22 dicembre 2024. Domenica Avvento 4a
TU

4° domenica di Avvento 2024

Preghiamo.
O Dio, che hai scelto l’umile figlia di Israele per farne la tua dimora, dona alla Chiesa una totale adesione al tuo volere, perché imitando l’obbedienza del Verbo, venuto nel mondo per servire, esulti con Maria per la tua salvezza e si offra a te in perenne cantico di lode. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Michea 5,1-4
Così dice il Signore: E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità; dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace.
Salmo 79. Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu
, pastore d’Israele, ascolta, seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci.
Dio dell’universo, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Dalla lettera agli Ebrei 10,5-10
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”».  Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
Dal Vangelo secondo Luca 1,39-48
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

QUANDO DARSI DEL TU” È IMPEGNATIVO[1]

Le tre letture della Messa odierna, iniziano tutte in modo molto diretto:
Tu Betlemme di Efrata, non sei il più piccolo dei capoluoghi di Giuda!”
“(Tu) Padre, mi hai preparato un corpo!”
“Benedetta Tu tra le donne, Maria!”
Nel linguaggio biblico, l’uso della seconda persona singolare non è tanto un segno di confidenza, come per noi oggi. Al contrario. Dare del tu è spesso una cosa abbastanza seria.
Tu sei sacerdote per sempre”…“Tu sei Pietro”…“Tu sei il mio figlio prediletto”.
Nella Bibbia il “tu” non è accorciamento della distanza. Anzi. È franchezza. È incarico dato e responsabilità da assumere. La Bibbia non ha bisogno di convenevoli. Va dritta. Ci interroga in seconda persona e ci chiede in modo molto diretto e franco una risposta. La Parola di Dio ci dà sempre del “tu”, perché parla personalmente.
 TU BETLEMME –  TU PADRE –  TU MARIA.
 Ora, i tre “tu” della quarta domenica di Avvento mi portano una domanda seria: Dio ha ancora un progetto su questo piccolo formicaio umano sperduto su un piccolo pianeta che vaga dentro 170 miliardi di galassie?
I teologi usano oggi un linguaggio strano, per descrivere il piano di Dio nella storia: dicono che esso è “economia della salvezza”. Non so cosa capiamo, udendo la frase “economia della salvezza”: inconsciamente forse pensiamo alla legge finanziaria, ancora in alto mare, più che alle cose di Dio. Ma nell’economia della salvezza, cioè nel “tempo umano visitato dalla tenerezza di Dio” sono sempre necessari tre “tu”, tre coordinate, affinché le cose vadano per il verso giusto:
Occorre il “Tu, Betlemme”, cioè uno spazio.
Occorre il “Tu, Padre” cioè un progetto di Dio.
Occorre il “Tu Maria” cioè la disponibilità umana.
Se tolgo uno dei tre “tu”, mando in malora l’economia della salvezza.

Lo spazio che Dio sceglie per il compimento dell’economia di salvezza è quello di un borgo con quattro case, che si chiama “Beit-lehem”, cioè “casa del pane”, cittadina detta anche “Efrata” cioè “feconda”. Feconda agli occhi di Dio: “Tu, Betlemme Efrata, la più piccola tra le città di Giuda, da te mi uscirà Colui che regnerà su Israele”. Dio non ama gli spazi grandi, le cornici plateali: preferisce partire dalla periferia dello spazio. Qual è il mio SPAZIO, il mio ambiente vitale, entro cui intendo accogliere il Signore in questa eterna Incarnazione che si materializza nella liturgia di quest’anno?

Il progetto divino  è contro la logica umana: “Tu non hai gradito sacrificio (al tempio) o oblazione (sull’altare): un corpo mi hai preparato”. Finora gli uomini avevano offerto sacrifici cruenti o incruenti a Dio, per accattivarsi il suo favore. Pensavano che Dio amasse i sacrifici e le offerte. Ma il progetto di Dio richiede disponibilità e la disponibilità collaborativa è meglio dei sacrifici. “Sia fatta la tua volontà come in cielo, così in terra”: messo in pratica davvero, vale più di tutte le candele che possiamo accendere in Chiesa o le ritualità senz’anima. Una delle Preghiere Eucaristiche celebra così: «Lo Spirito Santo faccia di noi un’offerta perenne a te gradita». Di qui la domanda: sono cosciente che non solo il prete o la suora rispondono ad una vocazione progettuale di Dio, ma anche i battezzati, la sposata, il lavoratore, sono chiamati a rendere visibile almeno un frammento di Vangelo e di vita di Gesù?

La risposta umana è quella di una ragazza sconosciuta. “Tu sei benedetta tra le donne!”. Benedetta.  Dio si è compiaciuto di guardare alla “piccolezza della sua serva”. Anche questa scelta umana mi sorprende. Ma “L’uomo guarda l’esterno, mentre Dio guarda il cuore” (1 Samuele, 16,7).

Sulla soglia della Festa dell’Incarnazione io e te ascoltiamo un TU!, rivolto proprio a me e te. Non ci sono alibi, sembra dirci la liturgia di domenica.

«Proprio io? Proprio a me?».

E Dio disse: «Tu!».


[1] elaborazione da commento di Alvise Bellinato




15 dicembre 2024. Domenica 3a avvento
GIOIA COME RESISTENZA.

TERZA DOMENICA DI AVVENTO

Dal libro del profeta Sofonìa (3,14-18)
Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: “Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa”.
Salmo (Is 12,2-6) Canta ed esulta, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.
Ecco, Dio è la mia salvezza;  io avrò fiducia, non avrò timore,
perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza.
Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere,
fate ricordare che il suo nome è sublime.
Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose eccelse, le conosca tutta la terra.
Canta ed esulta, tu che abiti in Sion, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési  4,4-7
Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.
Dal vangelo secondo Luca 3,10-18
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: “Che cosa dobbiamo fare?”.
Rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”.
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: “Maestro, che dobbiamo fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”.
Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?”. Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”.
Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile”. Con molte altre esortazioni evangelizzava il popolo.

GIOIA COME RESISTENZA. D. Augusto Fontana

La logica mondana del pessimismo, della rassegnazione e del malcontento spesso mi fa accodare alle varie cassandre di turno per cui non so di fatto trovare e mostrare vie d’uscita, alternative al tono grigio e tragico della mia rassegna-stampa quotidiana, alle ombre cupe che mi si allungano sul cuore per la vecchiaia e la malattia. I tempi del profeta Sofonia non erano migliori dei miei: si erano diffusi culti stranieri e sincretismo religioso, i monarchi erano collusi con culture idolatre, si diffondeva nel popolo uno stile di vita pagano e il paese era devastato da violenze e ingiustizie. Certo la gioia, come il coraggio, uno non se la può dare, mi direbbe don Abbondio. E allora mi trovo oggi imbarazzato e inappetente davanti al piatto che mi ha preparato la Parola di Dio: «Gioisci, esulta e rallegrati… Non temere, non lasciarti cadere le braccia… Rallegratevi nel Signore, in ogni situazione… Non angustiatevi per nulla». Preso da una poco invidiabile anoressia dell’animo, fisso la portata e non mi decido a ficcarci dentro la bocca. E mi riappaiono, come folletti, i contadini poveri del Brasile o gli indios Shuaras della foresta amazzonica ecuadoregna che ho visto accesi da un’insolita musicale allegria che faceva da controcanto alla loro endemica, dignitosa e resistente povertà. Ma allora di quale gioia si tratta? Dovrò assumere anfetamine spirituali per dopare la mia cristiana performance giornaliera?
Non penso che Paolo, data la sua situazione di prigioniero, pensasse a fare salti di gioia quando scrive alla comunità di Filippi: «Gioite nel Signore in ogni situazione». Forse pensava ad una serena resistenza; l’accento del duplice invito (kàirete, gioite!) è posto sulla continuità della gioia (in ogni situazione), che non può essere l’emo­zione di un momento, ma deve attraversare tutte le situazioni, anche quelle di prova, sempre (avverbio greco pàntote). Paolo esorta ad una gioia capace di permanere anche nell’espe­rienza delle contrarietà. È un invito ai limiti del  mio possibile. Per Paolo la fonte di questa resistente serenità non è nella capacità della psiche, ma «nel Signore». E questa serenità resistente non può restare nascosta nell’interiorità della per­sona, ma deve trasparire anche nelle relazioni: «La vostra amabi­lità sia nota a tutti gli uomini». Il termine «amabilità» usato da Paolo (tà epiei­kés) contiene in sé molte sfumature, quali quella della modera­zione, della benevolenza, della dolcezza, del rispetto e della cor­tesia. In definitiva, è la capacità di cercare il benessere dell’altro. Ci sembra per­tanto che la traduzione ‘amabilità’ riesca a riassumere bene la ric­chezza del termine greco e indichi uno stile moderato, non violento, realmente affabile, che caratterizza la relazione con le altre persone. Non basta amare: bisogna essere amabili. La motivazione di questo atteggiamento è indicata dall’Apo­stolo con un’espressione che ricorre più volte nel suo epistolario: «Il Signore è vicino». Qui Paolo pensa che il ritorno di Cristo sia immi­nente. Il fatto che il Signore debba tornare fa assumere alle cose un valore diverso, le relati­vizza e insieme le apre alla speranza, alla dimensione dell’attesa. La vicinanza del Signore riguarda non solo l’attesa del suo ritorno glorioso, ma la sua presenza misteriosa che so­stiene nelle prove. Perciò anche le relazioni interpersonali, pur in un con­testo di tribolazione e di ostilità, possono essere ‘diverse’, improntate ad un’amabile benevolenza. La vicinanza del Signore motiva anche l’esortazione alla fidu­cia, che si manifesta in particolare nel momento della preghiera e nel non lasciarsi schiacciare dagli affanni. Si tratta di affidarsi totalmente a Dio per superare l’ansietà generata dalle preoccu­pazioni. La fiducia non è semplice rassegnazione, ma è un espor­re a Dio i propri bisogni e la propria via («Manifesta al Signore la tua via, confida in lui: compirà la sua opera» Salmo 37,5). L’in­vito di Paolo riecheggia gli insegnamenti di Gesù nella tradizio­ne evangelica, quando invita i suoi discepoli a non preoccuparsi eccessivamente per i problemi e le necessità del vivere quotidiano (cfr. Mt 6,25.31.34; Lc 10,41; 12,22). Paolo nella lettera ai Romani: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada?» (Romani 8,31-35).
Conosco un testo di Isaia (41, 14.19) dove il Signore mi definisce con termini apparentemente fastidiosi, ma che lentamente sono diventati musica dolce: «Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto, tuo redentore è il Santo di Israele». Io, questo piccolo verme nudo, questo bruco peloso che striscia a cercare sul terreno arido una qualche foglia che si renda appetibile, sono invitato a guardarmi intorno e scoprire sette tipi di alberi che Lui ha fatto crescere attorno a me: «Pianterò cedri nel deserto, acacie, mirti e ulivi; porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti». Ma ancora il mio animo non si è lasciato smuovere dalla sua atonica inappetenza. Allora il testo liturgico di Sofonia pare narrare ciò che accade in ogni famiglia quando un bambino imbronciato non ne vuol sapere di mangiare: papà o mamma si mettono a fare i pagliacci, a danzargli intorno e cantare e sorridere, nel tentativo di strappargli uno stupore che gli sblocchi l’umor nero del momento: « Il Signore danzerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa». In Luca 15, 5-7 il pastore si mette la pecora sulle spalle «contento» e invita tutti a «rallegrarsi» perché c’è più «gioia» per un peccatore che si pente che per 99 giusti. Lui gioisce quando trova la moneta perduta (Lc. 15, 9), quando fa festa per il figlio tornato (Lc. 15,23-24).
Dio Padre-Madre, mettiti a danzare attorno a me, porta il mio sguardo, perso nel vuoto, a guardarti saltellare e cantare attorno a me e trascinami in quella gioia di cui abbiamo perso l’indirizzo: «Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza» (Salmo 117, 14). Tu, Dio, vieni a danzare attorno a me e fammi sorridere.
CHE DOBBIAMO FARE?
Due sono gli orizzonti della serena resistenza: uno derivante dalla liberazione sociale e l’altro dalla guarigione interiore. Giovanni Battezzatore dice che non c’è bisogno che tutti vengano nel deserto: basta che ognuno viva nella giustizia e nella solidarietà lì dove si trova; quello che conta è il cambiamento della vita quotidiana.
La gioia messianica non può essere scambiata per superficialità infantile o per irresponsabile fuga dal presente: «Che cosa dobbiamo fare?». Ci viene suggerita una carità audace, accorta, attenta a capire i fenomeni complessi della società attuale e a sperimentare gli strumenti più idonei. Questo si misura in modo particolare nell’etica professionale: dalla prospettiva del guadagno illimitato alla coscienza di una retribu­zione equa, da un clima pesante di lamentele e di rassegnazione, di protesta e di rabbia, all’impegno di compiere bene il proprio mestiere. In una lettera pastorale (Sto alla porta. Anno pastorale 1992­-1993) il card. Martini si domandava: «Perché un imprenditore de­ve ribellarsi alla richiesta di pagare una tangente? Perché un gior­nalista deve affrancarsi dal conformismo? Perché un infermiere deve trattare bene i pazienti scomodi e noiosi? Perché questi e al­tri atteggiamenti devono essere la regola, non ‘eroismo’ di un sin­golo?». Come cristiani e cittadini abbiamo il compito di dare forza ed amabilità ad un’esistenza onesta e giusta, con una vita rispettosa delle leggi e delle regole, estranea al­le prepotenze. E siamo chiamati a fare la nostra parte per il bene del Paese in cui viviamo, disposti a pagare le tasse per contribui­re al funzionamento di servizi essenziali. Una nota pastorale dei vescovi italiani (Educare alla legalità, 1991, n. 2) ci ricorda: «la legalità, ossia il rispetto e la pratica delle leggi costituisce una condizione fon­damentale perché vi siano libertà, giustizia e pace tra gli uomini».




8 dicembre 2024. Domenica avvento 2.
IMMACOLATA.CHI?

Immacolata. Chi?

Dal libro della Genesi  3,9-15.20.
[Dopo che l’uomo (adam) ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio chiamò Adam e gli disse: «Dove tu (sei)?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna (ishah) che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna (ishah): «Che hai fatto? ». Rispose la donna (ishah): «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna (ishah), fra la tua discendenza e la sua discendenza: essa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». L’uomo (adam) chiamò sua moglie Eva (hawah) , perché ella fu madre di tutti i viventi.
Salmo 98/97,1-2; 2-3ab; 3bc-4Rit. Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie
1Cantate al Signore un  canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo. Rit.
2Il Signore ha fatto conoscere  la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
3Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele. Rit.
Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio.
4Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni! Rit.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini Ef 1,3-6.11-12
Traduzione interconfessionale in lingua corrente.
3Benedetto sia Dio Padre di Gesù Cristo nostro Signore. Egli ci ha uniti a Cristo nel cielo, ci ha dato tutte le benedizioni dello Spirito. 4Prima della creazione del mondo Dio ci ha scelti per mezzo di Cristo, per renderci santi e senza difetti di fronte a lui. Nel suo amore 5Dio aveva deciso di farci diventare suoi figli per mezzo di Cristo Gesù. Così ha voluto nella sua bontà. 6A Dio dunque sia lode, per il dono meraviglioso che egli ci ha fatto per mezzo di Gesù suo amatissimo Figlio.11 Anche noi, perché a Cristo siamo uniti, abbiamo avuto la nostra parte nel suo progetto. Dio ha scelto anche noi fin dal principio. E Dio realizza tutto ciò che ha stabilito. 12Così ha voluto che fossimo una lode della sua grandezza, noi che prima degli altri abbiamo sperato in Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38
L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo tua parola». E l’angelo si allontanò da lei. 

SCELTI IN CRISTO PER ESSERE SANTI E IMMACOLATI NELLA CARITA’ (Efesini 1). D. Augusto Fontana

Oggi è festa di Gesù, santo, immacolato nella carità, figlio di Dio fin da prima della creazione del mondo. Ugo di San Vittore si esprime così: “Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (De arca Noe, 2, 8). Noi oggi, come scriveva l’evangelista Giovanni (1,14), contempliamo “la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
Noi oggi celebriamo la nostra liturgia con Gesù, uomo come noi “escluso il peccato”(Eb 4,15-16). Sì, il mio occhio si ferma su Gesù, concepito uomo immacolato, figlio santo, fratello giusto.
Oggi, nel pieno dell’Avvento, l’occhio si deve fermare sul Santo dei Santi, San Gesù di Nazareth, stella incandescente della nostra fede, prima ancora che fare l’elogio di luna Maria che vediamo brillare di luce indiretta nelle nostre notti, colpita dalla luce di Gesù mentre viaggia negli spazi siderali della Storia della salvezza.
Un po’ di storia di questa festa[1].
L’8 dicembre 1854, dopo un’ampia consultazione dell’episcopato di tutto il mondo, Pio IX definiva il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria con la Bolla Ineffabilis Deus: « … dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina la quale ritiene che la beatissima Vergine Maria, per singolare grazia e privilegio di Dio Onnipotente a lei concesso in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, sia stata preservata da ogni macchia di colpa originale fin dal primo istante della sua creazione, è stata da Dio rivelata, ed è perciò da credere fermamente».
Nel XII secolo i monasteri benedettini di Inghilterra celebravano questa festa l’8 dicembre. Da questo momento la sua diffusione è rapida: Normandia, Lione, Belgio, Spagna, Francia, Italia e in alcuni monasteri della Germania. San Bernardo (1091-1153), un grande devoto di Maria, contestò la legittimità della festa sostenendo che tutte le creature, nessuna esclusa, hanno bisogno della redenzione di Cristo. Anche Tommaso di Aquino (1228-1274) è sulla stessa linea. Nella sessione VI del Concilio di Trento del 1546 alcuni padri conciliari chiesero la promulgazione di una definizione dogmatica dell’immacolata concezione. Alessandro VII (1655-1667) l’8 dicembre 1661 precisava: l’anima della Vergine era stata preservata dalla colpa originale «a causa dei meriti di Gesù Cristo suo figlio, Redentore del genere umano». Dunque questo dogma nasce dalla Rivelazione biblica implicita; e dalla devozione popolare.
Il peccato originale[2].
Molto di questa festa lo si deve alla teologia del “peccato originale” secondo Agostino (+430) un po’ manicheo,…. ma solo un po’. Il teologo Pelagio (+420) affermava che ogni uomo nasceva innocente, ma con la capacità di compiere il male, grazie al dono del libero arbitrio. Agostino gli si opponeva sostenendo che il peccato dei progenitori era ereditario per tutti i secoli dei secoli come un DNA. Nel 418 il concilio di Cartagine si schierò con la posizione di Agostino e condannò come eretici i pelagiani. E noi restammo inchiodati lì fino ai giorni nostri.
Il dogma dovrebbe crescere e lievitare dall’interno, come afferma il Concilio Ecumenico Vaticano II (Dei Verbum, n. 8): «Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse».
Dopo il Concilio Vaticano II° molti teologi, Vescovi e Papi hanno fatto barriera attorno alla dottrina del “peccato originale” con tenue aperture sul complesso dei dogmi. Dovremmo dare per scontato che una dottrina fondata su racconti così remoti come quelli della Genesi e sulle riflessioni dell’Apostolo Paolo (Rom. 5,12-21) contengano ‘rivestimenti’ culturali oggi improponibili e che la Chiesa si trovi nella necessità «di presentare, difendere ed illustrare le verità della fede divina con concetti e parole più comprensibili alle menti formate alla odierna cultura filosofica e scientifica» (Paolo VI, discorso del 11 luglio 1966 ai partecipanti al Simposio sul peccato originale tenutosi a Nepi).
Il Papa Benedetto XVI nella Catechesi del 10 dicembre 2008 aveva detto, tra l’altro: «Se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’ orizzonte della giustificazione in Cristo».
Ogni creatura nasce con i limi­ti, le debolezze e le insufficienze causate dalle violenze, dalle idolatrie e dagli errori delle generazioni precedenti. La responsabilità degli umani è che molti diventino testimoni efficaci della potenza del Bene e della fecondità dell’Amore in modo che la Vita prevalga sulla morte. Anche Gesù fatto in tutto simile a noi “eccetto che nel peccato” è stato tentato e ha dovuto fare delle scelte continue; come si può supporre che anche Maria, battezzata nella benevolenza originaria di Dio, abbia vissuto nella fatica della fede, come quando Gesù a 12 anni viene smarrito dai genitori:«Ma essi non compresero le sue parole… Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,43-50). I tre giorni di smarrimento anticipano la fatica di Maria nello smarrimento della croce e della tomba vuota.
Per trovare la Chiesa in Maria.
Per trovare la donna Maria di Nazareth occorre scavare perché è stata seppellita sotto una montagna di dogmi, leggende, visioni e devozioni.
A Nazaret. Dio si manifesta a una giovane donna, in una casa a Nazareth lontano da Gerusalemme, cuore religioso del paese. È forte il contrasto con l’annuncio al sacerdote Zaccaria nel tempio. “Dio sceglie quello che è stolto per il mondo… quello che è debole per il mondo… quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla…” (1Cor 1,27-29). Nazareth, “un paesino senza storia della meticcia Galilea. Il cristianesimo non inizia al tempio, ma in una casa” (E.Ronchi).
A una donna. Gesù la chiamerà sempre Donna. È il nome che Adamo ha dato ad Eva: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta» (Gen 2,23). La chiesa è “donna” ricavata dal lato di Adamo, nata dal lato del crocifisso.
Rallegrati. In greco è Kaire! che vuol dire rallegrati! Non è un educato “buongiorno”, ma un saluto profetico. Il profeta Zaccaria, annunciando la venuta del re Messia, aveva esclamato: Rallegrati, figlia di Sion, esulta, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re (Zc 9,9). Maria ascoltava le Sante Scritture e i racconti del suo popolo; intuisce dunque che il saluto la risucchia come protagonista dell’Ora del Messia.
Piena di grazia. (ebr. Hesed. Greco Karis=amore gratuito e performante). Papa Giovanni Paolo II aveva osservato che per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco (kekaritomene), non si dovrebbe dire semplicemente “piena di grazia”, bensì “colmata di grazia“, il che indicherebbe chiaramente che non si tratta di bellezza o fascino personale ma di un amore gratuito e performante di Dio che è “ricco di grazia e di fedeltà” (Esodo 34,6). Nella Lettera agli Efesini oggi abbiamo ascoltato: « In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Maria è il concentrato di una destinazione universale per battezzati e non. “Non è piena di grazia perché ha detto “sì” a Dio, ma perché Dio ha detto “sì” a lei prima ancora della sua risposta. E lo dice a ciascuno di noi: ognuno pieno di grazia, tutti amati come siamo, per quello che siamo; buoni e meno buoni, ognuno amato per sempre, piccoli o grandi ognuno riempito di cielo” (E. Ronchi).
Il Signore è con te. Maria, forse, sa a chi erano state rivolte prima di lei: “Non temere io sarò con te” dice il Signore a Mosè, l’uomo dell’Esodo (Esodo 3, 12), a Giosuè, l’uomo che fa entrare Israele nella terra promessa (Giosuè 1, 15), a Gedeone quando sconfigge i Madianiti (Giudici 6,12). Maria, forse, capisce che non sta ascoltando un complimento ma una vocazione e una missione a diventare una colonna della lunga storia di salvezza.
Eccomi. “Maria con la sua ultima parola rivela il nostro vero nome. Il nome dell’uomo è: «Eccomi!»”. (E.Ronchi).

Il Concilio Vaticano II° afferma: «In Maria la Chiesa ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione e in lei contempla ciò che essa desidera e spera di essere» (Sacrosantum Concilium 103).


[1] Mi riferisco ad appunti di don Paolo Farinella
[2] Mi riferisco a studi del teologo Carlo Molari (articoli vari in ROCCA, Pro civitate Christiana, Assisi, anni 2012, 2013, 2014, 2016)




1 dicembre 2024. Domenica AVVENTO1
LIBERIAMO I SENTIERI DA PIETRE DI INCIAMPO

Prima domenica avvento 2024

Preghiamo. Padre santo, che mantieni nei secoli le tue promesse, rialza il capo dell’umanità oppressa da tanti mali e apri i nostri cuori alla speranza, perché sappiamo attendere senza turbamento il ritorno glorioso del Cristo, giudice e salvatore. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Geremia 33,14-16
Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia; egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla. Così sarà chiamata: “Signore-nostra-giustizia”.
Salmo 24.  A te, Signore, innalzo l’anima mia. In te confido
Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua verità e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza
Buono e retto è il Signore, la via giusta addita ai peccatori;
guida gli umili secondo giustizia, insegna ai poveri le sue vie.
Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi osserva il suo patto e i suoi precetti.
Il Signore si rivela a chi lo teme, gli fa conoscere la sua alleanza.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 3,12- 4,2
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come abbonda il nostro amore verso di voi, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
Dal Vangelo secondo Luca 21,25-28.34-36
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande. Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”.

 Liberiamo i sentieri dalle pietre di inciampo. D. Augusto Fontana

 Colui che mi viene incontro o contro.
Viviamo il futuro come tempo carico di destino irriformabile e di fortuna cieca, ma anche come possibilità per l’uomo di costruirsi il futuro nel progresso e nella previdenza. Per il cristiano il tempo futuro é anche tempo di avvento (dal latino AD-VENTUS=venuta da…verso…).
Io, mentre cammino verso il mio ormai corto futuro, incrocio Dio che mi viene addosso, mi viene incontro, mi viene contro. Vivere il futuro anche come avvento é, per me, tentare di credere che Dio, in Gesù, é protagonista primario di ciò che costruiamo e desideriamo. Allora: dove finisce la commedia e dove incomincia la verità della mia attesa? Si narra che i rabbini ogni mattina, aprendo la finestra, amassero dire: «No. Il Messia non é ancora venuto: il mondo é ancora lo stesso». Scriveva l’ebreo Paolo de Benedetti: «Il mondo è stato inventato da Dio perché non rimanesse identico a quello dei giorni della creazione. Sulle trasformazioni apportate dall’uomo si possono e si devono dare giudizi diversi. Ma il cattivo uso della trasformazione non deve far dimenticare quella spinta al mutamento, insita nella benedizione della Genesi[1]». Per noi cristiani é difficile attendere il Messia con ansia vigilante e gioiosa, perché l’Incarnazione già realizzata può averci spento ogni tensione. Per noi la trama é senza suspence perchè ne conosciamo la conclusione. Inoltre, al termine del periodo di avvento c’é una festa detta “Natale” che é tra le feste più ambigue, imbastarditasi dall’incesto tra regime di cristianità e ragioni commerciali. Il sussurro dell’Avvento, soffocato dall’ubriacatura pre-natalizia, non riesce a movimentare attese vere nè esaudire attese profonde, a meno che non introduciamo significative obiezioni di coscienza ed inversioni di rotta personali. Il rischio che corriamo é di fare un po’ finta di attendere. Quando si attende? Normalmente attendiamo quando si é presa sul serio la promessa di una persona affidabile, quando é fissato un appuntamento con persona cara o evento decisivo, quando si coltivano utopie e speranze, quando si nutre indignazione per l’intollerabile.
Che attendiamo? E soprattutto: chi?
Due “princìpi” si intrecciano nel nostro Avvento: il principio-catastrofe e il principio- Alleanza.
Il “principio-catastrofe”. Abbiamo capito che se il mondo finirà, ciò avverrà più per causa umana che per colpa dell’esplosione cosmica. La fine collettiva é iniziata con il collasso ecologico, con la morìa di massa per guerre e per fame, con le infezioni del benessere, con le droghe del malessere, con le stragi dei nazionalismi e degli integrismi. Ma le generazioni sono coinvolte da una catastrofe peggiore: la caduta di certezze interiori. Il principio-catastrofe crea paura: i potenti diventano cinici e gaudenti mentre i deboli diventano apatici, malinconici o disertori. La crisi del futuro porta ad enfatizzare il presente come orizzonte dominante: questo lo si ritrova soprattutto analizzando i valori e i comportamenti dei giovani che sono stati definiti come “la generazione della vita quotidiana”. Alcuni accettano la paura per ciò che essa ha di giusto e razionale, altri la esorcizzano con false sicurezze e rimozioni o si lasciano consolare da “dissipazioni” che mettono tra parentesi la catastrofe che ci riguarda.
Il “principio-alleanza”. «Alzate il capo perchè la vostra liberazione é vicina» : é un modo per vivere dentro la catastrofe e nella sua lucida e impaurita coscienza. Vivere nella speranza e nella attesa é vivere da uomini a testa alta. Lutero diceva:«Se sapessi che domani il mondo andrà in rovina, continuerei anche oggi a piantare un melo». Ecco, allora, il cristiano che si impegna a discernere le cose nuove che veicolano le promesse di Dio e, più ancora, il Dio delle promesse, alleandosi con i nuovi segni di vita mediante una speranza purificata (Geremia 33,14-16), una speranza orientata da una strategia (Luca 21, 25-28. 31.34-36) ed una speranza produttrice di amore (1 Tessalonicesi 3,12-13).
Geremia: una speranza purificata.
Dentro ogni speranza delusa può nascere una delusione che spera. San Paolo interpreta bene questo stile di attesa messianica:” Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; colpiti, ma non uccisi; moribondi, ma sempre vivi; puniti, ma non messi a morte” (2 Cor.4, 8; 6, 9). Nella vita di ogni cristiano la delusione ha un suo posto: delusione nel matrimonio, nel lavoro, nella società, nella Chiesa, in me stesso. Sta a me decidere se abbandonare con rassegnazione questo tronco tagliato oppure investire sulle promesse di Dio e innaffiare ancora il tronco tagliato coltivando il germoglio che spunta forse nella parte dove meno ce lo aspetteremmo e nel momento meno programmato.
Luca: speranza orientata da una strategia.
            Per questo discernimento occorre una strategia: alzatevi-levate il capo, state attenti-vegliate, non appesantite (non indurite) i cuori , non distraetevi in cose futili,  non lasciatevi stordire da angosce esistenziali, pregate per non lasciarvi intrappolare. Una strategia suggestiva, per questa situazione del cristiano, viene offerta da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti (7,29-31): «D’ora in poi , quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; quelli che piangono come se non piangessero; quelli che sono contenti come se non lo fossero; quelli che comprano come se non possedessero e quelli che usano di questo mondo come se non ne godessero». «Come se non…»: il cristiano é occupato nelle realtà della vita, ma ne é distaccato. Vi mette dentro le mani ma non vi ci incolla il cuore. La finalità di questa strategia è duplice: “per avere la forza di sfuggire…di comparire”. Sfuggire non significa essere esentati, tirarsi fuori dalle prove, ma perseverare in esse pregando per poter restare a testa alta nel momento dell’incontro definitivo.
Paolo: una speranza operativa.
La prima lettera ai Tessalonicesi é il testo più antico del Nuovo Testamento (50-51 d.C.) e precede addirittura i Vangeli. Vi si risente una problematica allora viva: si credeva davvero che da un momento all’altro avvenisse il ritorno definitivo di Cristo sulla terra. Paolo sollecita una operatività dell’attesa: l’amore é la grande virtù escatologica ed é il carisma che anticipa la rivelazione finale quando Dio si rivelerà a tutti come Amore:«Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti».


[1] Paolo de Benedetti Ciò che tarda avverrà,Qiqajon, Bose, pag. 95.




24 novembre 2024. FESTA PASQUALE di CRISTO SIGNORE.

FESTA PASQUALE di CRISTO SIGNORE.

Preghiamo. O Padre, che hai mandato nel mondo il tuo Figlio, Signore e salvatore, e ci hai resi partecipi del sacerdozio regale, fa’ che ascoltiamo la sua voce, per essere nel mondo fermento del tuo regno di giustizia e di pace. Per Gesù Cristo il nostro Signore.
Dal libro del profeta Daniele 7,13-14
Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo  uno simile a un figlio d’uomo;  giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.  Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai,  e il suo regno non sarà mai distrutto.
Salmo 92. Il Signore regna, si riveste di splendore.
Il Signore regna, si riveste di maestà:  si riveste il Signore, si cinge di forza.
È stabile il mondo, non potrà vacillare.  Stabile è il tuo trono da sempre,  dall’eternità tu sei.
Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti!
La santità si addice alla tua casa  per la durata dei giorni, Signore.
Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo 1,5-8
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.  A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.  Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!  Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!
Dal Vangelo secondo Giovanni 18,33-37
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».  Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

QUESTO CROCIFISSO E’ IL SIGNORE. Don Augusto Fontana

Senza re, regine, cavalli e fanti.
L’ultima Domenica dell’Anno liturgico ha tutte le connotazioni della festa di Pasqua. La festa, di fatto, celebra in sintesi tutto il mistero di Cristo nel tempo: «Cristo ieri, oggi e sempre; a lui gloria e potenza nei secoli in eterno[1] ». La festa fu istituita da Pio XI nel 1925 per reagire al laicismo: se Cristo è Re, vuol dire che la chiesa è Regina! Ciò è avvenuto sia in epoche di clericalismo e sia in epoca laicista quando la Chiesa rivendicò leadership per il traino di legislazioni a favore delle proprie strutture e per la salvaguardia di valori ritenuti irrinunciabili. E’ anche vero che con il franare del regime di cristianità, la società rischia di mettere in causa una giusta concezione della regalità di Cristo relegandola al puro ambito dello spirito e delle sacrestie, ma ciò non giustifica nostalgie bigotte ed integraliste; semmai spinge i cristiani ad inventare nuove forme dolci e convincenti di presenza nella convivenza sociale evitando forme di massoneria o di lobbys cattoliche. I delegati alla Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia[2] in San Paolo fuori le Mura: «Chiesa esci dalla comfort zone! Negli anni Settanta del secolo scorso uno slogan in voga era “Cristo sì, la Chiesa no”. Oggi il no si è esteso anche a Cristo. Di qui la necessità di puntare tutto nuovamente sulla centralità di Gesù, dando valore ai germogli che già ci sono».
Scrive Olivier Clément in “IL POTERE CROCIFISSO”[3]:  «A poco a poco capiremo che il cristianesimo non è un’ideologia che aspira ad essere imposta con la forza dello Stato. I mezzi del potere sono estranei al cristianesimo che sarà sempre più un fermento, una luce, una profezia, un esempio che non impone nulla e si presenta nell’umiltà».
Il monaco Enzo Bianchi nel suo “LA DIFFERENZA CRISTIANA”[4]  scrive: «La fede è così mondanizzata e la chiesa politicizzata, a tal punto da essere ferita nella sua qualità comunionale. Emerge ormai un cristianesimo senza fede intesa come quella adesione a Gesù Cristo che si traduce in una sequela, in una vita totalmente coinvolta nella sua vita fino, diciamolo chiaramente, alla croce. Ciò che invece conta ed è determinante non è più la sequela – questa faticosa, esigente, perseverante condotta di vita secondo il vangelo. Non importa più la coerenza tra quel che si vive, personalmente e comunitariamente, e le esigenze poste da Cristo ai suoi discepoli in materia di sessualità, di matrimonio, di capacità di condivisione, di giustizia, di riconciliazione e di pace. In una parola: non si guarda più se in una persona sono presenti quelle «obbedienze» al vangelo che «fanno» il cristiano, nonostante e al di là delle fragilità umane che sempre lo accompagneranno; si guarda invece alla capacità di assumere il cristianesimo come identità culturale, come istanza religiosa nel pluralismo delle fedi, come possibilità di coesione in un mondo frammentario e diviso».
Gesù: la sua prassi messianica nel contesto del suo tempo[5].
Gesù non si attribuì mai il ruolo di Re e quando qualcuno volle farlo Re si rese irreperibile. Imponeva anche il “silenzio messianico” a coloro che avevano fretta di annunciare, prima della croce, la sua prassi messianica. Aveva detto di essere il Pastore, la Via, la Verità, la Vita, lo Sposo, il Maestro, il Figlio del Padre, la Vite. Per quale reato allora arrivano a processarlo? Ricostruiamo alcuni tratti della prassi messianica di Gesù all’interno del sistema di organizzazione sociale e religiosa del suo tempo.  Tutta la Legge giudaica può essere suddivisa in sistemi di proibizioni. Erano considerati impuri alcuni cibi, il sangue animale e umano, il sangue mestruato e lo sperma, alcune malattie infettive come la lebbra. Gli animali destinati ai sacrifici non dovevano avere difetti ed i sacerdoti ciechi o rachitici non potevano salire sull’altare del sacrificio. La circoncisione definiva l’area di appartenenza al popolo di Jahwè, Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Con il rispetto del Sabato, del Tempio e del culto si doveva, in un certo senso, saldare i debiti con Dio che donava vita, cibo, Legge e perdono. Il Tempio era anche una specie di banca per il finanziamento delle opere pubbliche e religiose. Poichè queste prescrizioni erano spesso disattese, si era formata una “setta” detta dei farisei, osservanti di interminabile serie di casistiche e precetti, in contrapposizione ai sadducei più materialisti e lassisti. Chi trasgrediva palesemente le interdizioni legali era considerato pubblicano (peccatore pubblico) o, se malato di mente, veniva considerato indemoniato. Alla base della piramide di tutto il sistema stavano i pagani incirconcisi che non potevano entrare nelle case degli Israeliti nè sposare le loro figlie. In ogni villaggio o città la sovrastruttura politica era composta dal consiglio degli anziani costituito da membri puri di razza e ricchi; dovevano risolvere i litigi ed emettere le sentenze. Questo apparato veniva controllato da lontano dal Procuratore romano che risiedeva al Nord (Galilea). Sommi sacerdoti, grandi proprietari e commercianti collaboravano con il potere invasore. Il proletariato e la piccola borghesia, angariati dall’apparato giudaico, negli anni 66-70 si unirono ai guerriglieri zeloti nella ribellione contro Roma. Gli zeloti erano composti da lavoratori agricoli e schiavi fuggiaschi che si organizzavano in bande armate, rifugiandosi sulle montagne della Galilea, compiendo incursioni e, in caso di cattura, venivano crocifissi. Gesù diventa una minaccia a tutto questo sistema: “Il Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato. Il Figlio dell’uomo è Signore anche del sabato” (Mc.2,27). La lacerazione inizia puntualmente: “Appena usciti, i farisei si riunirono immediatamente con i seguaci di Erode per tramare contro di lui e decidere di eliminarlo” (Mc. 3,6). Gesù si sottrae ad ogni populismo ambiguo ed adotta una strategia di semi-clandestinità: si ritira spesso da solo a pregare o si sottrae alle folle in luoghi deserti. Il vero rischio che Gesù teme non è quello della vita, ma quello dell’interpretazione del suo messianismo in termini trionfalistici. Il pericolo di questa ambigua interpretazione non veniva solo dalle folle, ma anche dall’interno del suo gruppo di discepoli tra i quali c’era Simone il cananeo e Giuda il sicario (chiamato abitualmente Iscariot): forse due zeloti. Quando, come scrive il Cap.11 di Marco, Gesù arriva a Gerusalemme il grido popolare è uno slogan abitualmente usato nelle manifestazioni zelote: «Hosanna! (Salvaci!). Benedetto sia, nel nome del Signore, colui che arriva! Benedetto sia il regno che viene, il regno del nostro padre Davide». Ma Gesù aveva già adottato una strategia che non lasciava dubbi: era entrato seduto su un asinello che serviva per il trasporto quotidiano, mentre le incursioni zelote venivano fatte con i cavalli. Tuttavia, affermare che Gesù non volle essere considerato un Messia secondo le aspettative del tempo, non significa ridurlo ad un Messia delle anime o fuori della storia. Di fatto Gesù adotta una prassi messianica: con la prassi delle mani si dedica alla creazione di rapporti economici nuovi, per la condivisione e il servizio, per la riammissione, nel circuito sociale e religioso, degli esclusi; con la prassi dei piedi e del camminare va incontro e cerca. Gesù fu un rabbi itinerante anche in territori impuri. Egli si fa vicino e prossimo invitando a fare altrettanto; con la prassi del cuore Gesù dissequestra Dio dal culto formalista e dalla preghiera esteriore per farlo diventare un Padre con cui entrare in rapporto filiale da parte di chiunque ed in qualsiasi momento o luogo.
Celebrare e vivere Cristo-Signore.
Riconoscere che Cristo è mio-Signore «significa – come dice il Card. Martini[6]  – che Dio è imprevedibile, che la sua azione nei nostri riguardi è libera e sovrana, che non possiamo mai calcolare niente in anticipo».
Riconoscere e celebrare Cristo-Signore significa ridare anche consistenza al ruolo Sacerdotale e liturgico di ogni battezzato. Benchè piccola e balorda che sia, ogni assemblea liturgica anticipa nel tempo la liturgia finale del regno.
Riconoscere e celebrare Cristo-Signore significa che ogni battezzato dovrà scoprire il valore cristiano della sua prassi messianica nel lavoro, in famiglia, nel volontariato, nel rispetto della creazione e della vita, nell’accoglienza dei piccoli, nella riammissione degli esclusi.
Riconoscere e celebrare Cristo-Signore significa mantenere vivo il sospetto contro le multiformi idolatrie. L’indimenticabile monaco Carlo Carretto dedicò a questo tema un capitolo del suo CIO’ CHE CONTA E’ AMARE[7]: «Mi sono chiesto sovente dove risiede il pericolo dell’idolatria. Io penso che il pericolo è in noi e che il peccato di idolatria sia un peccato di tutti i tempi. L’uomo dell’Antico Testamento aveva la tentazione di farsi un idoletto di legno o di avorio o di argento per metterlo penzoloni alla sella del suo cammello e l’uomo d’oggi ci prende gusto a mettere un santino in tasca al posto di Dio. E’ la stessa cosa, più o meno. L’uomo vuol fuggire allo sforzo di pensare Dio nella sua pura Trascendenza, nel suo Mistero e trova più comodo dargli un volto a buon mercato che rimpiazzi la sua intoccabilità con qualcosa che si possa toccare e che stia vicino e che soprattutto abbia tanti poteri taumaturgici da guarire quando si è malati e da arricchirci quando si è poveri. Qui non sto parlando male del culto dei santi. Tale culto è una cosa seria quando fa parte ed è tutt’uno con l’altro culto che gli è centrale: il culto e l’adorazione di Dio. In origine erano oggetti cristiani degni di culto, ora in mano agli idolatri sono diventati idoli. Quanti idoli fatti di medaglie, immagini, crocette. Non temo di dire che quanto più scade la fede autentica, illuminata, forte in un popolo, più aumentano le botteghe dei santini. Io ne ho trovato ovunque di questi altari dell’idolatria moderna, perfino in chiesa. Immaginiamo fuori! E’ certo che l’idolatria e la superstizione sono ancora forme religiose anche se deteriori e accompagnano sovente l’uomo non più illuminato dalla fede».
Scrisse Bonhoeffer, pastore luterano impiccato dai nazisti: «Dio non deve essere riconosciuto solo ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita».


[1] Lettera agli Ebrei 13,8; Apocalisse 1,6.
[2] AVVENIRE sabato 16 novembre 2024
[3] Ed,Qiqajon, Bose, 1999, pag. 64
[4] Ed. Einaudi
[5] Mi avvalgo di F.Belo “Una lettura politica del vangelo” Ed. Claudiana.
[6] C.M.Martini, Il Dio vivente, PIEMME, 1991, pagg. 59-61.
[7] Ed. Fondazione Apostolicam actuositatem, 2004




17 novembre 2024. Domenica 33a
CONTEMPORANEI DEL FUTURO

Domenica 33°

Preghiamo. Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura. Per Gesù Cristo nostro Signore.
Dal libro del profeta Daniele 12,1-3
In quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.
Salmo 15. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
 Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.
Dalla lettera agli Ebrei 10,11-14.18
Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e ad offrire molte volte gli stessi sacrifici, perché essi non possono mai eliminare i peccati. Cristo al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati una volta per sempre, si è assiso alla destra di Dio, aspettando ormai soltanto che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi. Poiché con un’unica oblazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono dei peccati, non c’è più bisogno di offerta per essi.
Dal Vangelo secondo Marco 13, 24-32
In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, e la luna non darà più il suo splendore, e gli astri si metteranno a cadere dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dal fico imparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte. In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre.
Consiglio di leggere, prima del seguente commento, l’intero capitolo 13 di Marco.

Contemporanei del futuro. Don Augusto Fontana

Il suolo della storia è vulcanico.
I testi biblici di oggi abbondano di visioni apocalittiche che solleticano paure e sollecitano sapienze. Il linguaggio biblico apocalittico non ci appartiene più; forse serve solo a scenografi di kolossal catastrofici. Le geremiadi sulla fine del mondo ci lasciano inebetiti più per incredulità che per paura. E’ facile scadere in interpretazioni riduttivamente letterali sulla fine del mondo o in esortazioni vagamente spiritualistiche. La cultura e la spiritualità della “soluzione finale” e del millenarismo – peculiari di Mormoni, Testimoni di Geova o Avventisti del Settimo giorno – stanno espandendosi dal Nord-America in Europa. Anche tra i cattolici si sta sviluppando un certo interesse per il futuro del mondo a partire dai disastri ecologici frequenti, dai permanenti conflitti armati, dalla diffusione di minacciose epidemie, dall’infettante nichilismo nella vita e nel lavoro. Nei paesi ricchi questi problemi vengono annegati nell’affarismo e nel consumismo; nei paesi poveri prevalgono problemi contingenti di sopravvivenza. Tutti, in ogni caso, ci difendiamo bevendo il calice dolce o amaro di ciò che il convento passa giorno per giorno, senza eccessive preoccupazioni di giudizi finali o di capovolgimenti improbabili. Oggi si tratta di capire se l’annuncio cristiano è un annuncio tenebroso e malaugurante della fine delle cose o un invito a buttarsi in una trasfigurazione in atto. Scrive Olivier Clément [1]: « La vera storia si gioca alla frontiera del visibile e dell’invisibile. “Il suolo della storia è vulcanico” diceva Berdjaev. Lo studio dei movimenti del sottosuolo c’insegna che uno spostamento di alcuni millimetri negli strati profondi della scorza terrestre provoca un terremoto in superficie. Il contemplativo immerso nel silenzio e ogni atteggiamento di preghiera, di apertura al mistero, provocano nella storia un’irruzione dell’eternità e permettono quelle creazioni di vita e di bellezza che, a loro volta, terranno desti i cuori». Si tratta di capire se ciò che io spero, determina la qualità e il senso di ciò che io vivo: «Nel profondo dell’inverno ho imparato che dentro di me riposa un’estate invincibile [2]».
Messaggi in codice per opportuni risvegli.
La Parola di Gesù è stata codificata, dalle prime generazioni cristiane, come Buona-notizia, Ev-angelo. Non si può dire, a cuor leggero, che gli annunci apocalittici siano belle notizie, tuttavia contengono una verità da cui è bene non prendere eccessive distanze; è proprio passando attraverso la cruna d’ago della verità inaccettabile della fine delle cose che si può capire la novità del Vangelo che ha dell’incredibile: «Allora vedranno il Figlio dell’Uomo venireIl cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Marco 13, 26.31).
Chi se la passa bene non invoca certo la fine della goduria: «Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo» (Matteo 24, 37-39). Chi è pressato da persecuzioni, fallimenti e dolori, come le comunità tribolate del profeta Daniele e dell’evangelista Marco, tende l’orecchio e punta gli sguardi verso promesse che tardano e consolazioni che giungono da lontano: «Coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa gridarono a gran voce: “Fino a quando, Signore santo che mantieni le promesse, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue?”»  (Apocalisse 6, 9-10).
Agli uni e agli altri, ai buontemponi e agli afflitti, il profeta evangelizzatore rivolge la parola di risveglio, di vigilanza, di coraggio e consolazione. Usa tecniche comunicative diversificate secondo i destinatari e il contesto. Tra questi linguaggi esortativi se ne distinguono due dal sapore un po’ esotico: il linguaggio escatologico e quello apocalittico. Con l’uno si sussurra, con l’altro si grida. Il linguaggio escatologico ha una visione solenne dell’éscaton, della “soluzione finale”, ma è improntato alla sobrietà narrativa e accompagnato da un giudizio positivo verso il tempo presente. Non c’è nessun cedimento alla curiosità del come e del quando. L’uomo resta corresponsabile della storia. Il linguaggio apocalittico, invece, esaspera i toni drammatici e gli elementi catastrofici; è più venato di pessimismo sul tempo presente e quasi ossessionato dal futuro, dal come e dal quando. L’uomo viene quasi ridotto a comparsa di una storia dove l’azione esclusiva sarebbe di Dio.
Così l’autore del Libro di Daniele scrive al tempo della persecuzione degli anni 165-164 a.C. nel periodo nero del Regno di Antioco IV Epifane. Per sapere come andrà a finire, l’autore si colloca in modo fittizio in un altro tempo difficile del passato e cioè all’esilio di Babilonia (587-538). Ripercorre rapidamente quel periodo, cerca di scoprire le grandi leggi dell’agire di Dio e della sua fedeltà e, poggiandosi su questa pedana, fa un salto in avanti nel tempo e descrive come si concluderà la persecuzione attuale. Egli, di fatto, ignora la conclusione della vicenda, ma conosce solo una cosa: che Dio è fedele. Nel Capitolo 13 di Marco (capitolo che invito a leggere per intero) sono presenti alcuni tratti “apocalittici” (guerre, terremoti, carestie, catastrofi cosmiche, persecuzioni), ma formano solo la cornice. Si capisce subito che il messaggio centrale non si può confondere con questi elementi: basti pensare all’insistente esortazione alla vigilanza, che è poi un richiamo all’impegno nella storia secondo la meta indicata da Dio.[3]
AAA. Cercasi bussola.
All’interno di questi messaggi apocalittici siamo alla ricerca di buone notizie. Quattro annunci emergono dall’amalgama apocalittico della Liturgia odierna:

  • Di fronte alle nostre sicurezze culturali ed anche di fronte al nostro personale affannarci per rincorrere gli accessori della vita, oggi prendiamo contatto con una parola semplice e sapienziale dell’Evangelo: cielo e terra passeranno. Il nostro ambiente vitale è provvisorio: «State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso»( Luca 21,34).
  • Ci perviene anche un telegramma: Il regno di Dio (Gesù) è fra di noi. Questa realtà, questa presenza, che sfida tutti i catastrofismi personali e cosmici non dobbiamo cercarla oltre, ma attorno a noi, dentro di noi. In mezzo alle tante incertezze Gesù offre un terreno solido su cui la comunità potrà poggiare i piedi: le mie Parole non passeranno.
  • Un’altra parola risuona importante: è inutile interrogarci sul come e sul quando. Una madre incinta sente il bimbo muoversi e ha fatto i suoi conti sul periodo probabile di nascita, ma la data e l’ora precisa non può determinarla. Il problema non è il “quando”, ma il farci trovare pronti. Il credente sa che ogni istante è il tempo favorevole per prendere una decisione e dare una risposta. In ogni momento presente si gioca il futuro.
  • Poi c’è l’invito finale per l’atteggiamento da tenere: vigilate! Lo strumento di rotta del cristiano non è il calendario o l’oroscopo, ma la bussola: il Regno di Dio lancia segnali magnetizzati dai punti cardinali delle sue presenze. Per vigilare occorre anche non lasciarsi ingannare, non lasciarsi scoraggiare, non lasciarsi prendere alla sprovvista, non appesantirsi di accessori inutili. La vigilanza responsabile esclude il fanatismo apocalittico, la narcosi spiritualistica o l’iperattivismo. La vigilanza comporta – come dice la parabola del portinaio – vivere svegli, nella fatica e nel servizio. La vigilanza è l’arte di essere puntuali agli avvenimenti decisivi dell’esistenza. La vigilanza cristiana dipende da qualcosa che c’è dentro: i passi leggeri di una Persona che ci tengono svegli.

Il sole mentre diluvia.
E’ troppo facile essere certi, mentre diluvia, che prima o poi finirà e verrà il sole o che dopo certi infami periodi da dimenticare venga un po’ di bonaccia. Oggi si richiede qualcosa di più impegnativo, come guardare il negativo di una foto leggendovi, anticipatamente ricostruito, il suo sviluppo positivo. Non si tratta di essere certi che dopo la morte di Cristo verrà la sua risurrezione, ma che su quella croce avviene la risurrezione. Ciò va molto al di là della paziente attesa che qualcosa di brutto passi.
Una bussola e una manciata di semi.
Ogni tanto abbiamo notizia che paesi interi vengono sommersi dall’alluvione. In condizioni di urgenza bisogna salvare una bussola, un paio di scarponi robusti e una manciata di semi. Spesso ci danniamo l’anima a fare tante cose, ad acquistare, a difendere; forse non abbiamo colto che la fine del mondo, di un certo mondo, è già iniziata. Nelle scelte del presente si gioca il nostro futuro. Occorre salvare l’essenziale.
Nell’attesa della tua venuta…
Durante l’eucaristia domenicale si proclama: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta». Nell’Eucaristia noi proclamiamo di credere che Cristo è l’A e la Z di tutta la creazione. Teilhard de Chardin, scienziato e teologo, ha riletto in chiave cristiana tutta l’evoluzione della materia e della vita: Cristo consegnerà tutto, anche la materia, al Padre «affinchè Dio sia tutto in tutti» (1 Corinti 15,23-28). Sta avvenendo una “cristificazione” della materia e della storia umana. Per questo, scrisse una PREGHIERA ALLA MATERIA di cui riporto alcuni brani: «Benedetta tu, nuda materia, terra arida, dura roccia; tu che non cedi se non alla violenza e ci sforzi a lavorare se vogliamo procurarci il pane. Benedetta tu, pericolosa materia, madre terribile; tu che ci divori se ti incateniamo. Benedetta tu sia, universale materia, tu che dissolvendo le nostre strette misure ci riveli le dimensioni stesse di Dio. Benedetta tu sia, immortale materia, tu che ci introdurrai per forza nel cuore stesso di ciò che E’. Senza di te, senza i tuoi attacchi, senza i tuoi strappi noi vivremmo inerti, puerili, ignoranti di noi stessi e di Dio. Tu che ferisci e guarisci, tu che ristori e pieghi, tu che sconvolgi e ricostruisci, tu che incateni e che liberi, linfa della nostra anima, Mani di Dio, Carne di Cristo, materia ti benedico. Io ti saluto, inesausta capacità di essere e di trasformazione. Ti saluto, universale potenza di accoppiamento e di unione. Ti saluto, sorgente armoniosa delle anime, limpido cristallo dalla quale sarà tratta la nuova Gerusalemme. Ti saluto, “ambiente divino”, carico di potenza creativa, oceano agitato dallo Spirito, argilla impastata e animata dal Verbo Incarnato. Credendo di obbedire al tuo irresistibile appello, gli uomini si precipitano sovente per amor tuo nell’abisso esteriore del piacere egoista. Bisogna, se vogliamo possederti. che noi ti sublimiamo nel dolore, dopo averti gioiosamente stretta tra le nostre braccia. Portami là in alto, materia, per lo sforzo, la separazione e la morte, portami là dove sarà possibile infine abbracciare castamente l’Universo».


[1] Olivier Clément, Il potere crocifisso, Qiqajon, Bose, 1999, passim.
[2] Albert Camus
[3] A. Pronzato, Un cristiano comincia a leggere il Vangelo di Marco, Gribaudi, pag.344-347.




10 novembre 2024. Domenica 32a
Vedove tra profeti e sanguisughe

Preghiamo. O Dio, Padre degli orfani e delle vedove, rifugio agli stranieri, giustizia agli oppressi, sostieni la speranza del povero che confida nel tuo amore, perché mai venga a mancare la libertà e il pane che tu provvedi, e tutti impariamo a donare sull’esempio di colui che ha donato se stesso, Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal primo libro dei Re 17,10-16
In quei giorni, Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva legna. La chiamò e le disse: “Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere”. Mentre quella andava a prenderla, le gridò: “Prendimi anche un pezzo di pane”. Quella rispose: “Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”. Elia le disse: “Non temere; su, fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra”. Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono Elia, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia.
Salmo 145. Beati i poveri in spirito: di essi è il regno dei cieli.
Dodici giaculatorie per una litania di nomi di Dio che in ebraico suonano così: il creatore, il fedele, il liberatore….Dall’altro lato, un elenco dei poveri di Jahwè (o il loro contrario=empi)
1 –Creatore del cielo e della terra, del mare e di quanto contiene.
2 -Egli è fedele per sempre.
3 –Rende giustizia                         agli oppressi.
4 –dona  il pane                             agli affamati.
5 -Il Signore libera                         i prigionieri,
6 -il Signore ridona la vista          ai ciechi,
7 -il Signore rialza                         chi è caduto,
8 -il Signore ama                           i giusti,
9 -il Signore protegge                   lo straniero,
10- egli sostiene                           l’orfano e la vedova,
11 – ma sconvolge                         le vie degli empi.
12 -Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione.
Dalla lettera agli Ebrei 9,24-28
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. E invece una volta sola ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Dal Vangelo secondo Marco 12,38-44
In quel tempo, Gesù diceva alla folla mentre insegnava: “Distogliete lo sguardo[1] dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave”.E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri offerenti (in greco: gettanti).. Poiché tutti hanno gettato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”[2].

Vedove tra profeti e sanguisughe.D. Augusto Fontana

Santuari, cattedrali e chiese parrocchiali continuano ad essere, non meno del Tempio di Gerusalemme, spazi di ambigua religiosità e di sconosciute virtù. Sui loro bilanci cadono rumorosi assegni di chi può e silenziose monete di chi non potrebbe. Alle prestazioni religiose corrispondono ancora i compensi in denaro per finalità – dicono – sacrosante, ma ancora passibili di revisione evangelica. Nei luoghi di culto transitano ancora, come nel Tempio di Gerusalemme, antiche e nuove “vedove” confuse tra antichi e nuovi scribi: differente la posizione economica, ma soprattutto diversa la collocazione davanti a Dio. L’Evangelista Marco sta cercando di rispondere al quesito della sua comunità: “chi è Gesù e il Suo Dio? Chi è il discepolo?”, ma soprattutto “dove ci porta se lo seguiamo?”. Tratteggia, così, una quindicina di figure che diventano le icone del vero discepolo (la suocera di Pietro, il lebbroso, ben due ciechi di cui uno diventato discepolo a Gerico, l’esattore Levi, la donna mestruata, il sordomuto, l’uomo semiparalizzato, i bambini, la donna siro-fenicia e sua figlia, Giairo e sua figlia, il cireneo, il soldato pagano sotto la croce, Maria di Magdala, la vedova). Appartengono tutti alla categoria dei “curvati” sotto il peso della vita ed esclusi dalle regole di purità religiosa talvolta sessista. L’Evangelista Marco affonda il bisturi anche nella carne viva dell’organizzazione sociale oltre che in quella ecclesiale. Ogni luogo di culto è inserito in un contesto urbano e di convivenza umana dove le nuove “vedove” passano inosservate nella loro dignitosa povertà e fede, espropriate dalla rapacità dei nuovi scribi: usurai, approfittatori, furbi, politici macchiavellici. L’antitesi ricchi-poveri è un procedimento frequente nei discorsi escatologici di Gesù e gli serve per annunciare l’arrivo del Regno e il capovolgimento delle situazioni abusive. Troppi rampanti amano ancora, a dispetto di chi dichiara morta l’ideologia classista, passeggiare in lunghe vesti, ostentare pubbliche preghiere, ricevere applausi dai gossips dei giornali patinati, avere i primi posti ovunque, ingrassare in tutte le latitudini del loro essere divorando le case delle vedove e anche quelle dei fidanzati o degli sfrattati. Neppure io e te sfuggiamo allo sguardo scrutatore (osservava) di Gesù che ci vede in fila con altri nella nostra personalissima esperienza cristiana sia quando gettiamo nel cuore di Dio il superfluo delle nostre energie e sia quando sgomitiamo o rapiniamo o non ci accorgiamo dei “curvati” vicini e lontani. S. Ambrogio dice che «Dio non bada tanto a ciò che doniamo a Lui, quanto piuttosto a ciò che  tratteniamo per noi». Si tratta di imparare a gettare senza trattenere, ma anche a gettare nella giusta direzione. Un racconto cinese dice: «Colui che si pone alla ricerca di Dio e vende tutto ciò che possiede salvo l’ultimo soldo è proprio un pazzo. Infatti è proprio con l’ultimo soldo che si arriva a Dio».
Elogio per vedove “in cattedra”.
C’è una galleria di personaggi che entra in scena nella nostra celebrazione: due vedove (1° Libro dei Re  e Vangelo di Marco) di cui la prima viene ricordata per l’ospitalità e la condivisione ad un profeta,  la seconda offre al Tempio quanto le servirebbe per vivere. Donne, vedove e povere: outsiders della società e della religione; Gesù Sacerdote unico (Lettera agli Ebrei), sposo “vedovo” senza comunità, che offre se stesso per rianimare la sposa, morta nelle proprie prostituzioni; Jahwè, un Dio di parte, sbilanciato sui poveri ed intenerito dal loro bisogno e dal loro abbandonarsi alla Sua provvidente paternità (Salmo 146); infine la regina Gezabele, gli scribi, i discepoli, la folla tra rapine, ostentazioni,  indifferenze e sterili ascolti.
Il Primo Libro dei Re, quando narra la vita del profeta Elia, pare compiacersi dei contrasti. Il brano di oggi, per esempio, contrappone la vedova di Sarepta (città pagana) alla regina Gezabele che vive nel lusso e induce il marito re Acab a far uccidere Nabot per rapinargli la  vigna che non gli aveva voluto cedere; la vedova vive, invece, in onesta e accogliente povertà con la benedizione del profeta obbediente alla Parola ricevuta: «Alzati, va a Sarepta di Sidone e stabilisciti là. Ho già dato ordine ad una vedova di là perchè ti fornisca il cibo» (versetti 8-9 malauguratamente omessi dal testo liturgico di oggi). Il profeta si muove in obbedienza alla Parola di Dio e sa che la Parola di Dio, protagonista dell’episodio, lo ha già preceduto nel cuore della donna.
Sulla vedova del Vangelo le interpretazioni si dividono. Alcuni[3] leggono la figura della vedova come icona di Gesù o come un’edificante icona del discepolo:«La vedova, sola, inosservata, povera e umile, getta tutta la sua vita; è come Gesù che si è fatto ultimo di tutti e ha messo la sua vita al servizio di tutti. Gesù la mette in cattedra al posto suo. Essa dà tutto per il tempio che presto verrà distrutto. Il tempio in realtà è Gesù stesso». Forse non si tratta di scegliere questa o quella interpretazione, ma ciò che lo Spirito mi suggerisce per il caso mio.
Il brano del vangelo è drammatizzato in tre scene che si svolgono nel Tempio dove erano disposti tredici recipienti ad imbuto per la raccolta delle offerte. L’offerta veniva consegnata al sacerdote il quale, dopo aver verificato la validità del denaro, a voce alta annunciava la quantità e lo scopo dell’offerta. Gli amministratori religiosi hanno imparato a contare la quantità.
Il soggetto di partenza di ognuna delle tre scene è Gesù che si lascia coinvolgere o coinvolge. Se non ci accontentiamo solo del testo, ma andiamo a leggere il con-testo, scopriamo che il brano di oggi fa seguito ad un capitolo che contiene violente requisitorie e scontri di Gesù con l’apparato religioso, proprio all’interno del Tempio. E dopo il testo liturgico di oggi seguirà la Passione e la morte. Sembra dunque che gli eventi di oggi costituiscano una cerniera importante. Nel brano di oggi la polemica è attenuata e si trasforma da una parte in ironia corrosiva e dall’altra in tenera benevolenza. La folla comunque lo ascoltava volentieri, come si ascolta sempre volentieri una polemica che riguarda altri e non metta in discussione se stessi.  Entrano in scena gli scribi con una sequenza narrativa costituita dai sei peccati di vanità, ipocrisia e rapina (amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere): brave persone religiose, assidui frequentatori. In realtà la razza degli scribi e dei farisei non si estinguerà mai, nella Chiesa. Anche noi siamo scribi potenziali, o di fatto, ai quali Gesù rivela oltre che le lacune dottrinali anche le contraddizioni religiose ed etico-sociali. Gli scribi, esperti legali e pertanto ricercati soprattutto dalle vedove che mancavano della protezione maschile, facevano probabilmente pagare in modo esorbitante le prestazioni professionali con parcelle che obbligavano le vedove a cedere le povere case. Resta odioso, per Gesù, che loro si servano del prestigio e della professione religiosa per ricavare utili materiali a spese dei semplici. Sono dei parassiti che pure con comportamenti esteriormente inappuntabili, mascherano un’illegalità interiore che Gesù mette in luce. Gesù  “legge” ciò che accade davanti ai suoi occhi. La Sapienza è anche saper discernere negli eventi ciò che appartiene al Regno e ciò che ne è fuori, saper leggere dentro ed oltre l’esteriorità. Aveva detto: «Voi che dai segni atmosferici sapete prevedere che tempo farà, non sapete poi riconoscere i segni dei tempi». Si disse (ma ora non più, ahimè!) che il cristiano deve tenere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale: occorre «distogliere lo sguardo da…» e «osservare invece…». Gesù educa ancora una volta allo sguardo in profondità: distogliete lo sguardo dalle fumose apparenze religiose e spostatelo su ciò che non è appariscente ma costituisce lo spessore del Regno.
Gettare.
Il verbo fondamentale del brano è il verbo «gettare» ripetuto, non senza intenzionalità teologica, ben sette volte in due soli versetti. Anche il cieco di Gerico aveva gettato il mantello. Tanti ricchi gettavano molto del loro superfluo, non mettendo in gioco se stessi, ma limitandosi ad investire una parte dei loro capitali in eccesso per la prospettiva di una protezione divina che tornerà a loro vantaggio. Consiglierei di leggere Isaia 44, 9-20: era usanza abbattere un albero per costruire idoli; una parte veniva portata a casa per riscaldarsi e farsi da mangiare e con gli avanzi si costruiva l’idolo e, per di più, per cercarne vantaggio. Non ti dice niente, per l’oggi, questa strana usanza ancestrale?
Tutti sono capaci di dare ciò che si ha. Dare ciò che non si ha, è caratteristica dei “piccoli discepoli”. Questa povera vedova ha gettato più di tutti: «due spiccioli, tutto quanto aveva, tutta intera la sua vita». Lo spicciolo era la più piccola moneta in corso; tre grammi di bronzo. L’offerta equivaleva ad 1/8 della razione giornaliera offerta ai poveri dalla beneficenza pubblica. Aveva due spiccioli: uno lo poteva tenere per sè. Li dona tutti e due. Diventa così l’icona di Gesù che tra poco si consegnerà non trattenendo nulla per sè. Il giovane ricco, invece, pur osservante religioso, resterà per sempre come immagine del nostro mediocre discepolato. La “povertà biblico-evangelica” non è una situazione unicamente economica, ma convive con la condizione dell’ «appoggiarsi su Dio». In questo, tantissimi umili fratelli e sorelle nella fede mi fanno da maestri! Io sono nelle condizioni di non aver incominciato neppure a gettare il superfluo. Io appartengo alle fasce aristocratiche della società e della Chiesa: occorrerà incominciare ad accorgermi dei piccoli fratelli/sorelle, come le vedove della liturgia di oggi, che il Signore ha messo in cattedra per me al posto suo, per indicare che, anche in sua assenza, ogni piccolo e semplice credente, con la didattica della sua vita, dovrà essere considerato maestro per la Chiesa, scribi permettendo.


[1] La traduzione liturgica dirà: “guardatevi da…”. Ho preferito la traduzione “distogliete lo sguardo da…”. Il verbo greco «blepo» pare che sia stato mal tradotto dalla Vulgata latina con “cavéte” che vorrebbe dire “attenti agli scribi!”. Credo invece che vada rispettato il senso di attività oculare: distogliete lo sguardo da…! Questo crea un efficace contrappunto con il verbo successivo “osservava…”.
[2] La traduzione che verrà letta in liturgia non rispetta l’uso ossessivo dello stesso verbo greco che Marco per 7 volte utilizza nel proprio testo: GETTARE (ballô); Noi invece nel testo riportato sopra abbiamo integralmente rispettato “l’ossessione” catechistica del testo greco di Marco: ballô = gettare. Marco racconterà (14, 3) che poche ore prima della morte di Gesù, una donna si avvicina e “rompe” un vasetto preziosissimo e”versa” tutto il contenuto su Gesù. Beccandosi il rimprovero dei discepoli: «Perché tutto questo spreco?».
[3] Silvano Fausti Ricorda e racconta il Vangelo, Editrice Ancora Milano 1992.




3 novembre 2024. Domenica 31a
SI FA PRESTO A DIRE AMORE

31° Domenica

Preghiamo. O Dio, tu se l’unico Signore e non c’è altro Dio all’infuori di te; donaci la grazia dell’ascolto, perché i cuori, i sensi e le menti si aprano alla sola parola che salva, il Vangelo del tuo Figlio, nostro sommo ed eterno sacerdote. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal libro del Deuteronòmio 6,2-6
Mosè parlò al popolo dicendo: «Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.  Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».
Salmo 17. Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore.
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici.
Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato.
 Dalla lettera agli Ebrei 7,23-28
Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore. Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.  La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
Dal Vangelo secondo Marco 12,28-34
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Si fa presto a dire amore. Don Augusto Fontana

L’indivisibile amore.
Scriveva David Maria Turoldo[1]: «L’Amore vero, profondo, il misterioso amore non ha parole. E invece noi parliamo, parliamo. Signore, Ti abbiamo sempre sulle labbra, mentre il Tuo santuario è il cuore dell’uomo. Allora se non amo mi muoia la parola sulla bocca. Chi non ama non predichi da nessun pulpito, da nessuna cattedra. Senza amore non c’è magistero. E Dio rimane senza epifania». Se non amo, queste mie parole moriranno sulla tastiera. C’è chi ha scheletri negli armadi; io temo di trovarne nei miei pulpiti come chi, anche in buona fede, inflaziona il nome di Dio e il suo cognome, l’amore.
La questione del legame tra l’amore a Dio e l’amore agli uomini è vecchia come la religione. La storia delle tre principali religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam), registra vistosi sbandamenti tra santità mistico-carismatiche o integralismi politico-sociali. I termini del problema sono tanto chiari e accettabili nella loro formulazione teorica, quanto problematici nella loro traduzione pratica. Molti di noi sono tratti in inganno dall’ovvia indiscutibilità del principio giudaico-cristiano «amerai il Signore Dio tuo e il tuo prossimo»; altre proposte evangeliche le sentiamo estranee ai nostri istinti: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra» (Lc 6,27-38).In questi casi l’adesione arriva (se arriva) dopo una lotta con Dio. In Matteo 19,22 un giovane ricco “se ne va triste” dopo la proposta radicale di Gesù «va’, vendi ciò che hai e dàllo ai poveri, poi, vieni e seguimi». Invece l’intellettuale del brano evangelico di oggi trova modo di consentire con Gesù “Hai detto bene, Maestro!”. Chi dei due prevale in noi? Spesso questi facili consensi teorici sull’unico amore a Dio e al prossimo nascondono il troppo facile trucco dell’eliminazione della tensione tra i due termini dell’amore. Ed il problema non si risolve semplicisticamente nel giusto equilibrio tra attività di culto ed attività sociale. La liturgia odierna affonda il bisturi fino alle radici e parla di “amore”. Riconosco che nella mia vita religiosa non è ancora risolta una certa schizofrenia e che nella moltitudine di attività e sentimenti sto ancora cercando la coordinata unificante. Rileggendo Erich Fromm[2] mi sono sentito sul collo il fiato di idoli che impongono il loro imprinting: «Ci domandiamo se la struttura sociale della civiltà occidentale e lo spirito che ne deriva siano propizi allo sviluppo dell’amore. La risposta è negativa. Nessun osservatore obiettivo della nostra vita occidentale può dubitare che l’amore sia un fenomeno relativamente raro e che il suo posto sia stato preso da tante forme di pseudo-amore che in realtà sono altrettante forme della disintegrazione dell’amore».
Ascolta Israele!
Gli ebrei recitano mattina e sera la preghiera dello Shemà Israèl (Ascolta Israele!)[3]. Durante la recita si pone una mano davanti agli occhi: il mistero di fede proclamato è accessibile all’ascolto e non alla visione. In essa si proclamano quattro principi della fede ebraica: prima di amare Dio, si è amati da Lui in modo liberante e gratuito; amare Dio significa non rendere culto ad altre divinità[4]; l’amore a Dio non è un sentimentalismo del cuore, ma una prassi delle mani verso coloro che ci sono stati resi consanguinei da Lui; questo amore deve essere integrale (con tutto il cuore, la mente e le forze). Uno dei problemi posti dall’esegesi giudaica dello Shemà è quello della ricerca del significato delle tre facoltà richieste per amare Dio. La risposta a questo problema è stata codificata dai maestri della Mishnà (2°sec. d.C.)[5]: «con tutta l’anima» significa «perfino se Egli ti strappa l’anima chiedendoti il martirio»; e «con tutte le forze» significa «anche con tutti i tuoi beni». Si forma, dunque, un’esperienza religiosa che è sia teologica che antropologica. Si alimenta  un “circolo virtuoso” tra uomo e Dio per cui è proibito costruire immagini di Jahwè in quanto l’unica immagine tollerabile di Dio è uomo-donna[6]. L’uomo diventa il “roveto ardente” entro cui Dio abita per essere adorato e da cui Dio parla per essere ascoltato (Esodo 3).
Un secondo presupposto biblico che ci serve per entrare nello Shemà lsrael è capire il circuito «fare-ascoltare-fare»: come esiste un indissolubile rapporto tra Dio e uomo, così la stessa indissolubilità si estende al rapporto tra ascoltare e fare. Già nel termine ebraico THORA’ si fondono tutti gli elementi dell’ascolto e della prassi in quanto con tale termine si intende tradurre congiuntamente legge, insegnamenti, precetti, parole, comandi, giudizi, promesse. In Deuteronomio 5,27 il popolo dice a Mosè: «Noi ascolteremo e faremo tutte le Parole che Dio ci avrà rivelato per tuo tramite». In Esodo 24,7 il popolo dice: «Tutto ciò che il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo». In ambedue i casi, ascoltare e fare la Parola di Dio vengono associati, ma la dichiarazione del testo di Esodo opera una sorprendente inversione di termini quasi a sottolineare che la prassi precede l’ascolto. Da questo testo dell’Esodo è nato un racconto ebraico edificante secondo cui Dio offrì la sua Legge a tutti i popoli del mondo prima che ad Israele; alla domanda se fossero disposti ad accoglierla, tutti i popoli risposero di voler prima conoscere ciò che vi era scritto per sapere se avrebbero potuto impegnarsi. Senonchè, una volta saputolo, si sentirono come schiacciati dal peso di esigenze troppo radicali e respinsero al mittente la proposta. Soltanto Israele non pose a Dio alcuna condizione preliminare di conoscenza, non volle misurare in anticipo le proprie forze, accettò tutto il rischio di quel dono a caro prezzo e rispose <Noi lo faremo> ancor prima di conoscere e di ascoltare. Martin Buber, un famoso autore ebraico, traduce la frase di Esodo così: «Noi lo faremo al fine di saper ascoltare».  Un insegnamento rabbinico dice: «Colui la cui conoscenza supera le sue azioni, si può paragonare ad un albero che ha molti rami e poche radici e quando viene il vento lo sradica e lo abbatte. Ma colui le cui azioni superano la sua conoscenza è paragonabile ad un albero che ha pochi rami ma molte radici e potrebbero venire tutti i venti del mondo senza riuscire a sradicarlo».
L’evangelista Marco oggi ci presenta Gesù che interpreta lo Shemà. Una serie di controversie con i gruppi emergenti fa da contesto di questo dialogo con uno scriba sul grande comandamento. Siamo di fronte ad un insegnamento fondamentale di Gesù che si inserisce coerentemente nel tracciato della tradizione giudaica ma con alcune novità. Il porre quesiti ai rabbini apparteneva all’uso comune. Nella somma di precetti tramandati dalla morale ufficiale del tempo ( 613 precetti di cui 365 negativi e 248 positivi ) era invalsa non solo la distinzione tra precetti grandi e piccoli, facili e difficili, ma anche il tentativo di individuare un precetto unitario. L’amore è costitutivamente legato al culto e alla prassi: «Nessuno ha mai visto Dio: se ci amiamo scambievolmente Dio dimora in noi e l’amore di Lui giunge a perfezione…Se qualcuno dicesse <Io amo Dio> e odiasse il proprio fratello, è un bugiardo; poichè chi non ama il proprio fratello che continuamente vede, non può amare Dio che non ha veduto[7]» . L’amore del prossimo è costitutivamente legato all’amore di Dio: «Vi dono un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Poichè io ho amato voi, amatevi gli uni gli altri. Da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri»[8].“Come io ho amato voi” così dice Gesù. Logicamente ci aspetteremmo : “Così voi amate me”. E invece no:”amatevi gli uni gli altri”. Il suo amore non accaparra il discepolo ma al contrario è un dinamismo che lo spinge verso gli altri. E’ amando i fratelli che si ricambia Gesù. In altri termini direbbe l’apostolo Giovanni[9]: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui».


[1] D.M.Turoldo Amare, Edizioni Paoline, 1989, pag. 25.
[2] E.Fromm L’arte di amare, Mondadori, 2000.
[3] Deuteronomio 6,4-9; 11,13-21; Numeri 15,37-41.
[4] Deut. 6,14-15; 11,13-17; 13,2-3; 30,16-18.
[5]  La Mishnah costituisce la fonte della tradizione della Torah orale rivelata agli antenati dei maestri farisei. Solo i Sadducei ritenevano infatti che la Torah rivelata fosse solo quella scritta. I farisei, invece, ritenevano che la Torah non può limitarsi al testo scritto che, invece, deve essere ascoltato, interpretato, attualizzato attraverso la Tradizione orale.
[6] Genesi 1,26:”Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”
[7] Prima Lettera di Giov. 4,12 e 20
[8] Giovanni 13, 34-35. Il termine greco kathòs può essere tradotto sia con “COME” e sia con “POICHE’; è il fatto di essere amati da Gesù che diventa motivo, norma, conseguenza per l’amore ai fratelli.
[9]  1 Giovanni, 4, 16




27 ottobre 2024. Domenica 30a
IO, BARTIMEO

30a domenica B
Preghiamo. O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell’oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa’ che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Geremìa 31,7-9
Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim[1] è il mio primogenito».
 Salmo 125 . Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni.
Dalla lettera agli Ebrei 5,1-6
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek[2]».
Dal Vangelo secondo Marco 10,46-52
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

IO, BARTIMEO. Don Augusto Fontana

 Religione «fai-da-te»?
Il fenomeno religioso italiano ci offre spesso immagini di una folla immensa che si accalca attorno a papi, madonne, veggenti e santi. La religiosità si risveglia dal sonno dell’indifferenza, ma non sempre dal sonno della ragione. Si va alla religione come si va al supermercato: si guarda, si vaglia e si sceglie una merce lasciando l’altra. Nessuno compra l’intero deposito del supermarket. Anch’io ho scelto Gesù, ma non “tutto compreso”; mi sarebbe costato troppo. Più comodo optare: due comandamenti su dieci, una beatitudine su otto, quattro versetti su dodicimila, tre parabole su cinque…Gli americani direbbero «believing, without belonging», credere senza appartenere: si scelgono riti, pratiche, occasioni sporadiche a seconda del proprio tornaconto. Qualcuno ha riscontrato che le migliaia di giovani che passano ad applaudire il Papa nelle Giornate mondiali della gioventù di fatto continuano a essere applaudenti disobbedienti, come molti miei alleluja. Religione usa e getta. Religione prêt-à-porter. Ho un brivido: appartengono a questa religiosità popolare anche gli afflussi ai santuari, il ricorso ai frati guaritori, alle immaginette infilate nel dizionario del figlio o sotto il cuscino di nonna Maria, al “far dire una Messa”?  Cachet religiosi «che – come scrive il sociologo Domenico de Masi – anziché innalzare l’uomo al livello della religione abbassa la religione al livello più basso dell’uomo». Qualcuno sostiene che il popolo si sta ribellando ad un cristianesimo ingessato, ritualistico, senz’anima, dottrinale, eroico, autoritario. La fede è evento povero, ma non semplice né tanto meno naturale. Siamo assetati di sicurezze, tartufai alla ricerca di un Dio troppo annidato, e questo ci fa onore; ma siamo pure ammalati di fede epidermica part-time, di cecità interiore collettiva derivata dalla fretta e dalle ovvietà quotidiane, che ci privano della capacità di contemplare il mistero e l’invisibile, qualsiasi essi siano, umani o trascendenti. Forse siamo anche molto prudenti verso un Dio che, se gli dai un dito, si prende braccia, corpo, anima, soldi, tempo, sonno. Signore, vacci piano!
Ma il mio credere, che è ?
Alla scuola del capitolo 10 di Marco, in queste domeniche, mi sono chiesto se davvero sono discepolo o manichino da esposizione, se siamo credenti o cattolici anagrafici e domenicali, se abbiamo perso per strada l’illuminazione originaria e quel po’ di radicalismo che Gesù ha offerto e chiesto nei rapporti familiari, nell’uso dei beni e nei rapporti sociali.
O forse hai nostalgia, come me, di tornare ad essere catecumeno perchè ti stai chiedendo: ma il mio credere, che è? Gli Evangeli sono ossessivi nel definire il discepolato come sequela e la fede come cammino. Nelle pagine bibliche odierne i termini che descrivono moto e spostamento risuoneranno per almeno quindici volte su assemblee rispettosamente sedute nell’ascolto, ma potenzialmente convocate al cammino. Tutta la fede ebraica poggia su partenze, cammini, ritorni, pellegrinaggi; come l’Incarnazione e la Risurrezione di Cristo. L’evento accaduto al cieco Bartimeo è il prototipo di ogni cammino battesimale e post-battesimale; anche il consolante oracolo del profeta Geremia rimette in moto gambe anchilosate di deportati ormai seduti sui marciapiedi della propria storia, provoca scariche adrenaliniche nel cuore di straccioni e di non-eroi divenuti un imponente corteo che torna a casa cantando a Dio il pianto del loro andare e la gioia del tornare (Salmo 126).
Il cammino di Bartimeo accade a Gerico, un’oasi fertilissima, una città di villeggiatura dove nasce la tentazione di sostare. Gesù invece entra, attraversa e se ne va intercettando questo cieco seduto non a godere gli ozi della sosta ma a mendicare la sostanza della vita. Cieco mendicante seduto: tre poco invidiabili condizioni per un uomo, per ogni uomo, per ogni discepolo. Bartimeo è cieco come il discepolo che non capisce: «Non capite ancora? Avete gli occhi e non vedete[3]». Pietro alla serva che lo aveva identificato, aveva risposto:«Non ho mai visto quest’uomo» (Marco 14,71). L’apocalittico Giovanni in una delle sue misteriose visioni mette in bocca a Gesù una dura parola alle sue chiese:«Voi dite “non abbiamo bisogno di nulla” e non vi accorgete di essere falliti, infelici, poveri, nudi e ciechi. Comprate da me il collirio per curarvi gli occhi e vederci» (Apoc. 3, 14-20). La conversione di Saulo avviene attraverso il simbolismo della cecità guarita a tappe: «Saulo si alzò da terra, aprì gli occhi, ma non ci  vedeva…subito dagli occhi di Saulo caddero come delle scaglie ed egli recuperò la vista, si alzò e fu battezzato, poi mangiò e riprese forza” (Atti 9). A tappe avviene la guarigione del cieco nato[4], quella del cieco di Betsaida[5] e del cieco di Gerico.  Crollano i miti delle conversioni improvvise. Occorre abituarsi al tema della gestazione, della nascita e della crescita della fede dentro conflitti e coccole di una storia viva di incontri, ascolti e perdite.
Bartimeo è mendicante per povertà, ma anche per desiderio. Attende nella ciotola il tintinnare di un’elemosina e gli casca nel piatto un Dio di liberazione. E’ seduto, immobilizzato ai bordi del cammino frequentato da Gesù, come faranno i discepoli fermi ai margini della sua crocifissione.
E Bartimeo grida, grida. Il grido è una forma fondamentale di preghiera: «Dal profondo grido a te, Signore» dice il salmo 130 che d’ora in poi ci giunge accompagnato dal forte grido di Gesù morente che sfida le promesse del Padre, unito a tutti i grandi sofferenti della storia:«Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: “Fino a quando tu che sei santo, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?”. Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco»(Apoc.6, 9-1). E’ il grido laico delle folle dei maledetti dalle nostre civiltà, è la preghiera incessante dei giusti e dei monaci: «Abbi pietà di me! Abbi compassione viscerale e materna!». La preghiera non turba la quiete pubblica; il grido infastidisce: «Lo sgridavano perchè tacesse». La chiesa delle cifre, guardia del corpo di Gesù, gli fa ressa intorno. Molti potrebbero avvicinarsi, ma glielo si impedisce. L’emorroissa sfonda la barriera; il paralitico viene calato dal terrazzo; i bambini faticano a superare il filtro selettivo dei discepoli: c’è sempre qualcuno che è infastidito dalle esagerazioni di questi cortei di straccioni che infrangono il cerimoniale perchè non risultano tra gli invitati e diventano elementi “fuori programma” a cui vorremmo insegnare l’alfabeto delle buone maniere. Con la scusa di difendere Gesù difendiamo la tranquillità della nostra privacy o delle nostre assemblee liturgiche che sembrano fatte apposta per tenere lontano coloro che si portano dentro un’ansimante lunga rincorsa verso la fede o un dramma umano che si può sfogare solo con una voce non regolamentare e non prevista dalle nostre dottrine o dai cerimoniali.
«Gesù si ferma» – narra il Vangelo – come in casa di Zaccheo e nell’osteria di Emmaus; anche Dio rispetta gli stop dei nostri inquieti incroci. Poi scatta il passaparola della chiamata: «E disse “Chiamatelo” ed essi lo chiamarono». Il discepolo non vede, ma può ascoltare l’invito alla sequela; la chiesa viene obbligata ad aprire un varco e a farsi promotrice di convocazione e di vocazione del petulante straccione dagli occhi cisposi che «balza in piedi gettando il mantello»; quel mantello che, come recita il Libro del Deuteronomio (24,12), è la pelle dei poveri, vestito, materasso, casa e coperta. A differenza del giovane ricco, questo cieco compie il gesto del vero discepolo e si libera del necessario: « Voi infatti vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni ed avete rivestito l’uomo nuovo che si rinnova ad immagine del suo creatore» (Coloss. 3,9).
«E lo seguiva per la strada». Il Vangelo di Marco si era aperto con la suocera di Pietro guarita che si mise a servirli, ora si chiude con un altro indebolito e guarito che si mise a seguirlo: sono i due verbi del discepolo che è stato guarito-salvato da Gesù.
Mendicare Dio con mani aperte per lasciare e ricevere.
Oggi, nella Lettera agli Ebrei , Dio si presenta come uno che entra dentro nelle angosce umane e ne compartecipa le vicende. Occorre innanzitutto raccogliere, nella ciotola della nostra banalità e creaturalità, questo Dio che si fa debole della nostra debolezza, contemplando e adorando questo Suo modo di essere Dio-con-noi, anzi Dio-come-noi. E’ vero: noi siamo eterni mendicanti di sicurezza economica, di salute, di amicizia, di religione (perchè anche la religione e i suoi gesti possono appartenere al bisogno naturale dell’uomo) e ci fa piacere se nella nostra ciotola di mendicanti qualcuno vi versa dentro qualche spicciolo utile di ciò che attendiamo; ma ogni tanto dobbiamo permettere che dentro alla ciotola ci caschi Gesù il Cristo, apparentemente inutile per soddisfare le attese immediate, ma fondamentalmente essenziale per la radicale trasformazione della nostra condizione e del senso della  nostra vita, come è successo a Bartimeo.
Bartimeo si apre un passaggio attraverso il servizio d’ordine. Gesù predilige questi individui che si tirano fuori dalla folla, superando le barriere di protezione. Dire “vocazione” significa accettare di non stare seduti ai margini, nè accucciati nelle abitudini, nè anonimi nella fila degli utenti della religione, nè paralizzati nelle carrozzelle delle nostre delusioni, nè inebetiti dalle troppe cose da fare, nè incartapecoriti dalle pigrizie. La chiamata ci estrae dalla tana di una vita raggomitolata buttandoci nella pubblica testimonianza: gli apostoli vengono messi a disposizione del Regno di Dio; Zaccheo viene sfilato da dietro la patetica foglia di fico di quell’albero e la donna mestruata è squadernata in pubblico.  La chiamata ci estrae anche dal rapporto massificato della folla verso un rapporto personale con Gesù pulsante come un’amicizia che è tutto meno che l’ingresso in uno stato di catalessi vegetativa. Gesù mi chiama ad essere protagonista di un movimento e non membro di un’istituzione, ad essere testimone e non utente o notaio. Gesù non vuole vedere la mia maschera, ma il mio volto. Ogni vocazione-chiamata comporta che ci si liberi di un qualche “mantello”: i deportati a Babilonia, gli apostoli, Zaccheo, la donna mestruata, il cieco, Lazzaro…tutti cedono porzioni di sicurezza, bendaggi mortiferi e ammuffiti, vergogne, cianfrusaglie pur di balzare in strada per avvicinarsi a Lui, salire, scendere, tornare, risorgere, guarire. O diventare veggenti. «Io sono la luce del mondo» dice Gesù e «Chi vede me vede il Padre», però è pur vero che Dio resta mistero sconosciuto ed inconoscibile. Ora lo vediamo come in uno specchio nella speranza di vederlo cosi come Egli è. La fede, come la vita, resta un “problema serio” ed occorre diffidare delle scorciatoie visionarie.


[1] la tribù di Efraim discende da un uomo di nome Efraim, che è registrato come figlio di Giuseppe il figlio di Giacobbe.
[2] Melchisedec non apparteneva al popolo ebraico. Eppure Abramo aveva onorato Melchisedec come re e sacerdote.
[3] Marco 8,18.
[4] Giovanni 9
[5] Marco 8,22-26




20 ottobre 2024. 29a Domenica
INCAPACI DI TOGLIERE, MA FRATERNI NEL PORTARE.

29 domenica B

PREGHIAMO. Padre, concedi alla tua Chiesa di servire l’umanità intera  a immagine di Cristo, servo e Signore. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Dal Libro del profeta Isaia (53)
2 Davanti al Signore il suo servo è cresciuto come una pianticella, come una radice in terra arida. Non aveva né dignità né bellezza, per attirare gli sguardi e per richiamare l’attenzione.
3 Noi l’abbiamo rifiutato e disprezzato come uno che non vale niente, e non lo abbiamo tenuto in considerazione. 4 Eppure egli ha preso su di sé le nostre malattie, si è caricato delle nostre sofferenze, e noi pensavamo che Dio lo avesse castigato, percosso e umiliato. 5 Invece egli è stato ferito per le nostre colpe, è stato schiacciato per i nostri peccati e noi siamo stati salvati. Egli è stato percosso, e noi siamo guariti. 10 Lui, servo del Signore, ha dato la vita come un dono per gli altri. 11 Il Signore dichiara: «Dopo tante sofferenze, egli, il mio servo, vedrà la luce e sarà soddisfatto di quel che ha compiuto. Infatti renderà giusti davanti a me molti uomini, perché si è addossato i loro peccati».
Salmo 32 . Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore  e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;  dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,  su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte  e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:  egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,  come da te noi speriamo.
Dalla lettera agli Ebrei 4,14-16
 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.  Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.  Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Dal Vangelo secondo Marco 10,35-45
Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Maestro, noi vorremmo che tu facessi per noi quel che stiamo per chiederti». E Gesù domandò: «Che cosa dovrei fare per voi?». Essi risposero: «Quando sarai un re glorioso, facci stare accanto a te, seduti uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Ma Gesù disse: «Voi non sapete quel che chiedete! Siete pronti a bere quel calice di dolore che io berrò, a ricevere quell’immersione (battesimo) di sofferenza nella quale sarò immerso (battezzato)?». Essi risposero: «Siamo pronti». Gesù aggiunse: «Sì, anche voi berrete il mio calice e riceverete la mia immersione (battesimo); ma non posso decidere chi sarà seduto alla mia destra e alla mia sinistra. Quei posti sono per coloro ai quali Dio li ha preparati».  Gli altri dieci discepoli avevano sentito tutto e si arrabbiarono contro Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò attorno a sé e disse: «Come sapete, quelli che pensano di essere sovrani dei popoli comandano come duri padroni. Le persone potenti fanno sentire con la forza il peso della loro autorità. Ma tra voi non deve essere così. Anzi, se uno tra voi vuole essere grande, si faccia servo di tutti; e se uno vuol essere il primo, si faccia servitore di tutti.  Infatti anche il Figlio dell’uomo è venuto non per farsi servire, ma è venuto per servire e per dare la propria vita come riscatto per la liberazione degli uomini».

INCAPACI DI TOGLIERE, MA FRATERNI NEL PORTARE. Don Augusto Fontana

L’omeopatia di Dio.
Alle porte di Gerusalemme la strategia messianica di Gesù trova nell’asino un fantasioso e profetico segno sacramentale, visibile ed efficace[1]: «Andate nel villaggio; troverete un asinello legato. Scioglietelo e conducetelo» (Marco 11, 2). L’asino fu cavalcatura da servo, per sentieri umili, a differenza del cavallo che portò gli aristocratici lombi del potere e della guerra. E così entra in Gerusalemme lui, re da burla, Signore di quei discepoli che poche ore prima avevano censurato due condiscepoli per le loro pretese da boss[2]: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»[3]. La chiesa ha un nervo scoperto sul sesto comandamento, ma concede sconti da liquidazione su altri comandamenti di Gesù che non riguarderebbero propriamente moine da galateo salottiero: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Marco 10, 35-45).
Nella vita quotidiana il potere ha una sua parte quasi ineliminabile a tutti i livelli anche se in formato ridotto: famiglia, scuola, ambienti di lavoro, parrocchia. Anche i rapporti di amore e di amicizia o religiosi possono essere avviluppati dalla tela dell’autoritarismo conscio e inconscio. L’esigenza di stabilità e di operatività di ogni gruppo favorisce paradossalmente la degenerazione dell’esercizio dei rapporti autorevoli in esercizio di potere.
Chi, nella convivenza o nell’evangelizzazione, ha scelto la via del “non-potere” ha potuto creare rapporti umani autentici e liberi dove i sentimenti di accoglienza e di amore hanno trovato il primo posto. Alcuni ci rimettono faccia e carriera. Altri la vita. Leggo il testamento di Christian de Chergé, abate cistercense, ucciso con altri 6 monaci il 21 maggio 1996 ad Algeri. Lo leggo con i sentimenti di stupore e sbigottimento affiorati nei discepoli nel fiutare le arie che tiravano[4]. Il monaco martire scrive parole scandalose per le orecchie di molti cattolici che “frequenteranno la Messa” di domenica, abitati da un rancoroso anti-islamismo da far invidia al migliore Jiad[5] cattolico ma neutralizzato da queste parole scritte col sangue: «Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che pregassero per me. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.  La mia vita non ha un prezzo più alto di un’altra.  Non vale di meno né di più.  In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca. Non posso auspicare una morte così; mi sembra importante dichiararlo.  Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo, che amo, sia indistintamente accusato dei mio assassinio.  Conosco le caricature dell’islam che un certo Islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi la coscienza in pace, identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti[6]».
Dolorosamente il testamento si sovrappone all’inno di Isaia (Isaia 53, 2-11) dedicato ad una misteriosa figura di Servo del Signore «cresciuto come un virgulto e come una radice in terra arida. Disprezzato dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce, giustificherà molti, si addosserà la loro iniquità». Dio indossa l’iniquità: è la legge dell’omeopatia divina (similia similibus curantur[7]). Stenterei a crederlo senza Gesù; ed una strana rassicurazione mi invade. I testi di Isaia e della Lettera agli Ebrei sottolineano questo aspetto del servizio: prendere su di sè. Don Milani diceva che contro la cultura del «me ne frego!» occorreva contrapporre la cultura del «mi sta a cuore!». «Agnus Dei qui tollis peccata mundi – recitavano i nostri vecchi – Agnello di Dio che togli i peccati del mondo». Ma il verbo latino tollere ha tre significati di alto valore cristologico ed ecclesiale e non solo linguistico: portare, sopportare, portare via ( in greco= airô). Scrive la Lettera agli Ebrei (4,14-16): «Abbiamo un sommo sacerdote che compatisce le nostre debolezze, essendo lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso solo il peccato…». Molti di noi possono raccontare di essere rimasti a volte in faccia al dolore o all’errore, incapaci a togliere, ma fraterni almeno nel portare insieme. Io nelle carceri ne faccio esperienza: a quasi nessuno sono riuscito a “togliere l’iniquità”; ma mi viene chiesto comunque di “portarla” sulle mie spalle, sulla mia coscienza, sulla mia preghiera, sul mio dolore. Nella celebrazione di oggi non cercherò un Dio estatico e apatico (che non soffre), sperando invece di trovarLo, vivo e patetico (empatetico), a raccogliere mie malizie e gracilità con manciate del suo pathos. Come dice Bonhoeffer, «un Dio che non soffre non ci può liberare».
Attraversando equivoci e paure.
Il testo liturgico dell’evangelo odierno è stato privato di alcuni versetti che lo precedono e che ritengo importante citare. Mi riferisco ai versetti 32-34 che contengono il terzo annuncio della passione:«Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù li precedeva ed essi erano sbigottiti; coloro che venivano dietro avevano paura. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno,  gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; e dopo tre giorni risusciterà».
Una finale con sei verbi di morte e un settimo di vita per uno sbigottimento allora e oggi. L’incertezza, il dubbio e la paura si impadroniscono di tutti: seguaci, simpatizzanti, discepoli e Dodici. Marco agisce come ottimo regista preparando la scena in movimento con molti personaggi. In questo gruppo c’è posto anche per noi lettori. Se potessi, chiederei al regista Marco di risparmiarmi il viaggio con Gesù e di farmi trovare, invece, nei primi posti a godermi la scena della risurrezione.
A questo terzo annuncio della passione segue la reazione dei discepoli, peggiore delle precedenti. Dopo il primo annuncio Gesù va in collisione con Pietro che «pensava secondo gli uomini e non secondo Dio» (8,32). Dopo il secondo annuncio segue un eloquente mutismo da parte di tutti, intenti a litigare su chi fosse il più grande (9,32). Ora i discepoli vogliono che lui faccia la loro volontà assecondando deliri messianico-politici: «Vogliamo che tu ci dia quello che ti chiediamo». Gesù sta al gioco: «Cosa volete che faccia per voi?». Altre volte nei Vangeli Gesù chiede: «Cosa vuoi?».  Normalmente la domanda di Gesù è preceduta dalla debolezza di lebbrosi e ciechi[8] che grida guarigione. E Gesù risponde concedendo quanto richiesto. La richiesta dei discepoli invece non esprime bisogni, ma chiede privilegi. Resta così scritta in eterno una risposta che, più che un rimprovero, sembra un lamento: «Non sapete che cosa chiedete…!». I discepoli avevano semplicemente frainteso. Per loro, andare a Gerusalemme significava ancora andare direttamente alla gloria ed è per questo che fanno questione di posti e di potere.  Nella letteratura apocalittica giudaica si attende che in un futuro non lontano Dio giudichi il mondo dando così prova della sua potenza; nelle circostanze storiche concrete del tempo ciò significava ribaltare la situazione di Israele nei confronti degli invasori o colonizzatori. Nei testi apocalittici infatti la lingua ebraica usa preferibilmente il termine gheburah per indicare la forza di Dio che agirà alla fine dei tempi. Negli scritti della comunità apocalittica di Qumran, soprattutto nel rotolo chiamato “rotolo della guerra”, si dice che la forza di Dio si manifesterà anche per mezzo dei combattenti (ghiborrim). E’ possibile che i discepoli, come si evince da una numerosa serie di testi in tutti i sinottici, coltivassero questa cultura apocalittica tipica anche degli zeloti e continuassero a persistere nella comprensione di Gesù come quel Messia sfasciacarrozze  che avrebbe ribaltato le sorti tramite la guerra santa.
A vantaggio di…
Raccogliamo dalle tre Letture liturgiche il tema del Dio servo, che ama l’uomo caricandosi dei suoi pesi. La Chiesa non deve fare affidamento sulle gambe dei cavalli di razza o sugli strumenti di pressione tipici delle società organizzate di oggi che abbisognano di messaggi suadenti più per vincere che per convincere. L’atteggiamento dei due discepoli, che dimostrano di non capire che Dio procede a dorso d’asino, è l’atteggiamento di ognuno di noi che ha fretta di vincere e di soddisfare i narcisismi o di accorciare i cammini di crescita o di abbandonarsi alle piccole vendette “escatologiche” della propria storia quotidiana.  «Dare la vita in riscatto» significa sciogliere, liberare.  Il riscatto era ed è il prezzo che un familiare (detto in ebraico: goèl) paga per liberare un parente caduto prigioniero o rapito. Il servizio diventa “assumere su di sè responsabilmente il destino e la situazione degli altri”. Molti hanno detto che la croce è “pagare al posto di…“; meglio sarebbe dire che l’amore diventa crocifisso quando “paga a vantaggio di…“.


[1] Zaccaria 9, 9 «Esulta molto figlia di Sion, gioisci figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina».
[2] Pare che per l’evangelista Matteo la richiesta fosse così insopportabilmente scandalosa in bocca ai due futuri vescovi di Gerusalemme (Giacomo e Giovanni) da indurlo a trasferirla sulla bocca della loro madre (Matteo 20, 20).
[3] Marco 10, 37
[4] «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù li precedeva ed essi erano sbigottiti; coloro che venivano dietro avevano paura.» (Marco 10, 32-34).
[5] Uso il termine secondo l’interpretazione popolar-cattolica di questi tempi; ma so che lo Jiad significa sforzo, impegno sulla strada di Dio. Guerra santa è una interpretazione deviata mentre per gli islamici non fondamentalisti lo Jiad è uno “sforzo collettivo verso Dio”.
[6] https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2018-01/beati-monaci-trappisti-martiri-algeria.html
[7] La medicina Omeopatica si basa sul concetto del simile, secondo il quale una malattia si può curare con la stessa sostanza che assunta dall’uomo sano ne induce la malattia.
[8] Mc 1,41: il lebbroso; Marco 10,47.51: il cieco