5 luglio 2020. Domenica 14a
DIO IN GROPPA A UN ASINELLO

Sono cattolico, credente sì e no, prete, pensionato garantito e benestante, maschio, scriba laureato supponente, europeo italiota e non Rom (grazie e Dio!), di razza bianca, celibe senza carichi familiari o mutui bancari che mi incaprettano, incensurato (quasi!) per la legge ma non nella coscienza: insomma, ho tutti gli ingredienti per essere escluso dalla categoria dei “piccoli” a cui il Padre rivela i suoi segreti. Sinceramente non mi sento molto bene. Anche perché sento puzza di leggi per ladruncoli schedati e sconti a gogò per potenti che impunemente evadono tasse ed esportano capitali nei paradisi fiscali e per finanzieri che affamano il mondo. 

Preghiamo. O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l’eredità del tuo regno, rendici poveri a imitazione del Cristo tuo Figlio, per portare con lui il giogo soave della croce e annunziare agli uomini la gioia che viene da te. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Zaccarìa 9,9-10
Così dice il Signore: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra».

Salmo 144 Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
O Dio, mio re, voglio esaltarti e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.

Ti voglio benedire ogni giorno, lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno e parlino della tua potenza.
Fedele è il Signore in tutte le sue parole e buono in tutte le sue opere.
Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,9.11-13
Fratelli, quanti si lasciano guidare dallo Spirito si preoccupano di quel che vuole lo Spirito. Quanti si lasciano guidare dalla propria debolezza cercano di soddisfare il loro egoismo. Seguire l’egoismo conduce alla morte, seguire lo Spirito conduce alla vita e alla pace. Perché quelli che seguono le inclinazioni dell’egoismo sono nemici di Dio, non si sottomettono alla legge di Dio: non ne sono capaci. Essi non possono piacere a Dio, perché vivono secondo il proprio egoismo. Voi, però, non vivete così: vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi. Ma se qualcuno non ha lo Spirito donato da Cristo, non gli appartiene. Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita. Se lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, lo stesso Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche a voi, sebbene dobbiate ancora morire, mediante il suo Spirito che abita in voi. Fratelli, noi siamo dunque impegnati non a seguire la voce del nostro egoismo, ma quella dello Spirito. Se seguite la voce dell’egoismo, morirete; se invece, mediante lo Spirito, la soffocherete, voi vivrete.

Dal Vangelo secondo Matteo 11,25-30
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

DIO IN GROPPA A UN ASINELLO. Don Augusto Fontana

I “piccoli”.
Sono cattolico, credente sì e no, prete, pensionato garantito e benestante, maschio, scriba laureato supponente, europeo italiota e non Rom (grazie e Dio!), di razza bianca, celibe senza carichi familiari o mutui bancari che mi incaprettano, incensurato (quasi!) per la legge ma non nella coscienza: insomma, ho tutti gli ingredienti per essere escluso dalla categoria dei “piccoli” a cui il Padre rivela i suoi segreti. Provo a celebrare il Magnificat della piccola Miriam di Galilea: «L’anima mia loda il Signore perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: la sua misericordia si stende su quelli che lo onorano con amore. Ha scombinato i progetti dei superbi; ha rovesciato i potenti dalle loro poltrone, ha tolto gli umili dal fango del disprezzo e dell’emarginazione; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1). Sinceramente non mi sento molto bene. Anche perché sento puzza di leggi per ladruncoli schedati e sconti a gogò per potenti – che impunemente evadono tasse ed esportano capitali nei paradisi fiscali – e per finanzieri che affamano il mondo; sento puzza di incenso ecclesiastico che avvolge i VIP (Very Important Person) e non giunge a sovrastare la puzza di sudore e di cloaca là dove l’unica preghiera è una maledizione gridata al cielo e alla terra. Però sono felice per Lui, Dio Padre-Madre, che si china sui suoi piccoli («Ti benedico, Padre»), e sono felice per loro («Beati voi»), che sentono la sua carezza materna, il suo forte abbraccio paterno, i suoi sussurri rivelanti storie che fanno sgranare occhi stupiti e tranquillizzano animi inquieti e vite agitate. «Perirà la sapienza dei sapienti e si eclisserà l’intelligenza degli intelligenti, gli umili invece si rallegreranno nel Signore e i poveri gioiranno nel Santo d’Israele” (Isaia 29,14.19).

Siamo “piccoli” quando quello che conta non è ciò che facciamo per Dio, ma piuttosto quello che Dio, nel suo grande amore, fa per noi. Nel vangelo di Matteo, il termine piccoli (elachistoi, mikroi, nepioi) a volte indica i discepoli di Gesù, altre volte indica i bambini o gli esclusi dalla società e dalla religione. Non è facile distinguere. A volte ciò che è detto piccolo in un vangelo, è chiamato bambino in un altro. Inoltre non sempre è facile distinguere fra quello che appartiene alla bocca di Gesù e quello che è invece del tempo delle comunità per le quali sono stati scritti i vangeli. Ma anche così, ciò che risulta chiaro è il contesto di esclusione che vigeva in quell’epoca e l’immagine che le comunità primitive si facevano di Gesù come di una persona che si è fatta “piccola” e accogliente verso i piccoli. Sono felice per Gesù, il Piccolo Figlio di quel Padre che gli ha rivelato segreti e storie stupende («nessuno conosce il Padre se non il Figlio»). Sono felice perché nell’assemblea domenicale c’è qualcuno verso cui Dio Padre-Madre ha un occhio di riguardo: «Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1 Corinti 1,26-29).
Padre Ermes Ronchi commentava: «”Ti benedico o Padre perché hai rivelato queste cose ai piccoli”. Il Battista è in carcere, in Galilea crescono rifiuto e ostilità, i miracoli di Cafarnao e di Betsaida non servono, eppure, nel pieno della crisi, Gesù benedice il Padre, fermandosi improvvisamente come incantato davanti ai suoi, ai piccoli. I piccoli sono coloro che ce la fanno a vivere solo se qualcuno si prende cura di loro, come i bambini. Dio è vicino a ciò che è piccolo, ama ciò che è spezzato Quando gli uomini dicono:”perduto”, egli dice:”trovato”: quando dicono: “condannato”, egli dice: “salvato”; quando dicono: “abbietto”, Dio esclama: “beato!” (Bonhoeffer). Per entrare nel mistero di Dio vale più un’ora passata ad addossarsi la sofferenza e il mondo di uno di questi piccoli, che anni di studi di teologia. Per conoscere il mistero delle persone e la fiamma delle cose, bisogna accostarle come piccoli, con stupore, con mani che non prendono, ma solo accarezzano. Per imparare a benedire di nuovo il mondo e le persone, bisogna imparare a guardare i piccoli, la gente da poco, il loro cuore vero, e lì troveremo innumerevoli motivi per benedire, ragioni grandi perchè il lamento non prevalga più sullo stupore»[1].
Il “riposo”.
Gesù invita tutti coloro che sono stanchi e promette loro riposo. Il popolo di quel tempo viveva stanco, sotto il duplice peso delle imposte e delle osservanze imposte dalle leggi di purità. Gesù chiede che il popolo, per poter capire le cose del Regno, non dia tanta importanza ai “sapienti e dottori”, cioè ai professori ufficiali della religione del tempo, e che confidi di più nei piccoli, per esempio devono cominciare ad imparare da lui, da Gesù, che è “mite e umile di cuore”. Nella Bibbia molte volte la parola umile è sinonimo di umiliato. Gesù non faceva come gli scribi che si vantavano della loro scienza, ma era come il popolo umile e umiliato.

In questo invito risuonano le parole di Isaia che consolava il popolo stanco per l’esilio: «O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete» (Is 55,1-3). Questo invito è in relazione con la Sapienza divina: «Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele» (Siracide 24, 18-19), affermando che «le sue vie sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono al benessere»(Proverbi 3,17). Essa dice ancora: «La Sapienza educa i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita, quanti la cercano solleciti saranno ricolmi di gioia» (Siracide 4,11-12). Questo invito rivela un aspetto molto importante del volto femminile di Dio: la tenerezza e l’accoglienza che consola, rivitalizza le persone e le fa sentire bene. Gesù è il sollievo che Dio offre al popolo affaticato.
«Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 187).
Dio sopra un asino.
La prima lettura profetizza la scelta di un Messia come di un re “umile, che cavalca un asinello“; ciò che farà proprio Gesù il giorno delle Palme, a Gerusalemme. Un asinello è la sua “auto blu”, il suo carrarmato, il suo MiG-29. I fanatici all’epoca di Gesù cercavano un messia trionfante e nazionalista. Il profeta Zaccaria si sintonizza con le grandi aspirazioni delle comunità che speravano non in un guerriero come Davide né in un diplomatico equilibrista come Salomone. Il popolo voleva qualcosa di diverso. Erano già falliti i modelli militaristi, amministrativi e centralisti di tutti i re d’Israele e di Giuda. Il popolo voleva una persona che fosse capace di guidare la nazione per cammini sconosciuti di giustizia, pace e solidarietà. Per Zaccaria, il nuovo governante doveva distinguersi per umiltà, giustizia e pacificazione. Tre qualità che configurano un nuovo modo di esercitare il potere. Ciò nonostante, Israele esplose con l’ambizione di alcuni gruppi minoritari e potenti che imposero una teocrazia centralista, prepotente e uniformante. Furono soppresse, in maniera sistematica, tutte le dissidenze possibili e si negò così al popolo di Dio la possibilità di tentare un nuovo modo di essere comunità. Si concentrò tutto il potere nelle mani di poche famiglie che controllavano il tempio, il governo e la terra. Così i poveri di Jahweh non ebbero la possibilità di dare vita al suo progetto. Il Vangelo di Matteo ci presenta Gesù con le caratteristiche messianiche della profezia di Zaccaria: una persona pacifica e umile. Un Dio crocifisso, un Dio sconfitto è lo scandalo del Cristianesimo; o più precisamente, la SFIDA del Cristianesimo: perché chi ha il cuore semplice veda il gesto d’amore totale come di “chi dà la vita per i suoi amici” (Gv 15,13); e chi è abituato a pesare le cose per prestigio e potere, ne rimanga scandalizzato. I piccoli allora sono coloro che non si scandalizzano di Gesù. Non ci sono sofismi intellettuali da fare per credere in Dio; l’accesso a Dio non è privilegio di scuole filosofiche, o tanto meno di circoli di spiritualità esoterica o gruppi e movimenti carismatici; a Dio si giunge accettando la storia e la vicenda concreta di Gesù di Nazareth. Quella di Gesù non è una religione, ma se la fosse non potrebbe che essere “religione della misericordia”. Ogni religione inventata dall’uomo porta dentro una naturale paura di Dio. Il volto di Dio presentatoci da Gesù invece è quello di un Dio che GRATUITAMENTE ama l’uomo, prima che lui stesso si muova a cercarlo; che FEDELMENTE ama l’uomo, anche quando egli è infedele; che MISERICORDIOSAMENTE ama l’uomo, quando si rifiuta a Lui. Parlando della sua missione, Gesù diceva: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9, 12-13). L’umiltà di un Dio che ha provato sulla propria pelle il difficile mestiere di essere uomini, fa dire alla Lettera agli Ebrei: “Noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi; accostiamoci dunque con fiducia al trono della grazia” (4,15-16). Il suo, alla fine, è “un carico leggero”. Non perché non sia esigente il Vangelo di Gesù. Ma è quell’esigenza e quella radicalità che nasce dall’amore. L’innamorato non ha misura nei suoi gesti d’amore.


[1] E’ guardando i piccoli che s’impara l’arte di benedire. P. Ermes Ronchi – Avvenire (07 Luglio 2002)




28 giugno 2020. Domenica 13a
RADICI NEL VANGELO

Chi ama il padre, la madre, i figli più di me non è degno di me… La Liturgia di questa domenica potrebbe soddisfare preti celibi, monaci ed eremiti o piccole eroine del Vangelo, chi ha lasciato tutti e tutto. Ma la maggioranza sarà gente che ha moglie e marito e figli e vecchi genitori da curare o vedovi e vedove che non hanno più nessuno da abbandonare, giovani bamboccioni disoccupati che sopravvivono con le provvidenze di genitori o nonni pensionati. Dunque a chi viene chiesta la radicalità del Vangelo di oggi? Il Card. Martini diceva: «Che cos’è anzitutto la radicalità evangelica?  In senso religioso il termine radicale si riferisce soprattutto all’idea di ‘radice’, cioè indica qualcosa che è sorgivo, fontale, genuino, originario e, per questo, richiama il carattere di autenticità. 

Preghiamo. Padre, infondi in noi la sapienza e la forza del tuo Spirito, perché camminiamo con Cristo sulla via della croce, pronti a far dono della nostra vita per manifestare al mondo la speranza del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal secondo libro dei Re (4,8-11.14-16)
Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era una donna facoltosa, che l’invitò con insistenza a tavola. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei. Essa disse al marito: “Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Prepariamogli una piccola camera al piano di sopra, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, sì che, venendo da noi, vi si possa ritirare”. Recatosi egli un giorno là, si ritirò nella camera e si coricò. Eliseo chiese a Giezi suo servo: “Che cosa si può fare per questa donna?”. Il servo disse: “Purtroppo essa non ha figli e suo marito è vecchio”. Eliseo disse: “Chiamala!”. La chiamò; essa si fermò sulla porta. Allora disse: “L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu terrai in braccio un figlio”.

Salmo 88. RIT: Canterò per sempre la tua misericordia.
Canterò senza fine le grazie del Signore, con la mia bocca annunzierò la tua fedeltà nei secoli,

perché hai detto: “La mia grazia rimane per sempre”; la tua fedeltà è fondata nei cieli.
Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto:
esulta tutto il giorno nel tuo nome, nella tua giustizia trova la sua gloria.
Perché tu sei il vanto della sua forza e con il tuo favore innalzi la nostra potenza.
Perché del Signore è il nostro scudo, il nostro re, del Santo d’Israele.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (6, 3-4. 8-11)
Fratelli, quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

Dal Vangelo secondo Matteo 10, 37-42
[si consiglia di leggere anche: 34 Non crediate che io sia venuto a gettare pace sulla terra; non sono venuto a gettare pace, ma una spada. 35 Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: 36 e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa].

Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.

RADICI NEL VANGELO. Don Augusto Fontana
Chi ama il padre, la madre, i figli più di me non è degno di me… La Liturgia di questa domenica potrebbe soddisfare preti celibi, monaci ed eremiti o piccole eroine del Vangelo, chi ha lasciato tutti e tutto. Ma la maggioranza sarà gente che ha moglie e marito e figli e vecchi genitori da curare o vedovi e vedove che non hanno più nessuno da abbandonare, giovani bamboccioni disoccupati che sopravvivono con le provvidenze di genitori o nonni pensionati. Dunque a chi viene chiesta la radicalità del Vangelo di oggi? Il Card. Martini diceva: «Che cos’è anzitutto la radicalità evangelica?  In senso religioso il termine radicale si riferisce soprattutto all’idea di ‘radice’, cioè indica qualcosa che è sorgivo, fontale, genuino, originario e, per questo, richiama il carattere di autenticità.  Perciò l’espressione “radicalità evangelica” indica la volontà di rifarsi al Vangelo sine glossa, senza annotazioni, un certo rigore nel vivere una vita cristiana seria, ed indica, soprattutto, una vita fondata sulle Beatitudini evangeliche. Questa è dunque un’espressione che indica, positivamente, una decisione coerente per il Vangelo. Tuttavia, però, la radicalità evangelica non è senza pericoli e senza equivoci. Vedo soprattutto due pericoli: da una parte il rischio di voler imitare atteggiamenti del passato ripetendoli tali e quali in un contesto mutato, dall’altro la tentazione di prendere tutto alla lettera, non accettando la fatica del discernimento e della traduzione che ogni espressione biblica richiede, cioè non domandandosi cosa vuol dire oggi ciò che nel passato è stato detto così. Si pone, dunque, la grande questione: si può vivere oggi il Vangelo prendendolo alla lettera? Ha quindi senso parlare di radicalità evangelica? Dobbiamo prendere coscienza di essere una comunità alternativa; cioè una comunità che esprime, in una società caratterizzata da relazioni fragili, deboli, conflittuali, inautentiche, la possibilità di relazioni gratuite fondate sul Vangelo. Mostrare che la fede in Gesù ci permette di vivere relazioni sincere, fedeli, pazienti, perseveranti, perdonanti. Non è neanche un atteggiamento molto difficile, non implica grandi sforzi. Richiede semplicemente di vivere il Vangelo nei rapporti di tutti i giorni con la parrocchia, con la famiglia, con il piccolo gruppo, con le realtà istituzionali, nelle realtà della vita quotidiana, sapendo che sono relazioni fondate sulla fede e sulla grazia. E questo è già un immenso servizio ad un mondo che fa fatica a trovare relazioni solide. In secondo luogo ad un mondo così debole nei suoi pensieri, nelle sue ideologie, non dobbiamo pretendere di offrire subito un pensiero forte, che faccia paura, ma siamo chiamati ad offrirgli l’amicizia e la debolezza della croce. E’ infatti il modo mite ed umile di avvicinarsi di Gesù ciò di cui ha maggiormente bisogno una società dal pensiero e dalle relazioni deboli».

 Un Vangelo senza guanti

  1. Una comunità che lascia.

Matteo innanzitutto continua a ricordare che non ci si può illudere di poter perseverare nella condizione di discepoli senza conflittualità e rotture. Così era storicamente nella sua comunità, tartassata dall’ambiente giudaico che aveva deliberato l’espulsione dalle sinagoghe e aveva imposto il divieto di incontro dei familiari con chiunque avesse aderito alla nuova “via” del Rabbi Jeshuàh (Gesù).
C’è una stretta “solidarietà” di condizione tra il Maestro Gesù e i discepoli, come Matteo ricorda nei vv. 24-25: «Un discepolo non è da più del maestro…; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro…». Questo versetto è la “chiave di lettura” di tutto il cap. 10 e quindi anche del testo liturgico di oggi. Il Vangelo non è un codice morale di comandi “Devi fare…non devi prendere…”; al discepolo basta l’unico comandamento “seguimi”; da qui deriva una serie di “conseguenze” più che di “precetti”. A me e a te è lasciato il discernimento di inventare una vita evangelica riformulata nel contenitore delle nostre condizioni attuali di vita; monaci delle cose, nelle relazioni e nel lavoro: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori, radicati e fondati nella carità…ben radicati e fondati in lui” (Efesini 3,17; Colossesi 2,7).
Il richiamo alla missione storica di Gesù, che ha provocato tensioni violente perfino nell’ambito dei rapporti familiari e del suo gruppo, serve a togliere l’illusione di una testimonianza tranquilla. Non sarà una “pace pacifica” ma piena di laceranti contraddizioni.[1] Il Messia, secondo la tradizione biblica, è il “principe-di-pace”, ma in forma paradossale, in quanto il suo annuncio di pace fa esplodere le contraddizioni storiche che si riversano con violenza contro di lui. Ovviamente Gesù non intende favorire nessun fondamentalismo religioso; ce lo ricorda l’evento nell’orto del Getsemani quando Pietro estrae fisicamente una spada per difendere Gesù (Mt 26, 52): «Allora Gesù gli disse:“Rimetti la spada nel fodero”». Nella Bibbia l’immagine della spada è conosciuta e ha significato di dividere: “Prendete la spada dello Spirito cioè della parola di Dio” (Ef 6,17). La spada di Gesù è quella della parola di Dio, “che è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio” (Eb 4,12).
34 Non crediate che io sia venuto a portare (gettare) pace sulla terra. Sembra che il verbo usato da Matteo (balein=gettare) indichi che Gesù non porge il suo Vangelo «con i guanti», ma lo «getta» senza tanti convenevoli come un sasso nello stagno o – come scrive Marco (4,26) – come un seme: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra». Se i discepoli sono coloro che condividono il suo stile di vita, devono mettere in conto la divisione e la conflittualità perfino nei rapporti familiari e sociali. Nell’esigenza di sequela proposta dal Cristo risuona l’assoluto di Dio che crea un nuovo tipo di “consanguineità” (Matteo 12,46-49): «Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli…Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli». Matteo ricorderà, più avanti, (19, 29) la promessa di Gesù: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna».
Gesù presentandosi come “divisore” si mostra “geloso”, in linea con la “gelosia” di Dio in Deuteronomio 32,15-18: «Il popolo ha mangiato e si è saziato, ingrassato, impinguato, rimpinzato e ha respinto il Dio che lo aveva fatto, ha disprezzato la Roccia, sua salvezza. Lo hanno fatto ingelosire con dèi stranieri e provocato all’ira con gli idoli. Hanno sacrificato a demoni che non sono Dio, a divinità che non conoscevano, novità, venute da poco, che i vostri padri non avevano temuto. La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha generato».
Nel testo odierno sono presenti tre affermazioni che si concludono sempre con “Non é degno di me” (Luca in 14,26 ricorda un’altra versione: “…non può essere mio discepolo”). Gesù non demonizza l’amore ai familiari e al prossimo: «Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Giovanni 4,20). Intanto è importante il verbo “amare” (Matteo, nel testo di oggi, usa “phileo” che è un verbo di amicizia, tappa verso l’agape, l’amore totalizzante e compiuto). Il pilastro, dunque, che regge la struttura cristiana nei vangeli sinottici non è “conoscere”, ma amare o seguire. Un essere accolti e accogliere fino al micro gesto del donare un bicchiere d’acqua “fredda” per una bocca arida e una vita accaldata.
« Chi avrà trovato la sua vita la perderà e chi avrà perduto la sua vita, per causa mia, la troverà ».
Qualcuno ha trovato condensate, in queste parole, tutta la sapienza evangelica che riguarda il significato dell’esistenza dell’uomo e, simmetricamente, della vita di Gesù. Gesù è vissuto per gli altri. La sua non fu una semplice “esistenza”, bensì una “pro-esistenza”, una esistenza-a-favore-di… C’è una sproporzione tra i 3 anni della vita pubblica che conosciamo e i suoi 30 anni di vita familiare che non conosciamo. Ci ha salvati anche con quei 30 anni di vita “privata”. La vita di Gesù è definibile come una vita esposta, allo sbaraglio, mai ripiegata su di sè. Il simbolo di questa pro-esistenza sarà poi la croce.
«Chi non prende la sua croce e non mi segue». Prendere la Sua croce non significa accettare le tribolazioni accidentali della vita, ma prendere su di noi il Suo progetto di vita, calandolo nelle circostanze storiche, pubbliche e private. Significa non mettere mai in bilancio ciò che torna utile a me e al mio gruppo di appartenenza (“padre, madre, figlio”). Esistono delle predilezioni che costituiscono una necessità nella nostra vita. Prendere la croce di Cristo significa collocare le nostre predilezioni fuori dal quadro delle predilezioni codificate: prediligere la compagnia di quelli che contano meno (i “piccoli” cioè gli invisibili), che non hanno capacità di darmi ricompense.

  1. Una comunità che trova.

Non é senza significato che l’evangelista chiuda questa sezione dei discepoli perseguitati e provati con il tema dell’accoglienza. L’accoglienza ricompone quei legami della solidarietà umana che lo stato di persecuzione mette in crisi. Alla comunità è chiesto di creare un ambiente accogliente per questi fratelli espulsi o scartati: i profeti (gli incaricati di annunciare la Parola e interpretare i segni dei tempi), i giusti (coloro che nella prassi sono esemplari nella giustizia ed obbedienti all’evangelo), i piccoli (coloro che sono vacillanti e a rischio di fede). Il tema della “comunità-nuova-famiglia” è evidentemente sottolineato dalla scelta della prima Lettura (2Re 4,8-11.14-16a ). La narrazione ha due attori principali che sono il profeta Eliseo e la donna di Sunem caratterizzata dalla sua delicata accoglienza che non si ferma all’invito a tavola, ma si trasforma in uno spazio vitale riservato al profeta. Eliseo è il profeta itinerante che non si stabilisce in nessun luogo in maniera definitiva per rimanere sempre disponibile alla chiamata di Dio. Pur essendo solitario, è in realtà l’amico degli uomini, che partecipa ai loro affanni e che ricompensa coloro che l’onorano. E’ proprio durante uno dei suoi soggiorni presso Sunem che il servo Ghecazi presenta ad Eliseo la condizione della donna, ricca ma senza figli. Particolare finora taciuto che rivela la grandezza d’animo della donna che rinuncia ad importunare il profeta con i suoi problemi personali e conferma così la gratuità della sua accoglienza. A sua volta Eliseo si fa garante presso Dio del dono più prezioso per una donna: la maternità tanto desiderata.
L’apostolo Paolo ricorda ai cristiani di Roma: “accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio” (Rm 15,7), come a dire che accogliere è una declinazione del verbo amare. Noi siamo forse abituati a “dare”, anche un bicchier d’acqua; ma poco ad “accogliere”.

Se vuoi approfondire puoi leggere:

  1. l’articolo di Bruno Secondin “Radicalismo e radicalità: due parole dai molti significati” collegandoti a: http://www.credereoggi.it/upload/2008/articolo165_7.asp
  2. l’articolo di Card. Carlo Maria Martini “La radicalità evangelica nel nostro tempo” collegandoti a: https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9082:la-radicalita-evangelica-nel-nostro-tempo&catid=109:percorsi-di-spiritualita&Itemid=176

[1] Silvano Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo, EDB 1998, Vol.1, pag. 194.




Domenica 21 giugno 2020
DALL’ORECCHIO AI TETTI

12 domenica A
«Di un peccatore si può fare un santo, ma di coloro che non sono niente, né cristiani né pagani né appassionati né freddi né santi né peccatori, di loro, anime morte, che cosa ne faremo?» (Peguy). E’ scritto nel Talmud ebraico  che per ogni generazione esistono trentasei giusti nascosti e che grazie ai loro meriti il mondo continua a sussistere. Scrive Paolo all’amico Timoteo (2 Timoteo 1,8), a me e a te: «Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro». Per chi vuol uscire dallo stato di “anima morta”, di timore e di fuga, i rischi esistono. Il discorso missionario di Gesù, riferito da Matteo nel suo cap. 10, resta un azimut di riferimento a cui alzare periodicamente gli occhi, come faremo ancora nella liturgia di questa domenica.

Preghiamo. Padre, che affidi alla nostra debolezza l’annuncio profetico della Tua Parola, sostienici con la forza del Tuo Spirito, perché non ci vergogniamo mai della nostra fede, ma confessiamo con tutta franchezza il tuo Nome davanti agli uomini, per essere riconosciuti da Te nel giorno della Tua venuta. Per Cristo nostro Signore.
Dal libro del profeta Geremìa 20,10-13
[Signore, tu mi hai sedotto e io non ho saputo resisterti. Hai fatto ricorso alla forza e hai ottenuto quel che volevi. Mi disprezzano da mattina a sera, tutti ridono di me. Io parlo, e ogni volta sùbito devo chiamare aiuto e gridare contro la violenza e l’oppressione. Tutto il giorno sono insultato e deriso perché annunzio la tua parola, o Signore! Ma quando mi son detto: «Non penserò più al Signore, non parlerò più in suo nome», ho sentito dentro di me come un fuoco che mi bruciava le ossa: ho cercato di contenerlo ma non ci sono riuscito].
Mi accorgevo che molti parlavano male di me e da ogni parte cercavano di spaventarmi. Dicevano: «Se qualcuno lo denuncia, lo denunceremo anche noi». Perfino i miei amici più cari aspettavano un mio passo falso e dicevano: «Prima o poi, qualcuno riuscirà a ingannarlo! Così, l’avremo vinta noi e potremo vendicarci di lui». Ma tu, Signore, stai al mio fianco, tu sei forte e mi difendi: per questo i miei persecutori cadranno e non avranno la meglio su di me. Dovranno vergognarsi perché i loro progetti andranno in fumo. Saranno disonorati per sempre e nessuno lo dimenticherà. Tu, Signore dell’universo, sai distinguere chi ti è fedele perché vedi i sentimenti e i pensieri segreti dell’uomo. Ho affidato a te la mia causa: sono certo che vedrò come tu punirai i miei nemici. Cantate inni al Signore! Lodate il Signore! Egli ha liberato il povero dal potere dei suoi nemici.

Salmo 68   Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.
Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia;

sono diventato un estraneo ai miei fratelli, uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.
Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi, nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore; volgiti a me nella tua grande tenerezza.
Vedano i poveri e si rallegrino; voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra, i mari e quanto si muove in essi.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5,12-15
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti.

Dal Vangelo secondo Matteo 10,26-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

DALL’ORECCHIO AI TETTI. Don Augusto Fontana
«Di un peccatore si può fare un santo, ma di coloro che non sono niente, né cristiani né pagani né appassionati né freddi né santi né peccatori, di loro, anime morte, che cosa ne faremo?» (Peguy).
E’ scritto nel Talmud ebraico (Sanhedrin 97b) che per ogni generazione esistono trentasei giusti nascosti e che grazie ai loro meriti il mondo continua a sussistere. Scrive Paolo all’amico Timoteo (2 Timoteo 1,8), a me e a te: «Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro». Per chi vuol uscire dallo stato di “anima morta”, di timore e di fuga, i rischi esistono. Il discorso missionario di Gesù, riferito da Matteo nel suo cap. 10, resta un azimut di riferimento a cui alzare periodicamente gli occhi, come faremo ancora nella liturgia di questa domenica.
Tutte le istruzioni date da Gesù ai discepoli e contenute nel cap. 10 di Matteo sono riferite ad una testimonianza pubblica: «Chiamati a sé i dodici discepoli li inviònon v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato». Gesù chiede un’adesione pubblica; non gli basta un’adesione devota consumata unicamente nel segreto. L’espressione di Matteo 10,38 «chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me»[1] non si riferisce ai fastidi della vita quotidiana, ma alle conseguenze della testimonianza pubblica. L’adesione a Gesù diventerà pubblica e pericolosa[2]. Siate sovversivi, pasquali.
L’annuncio che ci viene dai testi liturgici di questa domenica si pone in continuità con le “istruzioni” date da Gesù alla sua comunità in vista della missione: “Andando, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date…Non procuratevi oro, né argento…”. Papa Francesco nella Evangelii Gaudium al n. 183 scrive: «nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. Sebbene il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica, la Chiesa non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia».
Non temete-non scappate.
Oggi l’accento pare messo sulla FIDUCIA: l’invito a “non temere” ricorre 3 volte. Originariamente, nella lingua greca il verbo fobéo (=temere) aveva la sua radice in un verbo che significava fuggire. Quando io ho paura, cerco sempre di fuggire via; e il mio fuggire rivela le mie paure. La formula «non temete!» ricorre 74 volte nell’Antico Testamento.

Nella prima Lettura, l’esperienza del profeta Geremia sembra essere esemplare per chi accetta di fidarsi e affidarsi. I suoi compaesani del villaggio di Anatot non vedono di buon occhio l’impegno di Geremia a sostenere la riforma religiosa del re Giosia che sopprime i piccoli centri di culto sparsi nel paese e tenta di creare un grande culto centralizzato a Gerusalemme. La soppressione dei santuari locali a favore del culto centralizzato tocca gli interessi di molte persone che lo minacciano di morte. Le prese di posizione del profeta contro la corruzione del suo ambiente gli alienano amici e conoscenti, gli attirano scherni e insulti. Nel profeta Geremia si specchia l’icona di Gesù: «Padre, nelle tue mani consegno la mia vita» (Lc 23,46).
C’è un invito a vincere il timore. Questo timore non è il “timore psicologico”, che può benissimo convivere con la fede-fiducia (tutti i martiri antichi e contemporanei hanno dichiarato di “avere paura”); siamo invitati invece a vincere quella pigrizia che lascia la Parola ricoverata nell’orecchio anziché annunciata dai tetti, annidata nel cuore e non esternata nella carne delle mani. Vincere la timidezza, ma con quale garanzia? Che Dio ci preserverà e non ci capiterà niente di male? Per noi piccoli passerotti, la traduzione italiana del testo che ascolteremo rasenta la bestemmia: “nemmeno un passero cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia”, tradotto nel proverbio popolare “non cade foglia che Dio non voglia”. Nel testo originale greco c’è invece un Padre che cade insieme con i discepoli deboli: «nessuno di loro cadrà senza il Padre vostro (aneu tu Patròs umon)». Per quanto possiamo cadere, nella nostra vita, non c’è caduta che non veda presente il Padre, non perché si cade per sua volontà, ma perché Lui cade con noi. Nessuno cade senza il Padre. Abbiamo un Dio così.
Ogni Domenica, durante la Messa, il celebrante fa una preghiera di liberazione sui fedeli: “Liberaci, Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni e con l’aiuto della tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri a ogni turbamento, nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesú Cristo”. Il “saldo” avverrà alla fine dei tempi: la provvidenza non è una assicurazione contro gli infortuni della vita. “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: «Fino a quando, Signore, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?». Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro” (Apocalisse 9,9-11).

Potremmo riflettere sui tre “Non temete!” odierni di Gesú:

1) Non temete gli altri. Se accettiamo di vivere coerentemente con il Vangelo, il rapporto con gli altri può procurare tensione, fraintendimento, frustrazione. Gesú é stato il primo a sperimentare relazioni difficili: é stato chiamato addirittura Beelzebul, sporco diavolaccio. Forse la nostra situazione è un’altra, quella cioé di persone che non subiscono alcun tipo di conflitto, per il semplice fatto che non si espongono a testimoniare, che restano invischiate e omologate alle abitudini comportamentali e di pensiero dell’ambiente in cui vivono. L’assenza di persecuzioni per la Chiesa può essere il segno che essa non é piú come il sale che brucia sulle ferite dell’umanità o offre sapore all’insipida esistenza di massa. In questo caso Gesú é chiaro: «Chi dunque riconoscerà me (il testo greco usa il verbo homologhéō che significa dichiararsi solidale o complice) davanti agli uomini anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; «chi mi rinnegherà ( il testo greco usa il verbo arnéomai usato per descrivere la negazione di Pietro nel cortile del tribunale) anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. Ma che cosa vuole dire essere solidali con Gesù, dichiararci appartenenti a Lui? Padre Christophe, uno dei 7 monaci sgozzati nel 1996 a Tibhirine, in Algeria, aveva scritto: “Noi abbiamo dato a Dio il nostro cuore ‘all’ingrosso’, e ci costa molto che ce lo prende al dettaglio”. Il dono totale di sé (“all’ingrosso”) deve incominciare a consumarsi nella pazienza del quotidiano (“al dettaglio”). Come scrive Madeleine Delbrêl assistente sociale, mistica, poeta (1904-1964): “La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene. Vengono, invece, le pazienze. Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la Tua gloria, di ucciderci senza nostra gloria. Fin dal mattino esse vengono davanti a noi e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi. E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena. Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami che si distruggono col fuoco, così ci sono tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura. Perché abbiamo dimenticato che se ci sono fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci sono fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano. Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di quelli sgranati da un capo all’altro della vita. È la passione delle pazienze” .

2) Non temete per voi stessi. Anche la nostra sicurezza é messa alla prova: i nostri sembrano tempi nei quali nessuno può sentirsi completamente al sicuro. Ci stupisce quindi Gesú quando ci esorta a non preoccuparci troppo dei pericoli riguardanti il corpo, ma piuttosto di quelli riguardanti l’anima (in greco: psuchê, psiche). Qui non si tratta di un dualismo, della serie “l’unica cosa che conta é l’anima, il corpo non vale nulla”, ma di una diversa scala di valori. Ci ritornano alla mente le parole di Mt 6: “Per la vostra vita non affannatevi […] e neanche per il vostro corpo…cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia”. O quelle di Lc 10,41 “Marta, tu ti preoccupi (meglio sarebbe tradurre “ti iper-occupi) e ti agiti per molte cose, ma una sola é la cosa di cui c’é bisogno”.

3)   Non temete Dio. Gesú utilizza due similitudini, per farci capire quanta sia la cura di Dio verso di noi: quella dei due passeri senza valore commerciale e quella dei nostri capelli. Nel Vangelo ci sono altre immagini che ci descrivono in modo pittoresco la cura che Dio ha per ciascuno di noi, come ad esempio quella degli uccelli del cielo (in Luca é specificato: i corvi) che il Padre nutre, o dei gigli del campo che il Padre veste. Ma anche i tre quadretti della pecora soccorsa con ansia dal pastore, della moneta perduta e cercata dalla donna, del figlio peccatore che viene accolto dal Padre. Immagini dolci che tentano di affascinarci e ci invitano a non temere.

Dove finiamo tutti noi, nella settimana, dopo aver celebrato la Pasqua settimanale? Siamo un popolo da sagrestia o un popolo che vive nella piazza? Quello che la Parola oggi rivela è un problema da sempre avvertito nella chiesa. Ne fa fede questo testo di Gregorio Magno (540-604): «Non posso tacere e tuttavia, parlando, non posso evitare di colpire me stesso con la spada della Parola di Dio. Parlerò, parlerò. Che la spada della Parola di Dio passi anche attraverso me stesso, per arrivare a trafiggere il cuore del prossimo, a toccarlo in profondità nello Spirito. Parlerò, parlerò. Che la Parola di Dio si faccia sentire attraverso me, sia pure contro di me prima che contro altri».   


[1] che troveremo anche in 16,24 «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
[2] Cf. P.Bonnard, L’évangile selon saint Matthieu, Delachaux & Niestlé, pag 156




Domenica 14 giugno 2020
PANE E VINO PER RICORDARE, MANGIARE, VIVERE.

Le origini della festa di oggi risalgono al Papa Urbano IV che la istituisce l’ 11 agosto 1264 sotto la spinta di 3 donne beghine: nel Medioevo le donne comandavano anche i Papi! Era appena accaduto uno strano “miracolo” a Bolsena dove, si dice, un’ostia aveva perso gocce di sangue. E’ una festa che duplica la solenne celebrazione del Giovedì santo. Quando io sarò Papa con il nome di Pietro II° la eliminerò. Ma per ora, visto che c’è, ne visiterò il significato concentrandomi su tre verbi: ricordare, mangiare, vivere.

Preghiamo. Dio fedele, che nutri il tuo popolo con amore di Padre, ravviva in noi il desiderio di te, fonte inesauribile di ogni bene: fa’ che, sostenuti dal sacramento del Corpo e Sangue di Cristo, compiamo il viaggio della nostra vita, fino ad entrare nella gioia dei santi, tuoi convitati alla mensa del regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del Deuteronòmio 8,2-3.14-16
Mosè parlò al popolo dicendo: «Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

Salmo 147 Loda il Signore, Gerusalemme.
Celebra il Signore, Gerusalemme, loda il tuo Dio, Sion,

perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte, in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.
Egli mette pace nei tuoi confini e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce.
Annuncia a Giacobbe la sua parola, i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione, non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 10,16-17
Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

Dal Vangelo secondo Giovanni 6,51-58
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 PANE E VINO PER RICORDARE, MANGIARE, VIVERE. D. Augusto Fontana
Le origini della festa di oggi risalgono al Papa Urbano IV che la istituisce l’ 11 agosto 1264 sotto la spinta di 3 donne beghine[1]: nel Medioevo le donne comandavano anche i Papi. Era appena accaduto uno strano “miracolo” a Bolsena dove, si dice, un’ostia aveva perso gocce di sangue. E’ una festa che duplica la solenne celebrazione del Giovedì santo. Quando io sarò Papa con il nome di Pietro II° la eliminerò. Ma per ora, visto che c’è, ne visiterò il significato concentrandomi su tre verbi: ricordare, mangiare, vivere.
Ricordare.
«Ricordati di tutto il cammino che il Signore ti ha fatto fareNon dimenticare il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire…ti ha condotto…ha fatto sgorgare…ti ha nutrito». Il verbo greco Mnemonéuo corrisponde al verbo ebraico Zakar e al suo sostantivo Zikkaron che traduciamo con Memoriale (“Questo giorno sarà per voi le-zikkaron, il memoriale” Es. 12,14). Il Memoriale, nella Bibbia, non significa tornare con la memoria a eventi passati, ma diventarne protagonisti, trapiantando nel tempo presente un evento passato. Il ricordomemoriale fonda le grandi feste d’Israele: Peshach per celebrare l’uscita dall’Egitto; Shavu’ot per celebrare il dono della Torà dopo l’uscita dal deserto, Shabat per celebrare il settimo giorno della creazione. Un tipico esempio di ricordo coinvolgente e sconvolgente ce lo riferiscono i vangeli sinottici in occasione del tradimento di Pietro: «Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: Prima che il gallo canti… E pianse». Si ricordò e pianse. Così occorre ricordare! L’evento passato si incunea nel tuo hic et nunc (qui e adesso) e si attorciglia nelle fibre sensibili e dolenti della tua vita e della tua personalità e inizia a scuoterle in accelerazione e tu ne diventi protagonista. Il ricordo è un processo creativo e di comprensione che nasce dallo Spirito Santo: “Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi; ma lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,25-26). «L’oblio è la radice di tutti i mali» dice in modo lapidario un antico padre del deserto[2]. La catechesi biblica e liturgica di Israele e della Chiesa ci conduce a diventare ruminanti cioè ricordanti, come dice Antonio, antico padre del deserto: «Al cammello basta poco cibo. Egli lo conserva dentro di sé finché non ritorna alla stalla, lo fa risalire in bocca, lo rumina fino a che non entra nelle sue ossa e nella sua carne. Imitiamo il cammello: recitiamo ogni parola delle sante scritture custodendola in noi finché non l’abbiamo compiuta». L’Eucaristia domenicale è il tempo della nostra ruminazione comunitaria. San Gregorio di Nazianzio[3] afferma che “ricordarsi di Dio è più necessario che respirare; e, se così si può dire, non dobbiamo fare altro“. Noi siamo come Gomer la sposa del profeta Osea il quale dice di lei: “seguiva i suoi amanti mentre dimenticava me” (Osea 2,15). La sostanza profonda dell’infedeltà di lei è proprio il suo dimenticare infrangendo il legame dell’alleanza. Scrive Geremia: “più mutevole di ogni altra cosa è il cuore, difficilmente guaribile” (Geremia 17,9). Per questo Osea dichiara: ” ecco la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto” (Osea 2,16). Il ricorso a un luogo della “memoria che salva” è la scelta estrema di un Dio che rinuncia a ritirare gli alimenti alla sua sposa e la richiama nel luogo del fidanzamento per nutrirla di sussurri, di baci e di pane: «Prendete e mangiatene tutti…Fate questo in memoria di me».

Ma il Ricordare liturgico dell’Eucaristia si riferisce anche ad un altro aspetto messo in evidenza da due secche domande di Paolo nella seconda lettura: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?». Che è come dire: «Ricordatevi che poiché vi è un solo pane, noi siamo un solo corpo ». L’Eucaristia fonda la chiesa, ha scritto Giovanni Paolo II in due Lettere Encicliche[4]: «Ai germi di disgregazione tra gli uomini, che l’esperienza quotidiana mostra tanto radicati nell’umanità a causa del peccato, si contrappone la forza generatrice di unità del corpo di Cristo. L’Eucaristia, costruendo la Chiesa, proprio per questo crea comunità fra gli uomini». L’apostolo Paolo è costretto a inviare alcune righe di fuoco alla sua amata comunità di Corinto (1 Corinti 11): «Sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco…Volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente?». La discriminazione e l’indifferenza reciproca durante e dopo l’Eucaristia fu anche un grave dispiacere per l’apostolo Giacomo (Giac. 2): «Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: “Tu siediti qui comodamente”, e al povero dite: “Tu mettiti in piedi lì”, non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?». Ricordati, dunque, che facendo comunione con il Corpo e sangue di Cristo, tu apri la bocca per “mandar giù”(accogliere) anche il fratello. In tempi di diffusa intolleranza o indifferenza, ciò non sarebbe poco.
Mangiare.
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui». In poche righe la parola pane è citata 5 volte, carne e sangue 10 volte; mangiare e bere 11 volte.

Quando fu istituita la festa di oggi circolavano strani teologi, Albigesi o Catari, considerati poi eretici, i quali riprendendo le teorie dei Manichei, consideravano la materia come opera del diavolo; di conseguenza l’Incarnazione e i Sacramenti, Eucaristia compresa, altro non erano che inganni diabolici. Mi sembra di sentire ancora oggi l’odore acre di questa fede evanescente quando mi si dice: «Io sono molto cristiana anche se non vado a Messa». I Vangeli di Matteo, Marco e Luca ci ricordano il realismo della fede: «Prendete questo pane e masticatene tutti e bevete questo calice. Fate questo in memoriale di me» che ha il suo riscontro soprattutto nella storia dei discepoli di Emmaus, riscaldati dal Memoriale delle sue Parole e vivificati dal Memoriale della Cena: «Lo riconobbero allo spezzare del pane». Giovanni sembra ancora più realista: «Lavò loro i piedi e disse “lavatevi i piedi tra di voi come io ho fatto a voi”». Carne, pane, vino, sangue, piedi; masticare, bere, lavare: è la fine di una fede evanescente, intimistica, ideologica, anagrafica, sociologica! La materia in azione (spezzare…distribuire…mangiare) è luogo di rivelazione; la croce abitata da un grumo di sangue che si proclamava Figlio di Dio è il nuovo tempio; il giorno dopo il sabato è il nuovo santuario; una tomba vuota (il battistero?) è il giardino degli appuntamenti amorosi con Dio come lo fu un tempo il deserto pieno di paure e di serpenti velenosi, di tradimenti e di speranze, di rocce umide di acqua, di un arbusto nutriente e sconosciuto: «Man-hu? Cos’è questo?» si chiesero gli Israeliti inventando così un nome nuovo (manna) a quel succo zuccherino che sgorga dalle lesioni della corteccia del Fraxinus ornus e che si rapprende rapidamente a contatto dell’aria.
In questa nostra strana epoca materialista si snobba, chissà perché, un Dio che viene a noi attraverso il realismo della Incarnazione, della Parola e dei segni sacramentali, della carne dei poveri; in questa nostra strana epoca di banchetti ipercalorici si snobba un Dio che viene a noi nell’atto del mangiare masticando (Giovanni usa due verbi: phàgō = mangiare e trògō = masticare); in questa nostra strana epoca dell’oblio del passato e del futuro e che divora bulimicamente il tempo presente (patologia chiamata “cronofagia”, divorare il tempo) si snobba un Dio che ci invita a ricordare-meditando, fare memoria-celebrando, non dimenticare quello che fummo e quello che saremo con Lui. Pane e vino, non solo frumento e uva: pane e vino frutti sì della terra ma anche del lavoro di uomo/donna. Materia che sa di terra e di sole e di vento e di rugiada, ma anche di sudore di ascelle e piedi, e di gemiti dagli oppressi e di grida dai liberati. Santa materia sacramentale di Dio, carne di Dio, nutrimento e memoria, lavoro e celebrazione, Santa Eucaristia di gratitudine e lode, di canto e condivisione. Corpo e Sangue.
Vivere
Nel Vangelo di oggi, per 9 volte in poche righe risuona la vita. Padre Ermes Ronchi scrive: «Il nucleo essenziale del Vangelo oggi è racchiuso in due sole parole: pane e vita, mangiare e vivere. Vivere, canto supremo dell’essere, grido ultimo d’ogni salmo; vivere per sempre, vertigine della speranza. Ma il vangelo pone una domanda: che cosa ti fa’ vivere? Io vivo di persone. Vivo di progetti e di appelli, di passioni e di talenti. Ma io vivo soprattutto delle mie sorgenti, come accade per ogni fiume, come per ogni albero stretto alle sue radici. L’uomo non vive di solo pane. Anzi, di solo pane l’uomo muore. Tutti potremmo raccontare del nostro viaggio nella vita non soltanto gli scorpioni o i serpenti, ma l’acqua scaturita un giorno all’improvviso quando, disperati, credevamo di non farcela e dal cielo è arrivato qualcosa, una forza, un amore, un amico, un canto. Improvvisi squarci si sono aperti a ricordarci che non viviamo da soli, chiusi nel cerchio tragico dei nostri problemi, ma che c’è un amore che assedia i confini della storia. Se sono sopravvissuto, se non sono diventato io stesso un deserto, terra spenta e inospitale, lo devo a un Altro. Io vivo di Dio. Allora in ogni Messa, con in mano quel piccolo pane, con nel cuore un episodio santo, dialogare senza fine, come Israele di fronte alla manna: man hu? Che cos’è? È Gesù Cristo, È Lui che vive donandosi a me che vivo di pane e di miracolo»[5].


[1] Beghine e begardi dal 1150 erano associazioni religiose formatesi al di fuori della struttura gerarchica della Chiesa cattolica in una vita laicale monastica. Furono proibite dal Concilio ecumenico lateranense del 1215.
[2] Detti dei padri del deserto, Ed Qiqajon, Bose, 2002
[3]  Nasce a Nazianzio in Cappadocia nel 329 e muore nel 390 circa; è stato vescovo e teologo; fu maestro di san Girolamo.
[4] DIES DOMINI 1993; ECCLESIA DE EUCHARISTIA 2003.
[5] Persi nel deserto, è l’altro il nostro pane. p. Ermes Ronchi (02-06-2002)




7 giugno 2020. SS.TRINITA’
UN DIO MISTERIOSO

Oggi faccio mia, sempre più spesso, la preghiera del profeta Isaia: «Veramente tu sei un Dio nascosto [misterioso]» (Is 45,15). Sono stretto nella morsa tra il dover tacere e il dover nominare questo Nome Misterioso e Nascosto. E chissà quante volte ne ho parlato e scritto a vanvera. Ne dovrò rispondere quando il suo Nome e il Suo Volto mi si riveleranno così come sono e non così come lo ho creduto, rappresentato, predicato.

Preghiamo. Padre, fedele e misericordioso, che ci hai rivelato il mistero della tua vita donandoci il Figlio unigenito e lo Spirito di amore, sostieni la nostra fede e ispiraci sentimenti di pace e di speranza, perché riuniti nella comunione della tua Chiesa benediciamo il tuo nome glorioso e santo. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro dell’Èsodo 34,4-6.8-9
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo dalla testa dura, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».

[Salmo di] Daniele 3,52-56 A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri.

Benedetto il tuo nome glorioso e santo.
Benedetto sei tu nel tuo tempio santo, glorioso.
Benedetto sei tu sul trono del tuo regno.
Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli abissi e siedi sui cherubini.
Benedetto sei tu nel firmamento del cielo.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 13,11-13
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

Dal Vangelo secondo Giovanni 3,16-18
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

UN DIO MISTERIOSO.  Don Augusto Fontana
Oggi faccio mia, sempre più spesso, la preghiera del profeta Isaia: «Veramente tu sei un Dio nascosto [misterioso]» (Is 45,15). 
Mai sentito parlare di Manoach? (Libro dei Giudici cap. 13). Manoach aveva una moglie sterile alla quale appare più volte un “angelo” che le promette fecondità. Finalmente anche Manoach riesce ad incontrare il misterioso personaggio a cui vorrebbe destinare un sacrificio di lode, ma prima ne vuole conoscere il Nome: «Come ti chiami, perché quando si saranno avverate le tue parole, noi ti rendiamo onore?». L’angelo del Signore gli rispose: “Perché mi chiedi il nome? Esso è misterioso”». Sono stretto nella morsa tra il dover tacere e il dover nominare questo Nome Misterioso e Nascosto. E chissà quante volte ne ho parlato e scritto a vanvera. Ne dovrò rispondere quando il suo Nome e il Suo Volto mi si riveleranno così come sono e non così come lo ho rappresentato.
Nella Bibbia i Nomi di Dio non si contano più: Elohim=Dio; El-Shaddaï=Dio onnipotente; El-Elyon=Altissimo; El-Roï=Dio che vede; El-Kanna=Dio geloso; El-Haï=Dio vivente; El-Olam=Dio eterno; Adonaï=Signore e Maestro; Abba=Dio Padre -; Ehyeh=Io sono; Ehad=Eterno Uno; Misgav= Dio rifugio; Aman=Roccia; Agape=Amore; ecc.
Sono occorsi, alla Chiesa antica, più secoli per giungere a definire il dogma trinitario (Concilio di Nicea, 325) come noi lo conosciamo; l’espressione «un’unica natura divina in tre persone uguali e distinte» è chiaramente un tributo alla cultura filosofico-teologica del tempo e difficilmente trova riscontro – come linguaggio – nella Scrittura.
Quando il Capitolo Generale dei Cistercensi nel 1230 elevò la festa della Santissima Trinità al rango di celebrazione liturgica, venne specificato che non doveva esserci predica alcuna, “a motivo della difficoltà del soggetto” (cfr. B. Daley, Communio 21). Dal momento che il “soggetto” della Trinità era troppo complesso per la cristianità del XIII secolo, ci si può ben chiedere da quale punto si possa partire per affrontare oggi lo stesso tema, e quali applicazioni pratiche abbia la dottrina per il cristiano moderno.
Un anonimo ha trasmesso il seguente dialogo, scarno ma essenziale, tra un musulmano e un cristiano.
– Diceva un musulmano: “Dio, per noi, è uno; come potrebbe avere un figlio?”
– Rispose un cristiano: “Dio, per noi, è amore; come potrebbe essere solo?”
Si tratta di una forma stilizzata di ‘dialogo interreligioso’, che manifesta una verità fondamentale del Dio cristiano, capace di arricchire anche il monoteismo ebraico, musulmano e delle altre religioni.

Le letture di oggi ci rivelano il profilo, il volto o la fisionomia di Dio.

La lettura dell’esodo lo rivela come un Dio “compassionevole e misericordioso, lento all’ira e pieno di clemenza e fedeltà”; e questo immediatamente dopo l’episodio del vitello d’oro. Come per evidenziare il contrasto tra l’infedeltà del popolo e la fedeltà di Dio.
I profili biblici divini non rimandano solo alla paternità e mascolinità, ma anche alla femminilità materna. Il pensiero corre al delizioso Salmo 131,2: «Sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia». Oppure potremmo rimandare all’altra comparazione di Isaia 66,13: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò». Nel cantico di Mosè, presente in Deuteronomio 32, il Signore entra in scena come padre (v. 6: «Non è lui il padre che ti ha creato, lui che ti ha fatto e costituito?»). Ma poco dopo, designato col titolo classico di “roccia”, “rupe”, acquista un volto materno: « Tu hai trascurato la Roccia che ti ha generato; hai dimenticato il Dio che ti ha partorito» (32,18). Il secondo verbo (hîl) è specificamente materno perché definisce l’atto del “partorire”. Celebre, infine, è il testo di Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo lattante, di amare teneramente il figlio del suo ventre? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!».
Paolo, nella seconda lettura ci rivela il mistero di Dio mediante il saluto trinitario all’assemblea: “la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo siano sempre con voi”.
Da ultimo, il Vangelo di oggi è uno di quei testi, vertice della letteratura biblica, che rivelano una luce speciale: “Dio tanto amò il mondo che offrì il suo figlio“.

Questi saranno i veri fondamenti della nostra festa.

In primo luogo il Dio d’Israele e di Gesù è un Dio inserito nella storia. L’antico e il nuovo popolo di Dio non giungeranno all’esperienza di Dio né attraverso la natura (mediante le religioni naturali), né attraverso la filosofia (mediante le elucubrazioni dei filosofi), ma attraverso la storia. Da qui il Credo d’Israele e della chiesa si definisce come Credo storico; è impossibile proclamare questo Dio, tralasciando i grandi avvenimenti della storia di salvezza: “nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto”: sono dati storici puntuali. Tralasciare la storia, sarebbe disincarnare la fede, privarla della sua sacramentalità storica. Un Dio spogliato della storia non sarebbe il Dio dei cristiani.
In secondo luogo, in questa storia piena di luce e di ombre, ma guidata dalla mano di Jahweh, c’è un progresso; ciò che i teologi hanno chiamato “rivelazione progressiva”. Quando eravamo bambini avevamo un’esperienza di Dio che è venuta maturando poco alla volta diventando adulti. Si tratta di un principio della pedagogia divina. Il mistero di Dio “uno e trino” è frutto di questa esperienza di rivelazione progressiva nella storia. Rivelazione vertice, espressione di maturità: Dio non è un essere isolato, distaccato dalle realtà temporali, solitario. E’ un Dio comunitario, famigliare, sociale, fraterno… Il vertice di tutta la rivelazione biblica è questo: Dio è amore. E l’amore non è mai solitudine, isolamento, ma comunione, vicinanza, dialogo, alleanza. La Bibbia ci rivela, in una parola, chi è Dio: Dio è agape/amore (1Gv 4,8). Amore personale (perché ti ama, come se amasse solo te), amore totale (senza misura, perché la misura dell’amore è quella di dare senza misura), amore sacrificato (oblativo, paziente), amore universale (inclusivo, non escludente), amore preferenziale (si china sul più debole).
La Trinità? Un abbraccio, non un concetto[1]
Io che sono lento a credere, che mi ci vorrà forse tutta la vita non per capire, ma solo per assaporare un poco della fede, come potrò cogliere qualcosa della Trinità? Una strada c’è, e non è quella delle formule e dei concetti. Pensare di capire la Trinità attraverso le formule è come tentare di capire una parola analizzando l’inchiostro con cui è scritta. Dio non è una definizione ma un’esperienza. La Trinità non è un concetto da capire, ma una manifestazione da accogliere. In uno dei capolavori di Kieslowski sui Dieci Comandamenti, Decalogo I, il bambino protagonista sta giocando al computer. Improvvisamente si ferma e chiede alla zia: «Com’è Dio?». La zia lo guarda in silenzio, gli si avvicina, lo abbraccia, gli bacia i capelli e tenendolo stretto a sé sussurra: «Come ti senti, in questo momento?». Pavel non vuole sciogliersi dall’abbraccio, alza gli occhi e risponde: «Bene, mi sento bene». E la zia: «Ecco, Pavel, Dio è così». Dio come un abbraccio. Se non c’è amore, non vale nessun magistero. Se non c’è amore, nessuna cattedra sa dire Dio. Dio come un abbraccio: è il senso della Trinità. Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione. Se il nostro Dio non fosse Trinità, vale a dire incontro, relazione, comunione e dono reciproco, sarebbe un Dio da delusione, assente e distratto. Ma Dio è estasi, cioè un uscire-da-sé in cerca d’oggetti d’amore, in cerca di un popolo anche se di testa dura, del quale farsi compagno di viaggio e ristoro entro l’arsura estrema del deserto. Dio ha tanto amato il mondo, da mandare suo Figlio… E mondo e uomo sono storia della Trinità. Mosè, il grande amico di Dio, prega così: «Che il Signore cammini in mezzo a noi, venga in mezzo alla sua gente. Non resti sul monte, guida alta e lontana, ma scenda e si perda in mezzo al calpestio del popolo». Tutta la sacra Scrittura ci assicura che nel calpestio del popolo, nella polvere dei sentieri, lo Spirito accende profeti ed orizzonti, il Padre rallenta il suo passo sul ritmo del nostro, il Figlio è salvezza che ci cammina a fianco. E questo ci sarebbe bastato. Invece l’Ascensione ha portato la nostra natura nel seno stesso della Trinità, quell’uomo già creato ad immagine non di Dio, ma della Trinità, l’uomo pensato come un abbraccio.

Trinità e Chiesa: una polifonia.
« Voi non fatevi chiamare rabbini perché è uno solo e il vostro maestro e voi siete tutti fratelli» (Matteo 23,8). L’odierno contesto socio-culturale è segnato da un marcato iper-individualismo e questo non ci aiuta per una esperienza di Chiesa come fraternità e sororità. Spesso nelle nostre comunità i ministri ordinati si comportano, o vengono considerati per pigrizia e interesse, come capi indiscussi. Perciò non sorprende il vedere il ruolo ancora subalterno dell’altra parte più numerosa del popolo di Dio, cioè dei cristiani laici. E neppure sorprende di constatare ancora oggi nella Chiesa, a oltre 50 anni dal Concilio Vaticano II° l’assenza di una vera Sinodalità, vale a dire la capacità di camminare insieme, ministri ordinati e laici cristiani, per dialogare liberamente e confrontarsi nella carità, per progettare e decidere insieme, al fine di trovare un vero consenso ecclesiale. Una Chiesa che nasce dalla Trinità è una Chiesa capace di vivere in sinodo permanente non solo all’interno della Chiesa stessa, ma anche con la società civile. Prevale ancora la smania di schierarsi in campi contrapposti, in nome di “valori non negoziabili” o a difesa di una “cultura cattolica”. È vero: la Chiesa non è una democrazia parlamentare. Ma neppure è una monarchia teocratica che insegue l’idolatria del capo. Diciamo, allora, che è una fraternità. La categoria di fraternità, letta in chiave teologica, ci permette di superare sia la visione populista che quella gerarchica e piramidale della Chiesa. Il fondamento sta innanzitutto nel Dio/Trinità; ossia la comunione di persone e la comunicazione dialogica tra il Padre il Figlio e lo Spirito Santo. Comunione e comunicazione non chiusa tra i Tre, ma aperta e donata gratuitamente alle creature umane. Per questo il Concilio Vaticano II° afferma che “la Chiesa universale si presenta come un popolo adunato dall’unità del padre, del figlio e dello spirito Santo” (Lumen Gentium, 4); “Tutti i fedeli con quanta più stretta comunione saranno uniti col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, con tanto più intima e facile azione potranno accrescere la mutua fraternità” (Unitatis Redintegratio 7).L’apostolo Paolo chiama Gesù “primogenito tra molti fratelli” (Romani 8,29). Alle donne accorse al sepolcro Gesù dice: “andate ad annunciare ai miei fratelli…” (Matteo 28,10). Scrive ancora il concilio Vaticano II°: “il verbo incarnato, primogenito tra molti fratelli… dopo la sua morte e risurrezione ha istituito attraverso il dono del suo spirito una nuova comunione fraterna, in quel suo corpo che è la Chiesa, nel quale tutti, membri tra di loro, si prestassero servizi reciproci, secondo doni diversi loro concessi” ( Gaudium et spes 32).
Papa Francesco durante l’assemblea della CEI il 20 maggio 2019 ha detto ai Vescovi: “[la Sinodalità] è la cartella clinica dello stato di salute della Chiesa italiana e del vostro operato pastorale ed ecclesiastico”.

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[1] P. Ermes Ronchi (26-05-2002)




31 maggio 2020. Domenica di Pentecoste
UN ALITO

Così mi dice un amico colpito da coronavirus: «Non ho mai avuto la febbre altissima, ma per un paio di sere ho vissuto la cosiddetta fame d’aria. Provi a respirare, ma è come se i polmoni non rispondessero, per circa 20 minuti ho avuto la sensazione che i polmoni fossero una busta bucata. Ho avuto paura. Ora sto meglio, ma quanto ossigeno mi hanno dato!». Sono felice che qualcuno sia stato restituito alla vita e agli affetti dopo quel momento maledetto. Così deve aver pensato l’evangelista Giovanni quando ci rivelava che Gesù, sulla croce, ha deposto, e continua a deporre, le sue labbra di morente e risorgente sulle mie cianotiche labbra, per ridarmi il suo soffio che rianimi paure, debolezze, anemie, scoraggiamenti, delusioni: «E chinato il capo diede lo Spirito».

Preghiamo. O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo, e continua oggi, nella comunità dei credenti, i prodigi che hai operato agli inizi della predicazione del Vangelo. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dagli Atti degli Apostoli 2,1-11
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».  (versetti omessi dalla Liturgia:12 Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: «Che significa questo?».13 Altri invece li deridevano e dicevano: «Si sono ubriacati di mosto».)
Salmo 103 Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.
Benedici il Signore, anima mia! Sei tanto grande, Signore, mio Dio!

Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature.
Togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.
Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto, io gioirò nel Signore.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 12,3b-7.12-13
Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo.Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

Dal Vangelo secondo Giovanni 20,19-23
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

UN ALITO. Don Augusto Fontana
Così mi dice un amico colpito da coronavirus: «Non ho mai avuto la febbre altissima, ma per un paio di sere ho vissuto la cosiddetta fame d’aria. Provi a respirare, ma è come se i polmoni non rispondessero, per circa 20 minuti ho avuto la sensazione che i polmoni fossero una busta bucata. Ho avuto paura. Ora sto meglio, ma quanto ossigeno mi hanno dato!». Sono felice che qualcuno sia stato restituito alla vita e agli affetti dopo quel momento maledetto. Così deve aver pensato l’evangelista Giovanni quando ci rivelava che Gesù, sulla croce, ha deposto, e continua a deporre, le sue labbra di morente e risorgente sulle mie cianotiche labbra, per ridarmi il suo soffio che rianimi paure, debolezze, anemie, scoraggiamenti, delusioni: «E chinato il capo diede lo Spirito» (Gv 19, 30). Questi sono giorni maledetti che rivelano il nostro bisogno di avere un Dio amante che ci stampi sulle labbra diafane il bacio della sua bocca: «Mi baci con i baci della sua bocca» (Cantico, 1,2). Un soffio, un bacio. Pentecoste. Nonostante le mascherine.
Le bravate e le risse, il bullismo che infetta ragazzini di 12 anni, le violenze sulle donne sono all’ordine del giorno su tutto il territorio nazionale. Tutti noi vediamo e sentiamo, ma ci sentiamo paralizzati di fronte al fenomeno di intolleranza trasversale che colpisce qualunque persona che passa in quel momento in quella strada o vicolo della città. Il carcere non è la soluzione ideale e denuncia il fallimento della politica e della aggregazione sociale. Inoltre i sondaggi ci dicono che il regalo maggiormente desiderato dalle ragazze italiane è un intervento dal chirurgo estetico. La priorità quotidiana di apparire, sono un dato allarmante. E se non bastasse: i paesi arabi che si affacciano sul mediterraneo sono scossi da sanguinose ribellioni ai loro governi e torna lo spettro della guerra civile e di religione; arabi e israeliani non ce la fanno a trovare una via d’uscita politica all’eterno conflitto; l’Africa è sempre più sedotta e abbandonata da noi occidentali “cristiani” che la sverginiamo con i nostri appetiti per poi abbandonarla in attesa del prossimo stupro. E la Chiesa, quella che doveva nascere dall’utero del Concilio Vaticano II°?
Ci manca il fiato, il respiro; e trasmettiamo alle nuove generazioni una vita asfittica, dopata, orfana.
Qualsiasi grande città del nostro mondo ricorda oggi l’ambiente della torre di Babele: pluralità di lingue, di culture, d’idee, di stili di vita e problemi immensi d’intolleranza e incomprensione tra coloro che la abitano. Come possono convivere e comprendersi quelli che hanno tante differenze? La situazione sta diventando particolarmente problematica nei paesi sviluppati, ma anche nelle grandi città di tutto il mondo. Immigranti da altre province o da paesi in cui lasciano tutto per cercare un lavoro, un luogo dove cercare vita e qualità di vita. Per molti di loro arrivare all’altra riva è la loro speranza. E quando arrivano, nel caso li lasciamo entrare, inizia un vero calvario per potersi mettere al nostro livello. Il nostro mondo si è trasformato ora nel paradigma della torre di Babele, parola che significava “porta degli dei”. Così era denominata la città di ieri, simbolo della cultura urbana di oggi. Una città intorno ad una torre, una lingua ed un progetto: scalare il cielo, invadere l’area del divino. L’essere umano ha voluto essere come Dio (già lo aveva tentato prima, nel paradiso, a livello di coppia, ora a livello politico) e si unì (si uniformò) per ottenerlo. Ma il progetto fallì: quel Dio, geloso dagli inizi del progresso umano, confuse (in ebraico: “balal“) le lingue e chiuse per sempre la porta degli dei (“Babel“). Forse quel mondo uniformato non ci fu mai sulla terra, forse fu solo un’aspirazione tentatrice del potere umano. Dopo il fallimento, le diverse lingue furono il maggior ostacolo alla convivenza, principio di dispersione e di rottura umana. L’autore della narrazione della torre di Babele non pensò alla ricchezza della pluralità e interpretò il gesto divino come castigo. Ma insinuò che Dio era per il pluralismo, differenziando gli abitanti del luogo in base alla lingua e disperdendoli. Molti secoli dopo che venne scritta questa narrazione del libro della Genesi, ne leggiamo un’altra nel Libro degli Atti degli Apostoli. Ebbe luogo il giorno di Pentecoste, festa della mietitura in cui i giudei ricordavano il patto di Dio con il popolo sul monte Sinai, “50 giorni” (= Pentecoste) dopo l’uscita dall’Egitto. I discepoli erano riuniti, anche 50 giorni dopo la resurrezione (l’esodo di Gesù verso il Padre) e si preparavano a raccogliere il frutto della semina del Maestro: la venuta dello Spirito che è descritta con eventi particolari, espressi come se si trattasse di fenomeni sensibili: rumore come di vento tempestoso, lingue come di fuoco che consuma o purifica; Spirito (= “ruah“: aria, soffio vitale, respiro) Santo (= “hagios“: non-terreno, separato, divino). E’ il modo che sceglie Luca per esprimere l’inenarrabile, l’irruzione di uno Spirito che li libera dalla paura e dal timore e che li farà parlare con libertà per promulgare la Buona Notizia della morte e resurrezione di Gesù. Per questo, ricevuto lo Spirito, iniziano a farsi capire da tutti. Poco importa indagare in cosa consistette quel fenomeno. Ciò che importa è sapere che il movimento di Gesù nasce aperto a tutto il mondo e a tutti, che Dio non vuole l’uniformità, ma la pluralità; che non vuole lo scontro ma il dialogo; che è iniziata una nuova Era in cui bisogna proclamare che tutti possono essere fratelli, non solo “nonostante” ma “grazie” alle differenze; che adesso è possibile capirsi, superando ogni tipo di barriere che impediscono la comunicazione. Perché questo Spirito di Dio non è Spirito di monotonia o di uniformità: è poliglotta, polifonico. Il giorno di Pentecoste, da più lingue non ne venne, come a Babele, più confusione. “Ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua delle meraviglie di Dio“. Dio rese possibile il miracolo d’intendersi. Iniziò così la nuova Babele, quella voluta da Dio, lontana da malsane uniformità, un mondo plurale ma concorde. Speriamo di continuare a reinventarla e non ad innalzare muri né barriere tra ricchi e poveri, tra paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo.
La venuta dello Spirito significò per quel pugno di discepoli la fine della paura e del timore. Le porte della comunità si aprirono. Nacque una comunità libera come il vento, come fuoco ardente[1].
Gesù, dice il Vangelo, alitò su di loro. La parola “alitare” (emphysao) è la stessa parola che usa il Libro della Genesi per rivelare l’atto creativo di Dio. Dio ci dona la forza con la quale egli ha agito ed amato e la sua forza è creatrice. Tutto ciò che abbiamo come un seme, in forma germinale, si risveglia grazie allo Spirito che lo feconda. C’è tutta una ricchezza, un mondo, una creazione che si deve sviluppare in me. Che lo Spirito scenda su di me vuol dire che io sono chiamato a prendermi cura delle mie doti e delle risorse altrui. Tutto è in me come un seme. «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito» scrive Paolo ai Corinti e a noi. Gesù rende consapevoli dell’enorme potere che i discepoli hanno: «Se voi perdonerete (in greco: afìemi=lascerete andare) i peccati saranno perdonati e a chi non li perdonerete (in greco: cratéo=li terrete in pugno) resteranno non perdonati». Giovanni usa due verbi: il primo è afìemi, perdonare, mandare via, scacciare, rimettere. Il secondo è cratéo, che significa trattenere, tenere in pugno, impossessarsi, dominare, spadroneggiare. Cioè: la comunità cristiana ha due possibilità: o lasciar andare o trattenere.

Ancora e sempre Pentecoste.
Quando ti senti perdonato e amato forse ancora di più dopo il tuo errore, è lui, lo Spirito. Quando senti circolare, nelle vene, forza e fiducia mentre affronti la prova, è ancora lui, lo Spirito. La capacità di intravedere in profondità, di guardare con speranza, con occhi capaci di sorprendere le gemme più che i rami improduttivi, è ancora lui, lo Spirito. La capacità di contemplare e fidarti della sconvolgente debolezza delle cose sul nascere; il coraggio di essere spesso soli a vegliare sui primi passi degli incontri, soli a guardare lontano e avanti, è lui, lo Spirito creatore. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito. Se Cristo ha riunificato l’umanità, lo Spirito ha diversificato le persone. All’unità creata dall’amore di Gesù si accompagna la diversità creata dal fuoco dello Spirito: nel giorno di Pentecoste le fiamme dello Spirito si dividono e ognuna illumina una persona diversa, sposa una libertà irriducibile, annuncia una vocazione. Lo Spirito dà ad ogni cristiano una genialità che gli è propria, e ciascuno deve essere fedele al proprio dono. E se tu fallisci, se non realizzi ciò che puoi essere, ne verrà una disarmonia nel mondo intero, un rallentamento di tutto l’immenso pellegrinare del cosmo verso la vita, una ferita alla Chiesa: come corpo di Cristo, essa esige adesione e unità; come Pentecoste vuole l’invenzione, la libertà creatrice, la battaglia della coscienza. In questi tempi il compito della Pentecoste si fa segretamente più intenso: generare al mondo uomini liberi, responsabili e creativi.
Tutto torna in teoria, in poesia, in omelia. In pratica invece sentiamo le contrazioni del dolore del parto. Come in questi giorni nella crisi del Monastero di Bose con l’espulsione da parte del Vaticano (chiamato “Santa Sede”) del fondatore Enzo Bianchi e altri 3 monaci. I covi di vipere sono ben altri e ben più gravi nella chiesa, nelle parrocchie, nelle diocesi. E uno di questi covi di vipere è dentro di me. Spirito Santo, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è storto. Dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano i tuoi santi doni.
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[1] Don Remigio Menegatti, 2006




24 maggio 2020-Glorificazione di Gesù
ASSUNTO A TEMPO INDETERMINATO

Un giorno – una delle rare volte – parlavo di questioni di fede con alcuni compagni di lavoro. Non riuscivo a trovare le parole giuste per “spiegare” il significato della Ascensione. Poi mi venne un’idea: trasferire il linguaggio dal termine “ascensione” a quello di “assunzione”. Dio ha “assunto” Gesù. Loro, come me, sapevano bene cosa significava “essere assunti”; ci venne in mente il giorno in cui ci arrivò a casa la comunicazione della Ditta: «…ci pregiamo comunicare che a fare tempo dalla data…lei è stato assunto presso la scrivente Azienda in qualità di operaio specializzato…».

Preghiamo. Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria. Egli è Dio, e vive e regna con te…
Dagli Atti degli Apostoli 1,1-11
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

Sal 46 Ascende il Signore tra canti di gioia.
Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia,

perché terribile è il Signore, l’Altissimo, grande re su tutta la terra.
Ascende Dio tra le acclamazioni, il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni, cantate inni al nostro re, cantate inni.
Perché Dio è re di tutta la terra, cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti, Dio siede sul suo trono santo.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni 1,17-23
Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

Dal Vangelo secondo Matteo 28,16-20
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

ASSUNTO A TEMPO INDETERMINATO. Don Augusto Fontana.
Dire Ascensione è come dire Pasqua. Risurrezione, Ascensione e Pentecoste nei primi secoli si celebravano nello stesso giorno. E’ la stessa festa, lo stesso evento guardato da prospettive diverse.

Quale Dio?
«… mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi».
Una “nube” (cioè Dio stesso) ce lo ha “tolto dai nostri occhi”. Dio, diventato visibile nella carne e nella storia umana di Gesù torna libero nel Suo mistero, come ci ha rivelato Isaia (45,15): «Veramente tu sei Dio-nascosto (in ebraico El-mistatter)»: non per farci agguati puerili, ma perché, forse, desidera essere cercato e trovato.

Martin Buber[1] narra: «Il nipote di Rabbi Baruch, il ragazzo Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo. Egli si nascose bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo, uscì dal nascondiglio; ma l’altro non si vedeva. Jehiel si accorse allora che quello non l’aveva mai cercato. Questo lo fece piangere. Piangendo, corse dal nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono allora di lacrime ed egli disse: “Così dice anche Dio: «Io mi nascondo, ma nessuno mi vuole cercare»”.
Data questa premessa, mi posso permettere di chiedermi quale volto di Dio posso ancora intravedere dietro questo evento misterioso che chiamiamo “ascensione”.
Un giorno – una delle rare volte – parlavo di questioni di fede con alcuni compagni di lavoro. Non riuscivo a trovare le parole giuste per “spiegare” il significato della Ascensione. Poi mi venne un’idea: trasferire il linguaggio dal termine “ascensione” a quello di “assunzione”. Dio ha “assunto” Gesù. Loro, come me, sapevano bene cosa significava “essere assunti”; ci venne in mente il giorno in cui ci arrivò a casa la comunicazione della Ditta: «…ci pregiamo comunicare che a fare tempo dalla data…lei è stato assunto presso la scrivente Azienda in qualità di operaio specializzato…». Uno di loro colse subito il doppio senso: «Per voi preti, allora, Gesù è stato assunto da Dio per lavorare», mi disse con un sorriso provocatorio, senza sapere che, così, faceva vera teologia. Mi accorsi che avevo aperto un piccolo pertugio, non per “spiegare”, ma per “alludere” al Mistero. Gesù non va in “licenza”, non parte in vacanza, ma inizia una presenza nuova, ancora più attiva di prima: «Io sono con voi tutti i giorni». Mi fu più difficile cercare di far capire che questa nuova modalità di presenza coinvolge però la Chiesa. Gesù lavora e la Chiesa lavora con lui. Dall’Ascensione in poi essere spirituali vuol dire essere materiali: non rifugiarsi nello spirituale, ma prendersi cura di questo mondo.
Quale chiesa?
L’evangelista Luca, nella prima Lettura, descrive, quasi, un evento storico come se fosse visibile e sperimentabile: «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi » (Atti 1). All’evangelista Matteo non interessa più di tanto. A lui preme l’effetto a ricaduta sulla Chiesa: «Andate …fate discepoli … battezzandoli, insegnando». Non dice che Gesù ascese al cielo. Dice solo che Gesù appare agli Undici e dice loro alcune cose. E’ una scena di congedo dalla visibilità, ma non dalla storia. Gesù se ne va e lascia le sue ultime parole, un testamento, come quando uno muore e lascia l’eredità di continuare il suo sogno, il suo lavoro, le sue passioni. Allora la Chiesa dovrebbe sempre chiedersi: “Ma io faccio vedere il Cristo? Io lo annuncio? I miei comportamenti, i miei gesti parlano di Lui?”.

Etty Hillesum, morta in campo di concentramento nazista, scriveva nel suo Diario: “Verrà un giorno, Signore, in cui non saremo noi a chiamare in causa le tue responsabilità, ma sarai tu a chiamare in causa le nostre responsabilità. Non noi ti diremo: “Tu, Dio, dov’eri?”, ma Tu ci dirai: “E tu, uomo, dov’eri? Tu Dio non ci puoi più aiutare, ma tocca a noi aiutare Te e salvare un pezzo di cielo nelle nostre anime e in questo mondo”[2].
Bonhoeffer, pastore evangelico e teologo martire, diceva: “I cristiani che stanno con un piede solo sulla terra, staranno con un piede solo anche in paradiso[3].
Praticamente Matteo affida alle sue ultime righe la sintesi dottrinale del suo Evangelo. Ma anche la sua catechesi alla comunità. Che chiesa è quella che nasce dalla Pasqua? La liturgia del tempo pasquale ce ne ha dato, di domenica in domenica, la sua identità, il suo profilo pastorale.
Matteo annota che alcuni discepoli “si inginocchiano davanti” e “dubitano“. Sono i due volti della chiesa di allora e di ogni tempo. Ci sono persone che sentono Dio vicino, vivo, presente e dentro la loro vita. Ci sono altri che sono scettici, che non si lasciano coinvolgere.
Anzi: questa doppia faccia è dentro di me; non si tratta solo di categorie di persone, ma di condizioni cicliche della mia fede. Talvolta credo in modo forte. Talvolta l’adesione e l’esperienza di Dio diventa tiepida e vacillante.
Matteo, poi, cita una frase del profeta Daniele (7, 27 ): «Allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo». Gesù è il Signore della storia. Lo ha proclamato Paolo nella seconda Lettura: «[Dio] lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione». Scriveva il monaco Arturo Paoli[4]: «La Bibbia riporta continuamente episodi di opposizione del Dio unico e vero contro l’idolo che contende con lui il dominio sul mondo. E l’idolo attuale è stato inequivocabilmente smascherato da Gesù: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro; non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24). Tradurre mammona con “denaro” non è corretto perché il denaro può essere simbolo di giustizia e di libertà o di dominazione e schiavitù. Di idoli, oggi, ne sono colmi i cuori e la società, compreso l’idolo economico o bancario. “E se tu scegli l’idolo diventi come l’idolo che ha volto oscuro, bocca muta, occhio spento, orecchio sordo, naso insensibile, mano chiusa, piede paralizzato, gola serrata e senza suono” (Sal. 115,4-8). Perché la chiesa non si è accorta di essere in terra di esilio dominata dall’idolo? Perché l’ultimo idolo si è presentato disarmato, sotto la pelle dell’agnello, si è messo nel gregge non per disperderlo lontano dai pascoli ma con il progetto di ingrassarlo con alimenti metabolizzanti, perché il pastore non si accorgesse della loro provenienza, del loro enorme costo di vite umane. Ma cercate ancora; voi troverete dei segni di resistenza. Ritengo che si tratta di assumere concretamente la resistenza/costruzione, che passa dallo sviluppo di una miriade di rapporti non utilitaristici con gli altri, con il mondo e con noi stessi. Se i grandi appaiono seri, la serietà in questo caso è quella degli amanti della morte. Contrapponiamo a questa, con mille feste, la vera serietà, quella del pensiero, della solidarietà, della creazione. Oggi non vi è nulla di più serio che costruire le mille vie sovversive di resistenza alla follia utilitaristica del neoliberismo che distrugge la vita e la libertà»[5].
Gesù per quattro volte dice: “ ogni potere… tutte le nazioni… tutto ciò che vi ho comandato…tutti i giorni“. Ogni cosa, tutti gli eventi e ogni uomo. Gesù si presenta come il signore della storia che esclude ogni restrizione di tempo di spazio e di persona. Allora qui si vuol dire che la salvezza è per tutti, nessuno escluso. Dio è di tutti, Dio è per tutti. Nessun movimento, nessuna chiesa, nessun gruppo può sequestrare la salvezza di Dio.
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[1] M. Buber, I racconti dei Chassidim, Milano 1985, pag.140
[2] Diario. Preghiera della domenica mattina [12 luglio 1942]
[3] E’ un frase di una lettera scritta dal carcere alla fidanzata Maria von Wedemeyer.
[4] Arturo Paoli Chiesa e idolatria del mercato (ROCCA 01/08/05)
[5] Silvano Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo, edizioni EDB, Bologna.




17 maggio 2020. Domenica 6a di Pasqua
INTERIORITA’, TRASPARENZA, IMPEGNO

Papa Francesco il 27 marzo scorso diceva: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità…Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: “Voi non abbiate paura” (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pietro 5,7)».

Preghiamo. O Dio, che ci hai redenti nel Cristo tuo Figlio messo a morte per i nostri peccati e risuscitato alla vita immortale, confermaci con il tuo Spirito di verità, perché nella gioia che viene da te, siamo pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dagli Atti degli Apostoli8,5-8.14-17
In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città. Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

Sal 65 Acclamate Dio, voi tutti della terra.
Acclamate Dio, voi tutti della terra, cantate la gloria del suo nome, dategli gloria con la lode.

Dite a Dio: «Stupende sono le tue opere!
A te si prostri tutta la terra, a te canti inni, canti al tuo nome».
Venite e vedete le opere di Dio, stupendo nel suo agire sugli uomini.
Egli cambiò il mare in terraferma; passarono a piedi il fiume:
per questo in lui esultiamo di gioia. Con la sua forza domina in eterno.
Venite, ascoltate, voi tutti che onorate Dio, e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia.
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo 3,15-18
Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

Dal Vangelo secondo Giovanni 14,15-21
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

INTERIORITÀ, TRASPARENZA, IMPEGNO[1]. Don Augusto Fontana
Papa Francesco il 27 marzo scorso diceva: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità…Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: “Voi non abbiate paura” (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pietro 5,7)».

Il brano del Vangelo di Giovanni svela l’interiorità del credente, che non è un orfano che vive in solitudine piegato su di sé; specie nei momenti di disperazione, quando ogni appiglio della storia gli si spezza nelle mani. Il credente ha in sé la presenza del Padre e dello Spirito consolatore (il termine greco para-kletos significa “chiamato vicino”) e del Figlio. Questa presenza che è il punto luminoso di ogni riflessione cristiana sulla realtà intima della fede, si esprime poi con la fedeltà al comandamento dell’amore.
Nel Lettera di Pietro, la manifestazione della fede non appare come propaganda o proselitismo nei confronti dei non credenti, ma come trasparenza di una speranza capace di scuotere lo spirito degli altri.
Gli Atti degli Apostoli rivelano l’impegno: Filippo va ad annunciare il Vangelo nella Samaria. La Samaria era, per l’antico Israele, una regione emarginata; c’era idealmente un filo spinato attorno alla Samaria. Non c’erano contatti tra gli Ebrei e i Samaritani. Ed è proprio lì che va Filippo e non solo annuncia ma libera i malati, gli oppressi, gli indemoniati. E « vi fu grande gioia in quella città ». È la testimonianza della liberazione in cui il credente dà concretezza storica alla sua fede.

 I tre passi della fede.
Tre momenti dunque: interiorità, trasparenza, impegno. Sono tre tappe di un cammino della vita di fede.
1- Innanzitutto il Vangelo ha una parola toccante, quando ci dice che non saremo lasciati orfani. L’immagine dell’orfano è l’immagine dell’uomo senza paternità e maternità, senza riferimenti di cuore. Aver fede significa uscire da questa solitudine, è stabilire un rapporto di dialogo interno con una paternità. E perché mai questa certezza della paternità di Dio, a dispetto di tutte le prove tangibili? È importante non dimenticare che il Vangelo non fonda mai la certezza della paternità di Dio sull’evidenza delle cose. Il Vangelo chiama in causa lo Spirito. È la forza dello Spirito che ci rende certi. Di questa forza dello Spirito non si danno argomentazioni. Non è un oggetto dimostrabile; è una forza sperimentabile. Così come ragionando mille anni su che cosa è l’amore, non si capisce niente se non lo si è sperimentato, a maggior ragione lo Spirito Santo non significa niente se non se ne ha l’esperienza. L’esperienza interiore dello Spirito è il momento della certezza della paternità di Dio. Se abbiamo la certezza che viene dallo Spirito, noi sappiamo che c’è un luogo in cui si è manifestata la paternità: è Gesù, il Signore. Scrive P. Ermes Ronchi: «Per sette volte oggi, nei sette versetti del brano, Gesù parla di unione: una passione di unirsi corre dentro la storia di Dio e dell’uomo. Passione di unirsi per cui Dio è diventato, in principio, il respiro stesso di Adamo; per cui per millenni ha cercato un popolo, profeti di fuoco, re e mendicanti, e infine una ragazza di Nazareth per entrare in comunione con l’umanità, comunione assoluta. E qui Giovanni ricorre al verbo più importante della vita spirituale: essere-in. Non solo essere accanto, presso, vicino, ma essere-in. Dentro, immersi, uniti: lo Spirito sarà in voi… io sono nel Padre, voi siete in me e io in voi. Fino a che l’altro diventi tua dimora e tua casa. In Dio per primo c’è questa passione, lui per primo viene incontro, è lui che cerca casa, a noi compete il lasciarci amare, e questo è finalmente, gioiosamente facile e bello. Questo è il comandamento: passione di unirsi a Dio e quindi di agire con lui e come lui nella storia, essere le sue mani, un frammento del suo cuore. Nessuna etica vive senza una mistica».
Nel cap. 21 nel famoso libro “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry si narra la fantastica storia del Piccolo Principe che addomestica una volpe, scatenando però un legame indissolubile di amicizia. La volpe dice al Piccolo Principe: “non si vede bene che con il cuore…L’essenziale è invisibile agli occhi”. Mi è venuto in mente questo passo mentre riflettevo sulle parole che Gesù consegna ai suoi discepoli nell’ultima cena, poco prima di esser crocifisso. Questa è, in poche parole, la dinamica della vita interiore del credente.
2- Però, se ci presentiamo agli altri (ed ecco il secondo momento), come manifestiamo la nostra speranza? Nella Lettera di Pietro ci sono parole che hanno una delicatezza moderna: «Fate questo con dolcezza e rispetto, con retta coscienza». Ci sono modi di ostentare le certezze interiori che sono irriguardosi e provocatori. Si può utilizzare la fede come un randello. In un mondo che si dispera, andare a raccontare che tutto è bello, che Dio è Padre, può essere una provocazione irrispettosa. Camminare con una rosa in mano in mezzo alle rovine del mondo non è una dimostrazione di amore, ma una forma di narcisismo detestabile. Dobbiamo imparare ancora il rispetto per gli altri. Può anche capitare che una processione non sia più un segno eloquente ma irrispettoso. Le certezze che vengono dal Padre non si gridano per umiliare gli altri. Qui è il punto critico. Per poter parlare delle ragioni della speranza non posso semplicemente rifarmi alle mie certezze soggettive; devo connettere queste mie certezze alle ragioni degli altri. Con un non-credente il linguaggio della fede non è un punto di incontro. Il punto di incontro è la speranza. La speranza è il nome laico della fede, è il nome partecipabile. Se la mia fede ha un senso umano, lo dimostrerò dando speranza. E quale speranza? Non possiamo far trionfare le ragioni della speranza cristiana sul fallimento della speranza umana. Questa speranza cristiana va inserita nella cruna delle speranze umane, dalle più piccole alle più grandi. I cristiani spesso hanno diviso le speranze umane in due gruppi: quelle spirituali ed eterne e quelle storiche e quotidiane. Spesso contavano solo le prime. E così abbiamo modificato una fede, che è liberatrice, in una fede oppiacea, che dissuade dagli impegni per la giustizia. Per dare le ragioni della nostra speranza in un linguaggio rispettoso essa deve entrare dentro gli spazi delle speranze dell’uomo. Questo comporta che si aboliscano in noi presunzioni più o meno camuffate, aggressività più o meno truccate di belle maniere, che portano dentro di sé l’irriverenza verso l’uomo. Il Signore ha camminato accanto a noi e si è messo a sedere accanto a noi. Non ha imposto le sue speranze, è entrato nella disperazione del paralitico, del padre a cui era morta la figlia, della samaritana dal cuore agitato ed arido. La vita del Signore non è la predicazione di una arida filosofia, ma è un viaggio accanto all’uomo. Siccome viviamo in un tempo in cui camminiamo su un crinale fra la disperazione e la speranza, occorre sapere dai cristiani che cosa hanno da dire. Se hanno da dire soltanto che dopo questa vita staremo meglio, che se saremo buoni saremo premiati, allora essi trascurano qualcosa di essenziale. La vita eterna, di per sé, è molto più importante di questa che viviamo. Ma nell’ordine dell’amore, l’essenziale può essere il bicchier d’acqua dato all’assetato e il pane dato all’affamato. È questo un punto critico della nostra fede. Lo vediamo; in un tempo di crescenti disperazioni, non siamo sempre in grado, come credenti, di essere testimoni della speranza. Le piazze, gli assembramenti umani, dei giovani in specie, non tollerano più nessun riferimento al Vangelo perché la parola evangelica non ha più senso. Essa deve ritrovare la via all’interno delle speranze che agitano il cuore dell’uomo collettivo e individuo.
3- Il terzo momento è quello della gioia della città. La città di Samaria (scomunicata, emarginata, praticamente un lebbrosario) che all’improvviso fiorisce nella gioia è un emblema degli effetti della presenza cristiana in mezzo agli emarginati, in mezzo alla città. Io sono credente se il mio impegno è un impegno di liberazione, se io caccio i demoni dall’uomo; se, cioè, libero l’uomo dalle sudditanze interiori alle ideologie, se riesco a restituire all’uomo una speranza che va al di là degli stretti orizzonti in cui giochiamo il nostro destino immediato, se riapro nel cuore dell’uomo una ragione di gioia. Una pietà cristiana che non sia molle ma forte, deve entrare nella circolazione della vita collettiva, Questa pietà disarma, come quella del Signore, che morì, giusto per gli ingiusti, e che sulla croce disarmò perfino il centurione. Egli rimane la vittima innocente che disarma l’uomo, che lo rende finalmente inerme. Nel Getsemani il capo degli apostoli tirò fuori la spada! Non basta essere cristiani per essere non violenti, anzi le ragioni di certezza che noi abbiamo ci espongono ad una forma di terrorismo dottrinale o psicologico che ha qualcosa a che fare con la violenza di cui siamo spettatori.
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[1] Elaborazione da Il mandorlo e il fuoco di P.Ernesto Balducci Vol. 1 – Ed Borla.




10 maggio. Domenica 5a di Pasqua
IO SONO LA STRADA

La liturgia ci porta a chiederci non «dov’é Gesù?», ma «dove sta andando?». Non «dove possiamo trovarlo?», ma «dove ci porta?». Domenica scorsa Gesù si è presentato: « Io sono la porta». Oggi ci dice «Io sono la strada». Anche Gesù è in movimento. Domenica si diceva:« il pastore cammina davanti al gregge». Oggi si dice «Io vado…quando sarò andato tornerò…». Esodo. Una chiesa in esodo, in movimento. Un ovile che…viaggia, più simile ad una transumanza che ad un rifugio protettivo o un muro del pianto.  Mi pare che siamo perseguitati da immagini, parole e verbi di movimento. 

 Preghiamo. O Padre, che ti riveli in Cristo maestro e redentore, fa’ che, aderendo a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a te, siamo edificati anche noi in sacerdozio regale, popolo santo, tempio della tua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dagli Atti degli Apostoli 6,1-7
In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola». Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

Sal 32 Il tuo amore, Signore, sia su di noi: in te speriamo.
Esultate, o giusti, nel Signore; per gli uomini retti è bella la lode.

Lodate il Signore con la cetra, con l’arpa a dieci corde a lui cantate.
Perché retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame.
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo 2,4-9
Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso». Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

Dal Vangelo secondo Giovanni 14,1-12
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

«IO SONO LA STRADA». Don Augusto Fontana
La liturgia ci porta a chiederci non «dov’é Gesù?», ma «dove sta andando?». Non «dove possiamo trovarlo?», ma «dove ci porta?». Domenica scorsa abbiamo sentito un brano della Prima Lettera di Pietro (cap.2): «Se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poichè anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme». La domanda dunque ci insegue: “dove sta andando?”, “dove ci porta?”. Questa domanda l’abbiamo sentita risuonare nel Cenacolo nell’imminenza della Pasqua: «Quando Giuda fu uscito, Gesù disse: “Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete: dove vado io voi non potete venire”. Simon Pietro gli dice: “Signore, dove vai?”. Gli rispose Gesù: “Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi”. Pietro disse: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!”. Rispose Gesù: “Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte”» (Gv. 13). Questa domanda risuona dopo la resurrezione e si fa chiara oggi: « “E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”» (Gv. 14). Il termine più importante è il primo, “la via”, gli altri due servono come spiegazione (cioè: “Io sono la via, in quanto verità e vita”).
«Dice il Signore: Io sono la via, ma noi abbiamo seguito altre strade. Io sono la verità, e noi abbiamo pensato di possederla chiudendola in formule, in aride dottrine. Io sono la vita, ma noi abbiamo cercato altre sorgenti e altro pane che non nutrono»[1].
Domenica scorsa Gesù si è presentato: « Io sono la porta». Oggi ci dice «Io sono la strada».
Anche Gesù è in movimento. Domenica si diceva:« il pastore cammina davanti al gregge». Oggi si dice «Io vado…quando sarò andato tornerò…». Esodo. Una chiesa in esodo, in movimento. Un ovile che…viaggia, più simile ad una transumanza che ad un rifugio protettivo o un muro del pianto.
Mi pare che siamo perseguitati da immagini, parole e verbi di movimento. E’ chiaro che non si tratta solo di spostamenti da un posto all’altro: anche questo, ovviamente, se si rilegge la storia della Chiesa coma la storia di una missione: «Andate![2]». Ma si tratta anche di spostamenti interiori, quello schiodarsi dalle proprie abitudini e idee che la Bibbia chiama con il termine di “ritorno” o “conversione”: «Fin dai tempi dei vostri padri vi siete allontanati dai miei precetti, non li avete messi in pratica. Ritornate a me e io tornerò a voi, dice il Signore. Ma voi dite: “Come dobbiamo tornare?” » (Malachia 3, 7). Ecco la domanda: «Come dobbiamo tornare? Come possiamo conoscere la via?». Ma la domanda più sapiente l’ha fatta, a nome nostro, Simon Pietro: «Signore, dove vai?». Il nostro specifico posto di discepoli è di essere dove è Lui: «…perché siate anche voi dove sono io». Se risaliamo la corrente della nostra vita di battezzati prima o poi ritroviamo la nostra sorgente che consiste in un invito: «Seguimi![3]». Dove va il Signore?. Gesù pregava spesso con i salmi: «Camminerò alla presenza del Signore sulla terra dei viventi (mentre vivo la mia vita quotidiana)» (Salmo 116, 9). «Beato l’uomo di integra condotta, che cammina nella legge del Signore…Non commette ingiustizie, cammina per le sue vie…Sarò sicuro nel mio cammino, perché ho ricercato la tua volontà….Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino….Grande pace per chi ama la tua legge, nel suo cammino non trova inciampo». (salmo 119, versetti 1.3.45.105.165). Già così riusciamo a capire verso dove sta andando e verso dove ci conduce il pastore delle nostre vite.
Con le mani giunte e i piedi per terra…
Ma se volessimo tradurre più concretamente alcune indicazioni, la prima lettura di oggi ci offre uno spunto appetitoso: si tratta del racconto meditato di una delle prime comunità pasquali che si misura con la concretezza dei problemi della vita messi a confronto con le opportunità offerte dallo Spirito. Mentre cresceva il numero di quanti rico­noscevano in Gesù il Messia, la comunità di Gerusalemme si ritro­vava spaccata tra ‘ellenisti’ ed ‘ebrei’ (v. 1): i primi erano giudei di lingua e forse anche di cultura greca, provenienti da terre fuori della Palestina; i secondi, invece, erano giudei palestinesi, di lingua aramaica, legati a usanze religiose ebraiche. La diversità di ve­dute tra i due gruppi si rendeva evidente soprattutto a livello di prassi religiosa: mentre i cristiani ‘ebrei’ mantennero invariate alcune consuetudini liturgiche come la frequenza al tempio per la preghiera (cfr., ad esempio, At 3,1), i cristiani ‘ellenisti’ non mostravano la stessa preoccupazione. Il racconto ricorda una protesta da parte degli ‘ellenisti’ per ra­gioni di equità: ritenevano infatti che, in occasione del­la distribuzione dei sussidi, le loro vedove venissero trascurate. Si rende così necessario l’intervento autorevole dei Dodici per dirimere la questione. Nella soluzione proposta, gli apostoli cer­cano di evitare di compromettere il bene supremo della comu­nione, dando – ad esempio – ragione agli uni contro gli altri, oppure avocando a sé il controllo economico della comunità; preferisco­no, piuttosto, cogliere l’occasione per offrire un metodo per il discernimento comunitario. Distinguono quindi i livelli di compe­tenza, affermando anzitutto il loro compito principale: la pre­ghiera pubblica e l’annuncio della parola di Dio (vv. 2.4). Le questioni economiche degli ‘ellenisti’ possono invece essere de­legate agli interessati: sarà il gruppo stesso degli ‘ellenisti’, al pro­prio interno, ad individuare alcuni probi viri in grado di assolvere a questo compito (v. 3). Il bene della comunione ecclesiale, in questo modo, passa at­traverso una varietà di vedute ben organizzata. E’ il diffondersi della parola di Dio a sollecitare una nuova riorganizzazione. E’ questo uno stile paradigmatico di gestione della Chiesa: con i piedi per terra e le mani giunte …
Due soluzioni emergono chiaramente: quando una parrocchia tratta cose materiali deve essere una grande esperta dello Spirito e quando si occupa di Liturgia e Parola deve possedere una notevole e continua esperienza nel servizio agli impoveriti. Quando “amministra” non deve “sporcarsi le mani”, quando “celebra” non deve aver paura di sporcarsele.
Io sono vita. Voi siete pietre vive, non decorative.
Nella seconda lettura emerge una chiesa che segue il Signore diventando una comunità di corresponsabili costruttori, anzi pietre vive. La pietra richiama spesso una staticità che è però sinonimo di morte, come la pietra tombale rotolata da­vanti al sepolcro di Gesù (Mt 27,66). Nel testo di Pietro, invece, la metafora della pietra diventa paradossale: è viva e non è standard. Nella Chiesa tutti i battezzati sono chiamati ad esercitare il loro sacerdozio specifico (Romani 12,1) e a proclamare al mondo “le opere meravigliose compiute dal Signore”. Ma occorre essere pietre vive “scartate dai costruttori”. Saremo pietre “fuori misura”, scartabili quando non rientreremo nella misura standard del conformismo, quando non ci adatteremo agli ossequi formali, quando non accetteremo di essere utilizzati per facciate appariscenti, quando la nostra vita punzecchierà i sogni dei furbi, quando la nostra mitezza non ci vedrà arruolati in operazioni di forza, quando cioè saremo pietre vive, parlanti, pensanti, e non pietre morte, inerti, squadrate, maneggevoli, decorative.
Perché Lui oggi in questa celebrazione è pietra viva, strada, porta, pastore, vita, verità e ci conduce per di là.
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[1] Padre Ermes Ronchi
[2] Vangelo secondo Matteo: cap. 20 «[7] Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna»; Cap. 22 «[9]andate ora agli incroci delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze»; cap. 25 «[6]A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!»; cap. 28 «[7]Presto, andate a dire ai suoi discepoli: E` risuscitato dai morti»; cap. 28 «[19]Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole…»
[3] Vangelo secondo Matteo – cap. 9 «[9]Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. »; cap. 19 «[21]Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».




4a domenica di Pasqua. 3 maggio
IL PASTORE CHE CONDIVIDE

Gesù pastore. Per di più buono. L’immagine apre su vasti orizzonti di mistica, di organizzazione pastorale, di leadership ecclesiale, di psicologia delle masse, di ecumenismo. Immagine teologica e dolce insieme; ma oggi lontana dall’immaginario europeo dei più. L’esperienza dei pastori dell’antico oriente rappresenta un riferimento lontano dalle attuali nostre condizioni di vita; nella nostra civiltà industriale e urbanizzata, l’immagine ha perso molto della sua forza e del suo mordente. Questo richiede un maggiore sforzo di ricerca. Il pastore semita non è solo guida che conduce ad un’oasi o ad un pascolo. Non solo guida, ma anche condivide.
Preghiamo. O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita. Egli è Dio, e vive e regna con te…
Dagli Atti degli Apostoli 2,14.36-41
[Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa!». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone.
Sal 22 Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo 2,20b-25
Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.
Dal Vangelo secondo Giovanni 10,1-10
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

IL PASTORE CHE CONDIVIDE. Don Augusto Fontana

Gesù pastore. Per di più buono. L’immagine apre su vasti orizzonti di mistica, di organizzazione pastorale, di leadership ecclesiale, di psicologia delle masse, di ecumenismo. Immagine teologica e dolce insieme; ma oggi lontana dall’immaginario europeo dei più. L’esperienza dei pastori dell’antico oriente rappresenta un riferimento lontano dalle attuali nostre condizioni di vita; nella nostra civiltà industriale e urbanizzata, l’immagine ha perso molto della sua forza e del suo mordente. Questo richiede un maggiore sforzo di ricerca. Il pastore semita non è solo guida che conduce ad un’oasi o ad un pascolo. Lui sa dare certezza e sicurezza perché il suo bastone nodoso libera sentieri intricati e difende da attacchi di animali selvatici; e l’unità del gregge è contenuta dal leggero tocco del rametto di salice (vincastro) sui fianchi della pecora disorientata. Il pastore è anche compagno di viaggio per cui le sue ore sono quelle del gregge: i rischi, la fame, la sete, il sole, la pioggia. Non solo guida, ma anche condivide: « pur essendo Figlio, imparò tuttavia l`obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5, 8-9).
Il gregge. E’ in marcia per la transumanza. Si seguono i ritmi stagionali alla ricerca di nuovi pascoli. In primavera si vaga in terreni liberi. In estate si chiede ospitalità a popolazioni sedentarie e agricole alle quali si chiede di poter ospitare il gregge. I trasferimenti costituiscono situazioni spesso drammatiche: la necessità di trasferirsi velocemente è ostacolata da pecore incinte o che hanno appena partorito; animali e uomini predatori minacciano pastori e greggi, i clan sedentari accusano i pastori di essere ladri e di portare malattie o di essere una classe socialmente inferiore e pericolosa. 

«Sei il mio pastore». Non sfuggo la domanda: «Chi dirige o guida o anima veramente la mia vita?». La domanda non è solo per i mistici. Quale autorevolezza ha Gesù nella mia esistenza, nel determinare i miei sentieri? Come si esprime la sua leadership sui nostri regimi di vita ecclesiali?
«Tu sei con me, non manco di nulla». Non manco di nulla perchè di fatto non mi faccio mancare nulla? E chi manca di tutto, come può pronunciare questa preghiera? Quale sono le graduatorie di valore produttrici delle mie felicità? “Siete stati arricchiti in Lui di ogni cosa, di ogni parola e scienza” (1 Cor.1,5) “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”( 1 Cor. 3, 22-23).
«La valle oscura», le tempeste della vita: chi ci vive dentro ha bisogno di sentire un Dio condividente: «Non temere vermiciattolo, larva! Non temere perchè io sono con te, non smarrirti perchè io sono il tuo Dio» (Isaia 41, 10. 14). «Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno; mai permetterà che il giusto vacilli» (Salmo 55,23). «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Isaia 43,1-5). «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Lettera ai Romani 8, 35).

La figura del Dio-pastore nasce prevalentemente dall’esperienza del deserto dell’esodo: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te. Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo»[1].

Il deserto è un evento durante il quale due partner si conoscono e si ri-conoscono. Succede anche nella vita: ci si conosce stando insieme, litigando e perdonandosi, servendosi a vicenda. Un beduino espulso dal proprio clan o viene accolto da un altro clan o muore. Il deserto è una lezione che l’uomo riceve: per la vita non basta il pane, occorre la Parola di Dio. Il deserto è “assenza di…”: nella sabbia non si può nè costruire città nè piantare orti e giardini; anzi il deserto tende ad invadere l’area coltivata. «Vagavano nel deserto, nella steppa, non trovavano il cammino per una città dove abitare. Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie. Li condusse sulla via retta, perché camminassero verso una città dove abitare»[2]. Il deserto rappresenta ogni tempo dove è possibile maturare come succede per l’apprendistato, il fidanzamento, l’adolescenza, una pandemia virale. Il deserto rappresenta una lunga dilazione della promessa e della sua realizzazione; è un tempo intermedio che raccoglie e rappresenta sentimenti diversi: attesa, speranza, rassegnazione, disperazione, impazienza, mormorazione, costanza, tenacia, resistenza, fedeltà. Nel deserto si cammina. In questo cammino dell’esodo Dio si presenta come uno che accompagna, che guida, che precede, come un pastore. Dio di fatto sembra dare direzioni generiche del tipo “Andate verso Nord!” e spetta poi all’uomo precisare il proprio cammino. Il simbolo di questa assistenza è la nube che si ferma, si avvia, sceglie la direzione; successivamente sarà l’Arca della alleanza a dimostrare che il popolo pellegrino desidera camminare dietro il suo Signore. Gesù dirà a Pietro che vuole mettersi davanti a lui: «Torna dietro a me, diavolaccio!» (Mc.8,33). Può accadere infatti che i suoi sentieri non siano i nostri sentieri e che quindi li si smarriscano, smarrendo anche noi stessi. Bisogna quindi cercare il Signore fin che si fa trovare, dice Isaia (Is.55,6-8).
In quale contesto Giovanni presenta Gesù come pastore? Nel cap. 9 ricorda la guarigione di un cieco dalla nascita. Ma contestualmente presenta anche la rigidità mentale dei farisei che non riescono a gioire delle recuperate funzioni relazionali del cieco. E si beccano una poco simpatica risposta di Gesù: «Se foste ciechi non avreste colpa, ma siccome dite “Ci vediamo” allora il vostro peccato rimane». Ciechi che guidano altri ciechi: dice Giovanni. E per questo colloca qui la pagina del capitolo 10: Gesù è la porta dell’ovile, è il pastore del gregge. Probabilmente ai tempi di Giovanni già una comunità organizzata offriva spunti di riflessione a causa di certi presbiteri o responsabili non all’altezza.: «hanno pasciuto se stessi, non hanno dato forza alle pecore deboli, non hanno cercato quella malata, nè fasciato quella ferita, non hanno ricondotto la smarrita, nè cercato quella che era perduta ed hanno oppresso con durezza quella robusta»[3]. Giovanni sente la necessità di ricordare chi è il vero e unico pastore della chiesa e, comunque, a quale modello devono riferirsi quelli che si fanno chiamare pastori o a quale modello dovesse riferirsi una comunità che volesse esercitare il proprio ministero pastorale nel mondo.

Una comunità “pastorale”?
Lo scenario liturgico di oggi potrebbe essere addirittura ambiguo: ci sono troppe persone che vogliono contornarsi di pecore docili ed obbedienti, che sognano una società di “pecoroni” allineati e acritici da governare e manipolare a loro piacere. Parlare di “docili pecore”, di “sacri pastori” e di figli devoti della chiesa è un linguaggio caro a chi sogna una comunità ecclesiale tutta ben ordinata e obbediente agli ordini della gerarchia. La corresponsabilità ecclesiale sembra divenuta spesso un rituale con scarso contenuto: basti pensare ai consigli pastorali, che dopo aver contribuito anche a far maturare in tanti laici una sensibilità nuova, disponibile all’iniziativa, alla responsabilità, a modalità adulte di stare nella Chiesa, spesso sono divenuti luoghi formali di discussioni nelle quali non è in effetti in gioco il volto della propria Chiesa, né si discute del modo concreto con cui essa può svolgere la sua missione. Oggi di fatto nella comunità cristiana e nei luoghi di corresponsabilità ecclesiale si tende spesso a confondere la comunione con l’uniformità del modo di pensare; si teme il dialogo quasi che il pensare e l’esprimersi in forme plurali costituisca una minore fedeltà. Mi sembra diminuito lo spirito del confronto interno alla Chiesa, che il Concilio ci chiedeva di maturare. Ma mi pare attenuarsi anche il sentirci nel mondo, come cristiani e come Chiesa, partecipi fino in fondo delle vicende, delle tensioni, delle fatiche del contesto entro cui viviamo come fratelli, compagni di viaggio che condividono la fatica e la bellezza dello stesso viaggio.
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[1] Deuteronomio 8 
[2] Numeri 20,5; Salmo 107,4-5.
[3] Ezechiele 34, 2. 4