodigiosa che tornerà in scena al capitolo 7: «“Chi ha sete venga a me e beva; chi crede in me, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”.  Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui». Perfino il cieco del capitolo 9 ha bisogno, per guarire, di fango impastato con il fiato umido e sacramentale di Gesù. Nel capitolo 13 Gesù prende dell’acqua e lava/guarisce i piedi dei discepoli. Nel capitolo 19 dal costato di Gesù esce, insieme a sangue, anche acqua.
Cos’è l’uomo se non ter­ra, impastata di acqua e vivificata dal soffio di Dio?: «allora il Signore Dio plasmò  l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo  divenne un essere vivente» (Genesi 2, 7).
E’ venuto il momento di chiedermi se ho sete o quali desideri profondi mi fanno muovere alla ricerca di qualche sorso fresco per la mia arsura di senso e di amore. Sono alla ricerca di qualche linfa che torni ad animare la mia vita «disseccata» come quel paralitico della piscina di Betzaetà? Mi chiedo pure se ho mai ascoltato davvero, una volta nella vita, la Sua domanda: «Ho sete. Mi doni da bere?», così come l’ha ascoltata la donna al pozzo o i presenti sotto la croce: «Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura:  “Ho sete”» (Gv.19,28).
Il pozzo di Giacobbe.
La Samaria fa parte dell’antico regno del Nord, eretico e scismatico. Si era se­parato ai tempi di Geroboamo, nel 930 a.c., ed era stato colonizzato dagli Assiri nel 722 a.C., evento che segnò l’inizio di una religione sincretistica; gli abitanti di quella terra avevano sposato donne assire e ne erano nati figli “meticci”, non di pura razza e religione ebrea. «Bisogna» (dice il testo evangelico) che lo Sposo passi per la Samaria, per incontrare la sposa perduta; «bisogna» che il Figlio vada incontro ai suoi fratelli lontani, per riportarli all’unica famiglia del Padre. Il suo è un viaggio missionario.  In Samaria ai piedi del monte Garizim, esiste ancora il pozzo che la tradizione attribuisce a Giacobbe; nella tradizione ebraica è un Pozzo-Roccia. Per la mistica ebraica, l’apertura del Pozzo fu una delle sei cose create da Dio al crepuscolo prima del grande riposo del Creatore. E’ un pozzo-roccia mobile, mi segue, è contemporaneo a me. A quali pozzi mi abbevero? «Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono l’acqua» (Geremia 2, 13).
Lo sposo e la sposa. 
Gesù stanco per il viaggio si siede vicino a quel pozzo, proprio nell’«ora sesta», quella stessa ora in cui dal fianco aperto del crocifisso sgorgherà sangue ed acqua. L’incontro tra Gesù e la donna avviene senza telecamere nè microfoni. Chi avrà riferito a Giovanni questo dialogo tra la donna e Gesù, visto che non c’erano testimoni e non esistevano le “intercettazioni ambientali”? Che Gesù le parli, susci­ta meraviglia a lei stessa, oltre che ai discepoli (cf. vv. 9.27). Un rabbino non parlava con una donna per strada; anche alla propria moglie si rivolgeva solo nell’intimità della casa. La richiesta di Gesù «Dammi da bere» pare strana alla Samaritana. Suona come l’avance di uno che vuole abbordarla. Ha capito bene. È proprio l’inizio di un corteggiamento. Ai bordi di quel pozzo, Giacobbe ave­va corteggiato Rachele (Gen 29,9ss; cf. Gen 24) e Mosè aveva abbordato Zippora (Es 2,10-22). Ma Gesù, a differenza da loro, non esibisce forza e seduzione. Stanco e abbandonato sul pozzo, manifesta la propria debolezza. Ha sete anche lui, come la donna che viene ad attingere.
Anche qui, come e più che altrove, ogni parola, quando non è allusione nasco­sta, è equivoco palese. I fraintendimenti sono fondamentali per intendersi. Aprono infatti l’orizzonte al diverso: se si è disposti alla novità, i fra-in-tendimenti sono il principio dell’in-tendimento-fra le persone. Non bisogna quindi averne paura: anche se possono provocare chiusura, in difesa o in attacco, sono in realtà luogo fecondo di in­telligenza, di amore, di vita.
Oltre il pozzo con l’acqua materiale c’è anche quel pozzo profondo che è la donna e il suo cuore, mi­stero abissale. Così, oltre l’acqua che soddi­sfa la sete fisica, c’è un’altra acqua che la donna, pur avendo avuto sei uomini, anco­ra non ha trovato. È l’acqua della quale pure Gesù ha sete: l’amore tra Sposo e spo­sa. Gli equivoci, dopo l’acqua, riguardano appunto i mariti e il marito (vv.16ss); si tra­sferiscono in seguito sui vari luoghi e modi di adorare Dio (vv. 20ss), per raggiungere infine il cibo, la mietitura e il raccolto (vv. 27ss). Acqua e pane, amore e Dio sono i biso­gni fondamentali che ognuno conosce e sui quali ci si fraintende. Ognuno infatti ne ha un’esperienza limitata e propria, diversa da quella dell’altro. Un botanico classifica la rosa, un giardiniere la coltiva, un fiorista la vende … e un innamorato la dona alla sua donna. La quale, a sua volta, non la mangia né la classifica né la coltiva né la vende: ne gioisce come segno di ciò che dà luce alla sua esistenza. Quante diverse reazioni può ispirare la stessa rosa!
Il racconto è una storia d’amore, un dialogo nel quale Gesù vuol portare la don­na a conoscere il suo dono. Lo Sposo è in viaggio: viene da lontano, in cerca della spo­sa. Il racconto è un dialogo tra la Gesù-Parola e noi ascoltatori, raffigurati dalla donna. Questa ha cambiato vari mariti (5+1), ma non ha ancora incontrato lo Sposo, di cui pure ha sete. Numerose sono le allusioni all’ AT. In primo piano sta il profeta Osea, il quale dice che il Signore attirerà e condurrà nel deserto la sua sposa infedele, parlerà al suo cuore e le restituirà il canto della sua giovinezza. Allora essa lo chiamerà: «Mio Sposo» e dimenticherà il nome degli idoli ai quali si è prostituita. La non-amata sarà fi­nalmente amata; il «non-mio-popolo» sarà chiamato dal Signore: «popolo mio» e gli risponderà: «mio Dio». Così profetava Osea, in Samaria (cf. Os 2,16-25).
Il racconto è un cammino graduale che culmina nel riconoscimento di Gesù come Cristo. La donna viene al poz­zo e Gesù inizia il dialogo con lei. Quando essa si apre al dono, inizia il di­scorso sui vari mariti che la donna ha avuto e non l’hanno dissetata: «Gesù non aggredisce la donna dai cinque mariti, la incontra senza farla arrossire. Non dice, come i predicatori che hanno fretta di disamorarci del mondo e della vita: quest’acqua non è buona, gli amori umani sono cattivi. Non dice neppure: quest’acqua non ti dà nessun sollievo. Dice solo: se bevi di quest’acqua avrai ancora sete, svelando che fra la nostra sete profonda e l’acqua dei pozzi umani la distanza è incolmabile. Gesù, e il cristianesimo vero, non disprezzano e non negano le brevi gioie della strada. Non è diminuendo l’uomo che s’innalza Dio. Il futuro nuovo non verrà con il rafforzare divieti e condanne. ma camminando da una piccola sete verso la grande sete, da una piccola brocca abbandonata verso la sorgente stessa. Solo l’incontro cambia la vita, non la legge. In principio è l’incontro: incontro con chi ti parla come nessuno ha mai saputo fare (mi ha detto tutto…), con il Dio che ha sete che noi abbiamo sete di lui, ha desiderio del nostro desiderio»[2].
Abbiamo bisogno di aver bisogno[3].
Nel deserto si impara ad aver sete. L’acqua la si può chiedere solo a Dio. L’atteggiamento più naturale è quello descritto dal Salmo: «Sono davanti a te come terra riarsa» (142,6). Un proverbio dei nomadi suggerisce: «Domanda il latte alla tua cammella, un figlio alla tua donna. Ma chiedi l’acqua solo a Dio». Gli Ebrei, apparentemente, l’hanno chiesta a Dio. Ma l’hanno chiesta nel modo, nel tono sbagliati. Protestando, mormorando, rimpiangendo la schiavitù in Egitto, pentendosi di essersi im­barcati in quel cammino di liberazione. Hanno tentato, messo alla prova Dio: « Il Signore è in mezzo a noi, sì o no? ».  La loro è stata una sfida più che una richiesta. Gli Ebrei, nel deserto, avevano bisogno dell’acqua. Ma avevano bisogno, soprattutto, di fidarsi. Pure la donna di Samaria aveva bisogno di qualcos’altro. An­che se fingeva di non accorgersene, e si rifiutava di confessarlo. Viene al pozzo, nell’ora più calda, con la sua brocca. E trova lì un uomo, che ha sete pure lui, è stremato dalla stanchezza del viaggio, ha fame, e non dispone neppure di un secchio per attingere acqua. Ma anche Gesù ha bisogno di qualcos’altro. Lui ha sete di dissetare. In quest’incontro Gesù esplica la sua tattica preferita. Portare la creatura a prendere coscienza del suo bisogno reale. Far sca­turire un desiderio, approfondire un’esigenza, rendere consape­vole di ciò che non ha, mettere a nudo la sua povertà, far esplodere una richiesta.
…Se tu conoscessi il dono di Dio … Gesù non si limita a soddisfare le domande e le attese dell’uomo. Se tu sapessi di che cosa hai veramente bisogno…. Ti aggrappi al superfluo, per negarti il necessario. Insomma, hai bisogno di aver bisogno.
…Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete … Era quello che Gesù aspettava con ansia. Portarla a chiedere, a riconoscersi bisognosa, insoddisfatta.
Anche se lei chiede ancora quest’ acqua, Gesù le dona un’altra acqua. Il dono di Gesù attenua l’aridità, ma sveglia, stimola, accre­sce il desiderio. Una volta che avrai gustato di quest’acqua, non ti rivolgerai più ad altri pozzi per estinguere la tua sete. Capirai che sono inadeguati, deludenti, inadempienti.
Gesù ha condotto la donna a formulare le sue richieste. Ma poi le ha dilatate. Ha preso la donna, prigioniera delle proprie esigenze limitate, per condurla altrove, al di là delle sue attese. Anche lui assicura l’acqua, come ha fatto Dio nel deserto. Ma non si tratta di percuotere la roccia con il bastone e far zampillare l’acqua. Gesù scava una sorgente all’interno di un individuo. «L’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua … » Importante notare il particolare «in lui». Non qualcosa di esteriore all’uomo. La fonte che assicura vita e fecondità è aperta dentro a ciascuno. Il credente non è uno a cui Dio dona – come a Mosè – una bacchetta magica. Non ha bisogno di andare a cercare o elemosinare all’esterno.
Il pozzo è scavato dentro di me. Resta da domandarmi se a Dio non riesca più facile spaccare la roccia e farvi zampillare l’acqua o aprirsi un varco nel mio cuore.


[1] S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, I°, EDB
[2] Ermes Ronchi, Sorgente di fecondità, 03/03/02 Tratto da Qumran2.net | www.qumran2.net
[3] A. Pronzato, Parola di Dio, anno A, Gribaudi




5 marzo 2023. Domenica 2a Quaresima
GRAZIA NELLA DIS-GRAZIA.

2° Domenica Quaresima A – 5 marzo 2023

Preghiamo. O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito, perché possiamo godere la visione della tua gloria. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro della Gènesi 12,1-4
In quei giorni, il Signore disse ad Abram:«Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
Salmo 33  (32)  Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1,8b-10
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.
Dal Vangelo secondo Matteo 17,1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». 

GRAZIA NELLA DIS-GRAZIA. Don Augusto Fontana

Un monaco diceva: «Dio è più vicino ai peccatori che ai santi. In paradiso, tiene ogni persona per un filo. Quando pecchi tagli il filo. Allora Dio lo riannoda…e così facendo ti avvicina un po’ di più a lui. E ancora i tuoi peccati tagliano il filo…e con ogni nodo Dio continua a tirarti sempre più vicino a sé».[1]
Paolo scrive nella sua lettera di oggi: «Dio ci ha salvati non in base alle nostre opere, ma secondo la sua grazia che ci é stata data in Cristo». Nel linguaggio comune il termine ‘grazia’ rimanda:

  1. a una persona («é davvero una persona graziosa»),
  2. a ciò che dà forza e sostegno («senza la grazia di Dio non ce l’avrei fatta»),
  3. a ciò che é invocato per cambiare un evento naturale («Signore fammi la grazia di guarire»),
  4. a ciò che sospende una condanna a morte o l’ergastolo («ha ottenuto la grazia dal capo dello stato»).

Questi significati ci possono introdurre al significato biblico della grazia: la persona si coglie alla presenza di un Tu dal quale si scopre amato e accolto incondizionatamente.
Nel Vangelo di oggi questi termini – grazia e benedizione – diventano icona nell’evento della Trasfigurazione. E anche noi oggi, siamo chiamati ad entrare come protagonisti dell’evento. 

Prima di tutto é una questione di sguardo.

Gesù, nella sua umanità quotidiana e debilitata, è il luogo scelto da Dio per rivelarsi, come anticamente aveva scelto un cespuglio da cui rivelarsi a Mosè: “Il Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto che non si consumava” (Esodo 3). L’albero della croce non poteva che appartenere alla discendenza evoluta di quel cespuglio di migliaia di anni prima.
I discepoli della trasfigurazione sono gli stessi che avevano raccolto la tradizione orale di quanto era successo sotto la croce: “Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo disse: <Veramente quest’uomo era Figlio di Dio>” (Marco 15,38-39). Anche sulla croce, dunque accade una “trasfigurazione”, ma non è il crocifisso che si trasfigura bensì gli occhi del soldato pagano. La croce diventa diafana ed epifanica, si lascia attraversare dallo stupore e lascia intravedere la risurrezione in atto: «Questo ucciso è Dio!». Questa trasfigurazione dello sguardo era appena successo nell’orto del Getsemani: “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno, tuttavia restarono svegli e videro la sua Gloria” (Luca 9,32). La Gloria, nel linguaggio biblico, è il termine che descrive la presenza percepibile di Dio, sia nella storia che nella coscienza. La Trasfigurazione è l’intuizione dell’altra faccia di Gesù come si esprime il Salmo 27: «Il tuo volto, Signore io cerco. Nella debolezza del mio peccato non nascondermi il tuo volto».
L’Eucaristia domenicale è il tentativo di stare sul Tabor per sperimentare e celebrare la grazia del volto e della tunica di Gesù (e nostre) che non perdono la loro struttura pur sotto gli schiaffi e le lacerazioni del nostro male. Quel che è accaduto durante quelle ore di intimità fra i discepoli e Gesù, è che loro si sono messi a guardarlo, ad ascoltarlo, a vederlo come sempre era, fra loro, ma come essi mai se n’erano accorti: nella sua relazione filiale col Padre. La trasfigurazione non è un prodigio spettacolare: è lo svelamento di una realtà permanente alla quale avevamo dedicato, fino a quel momento, sguardi assonnati e increduli. Paolo nella sua Lettera ai Filippesi 3, 20-21, dice: « Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per configurarlo al suo corpo glorioso». 

Grazia nella dis-grazia.
Grazia è sempre il «di più» che succede nella gratuità insperata. Quando diciamo grazia diciamo sempre un eccesso. Gesù eccede non con i sani, ma con i malati e lo fa nel contesto di una organizzazione religiosa che escludeva impuri e sciancati, infecondi e miscredenti. La grazia crea situazioni kairologiche (“opportunità provvidenziali”) anche negli spazi e nei tempi più maledetti. Cristo – diciamo nella formula del Credo apostolico – é disceso agli inferi; Paolo dirà di più: «si é fatto maledizione» (Galati 3,13) affinché non ci sia situazione in cui possiamo crearci l’alibi di una sua assenza o lontananza .
Penso che Dio non si senta a proprio agio in questa nostra storia dove la sua volontà é sconfitta o sconosciuta. La Shekinà (la presenza) di Dio é in esilio. Celebrare l’Eucaristia domenicale vuol dire far tornare Dio dal suo esilio, riportare a casa sua la sua Gloria. «Se uno mi ama il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv. 14,23).
Il dramma nostro è il dramma di Sara, moglie di Abramo : «Sono già avanzata negli anni e non ho ancora concepito». La nostra sterilità è il nostro dramma descritto in Isaia 26,18 : “Abbiamo sentito le doglie del parto ed invece era solo mal di pancia”. Dice S. Paolo:” Il creato è stato condannato a non avere senso, ad essere sotto il potere della corruzione”. Siamo una generazione che ha abortito. Come dice il profeta Osea e il Cantico dei cantici, Dio è come uno sposo che va a prelevare la sua sposa che si sta prostituendo agli idoli, per portarla nel deserto e parlarle al cuore come ai tempi del fidanzamento. Come oggi fa con i discepoli sul Tabor. Come fa di domenica in domenica con noi.
Paolo, nelle sue Lettere, medita su questo mistero: i giudei avevano tentato di diventare ” figli di Dio” imponendosi la circoncisione. Paolo nella sua Lettera ai Galati 6,14-16 dice : ” Perciò non conta nulla essere circoncisi o non esserlo. Ciò che importa è essere una nuova creatura “. Gesù aveva detto a Nicodemo “ Chi non rinasce non entrerà nel Regno dei Cieli”. Per i giudei chi si convertiva al giudaismo (i “proseliti“) veniva designato come “nuova creatura” a motivo del suo ingresso nella Comunità di Israele: per lui non esisteva più il proprio passato; perfino i legami contrattuali o matrimoniali precedentemente assunti decadevano. Questo cambiamento di condizione era più giuridico che morale; era una ” nuova sistemazione legale”. Per Paolo, invece, è molto di più: Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me ” (Galati 2,19-20), ” Se uno è in Cristo è una nuova creatura” (2 Corinti 5,17).
La grazia è sempre accompagnata da una minaccia che è la dis-grazia.  Può darsi lo scontro, la chiusura, il rifiuto del dialogo, l’assolutizzazione in se stesso. Per questo l’uomo è sempre un essere minacciato. Egli può essere contemporaneamente dis-graziato e graziato; omnis homo Adam, omnis homo Christus (ogni uomo è Adamo, ogni uomo è Cristo), scrive S. Agostino (En. in Psal. 70,21); può essere Cristo e contemporaneamente Anticristo.  La nostra esperienza concreta è sempre paradossale. L’amore di Dio che agisce nell’uomo peccatore, provoca una specie di crisi di crescita provocando una conversione, una presa di posizione, un mettersi in viaggio come Abramo. La grazia come crisi mi “giudica”, mi costringe a decidermi, a tirarmi fuori dal mio torpore. La crisi non é una situazione patologica della vita, ma la sua normalità.

 Rendere grazie alla grazia.
«Com’é bello stare qui…!. Alla grazia corrisponde il “rendere grazie“, cioè fare Eucaristia.  Noi siamo spesso più brontoloni per ciò che ci manca che grati per ciò che ci vien dato; siamo più spesso mendicanti per ottenere che riconoscenti per quanto ottenuto. La riconoscenza, la gratitudine, il dire grazie è merce rara nella fitta rete dei rapporti umani e religiosi. E quando, a volte, diciamo grazie o ricambiamo un favore lo si fa per sdebitarci e chiudere il conto o per garantirci un eventuale successivo intervento da parte di chi ci ha fatto un piacere. E questo sia con gli uomini che con Dio. Dire “grazie” è uno dei gesti fondamentali della vita di relazione ed è alla base dell’opera educativa e formativa della personalità. E’ il modo più vero per riconoscere che siamo esseri in dialogo e in interscambio. Quando si è acquisito questo diffuso senso della riconoscenza non ci basta più “dire grazie” e si passa alla “azione di grazie” che è uno scambio concreto di gesti e di servizi.
Salire e scendere
Nell’Evangelo di oggi c’è un doppio movimento: si sale verso l’alto monte e poi si scende. Salire, per Gesù, non è, come vorrebbe Pietro, andare alla ricerca di uno spazio comodo al riparo dai problemi, una fuga dall’impegno nel mondo. Per Gesù salire significa cercare il volto di Dio, il dialogo con Lui, concentrarsi sull’essenziale, sottrarsi alla cattura delle immediatezze, rivedere l’intreccio tra preghiera e azione. Dio cerca noi, ma noi siamo sollecitati a cercare il Suo volto, la Sua parola, la Sua presenza. Oggi è tanto difficile quanto necessario ritagliarsi momenti per “salire sul monte in disparte”. Soprattutto è controcorrente.  “Beati quelli che cercano il Signore con tutto il cuore” (Salmo 119,2),  “Dio, Dio mio, io Ti cerco fin dall’aurora; di Te ha sete l’anima mia; verso di Te anela la mia carne, come una terra deserta, arida, senz’acqua” (Salmo 63,2).
Il secondo movimento è la “discesa dal monte”. Gesù scende verso la città, verso la vita quotidiana, verso l’ora difficile che si avvicina, ma portando, nelle pieghe del cuore, la rivelazione del Tabor.


[1] A. de Mello UN MINUTO DI SAGGEZZA, Paoline 1987, pag. 141




26 febbraio 2023. Domenica 1 Quaresima
LA MIA VITA RIVELA IN QUALE DIO CREDO

1a dom.quaresima A

Preghiamo. O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro della Gènesi 2,7-9; 3,1-7
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Salmo 50  Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5, 12.17-19
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dal Vangelo secondo Matteo 4,1-11
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

LA MIA VITA RIVELA IN QUALE DIO CREDO. Don Augusto Fontana
«L’uomo contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire “me ne pento” o “mi dispiace”»[1]; così scrisse Giovanni Paolo II° nel 1984. Il problema vero sembra essere costituito dal fatto che oggi molti di noi, me compreso, non si sentono né santi né peccatori. Dall’ossessione del peccato si è passati alla presunzione di innocenza. «Se diciamo che non c’é in noi il peccato, inganniamo noi stessi e non siamo nella verità» (1 Gv. 1,8). Certo. Anche se all’origine della mia storia non c’è un “peccato originale”, ma una “Grazia originale”.

  1. La discussione, la vertenza, l’obiezione.

Isaia 1,18:«Dice il Signore “Su, venite e discutiamo“». I 3 testi liturgici di oggi sembrano evidenziare un confronto serrato sostenuto da 3 “Ma“:
Ma il serpente disse alla donna…Ma il dono di grazia é più grande della caduta…..Ma Gesù rispose al diavolo….
Dio tenta di sedurre gli uomini verso di sè, ma sotto l’albero l’uomo e la donna accettano l’altra seduzione. L’albero divenuto croce rappresenta la fedeltà di Dio: «tutti ci eravamo allontanati da te, ma tu ti sei fatto vicino a tutti perchè quelli che ti cercano ti possano trovare» (Pregh euc. IV).
L’Eucarestia di oggi e la Quaresima celebrano il ma di Dio sulla nostra vita; sono tempi profetici per visitare le nostre obiezioni a Dio e gioire di quella obiezione che Dio ci ha mandato in Cristo. Veniamo stanati dalla neutralità impossibile. Sono l’occasione per restare nella vertenza, come Giacobbe, Giobbe, i discepoli di Emmaus. L’obbedienza della fede non é obbedienza muta ma dialogica.

  1. Dimmi cosa pensi del peccato e ti dirò il Dio in cui credi. E viceversa.

“Ogni medaglia ha il suo rovescio”; ” Non c’é rosa senza spine”: alcuni saggi proverbi popolari insegnano che ogni vicenda umana é talmente complessa da non riuscire a parlare in profondità di una cosa senza guardare, almeno con la coda dell’occhio, il suo rovescio, la sua altra metà o il suo profondo. Non si può parlare evangelicamente del peccato stando lontani dall’Ultima Cena, dalla croce, dal mattino di quel primo giorno dopo il sabato o della Pentecoste.
Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo e dopo il battesimo. C’é un modo cristiano e rivelato di parlare del peccato. E c’é un modo ateo: un modo che si basa su valutazioni della maggioranza o da moralismi che sono più tradizioni di uomini che volontà di Dio. È facile l’equivoco: ci possono essere azioni da noi considerate sacrosante e che sono peccato secondo Dio, come per esempio ci ha detto Gesù: il culto lontano dalla solidarietà (Mt.5,23). E’ stato detto che il nostro stile di vita rivela in quale Dio crediamo e che l’immagine che abbiamo di Dio influenza le nostre scelte quotidiane.
Mentre parliamo del peccato stiamo parlando di Dio….un Dio che si manifesta diverso da come lo immaginiamo. Quali sono le raffigurazioni negative ricorrenti e che anche oggi potremmo rischiare di equivocare nelle letture bibliche di oggi?

  • Il Dio che giudica e punisce, che conduce a sè gli uomini con la paura e che é irremovibile nel punire ogni mancanza, incurante della fragilità dell’uomo. E’ il Dio-poliziotto.
  • Il Dio nemico della vita, che vuole il sacrificio per essere placato o che esige castrazione del lato positivo e piacevole della vita.
  • Il Dio contabile, che tiene conto di ogni sbaglio e li registra per il rendiconto finale. E’ il controllore ossessivo e pedante, il ficcanaso fastidioso, una piovra soffocante.
  • Il Dio efficiente, cottimista del bene. E’ il Dio che dice “quanto più produci in opere buone, tanto farai carriera nell’eternità”.

Ed ecco il “Ma” della Santa Scrittura:
«Ma tu, Signore, Dio-di-pietà (misericordioso:El-rahom), compassionevole (hannon) lento all’ira e pieno di amore (hesed) e di  fedeltà (hemet), volgiti a me e mostrami la tua compassione (hanneni): dona al tuo servo la tua forza, salva il figlio della tua serva». (Salmo 86,15-17;cfr. anche v. 5; Es. 34,6).  Quando Paolo, nella sua lettera a Tito, scrive che in Gesù «è apparsa la grazia di Dio apportatrice di salvezza per tutti gli uomini», coglie e rivela il cuore del mistero cristiano. Gesù  è “l’incarnarsi” di questa misericordia che mette in discussione la logica mondana dello scambio, della simmetria, della reciprocità, del ‘dare per ricevere’, dell’amare i propri simili e dell’evitare i dissimili. Paolo, in modo scandaloso, dirà che ogni debolezza é grazia e mi mette in grado di lodare Dio. Per questo la nuova liturgia della Riconciliazione chiede di confessare la fede e la lode, prima ancora che confessare il peccato. Affinché sia chiaro che miseria e misericordia non fanno mai monologo, ma duetto: «Ma il dono di grazia é più grande della caduta…..».

  1. Quale peccato allora?

Solo ora sono in grado di parlare di peccato. “Peccato” è un termine che la lingua ebraica dell’ Antico Testamento chiama con sfumature terminologiche diverse per indicarne la complessità di ciò che siamo, ma anche di ciò che non vorremmo essere: (hata’ = mancare l’obiettivo o un bersaglio; pasa’ = ribellarsi contro qualcuno, attentare alla sua dignità, violare un patto; ‘awon = essere storto, camminare su un sentiero sbagliato; rasa’ = essere senza una legge, essere ingiusto). Tutto questo esce dalla filigrana delle letture bibliche di oggi da cui evidenzio 3 coordinate:

  1. Dio e l’altro. L’albero della vita. Il peccato prima di essere una serie di trasgressioni è la rottura o l’inquinamento di una relazione. Desolidarizzare con il creatore sfalda la relazione di mutuo aiuto tra l’uomo e la donna, tra fratello e fratello, tra uomo e creazione. Gesù dirà: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo essere vivente e il prossimo tuo. Qui sta tutta la Torà e ogni profezia». Nell’Eden Dio soffia nell’uomo l’alito della vita e l’uomo diventa essere vivente. Poi consegna 2 alberi di cui uno è l’albero della vita. Matteo: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma della parola di Dio». Noi crediamo in un Dio che ama la vita in tutta la gamma dei suoi significati e vuole che la vita sia vitale e significativa tanto da prometterci che é eternizzabile. Peccato é inquinare, turbare, dominare, impigrire, spegnere, far soffrire l’alito di vita, l’albero della vita, e tutto ciò che nutre la vita dell’uomo ben oltre la semplice sopravvivenza. E Lui é sempre lì ad obiettare sulle nostre scelte, a mandarci profeti per servirci la Parola di vita, lo Spirito della vita, i suoi comandi che danno vita, la beatitudine della pacifica convivenza, il pane di vita eterna. «Io sono la vita…Io sono la vite…» dice Gesù.
  2. L’albero del bene e del male. Sia nel racconto della Genesi che nella tentazione di Gesù emerge chiaro il ruolo della Parola di Dio, ma si evidenzia anche come é difficile porsi nel versante giusto di ascolto. La Parola di Dio può essere utilizzata dal serpente e dal tentatore, cioè é strumentalizzabile. Anche i demoni, dicono gli evangelisti, riconoscevano che Gesù era il Cristo. C’é un uso utilitaristico della Parola del Signore. E’ possibile l’equivoco. «Ma sta scritto anche…» dice Gesù.
  3. Il diavolo o il serpente: per dire che ciascuno di noi non é l’inventore del male e delle maledizioni. L’uomo é preceduto dal limite e dalla malizia, si trova in una rete di relazioni attraversate dal male, dalla malizia. Noi nasciamo peccatori. Il salmo 51 dice: «Ecco, colpevole io sono nato, peccatore mi ha concepito mia madre».  Enzo Bianchi commenta: «Noi diciamo che i bambini sono innocenti. No. I bambini sono un fascio di peccato e solo diventando grandi noi abbiamo meno peccati. Un bambino è un fascio di sentimenti opachi, caotici, violenti, aggressivi, fusionali. E man mano che avanziamo nella vita noi razionalizziamo le forze caotiche che ci abitano e sempre più cerchiamo di diventare puri. Ma l’impuro per eccellenza è il bambino. Non è vero che dietro le spalle abbiamo l’innocenza e la bella virtù. Noi possiamo arrivarci forse in vecchiaia. Noi nasciamo con questa attitudine al peccato, con questa inclinazione al male, all’egoismo, alla aggressività». Primo Levi nel cap. 2° de “I sommersi e i salvati” propone il concetto di “zona grigia” é cioè quello spazio occupato da una grande massa che svolge, volente o nolente, mansioni necessarie al delitto, compreso l’omissione. La zona grigia rappresenta la NORMALITA’. Non è sinonimo di colpa, ma neppure di innocenza. E’ il luogo della “banalità del male”, come dice Hanna Arendt. Spesso il crimine é l’organizzazione di una catena di innocenze individuali, che si nutre della normalità, dei riflessi condizionati dell’individualismo e della paura di denunciare e intervenire, di piccole decisioni e calcoli che possono oliare il sistema repressivo pur rendendo la partecipazione alla violenza un qualcosa di asettico ed ignaro del sangue e della morte. Morendo lasceremo in eredità un po’ di bene, ma anche un po’ di male. Ciascuno di noi fa esperienza del male che lo porta là dove non vorrebbe andare (Paolo). I documenti ecclesiali parlano di strutture di peccato. Adamo ed Eva rappresentano una complicità che era stata creata per il mutuo aiuto e che si corrompe nella complicità per farsi del male. Anche questo é peccato. Eppure interviene il “Ma” di Dio: Ma il dono di grazia é più grande della caduta…..

[1] Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia  n. 26, Giovanni Paolo II, 1984




19 febbraio 2023
STRAORDINARIO

7° domenica A

Preghiamo. O Dio, che nel tuo Figlio spogliato e umiliato sulla croce, hai rivelato la forza dell’amore, apri il nostro cuore al dono del tuo Spirito e spezza le catene della violenza e dell’odio, perché nella vittoria del bene sul male testimoniamo il tuo Vangelo di pace. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 Dal libro del Levìtico 19,1-2.17-18
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».
Salmo 103 (102)  Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia,  quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe,  guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.
Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 3,16-23
Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
Dal Vangelo secondo Matteo 5,38-48
Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Il fattore «S». Don Augusto Fontana

«S» come Straordinario: «E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?». La vocazione del cristiano è una vocazione, a ciò che è insolito, niente affatto normale, allo straordinario. Siamo chiamati a non seguire l’andazzo comune, a superare abbondantemente le misure del buon senso e del calcolo giudizioso. Una vertiginosa chiamata ad andare oltre il possibile: essere immagine e somiglianza di Dio (perfetti [adulti] come il Padre dei cieli).
“Straordinario”: il Vangelo di Matteo usa il termine greco “perissòn” = di più. Che non significa “più degli altri” ma “più del dovuto”. Ciò comporta il superamento di una logica di pura reciprocità e invita ad una logica di sovrabbondanza[1]. Non, dunque, la meritocrazia, ma la gratuità.
L’Evangelista Matteo, dopo averci regalato l’inno delle Beatitudini, illustra – (“Vi è stato detto…ma io vi dico”) con relativo commento e esemplificazione – il «nuovo» modo di praticare la giustizia (la volontà) di Dio: “Se la vostra giustizia non sarà di più (ancora una volta usa “perissòn”) di quella degli scribi e dei farisei…”. Si tratta non di antitesi ma di “intensificazione”, come abbiamo meditato domenica scorsa.
La Liturgia di domenica ci riserva le ultime due intensificazioni: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico…. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico…».
Le Beatitudini sono bellissime, poetiche, commestibili. Ma quando incominciamo a masticarle succede quello che è successo al veggente Giovanni: «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Apocalisse 10, 10).
Scrive don Pronzato[2] che siamo peggio degli struzzi che digeriscono i sassi: «Noi trangugiamo senza fiatare anche i macigni. E non avvertiamo neppure un leggero fastidio, un lieve mal di stomaco. Prendiamo la liturgia di oggi. Di macigni ce ne rifila diversi. Paolo ci avverte che siamo delle chiese viventi (“non sapete che siete tempio di Dio?”). Siamo santuari itineranti. E ci avverte che bisogna dare le dimissioni dal club dei sapienti di questo mondo e chiedere l’ammissione a quello degli stolti perché Dio impiglia i sapienti nella loro astuzia e li ingarbuglia nelle loro sottigliezze. Un altro macigno di grosse proporzioni ci raggiunge dalle remote lontananze del Levitico: “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo”. E un macigno ancora più imponente ci rotola addosso dalle pendici di quella Montagna: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro dei cieli”. Certi discepoli, una volta, dalle parti di Cafarnao, hanno avuto la lealtà di protestare: “Questo linguaggio e duro. Chi può sopportarlo?” (Giovanni 6,60). E hanno abbandonato Gesù perché quel “pane disceso dal cielo” risultava loro indigesto. Noi, invece, abbiamo imparato le buone maniere, non protestiamo, non diciamo niente, non ci stupiamo di nulla, accettiamo tutto. Riusciamo a sopravvivere dopo tutto quello che la Parola di Dio ci scaraventa addosso».
Io mi sento in condizione di peccato permanente e strutturale ed il radicalismo cristiano non appartiene alla mia condizione di vita. Forse sono solo capace di piccoli gesti, di conati di vita nuova, di balbettii incipienti, di umili assaggi, di “mordi e fuggi”. Eppure anche a questi sono chiamato.
Beatitudini praticabili. Da chi?
Matteo e Luca intendono primariamente fare un affresco del volto e della vita di Gesù. Ma ovviamente poi ci hanno consegnato anche il profilo di ogni comunità cristiana e di ogni singolo cristiano. Ma forse il discorso della montagna ha, nella sua utopia, anche una destinazione universale.
Abbiamo come due cerchi concentrici di uditori: i più vicini a Lui sono i discepoli, più in là stanno le folle. Quelli che sentono bene le Beatitudini sono i discepoli. Noi.
Il cardinal Martini nel suo libro “Il discorso della montagna” (Mondadori) privilegia l’indirizzo dell’esegeta Umberto Neri: «Gesù, dopo aver portato il grande annuncio del regno, intende rivolgersi direttamente a coloro che hanno accolto le sue parole nel modo più serio abbandonando tutto e seguendolo. Il discorso dunque non è genericamente rivolto all’umanità. È un discorso rivolto alla Chiesa. È anche rivolto a quelli – e sono tutti gli uomini – che vogliono entrare nella chiesa. Solo coloro che hanno già fatto la scelta del Regno possono capire pienamente il discorso».
Il Discorso della Montagna è molto serio e non si può snobbare. Di fronte alla radicalità delle proposte di Gesù siamo tentati di cercare degli accomodamenti: “porgi l’altra guancia“, ma bisogna un po’ anche difendersi. Le beatitudini come anche la risurrezione di Gesù sono un problema-limite per noi. Di fronte a tali problemi-limite non posso discutere tranquillamente senza sentirmi obbligato a prendere posizione: o lo prendo sul serio o lo snobbo. Naturalmente vanno interpretate. Sta a noi di applicarle alla nostra realtà. Martini dice di non condannare lo sforzo interpretativo e porta l’esempio dei versetti 29 e 30 del capitolo 5: “se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via“. Parole che vanno evidentemente interpretate perché sono espresse in un linguaggio orientale paradossale. Questo non toglie che il testo vada preso anzitutto sul serio. Sono pagine che ci scuotono.
Il  “prossimo” e il “nemico”.
Vi è stato detto occhio per occhio, dente per dente…“. Gesù fa riferimento alla famosa legge del Taglione (Es. 21,23-25) che è una delle leggi più antiche del mondo. Fu trovata già nel Codice di Hammurabi, un re di Babilonia, vissuto at­torno all’anno 1700 a.C. Cinquecento anni dopo, anche Mosè diede al popolo d’Israele una serie di prescrizioni e norme. Tra queste vi incluse quella che chiamiamo “Legge del Taglione”: se uno aveva fatto “una tal cosa” (talis, in latino), gli si infliggeva uguale castigo.
In Oriente era molto estesa la vendetta personale e le rappresaglie erano sempre molto maggiori delle offese ricevute. In una lite, ad esempio, se una persona aveva ucciso una pecora al suo vicino, questi poteva abbattere tutto il gregge dell’altro. Questo spiega il senso della Legge del Taglione, data da Mosè per porre freno a tali abusi e per stabilire il principio che la vendetta non deve mai eccedere l’offesa.
Meno diffusa è la conoscenza di altre prescrizioni che attenuano questa Legge con indirizzi di comportamenti più umani anche verso il nemico: «Se incontrerai un bue del tuo nemico o un suo asino disperso, glielo riporterai. Se vedrai un asino di chi ti odia giacere sotto il suo peso, astieniti dall’abbandonarlo: lo slegherai con lui» (Es 23,4-5). «Quando il tuo nemico cade, non gioire, quando vacilla, il tuo cuore non esulti!… Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare e se ha sete, dagli da bere» (Proverbi 24,17; 25:21). Ovvero è il loro “stato di necessità” che li porta ad essere prossimi.  Perché di fatto era previsto un trattamento speciale per i compatrioti e correligionari, ma l’astio, il disprezzo e l’intolleranza era d’obbligo per pagani e impuri.
Matteo offre quattro esempi di risposta adatta al male con il bene; non sono comandi da attuare alla lettera perché sarebbero quantomeno grotteschi o paradossali: offri l’altra guancia allo schiaffo, se uno ti ruba la giacca tu dagli anche le braghe, se uno ti sequestra per 1 km tu esagera e fanne due, offri sempre un prestito a chiunque te lo chiede.
Ma non è finita. Gesù continua a portare le sue novità nel microcosmo della vita quotidiana: prega per quelli che ti fanno del male, non limitarti ad amare quelli che ti amano, non salutare soltanto i tuoi consanguinei di fede, di razza o di galateo.
Gesù cancella così dal vocabolario dei suoi discepoli la parola nemico per far restare solo la nuova parola: prossimo. Sull’esempio di Dio che fa sorgere il sole sopra malvagi e buoni, giusti e ingiusti e “non fa distinzione di persona” (Romani 2,11). Come Gesù schiaffeggiato dalla marmaglia dei soldati (Mt 26,67; Gv 18,22): «Ho presentato il dorso ai flagellatori,  la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso» (Isaia 50,6).
Questo straordinario Gesù da buon samaritano si fa prossimo a me e mi cura, benchè straniero e nemico (Lc 10,34) e poi, quando gli abbiamo inchiodato quelle sue mani terapeutiche, non gli è rimasto che l’ultimo fiato e l’unica cosa possibile: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». (Luca 23,24).


[1] A. Mello EVANGELO SECONDO MATTEO,  Ed. Qiqajon, Bose.
[2] Pronzato PAROLA DI DIO, Commenti  alle 3 Letture, Ciclo A, Gribaudi Editore.




12 febbraio 2023. Domenica 6a
COERENTI. ALMENO UN POCO.

6 dom. A

Preghiamo. O Dio, che riveli la pienezza della legge nella giustizia nuova fondata sull’amore, fa’ che il popolo cristiano, radunato per offrirti il sacrificio perfetto, sia coerente con le esigenze del Vangelo, e diventi per ogni uomo segno di riconciliazione e di pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo. Amen
 Dal libro del Siracide (15, 16-21)
Se vuoi
osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà. Grande infatti è la sapienza del Signore; forte e potente, egli vede ogni cosa. I suoi occhi sono su coloro che lo temono, egli conosce ogni opera degli uomini. A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare.
Salmo 119 (118)  Beato chi cammina nella legge del Signore.
Beato chi è integro nella sua via e cammina nella legge del Signore.
Beato chi custodisce i suoi insegnamenti e lo cerca con tutto il cuore.
Tu hai promulgato i tuoi precetti perché siano osservati interamente.
Siano stabili le mie vie nel custodire i tuoi decreti.
Sii benevolo con il tuo servo e avrò vita, osserverò la tua parola.
Aprimi gli occhi perché io consideri le meraviglie della tua legge.
Insegnami, Signore, la via dei tuoi decreti e la custodirò sino alla fine.
Dammi intelligenza, perché io custodisca la tua legge e la osservi con tutto il cuore.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2, 6-10)
Fratelli, tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.  Ma, come sta scritto:  «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano». Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio.
Dal vangelo secondo Matteo (5, 17-37)
Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino[1] della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.  Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.
Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!
Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna.
E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.
Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno». 

COERENTI. ALMENO UN POCO. Don Augusto Fontana

La discussione, la vertenza, l’obiezione. Isaia 1,18: «Dice il Signore “Su, venite e discutiamo“». Nel Vangelo di oggi sembra evidenziarsi un confronto serrato. Il “Ma” serve a distinguere: “Vi é stato detto: Non uccidere, ma io vi dico che chiunque dice al fratello che è stupido non entrerà nel Regno dei cieli“. La storia della salvezza è la storia dei MA che l’uomo ha detto a Dio e la storia dei MA che Dio rilancia all’uomo. La neutralità diventa quasi impossibile per due partner che “discutono insieme”. Io ho spesso mandato in corto circuito questa franca e cordiale reciprocità.
Il testo di Matteo[2].
Siamo nel contesto del discorso della montagna. Dopo le Beatitudini, il Gesù di Matteo enuncia alcuni principi generali (5,17-20), a cui fanno seguito (in questa e nella prossima domenica) sei casi concreti di interpretazione della Torà (5,21-48), introdotti ogni volta da una citazione dal Primo Testamento («avete inteso che fu detto»), ripresa e commentata da Gesù («ebbene io vi dico»).
Gesù inizia dicendo che non é venuto a dissolvere, ad abrogare la Torà; tuttavia le antitesi che seguono sembrano andare in tutt’altro senso.
Di fatto le due parti del discorso (“Voi avete udito…Ma io vi dico“) non sono in antitesi. Il secondo elemento del discorso rivela, invece, il senso racchiuso nel primo.

Il biblista Giulio Michelini[3] parla di “intensificazione” del precetto, rivelandone il significato pieno e l’intenzione del legislatore. Tanto che il biblista traduce “Voi avete udito….EBBENE io vi dico” (e non “MA io vi dico”, come fa la traduzione ufficiale della CEI). Gesù si oppone non al comandamento originale dato a Mosè (la Torà scritta), ma ad un certo modo di interpretarlo da parte dei rabbini (tradizione orale). Inoltre si mette in evidenza l’estensione, la profondità, la creatività del verbo “compiere“: «Io non sono venuto a dissolvere, ad abrogare»; anzi accusa i farisei di rendere vana la Torà proprio con il loro comportamento: «In quel tempo vennero a Gesù da Gerusalemme alcuni farisei e alcuni scribi e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Ed egli rispose loro: “Perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione» (Mt. 15,1-8).
In ebraico il verbo le-vattel (annullare) si oppone proprio a le-qajjem (compiere, realizzare). Il verbo compiere può assumere due significati:

  • riempire nel senso di far traboccare, dilatare, aumentare, aggiungere in senso qualitativo.
  • realizzare nel senso di mettere in pratica.

Il testo di Siracide.
Se vuoi…“: la prima lettura dal Siracide (15,15-20) ci pone nell’ottica giusta del Vangelo che non é una legge, ma una libera scelta: «Se desideri…», cioè se non ti accontenti, se non ti rassegni, se non ti adatti, se desideri venir fuori dall’appiattimento, da un’esistenza incolore e insapore (come diceva il Vangelo domenica scorsa: “voi siete sale”). La visione di Siracide é fin troppo ottimista; non sempre le nostre scelte dipendono dalla nostra buona volontà; così il Salmo 119 ci fa pregare: «Aprimi gli occhi…indicami…dammi comprensione…raddrizza».
Se la vostra giustizia non é superiore  a…“: l’osservanza esteriore non basta, non basta neppure il “non fare”. Tra la morale corrente e la sapienza nascosta di cui parla Paolo ( 1 Cor. 2,6-10) c’é differenza.
La coerenza[4].
Noi cristiani siamo incoerenti. Nella vita di ogni giorno ci comportiamo un po’ come gli altri: leggiamo le beatitudini, ma non passano nella vita. A volte quelli che vengono additati come ‘lontani” si dimostrano più sensibili a certi valori – quali la solidarietà, l’altruismo, le lotte per migliorare la vita dell’uomo – di quelli che si proclamano cristiani e pensano invece solo a sé stessi.
Incoerente è colui che pensa in un modo e agisce in un altro. La parola e la vita di Gesù ci chiamano ad uscire dalle posizioni mediocri.
Nel Salmo 50 (16-20) siamo così descritti: «All’empio Dio dice: Perché vai ripetendo i miei decreti e hai sempre in bocca la mia alleanza, tu che detesti la mia disciplina e le mie parole ti getti alle spalle?  Se vedi un ladro corri con lui, e degli adulteri ti fai compagno.  Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre».
C’é tuttavia una modalità di vivere nell’incoerenza che da’ qualche speranza.  Finché il cristiano conserva nella sua vita, anche solo come lontano scenario, la visione di una vita diversa da quella che sta vivendo c’è ancora in lui l’idea di un’alternativa alla sua vita attuale.  Forse è solo una debole fiammella, ma c’è.  Quando invece non si mette più in discussione, spegne questo lumicino, resta solo con le realtà che popolano il suo mondo e si convince poco alla volta che siano le sole da vivere.  Anche il figliol prodigo nella sua vita dissoluta aveva conservato in sé il ricordo della casa paterna; e quando si è trovato solo e disperato ha sentito riaffiorare questo ricordo e con il ricordo la speranza del ritorno.  Se lo avesse cancellato dalla memoria, sarebbe morto nello squallore di una vita senza speranza.
Ecco:   anche nella mia incoerenza vorrei conservare almeno il desiderio di alzarmi, la nostalgia di un orizzonte diverso e accettare il contraddittorio di Dio: «Hai fatto questo e dovrei tacere? Ti rimprovero, ti pongo innanzi ai tuoi peccati» (Salmo 50,21).
Ci sono dunque diversi tipi di incoerenza. C’è l’incoerenza di chi non mette più in discussione la propria incoerenza. C’è invece quella incoerenza consapevole del discepolo debole che però continua a conservare dentro di sé – almeno come desiderio – gli orizzonti di Gesù. Come Pietro nel cortile del tribunale: «Pietro si ricordò delle parole dette da Gesù…e uscito all’aperto, pianse» (Mt 26,75). La sua Parola mi custodisca almeno il desiderio.
Mi sto soffermando su una frase del profeta Amos (3,12): Così dice il Signore: come il pastore strappa dalla bocca del leone due zampe o il lobo di un orecchio, così scamperanno gli Israeliti. La frase è un po’ sibillina. Il pastore aveva il compito di proteggere il gregge affidatogli dal padrone. Qualche volta non gli riusciva e pur lottando contro il leone aggressore, perdeva il gregge. Allora prima di andare dal padrone a raccontargli come erano andate le cose, raccoglieva qualche brandello delle pecore uccise e si presentava al padrone per dimostrare che almeno aveva lottato anche se non era riuscito a salvare l’integrità delle pecore.

Le Beatitudini sono la proprietà preziosa che il Signore ci ha consegnato. Le forze aggressive interiori e le pressioni di conformità della cultura in cui viviamo, portano assalti continui a questa indifesa e fragile eredità. Sappiamo che quando verrà l’ora non saremo in grado di riconsegnare le beatitudini integre, ma almeno che ne possiamo riconsegnare qualche brandello, segno che non ci siamo arresi, non ci siamo adattati, non siamo scappati, non ci siamo addormentati. Se la santità integrale non ci appartiene, ci appartenga almeno la resistenza. Alcuni potrebbero dire che è una visione un po’ riduttiva e minimalista ma, conoscendomi, non so pensarmi che così.


[1] Iota o in ebraico YOD è la lettera più piccola dell’alfabeto ebraico e il “trattino o “apice” è quel “piccolo corno superiore” (in ebraico: qôş=corno) che tutte le lettere ebraiche hanno. Il talmud dice che tralasciare anche solo un trattino (corno) della lettera yod rende invalido un intero rotolo della Torà.
[2] Adattamento da A.Mello Evangelo secondo Matteo, Qiqajon.
[3] MATTEO, introduzione, traduzione e commento a cura di Giulio Michelini,  Ed.S. Paolo, 2013
[4] Giordano Muraro: «Non sarebbe meglio per i cristiani essere pochi e più coerenti, anziché una massa informe dove coesistono credenti per anagrafe o tradizione con quelli convinti e impegnati?» (in risposta ad un lettore cf. FAMIGLIA CRISTIANA 45/98 Pag. 13)




5 febbraio 2023. Domenica 5a
LUCE E SALE. VOI SIETE.

5 domenica ord. A

Preghiamo. O Dio, che nella follia della croce manifesti quanto è distante la tua sapienza dalla logica del mondo, donaci il vero spirito del Vangelo, perché ardenti nella fede e instancabili nella carità diventiamo luce e sale della terra. Per Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Isaìa 58,7-10
Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il sole del mezzogiorno».
Salmo 112 ( 111) Il giusto risplende come luce.
Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti: misericordioso, pietoso e giusto.
Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia.
Egli non vacillerà in eterno: eterno sarà il ricordo del giusto.
Cattive notizie non avrà da temere, saldo è il suo cuore, confida nel Signore.
Sicuro è il suo cuore, non teme, egli dona largamente ai poveri,
la sua giustizia rimane per sempre, la sua fronte s’innalza nella gloria.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 2,1-5
Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
 Dal Vangelo secondo Matteo 5,13-16
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore (“diventa insipido”= moròs= stupido, sciocco), con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

SALE E LUCE.VOI SIETE. Don Augusto Fontana

E’ sotto gli occhi di tutti l’insipienza e il buio di valori e di non senso che ci circondano; anzi che ci occupano dentro. Certe notizia sembrano non toccarci: In Italia 1 persona su 7 (15%) fa un consumo di alcolici definito a “maggior rischio” per la salute propria e altrui; i civili statunitensi possiedono 393 milioni di armi da fuoco;  nel 2022 in Italia i femminicidi sono stati 120 e i lavoratori deceduti sul lavoro sono stati 1.090 (3 al giorno). E la lista potrebbe continuare con le coppie di sposi alla deriva, con la progressiva diminuzione della solidarietà sociale ed economica, l’insoddisfazione e il disagio prima interiore e poi diffuso a cascata sui luoghi di lavoro, nei rapporti interpersonali. E non possiamo pensare neppure che buio e tiepidezza siano solo attributi di chi non viene in chiesa. Non possiamo dividere il quartiere in due: da una parte i cavernicoli che vivono nella insipida penombra e dall’altra i cristiani che vivono nel cono di luce della religione. Anche noi siamo cavernicoli bisognosi di risentire la parola con cui Giovanni apre il suo Vangelo: «In Gesù era la vita e la vita era la luce degli uomini» o risentire, al Cap. 8,12, l’audace proposta di Gesù «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».
La luce della vita: che significa se non la luce senza la quale non si può vivere? Oppure anche la vita luminosa, piena di senso ed espandibile, esportabile. Noi viventi in un’epoca e in un paese dove la luce è un diritto ed è garantita, non ci rendiamo conto della essenzialità vitale della luce nè riusciamo a pensare di dover proteggere o alimentare la luce. Premendo un pulsante la luce ci resta garantita fin che lo vorremo noi. Ma non altrettanto è per la nostra condizione di discepoli illuminati e di credenti. La luce accesa con il battesimo è più simile ad una fiammella esposta che ad una lampada a lunga resistenza: «Signore, lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino». «Resta con noi Signore, perchè si fa sera e buio». Ogni domenica veniamo a celebrare ciò che facciamo nella notte di Pasqua: ognuno di noi è una candelina che prende la propria luce dal Signore risorto posto al centro della comunità cristiana. Ma è poi vero che, al di là delle affermazioni verbali, Lui è la luce della mia vita e la vita della mia luce?
Oggi il brano di Matteo, di Isaia e il Salmo 112 ci aiutano a procedere nella nostra riflessione. Isaia: «Se condividerai pane, casa e vestiti con quelli della tua carne e con quelli che non sono della tua carne, se toglierai di mezzo lo sfruttamento, lo spettegolare, il puntare il dito contro gli altri, allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua luce brillerà fra le tenebre e la tua oscurità diventerà luminosa come il sole a mezzogiorno».
Il contesto in cui Isaia annuncia queste parole è costituito da una situazione di pratica religiosa ridotta al culto formale ed esteriore. «E’ inutile digiunare e curare i propri affari, sfruttare i propri dipendenti, litigare con i vicini e poi pregare. Le vostre preghiere arrivano a me come un chiasso fastidioso» dice il Signore pochi versetti prima del brano letto oggi. E se ci fossero ancora dubbi sullo stretto rapporto tra culto e solidarietà condivisa, il Salmo 112 ribadisce l’antifona: «L’uomo che teme il Signore (il credente) sarà illuminato e illuminante solo se presta soldi senza interesse, amministra il proprio bilancio con un occhio ai bisognosi a cui dona generosamente».
Anche la comunità di Matteo aveva qualche problema al riguardo tanto che l’evangelista si è sentito in dovere di raccogliere nei capitoli 5, 6, 7 tutta una serie di parole e comandi pronunciate da Gesù. In questi capitoli emergono evidenti due termini: fare e opere. «Vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro». Il testo greco dice: «Vedano le vostre opere belle (kalà)». E’ come dire che noi cristiani dovremmo essere seducenti, epifanici della bellezza di Dio. «Non siete voi che vivete – diceva S. Cirillo di Alessandria – ma vive in voi la luce, cioè Cristo capace di illuminare con la sua parola il mondo intero[1]».
«Voi siete il sale della terra». Sale o lievito: sono cose che non si mangiano allo stato puro, ma si rendono invisibili e impalpabili nella materia che trasformano.

  • Il sale dà sapore ai cibi. E’ simbolo della “sapienza”. Paolo ai Colossesi raccomanda: “La vostra parola sia sempre gradevole, condita con sale”(Col, 4,6).
  • Il sale è usato ancora oggi per conservare gli alimenti, per impedire che divengano avariati. Oggi diremmo che grande sotto il sole è la corruzione nelle amministrazioni pubbliche, tra i furbetti del quartierino e del cartellino, tra gli evasori e gli elusori fiscali. Un po’ di “sale” evangelico eviterebbe la cancrena sociale a cui assistiamo e di cui, talvolta, siamo complici.
  • Il sale era usato anche per confermare i patti: i contraenti consumavano pane e sale. Questo accordo solenne era detto “alleanza di sale”. Così fu detta l’alleanza stipulata da Dio con la dinastia di Davide (2 Cr 13,5). Signore, donaci il tuo pane e il tuo sale.

Il sale saporito e la luce esportabile, per Matteo si identificano con alcune scelte che verranno proposte nelle prossime 2 domeniche. Alla base di queste proposte ci sono due caratteristiche:

  • Il “Voi“. Sembra che le virtù individuali, pur rispettabili, non bastino. Matteo rileva le dimensioni ecclesiali e comunitarie della efficacia.
  • Siete“. Non dice “Dovete essere”. E’ un problema di identità, prima che di esternazione.

L’esagerazione, l’eccesso, la provocazione.
Il mondo non ha bisogno di sbiaditi devoti afflitti da torcicollo nè pillole evangeliche in dosaggi tollerabili; pare che la nostra vocazione sia quella della spregiudicatezza. Leggendo le BEATITUDINI, spero che tutti abbiamo provato, accanto al senso di pace che donano, anche il senso fastidioso e benefico della provocazione spregiudicata. È l’irragionevole debolezza della croce di cui parla Paolo nella lettura di oggi. Anche Gesù è stato spregiudicato nei nostri confronti tanto che ha avuto bisogno di dire: <Beato chi non si scandalizza di me>. Noi poi, lo abbiamo disinfettato, gli abbiamo tolto il sapore di sale e lo abbiamo reso insipido. Per questo dopo 2000 anni il mondo e la Chiesa sono ancora nelle tenebre. In un clima conformista e annoiato come quello attuale occorre che ci chiediamo se siamo disposti a soffiare nelle ceneri della nostra coscienza e nelle ceneri calde dei nostri ambienti di vita per far riaccendere luce, calore e sapore che il Signore ha già seminato nel cuore di tutti.
Vorrei prendere sul serio i paradossi evangelici, smettere di essere insignificante, timido, rassicurante, decorativo. Vorrei essere evangelicamente irregolare. Dio ha bisogno del nostro cuore impazzito. E anche gli altri che stanno al buio e stanno trangugiando cibi insipidi, ne hanno bisogno. Hanno bisogno di incontrare non un’immagine sbiadita e innocua di Dio presentata da una comunità di imbalsamatori di Dio.


[1] citato in S.Legasse I cristiani sale della terra e luce del mondo, in Parola per l’assemblea festiva, 33, Queriniana, Brescia, 1974, pag. 38




29 gennaio 2023. Domenica 4a
BEATITUDINI? UN DOLCE INDIGESTO

4° domenica A

Preghiamo. O Dio, che hai promesso ai poveri e agli umili la gioia del tuo regno, fa’ che la Chiesa non si lasci sedurre dalle potenze del mondo, ma a somiglianza dei piccoli del Vangelo, segua con fiducia il suo sposo e Signore, per sperimentare la forza del tuo Spirito. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Sofonia 2,3; 3,12-13
Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore. «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero». Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele. Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta. Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti.
SalMO 145  Beati i poveri in spirito.
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1,26-31
Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.
Dal Vangelo secondo Matteo 5,1-12a
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:«Beati i poveri in spirito,perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Un dolce indigesto. Don Augusto Fontana

 «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Apocalisse 10, 10).
Belle da vedere, ma troppo care. Ho visitato la Mostra dell’antiquariato. Con me c’erano migliaia di persone. Tutte come me: curiose e golose di oggetti troppo lontani dalle reali possibilità di acquisto. Solo il Dott. Ferranti ha acquistato un cassettone del ‘700. Beato lui. Ieri ho rivisitato le Beatitudini. Un prezioso pezzo d’archeologia religiosa, bello come un vaso etrusco istoriato. Suor Teresa di Calcutta se l’è potuto comprare. Beata lei. Davanti alle Beatitudini mi prende questo godimento estetico, come davanti ad un Mistero che mi attrae, ad un “dover essere” che ci renderebbe felici tutti. Ma insieme all’adesione emotiva arriva anche l’opaca malinconia di chi sa di essere dotato di ali ma non può volare. Il corpo è appesantito dal becchime garantito. Come le galline. «Chi mi darà ali come di colomba, per volare e trovare riposo? Signore, all’ombra delle tue ali troverò riparo»[1].
I clienti di Dio. Gesù dice: «Avanti chi sta piangendo e chi ha fame! Lì a destra quelli che sono stati picchiati! Qui al centro, quelli che hanno zaini e borse troppo pesanti! Tutti gli altri, in fondo! Verrà anche il loro turno». Le Beatitudini narrano l’utopia realizzata nella vita di Gesù prima che essere un codice di comportamento per l’uomo/discepolo.
Per chi, le Beatitudini? Un profilo alternativo di vita oltre che di fede. Per chi? Per una radicale conversione della struttura politica? Per una conversione della sfera privata? E’ certo, in ogni modo, che la comunità cristiana è chiamata ad essere il luogo in cui “fin d’ora” si compiono le promesse messianiche ed escatologiche, diventando strumento credibile della buona notizia che Dio ama prima di tutto i più deboli fra noi[2]. Nella classifica stilata ogni anno da Transparency International, che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e politico a livello globale, l’Italia si attesta al 42esimo posto su 180 paesi dove le prime posizioni sono occupate dai Paesi considerati più trasparenti. Ma il nostro Paese non si scrolla di dosso la parte di Cenerentola europea della corruzione.  I risultati non sono molto lusinghieri. Ciò, ed altro, contraddice nella pratica quanto la Lumen Gentium (n.31) raccomandava ai cristiani: «dare testimonianza che il mondo non può essere trasformato senza lo spirito delle beatitudini».  Celebrare il volto di Dio nelle Beatitudini non può che portarci a discernere sapienze e insipienze della nostra vita. La Regula  pastoralis di S. Gregorio Magno (590-604) sembra la prima enciclica sociale: «Quando diamo ai miseri le cose indispensabili, non facciamo ad essi donazione: restituiamo semplicemente ciò che è loro. E noi compiamo più un dovere che un atto di carità».
«Oggi si è compiuta la promessa».
L’evento Pasquale e la persona di Gesù sono i due chiodi a cui sono appese le Beatitudini.  Si possono capire solo stando seduti sulla pietra ribaltata del sepolcro o partecipando alla divina irregolarità della vita di Gesù.  Annunciano ciò che è, ma non-ancora; ciò che sarà, ma già-ora. Sulla bocca di Gesù le Beatitudini sono la proclamazione messianica che il Regno di Dio è arrivato con Lui. Ricordiamo il fatto della Sinagoga di Nazaret:”Oggi si è compiuta la promessa dei profeti”. Il tempo messianico è il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili; è il tempo della paradossalità delle situazioni. L’accento è posto sulla gioia. Gesù non solo ha proclamato le beatitudini, ma le ha vissute. A Lui Dio ha dato il Suo Regno, Lui è stato mite, misericordioso…Lui ha cercato gli ammalati e gli impuri.
La meditazione Matteo.
Il confronto tra le Beatitudini della versione di Matteo e quella di Luca è inevitabile. Nella redazione di Luca i destinatari del discorso di Gesù non sono solo i discepoli, ma anche le folle. Il tono è più coinvolgente e personale (Beati voi…). Si elencano semplicemente poveri, piangenti, affamati, senza aggiungere le specificazioni di Matteo (poveri nello spirito, affamati di giustizia) che sembrano orientare verso atteggiamenti spirituali e morali più che a condizioni sociali di fatto. L’elenco delle categorie dei clienti di Dio vengono ridotte ed accorpate. Infine Luca pone, accanto alle beatitudini, le maledizioni che danno al suo discorso un tono drastico e radicale.
Beato: evoca la sensazione di benessere a seguito della benedizione di Dio. Il termine ebraico usato da Gesù è quasi intraducibile in lingua italiana se non ricorrendo ad una serie di parole. Fortunato: suggerisce l’idea di un colpo di fortuna, di qualcosa di bello che ci capita senza aver fatto molto per guadagnarcela. Felice: quando sopraggiunge la felicità, l’uomo si sente coinvolto in modo dirompente e duraturo fin nelle ossa. L’ebreo André Chouraqui nella radice del termine ebraico ashré scopre l’appello a camminare e quindi traduce “En marche! In cammino! Venite avanti!».
Tre Beatitudini riguardano situazioni sociali di tutti e la quarta riguarda i discepoli (perseguitati).
Luca per indicare la parola “povero” usa il termine greco “ptocòs” che indica i mendicanti, coloro che fanno gesti di implorazione e sono rannicchiati. Il termine non descrive solo una situazione nata dal destino, ma anche quella creata da altri. I poveri, allora, sono “gli impoveriti”, i piangenti sono “quelli che vengono fatti piangere”, gli affamati sono “quelli derubati del cibo di sopravvivenza”. Dunque, il Gesù di Luca non guarda se questi poveri sono buoni o cattivi, religiosi o bestemmiatori, puri o sporcaccioni: Dio si intenerisce per il semplice fatto della loro situazione oggettiva, al di sopra di ogni valutazione etica. E c’è un giudizio severo esplicito contro tutti gli altri ai quali Dio, paradossalmente, garantisce dei guai.
Mendez, quello che piange. L’evangelo non beatifica i piagnoni e i narcisisti che si piangono sull’ombelico. In Siracide 38,16-23 (da leggere!) viene raccomandato di non lasciarsi vincere dal dolore. Dio consola quelli che fanno cordoglio, quelli che sanno appassionarsi seriamente alla vita ed agli altri, quelli che cancellano il riso beota dalle labbra e la futilità dallo sguardo. L’afflitto è colui che, come Gesù, sa rivolgere a Dio “preghiere e suppliche accompagnate da forti lacrime e grida“(Ebrei 5,7). Afflitto è colui che “nell’andare getta le sementi e cammina piangendo, ma nel tornare canta festoso e porta a casa il raccolto“(salmo 126): sono coloro che “sanno sognare”. Afflitti sono quelli che cercano prima di tutto e appassionatamente il Regno di Dio. Afflitti sono anche quelli che noi affliggiamo.
Dominga, affamata dalla rapina. «Non darmi povertà nè ricchezza. Nutrimi con il pane quotidiano, perchè non vorrei, per troppa sazietà, diventare infedele e dire “Chi è il Signore?” oppure non vorrei, essendo povero, andare a rubare e maledire il nome del Signore»[3]. Gli affamati sono anche quelli che hanno appetito della Parola di Dio (Amos 8,11-12). Ai poveri non viene detto di farsi giustizia da soli, ma si afferma che ad essi appartiene il Regno. Ma proprio da ciò scaturisce il loro diritto: poichè sono amati da Dio e appartengono al Regno, sono radicalmente ingiuste le emarginazioni. E’ un invito a mettersi dalla loro parte, tendere ad una semplicità di vita abbandonata alla benevolenza di Dio ed alla generosità conviviale[4]. Il salmo 37 è un ottimo riferimento per pregare sulle beatitudini. E’ un appello caloroso ai diseredati a restare sempre dalla parte di Dio e della giustizia, a non invidiare gli empi.  Le beatitudini, però, non sono un narcotico iniettato nella carne viva dei poveri. Al profilo della santità appartiene anche la non-violenza attiva:  Paulo Freire[5] ha illustrato il tranello in cui possono cadere gli indeboliti: “ospitare” in se stessi l’oppressore, desiderare di assomigliargli. Vogliono la riforma agraria non per liberarsi, ma per divenire forse padroni di nuovi servi. E’ una situazione pericolosa: «Per poco non inciampavano i miei piedi perché ho invidiato i prepotenti vedendo la loro fortuna»[6]. Il Salmo invita i poveri a “seguire la via del Signore”, a «lasciar rotolare la vita nella direzione impressa da Dio» dove, in fondo, Lui farà vedere la sua salvezza: «E’ bene aspettare in silenzio la salvezza di Jahweh»[7]. Le macchinazioni degli uomini saranno liquidate dalla sapienza di Dio. Questa intuizione della vulnerabilità degli oppressori, diceva laicamente Freire, è importante per  una  dignitosa e operativa autocoscienza degli indeboliti.
Beati i perseguitati dalle Tue parole.
Siamo in condizione di peccato permanente e strutturale ed il radicalismo cristiano non appartiene alla nostra condizione di vita. Forse siamo solo capaci di piccoli gesti, di conati di vita nuova, di balbettii incipienti, di umili assaggi, di “mordi e fuggi”. Eppure anche a questi siamo chiamati.


[1] Salmo  54, 7; 60, 5
[2] Gerhard Kohfink Per chi vale il discorso della montagna?, Querinina , Brescia, 1990.
[3] Libro dei Proverbi 30, 8-9.
[4] Atti 2, 42-47; 4, 32-35.
[5] P. Freire La pedagogia degli oppressi Mondadori.
[6] Salmo 73, 2-3
[7] Lamentazioni 3,26




22 gennaio 2023. Domenica 3a
LA MIA GALILEA

3° domenica A – 22 gennaio 2023
Preghiamo. O Dio, che hai fondato la tua Chiesa  sulla fede degli apostoli, fa’ che le nostre comunità, illuminate dalla tua parola e unite nel vincolo del tuo amore, diventino segno di salvezza e di speranza per tutti coloro che dalle tenebre anelano alla luce. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Isaìa 8,23b-9,3
In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti. Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Mádian.
Sal 26  Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?
Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1,10-13.17
Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo».  È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?  Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
Dal Vangelo secondo Matteo 4,12-23
Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono. Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

La mia Galilea. Don Augusto Fontana
La prima lettura è stata scelta per una coincidenza stretta con il Vangelo nell’allusione geografica alla zona di Zabulon e Neftali, zone limitrofe d’Israele, nella quale Gesù si stabilisce e dove inizia la sua attività pubblica. Zabulon e Neftali sono i nomi di due tribù settentrionali deportate in Assiria  dopo l’occupazione di Tiglat-Pileser III nel secolo VIII a.C. al tempo del profeta Isaia; i nomi erano passati dalle tribù alla terra che occupavano. Furono regioni-simbolo di una shoah, di un olocausto. E ancora oggi descrivono simbolicamente il fatto che anche noi abitiamo una terra di iniquità. «Siamo barbari, tutti. Che cosa è il peccato originale se non il fatto che nasciamo tutti cattivi? Non si nasce mai noi stessi; nascendo entriamo in una condizione di schiavitù che consiste nell’insieme di relazioni che un neonato contrae nascendo in una famiglia, in un sistema di rapporti. Senza che lo voglia, il peccato lo occupa, l’ingiustizia e l’abuso lo allattano. Noi siamo in una condizione di malattia, le tenebre ci coprono, e più scendiamo alle radici di noi stessi, più sentiamo che viviamo immersi nelle tenebre, ma in noi c’è la tendenza verso la ricerca della luce. Abbiamo dentro di noi una sete appassionata di vita: è il nostro voler essere liberi all’interno di grovigli di schiavitù su cui ci piace non gettare mai gli occhi perché ci farebbero paura»[1].
Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. «Anche se non riesci a trovare Zabulon, Neftali e Madian su un atlante biblico, non crucciarti. È importante sapere dove ti trovi tu. Ciò che risulta essenziale è guardare nella direzione giusta per cogliere l’occasione di luce e di liberazione che ti viene offerta. Certo, devi desiderare di venire fuori dalla gabbia in cui sbatti inutilmente le ali, dalla zona d’ombra in cui ti sei sistemato. Insomma, il paese di Zabulon e di Neftali è quello da cui si vuol venire fuori»[2].
Al tempo di Gesù il territorio di Zabulon e Neftali coincide con la Galilea, regione a ridosso dei pagani, caratterizzata da una popolazione mista di ebrei e pagani che non poteva garantire una vita del tutto corrispondente alla legge di Mosé. La diffidenza e il disprezzo era un sentimento diffuso negli abitanti di Giuda e di Gerusalemme verso la Galilea delle genti.
Gesù inizia la sua attività prendendo come riferimento i segni dei tempi. L’evangelista sembra far notare che Gesù non iniziò quando volle, ma quando vide che avevano “consegnato” (arrestato) Giovanni. Gesù reagisce di fronte ai fatti della storia che lo circonda. Non compie una missione già programmata preventivamente e che deve essere realizzata con indifferenza a ciò che succede. Queste annotazioni (“si ritirò nella Galilea e venne ad abitare a Cafarnao”) non obbediscono a un semplice desiderio di precisazione geografica, ma riporta un fatto che senza dubbio costituì, per le attese religiose del tempo, una sorpresa, se non uno scandalo. Difatti era logico aspettarsi che l’annuncio messianico partisse dal cuore del giudaismo, cioè da Gerusalemme, e invece partì da una regione periferica, generalmente disprezzata e ritenuta contaminata dal paganesimo (“Galilea delle genti“). Tanto è vero che Matteo sente il bisogno di spiegare questa scelta di Gesù, citando per esteso un passo del profeta Isaia (8,23-9,1). «Una bella lezione alle comunità cristiane di tutti tempi, quando per i più svariati motivi rischiano di chiudersi in qualunque tipo di orgoglioso esclusivismo e autosufficienza. Dio è l’Inaspettato, il Sorprendente, e il suo modo di operare è spesso imprevedibile, capace di luminosa fantasia. Matteo lo aveva già fatto intendere scrivendo la genealogia di Gesù dove appaiono delle donne non giudee o poco raccomandabili (Matteo 1,1-17: Racab, Tamar, Rut, Betsabea). Anche nella narrazione della sua nascita appariva stridente il contrasto fra gli adoranti Maghi che giungono dall’oriente e il turbamento di “tutta Gerusalemme” (2,4)»[3]. Ora, alla fine della prima parte del Vangelo di Matteo, ritroviamo i pagani (4,15), inconsapevoli protagonisti del diffondersi della buona notizia a Israele e a tutta l’umanità.
Il contenuto, il tono dominante della predicazione di Gesù è la venuta del Regno di Dio, come buona notizia che invita al cambiamento. Gesù non fu un predicatore dottrinale teorico, né un maestro di sapienza religiosa, né un asceta, ma un profeta dominato dalla urgenza e passione per il Regno di Dio che egli annunciava come imminente. Non era solo un annuncio, ma una commozione (con-mozione= un movimento unitario), una conversione: “cambiate vita e cuore perché è vicino il Regno dei cieli ” traduce la Bibbia Latinoamericana.
Qui c’è una doppia direzione: bisogna cambiare (convertirsi) “perché” viene il Regno di Dio, e anche bisogna cambiare “affinché” venga il Regno di Dio, per rendere possibile che venga, perché cambiando, già viene questo Regno. Sono le due dimensioni: attiva e passiva, recettiva e provocatoria, di contemplazione e di fatica, senza unilateralismi.
Il carattere concreto della prassi adottata da Gesù, che non è quella di trasformare da solo la società, con la propria pratica; ma anche quella di convincere gli altri ad assumersi il compito.  E il suo appello raggiunge gli uomini nel loro ambiente ordinario, nel loro posto di lavoro. Nessuna cornice “sacra” per la chiamata dei primi discepoli, ma lo scenario del lago e lo sfondo della dura vita quotidiana. Per farsi strada, la forza trascinante di Cristo non ha bisogno di luoghi privilegiati e raggiunge anche la quotidianità della vita del lavoro. Anzi, a volte sembra voglia sorprenderci chiamando in momenti poco propizi, quando più si è affaccendati a fare altro: qui con le reti, per il pubblicano Matteo quando sta contando i soldi (9,9), per Paolo mentre sta andando a perseguitare i cristiani (Atti 9,1). La conversione è sempre una sfida a riconoscere il primato della propria appartenenza Signore in mezzo alle mille occupazioni della vita. La sensibilità verso tutto ciò che è straordinario e miracoloso conduce molti a collocare l’esperienza di Dio fuori dalla vita quotidiana. Certo la vita quotidiana ha una sua complessità. Il lavoro, lo studio, lo svago, i figli e gli acquisti impegnano significativamente il tempo. Le persone sperimentano la complessità delle cose nelle quali sono coinvolte e ritagliano alcuni tempi, più o meno estesi, da dedicare al bisogno religioso ancora presenti in loro. Ritenere la quotidianità come luogo per accorgersi della presenza del Signore, diventa un’impresa ardua, eppure il Vangelo afferma che l’incontro di Gesù con i primi apostoli avviene mentre questi stavano pescando o aggiustando le reti. Conseguentemente nella nostra società occidentale, che ha assunto percorsi profondamente complessi, va ancora affermata la capacità del Signore di raggiungere le persone nel loro vissuto
Nel racconto emergono due tratti: la condivisione (il discepolo è chiamato a condividere la via del Maestro: “Seguimi”) e il distacco (“e subito lasciarono le reti”).
Ma i tratti essenziali – che già definiscono compiutamente la figura del discepolo (il resto del Vangelo non farà altro che precisarla) – sono quattro.
Primo: la centralità di Gesù. Sua è l’iniziativa (vide, disse loro, li chiamò): non siamo noi che ci proclamiamo discepoli, ma è Gesù che ci trasforma in discepoli. E ancora: il discepolo non è chiamato a impossessarsi di una dottrina, ma a solidarizzare con una persona (“seguitemi”). Dice il monaco Enzo Bianchi: «…il cristia­nesimo ha vissuto su una ambiguità, quella di “essere” cristiani senza doverlo “diventare”, di essere pratican­te senza vivere veramente un cammino di fede personale. La coincidenza fra fede e società non esiste più, e la nuova situazio­ne di minoranza dei cristiani è una chance per manifestare che la loro fede è vissuta nella libertà e per amore. La libertà e l’amo­re sono infatti le condizioni della fede cri­stiana. Non sono più un caso o una neces­sità»[4].
Secondo: la sequela di Gesù esige un profondo ri-orientamento. La chiamata di Pietro e Andrea e la chiamata di Giacomo e Giovanni sono costruite secondo la medesima struttura e sostanzialmente secondo lo stesso vocabolario. C’è però una differenza non trascurabile: nel primo racconto si dice che lasciarono “le reti” e nel secondo che lasciarono “la barca e il padre”. C’è dunque un crescendo: dal mestiere alla famiglia. Il mestiere rappresenta la sicurezza e l’identità sociale. Il padre rappresenta le proprie radici. Tuttavia, questa assolutezza di riferimento a Cristo, prima che una serie di cose da fare, appare come l’orizzonte in cui vivere la nostra vita. Questa distinzione mi pare importante; diversamente vorrebbe dire che la sua chiamata obbligherebbe tutti a ritirarsi dal mondo, esentarsi dal lavoro e dalla famiglia per diventare tutti preti, monaci o suore. La domanda valida per tutti, laici compresi, è questa: «mentre sto vivendo la mia vita lavorativa e familiare, Gesù è l’orizzonte della mia vita quotidiana a cui continuo a fare riferimento affinché condizioni la mia mentalità e influisca sulle mie scelte?». Già basterebbe quanto indica Enzo Bianchi nella citata intervista: «…il cristianesimo ha stabilito tre rottu­re: fra il sangue e la famiglia, fra la terra e la patria, fra il tempio e la religione. Que­ste tre rotture impediscono ai cristiani di essere fondamentalisti, nazionalisti e uni­formi».
Terzo: la sequela è un cammino. A partire dall’appello di Gesù, essa si esprime con due movimenti (lasciare e seguire) che indicano uno spostamento del baricentro della vita. L’appello di Gesù non porta il discepolo in un luogo, ma lo pone in  cammino. «La narrazione  è strutturata in forma parallela e presenta due coppie di fratelli. Proprio tale ripetizione insegna il “ripetersi” dello stesso evento nella storia dell’uomo: Gesù non ha chiamato una volta sola sul lago di Galilea, è più corretto dire che lì ha cominciatoa chiamare e il suo invito da allora continua ad essere ripetuto in ogni tempo e luogo…per una singolare e personale relazione a Cristo»[5].
Quarto: la sequela è missione. Due sono le coordinate del discepolo: la comunione con Cristo (“seguitemi”) e la corsa verso il mondo (“vi farò pescatori di uomini”). La seconda nasce dalla prima. Gesù non colloca i suoi discepoli in uno spazio separato dagli altri, ma li incammina sulle strade degli uomini. Più avanti si comprenderà che la via del discepolo è la croce.


[1] E. Balducci, Il mandorlo e il fuoco, Borla
[2] Pronzato, Parola di Dio, commenti alle letture anno A,  Gribaudi editore.
[3] Servizio della Parola, n. 394, gennaio 2008
[4] Intervista al monaco Enzo Bianchi,  A cura di Jean-Marie Guénois per “ La Croix” ( ROCCA n. 02 – 15 gennaio 2008)
[5] Servizio della Parola, n. 394, gennaio 2008