27 dicembre 2020. Famiglia di Nazareth
GESU’ SULLE BRACCIA DEL TEMPIO E DI NAZARETH

Preghiamo. O Dio, nostro creatore e Padre,  tu hai voluto che il tuo Figlio crescesse in sapienza, età e grazia nella famiglia di Nazaret; ravviva in noi la venerazione per il dono e il mistero della vita, perché diventiamo partecipi della fecondità del tuo amore.  Per Gesù Cristo nostro Signore.
Dal libro della Gènesi 15,1-6; 21,1-3
 In quei giorni, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.  Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito.

Salmo 104 . Il Signore è fedele al suo patto.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere.

A lui cantate, a lui inneggiate, meditate tutte le sue meraviglie.
Gloriatevi del suo santo nome: gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto.
Ricordate le meraviglie che ha compiuto, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca,
voi, stirpe di Abramo, suo servo, figli di Giacobbe, suo eletto.
Si è sempre ricordato della sua alleanza, parola data per mille generazioni,
dell’alleanza stabilita con Abramo e del suo giuramento a Isacco.
Dalla lettera agli Ebrei 11,8.11-12.17-19
 Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.  Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

Dal Vangelo secondo Luca 2,22-40
 Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo (unto, consacrato) del Signore.  Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

GESU’ SULLE BRACCIA DEL TEMPIO E DI NAZARET. Don Augusto Fontana
Luca mette in campo una solenne scenografia liturgica dopo essersi ispirato al profeta Malachia (3,1-4): «Ecco, io manderò un mio messaggero … e subito il Signore che voi cercate entrerà nel suo tempio …. perché possiate offrire al Signore un’offerta secondo giustizia».
Nel Tempio a Gerusalemme la scena è affollata da molti personaggi:

  • il Bambino, che nei versetti precedenti alla lettura odierna, viene circonciso e gli viene dato il Nome Gesù (“Jeshuah=Dio salva”), e ora è proclamato “Cristo del Signore”.
  • la Legge (Toràh): nominata 5 volte: «secondo la Legge…come è scritto nella Legge…come prescrive la Legge….per fare come la Legge prescriveva…secondo la Legge del Signore». Presenza ingombrante. La “Legge di Mosè” diventa subito “la Legge (la Parola) del Signore”. E’ gente che si muove come una vela gonfiata dal vento della Parola.
  • Maria e Giuseppe (Miriam e Ioseph); tutto si svolge attorno a loro e al “bambino”.
  • lo Spirito Santo – nominato 3 volte – c’è ma non si vede; se ne vedono solo gli effetti.
  • Simeone (Scimehon=”Dio ha ascoltato”) il vecchio, che rappresenta le braccia secche e bimillenarie di Israele che ricevono finalmente il fiore della vita.
  • Anna (Hanna=”Favore di Dio”), profetessa vedova; ha l’età di tutta l’umanità che ancora non ha visto il volto di Dio ed è vedova, come Israele che ha perso Dio-Sposo e vive una vita di attesa, con dolore (digiuni) e desiderio (preghiere).

Il Tempio accoglie. La Legge (Torah, Parola), ascoltata, genera l’evento. Simeone e Anna parlano e cantano. Maria e Giuseppe compiono riti in silenzio e «si stupivano delle cose che si dicevano di lui». Una vera Liturgia.
E io dove sono? Seduto in platea a guardare stancamente una commedia vista e rivista o a cantare in coro e a stupirmi delle cose che vengono dette di Lui?

Quando la vita viene “celebrata”.
Si tratta allora, per Luca, del primo ingresso di Gesù nel Tempio.  Luca sembra collegarci anche con l’episodio della consacrazione del giovane Samuele da parte di sua madre Anna al tempio di Silo (1 Samuele 1,22-28: « Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho chiesto. Perciò anch’io lo dò in cambio al Signore: per tutti i giorni della sua vita egli è ceduto al Signore»); in questo caso Samuele rimarrà sempre nel tempio come la profetessa vedova Anna; Luca ci narra che Gesù non è meno irrevocabilmente votato al Padre suo pur vivendo trent’anni a Nazaret e non nel tempio (fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret).

Segno di contraddizione.
Simeone dichiara che Cristo sarà un seméion antilegòmenon, un «segno di contraddizione» perché siano svelati i pensieri di molti cuori (Luca 2,34).  “Un segno – come interpreta il biblista card Ravasi – impossibile da evitare, con cui fare i conti, da abbracciare o respingere”. San Paolo definisce la croce di Gesù come «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani » (1Corinzi 1,23-24). Non possiamo dimenticare quello che dice la lettera agli Ebrei:  “La parola di Dio, infatti, è viva ed efficace. È più tagliente di qualunque spada a doppio taglio. Penetra a fondo, fino al punto dove si incontrano l’anima e lo spirito e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (4,12).  Maria/Chiesa è chiamata a mettersi in ascolto sempre più profondo e sempre più coinvolgente della Parola-spada che quel Figlio annuncerà durante la sua vita.  Gesù, diventato grande, vedendo il vuoto che si stava facendo attorno a lui, disse ai discepoli «Volete andarvene anche voi?» (Giovanni 6, 67). Come un giorno aveva chiesto ai suoi: «Ma io chi sono per voi?» (Matteo 16, 15). Nei secoli questo interrogativo ha continuato a serpeggiare. Ora tocca a me: mi hanno consegnato questo Gesù come un carbone ardente nel Tempio delle mie braccia.  Dove lo metto? Che me ne faccio?

L’incubazione a Nazaret.
Tutta la scena centrale nel Tempio rischia di far passare in secondo piano due righe finali della catechesi di Luca: « fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzareth. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui». E per 30 anni non si saprà quasi più nulla. Siamo stati salvati anche da questi 30 anni a Nazareth. Scrive il teologo F.Giulio Brambilla (oggi Vescovo di Novara): « Per trent’anni! Questo è il mistero di Nazareth.  Gesù ha imparato, gustato, assorbito a Nazareth, mediante un’interminabile incubazione, la grammatica della nostra umanità.

Nazareth, icona di comunità cristiane.
«Il mistero dell’incarnazione non si limita all’evento della nascita di Gesù, ma si estende alla sua crescita fisica, psicologica e spirituale, al suo divenire umano nello spazio di una famiglia e di un contesto culturale e religioso precisi (il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, la festa di Pasqua, il Tempio, l’apprendimento della Torah)[1]».  Il “Natale-nascita”, dunque, non è che una piccola parte del grande evento dell’Incarnazione e della Epifania di Dio che comprende anche un Gesù che “cresce”.  «Anche per il figlio di Dio diventare uomo non ha significato solo nascere come individuo, ma anche vivere la sua esistenza umana come co-esistenza, in rapporti familiari forti e significativi. La nostra comprensione dell’incarnazione del figlio di Dio non può trascurare la riflessione sul significato dei 30 anni che Gesù vive radicato dentro una famiglia umana. Il nascere è l’inizio di un cammino di umanizzazione che ha nei rapporti familiari il terreno necessario»[2]. Ma sarebbe riduttivo cercare nel Vangelo di Luca solo l’icona della “Santa Famiglia” o, peggio ancora, della “Sacra Famiglia”; meglio sarebbe cercarvi l’icona di ogni comunità cristiana “famiglia di famiglie” come viene esplicitato al n° 23 del documento della CEI “Comunione e Comunità”: «Una parrocchia è fedele alla sua missione pastorale nella misura in cui aiuta concretamente le famiglie a vivere nella comunione la vita comunitaria secondo la ricchezza delle sue molteplici espressioni. In tal modo si introduce nella comunità ecclesiale uno stile più umano e più fraterno di rapporti personali che della Chiesa rivelano la dimensione familiare e del mistero della Chiesa, la sua “maternità,” il suo essere “famiglia di Dio”».


[1] EUCARISTIA E PAROLA, a cura della comunità di Bose. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale. Ed. Vita e Pensiero, 2006, Milano.
[2] Servizio della parola, n. 293, dicembre 97.




25 dicembre 2020. Festa dell’Incarnazione
PER NON PERDERE I SENSI ACCANTO A GESU’

Dal Vangelo secondo Luca 2,1- 20
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».  E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loroTutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuoreI pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.

PER NON PERDERE I SENSI. Don Augusto Fontana

Anche Gesù è uno dei tanti.
Innanzitutto Luca mette una cornice storica al racconto della nascita di Gesù: il censimento di un imperatore. Avrebbe potuto evitare, ma la notizia è un modo di fare catechesi alla sua comunità e a noi: Luca forse vorrà dirci che Dio è diventato uno di noi, un numero, uno tra tanti? Come me e come te. I numeri qui contano, come sempre: nelle piazze, nell’auditel, negli scrutini dei voti, nel commercio. Anche la festa dell’Incarnazione di quest’anno scende in un contesto difficile: siamo sotto attacco di un virus che atterra vite ed economia e rapporti sociali. Penso oggi alla terra di Gesù e dei nostri padri nella fede, tormentata da tensioni sociali, politiche, economiche.  In Europa i cristiani anagrafici sono maggioranza. Ma altrove Gesù nasce in un piccolo resto di fedeli, in un angolo ristretto di comunità minoritarie: copti, melchiti ortodossi, cattolici di rito orientale, maroniti.  Nasce anche in mezzo ai silenziosi fruscii dei monasteri, angoli sperduti di rivelazioni e fedeltà. Dio dunque, dice Luca, si fa carne, ma diventa anche tempo. L’invisibile si fa carne e l’eterno si riveste di tempo. Dio viene conteggiato come uno qualunque da un imperatore guerrafondaio e colonialista, che crede di essere chissà chi. Questo è il Dio in cui crediamo.

 Luca racconta una liturgia.
Ma poi Luca procede narrando una liturgia di gesti, di rivelazioni, di riti, di silenzi, di canti. I cinque sensi del nostro corpo sono coinvolti nella meditazione e nella celebrazione di questo evento. Qui incomincia la sinfonia dei sensi a dirci che il mistero di Dio viene raccolto da noi, uomini e donne concrete, che hanno dei recettori sensibili e delle porte aperte sull’infinito. Perché i nostri sensi, la nostra materia è così: porta aperta sul mistero.

L’orecchio e l’udito.
L’udito è il senso principale della fede. La fede nasce dall’ascolto. E’ l’imperativo assoluto di Dio: non ti farai immagine alcuna di me. Piuttosto: ASCOLTA ISRAELE. Deut. 4,12: «Dio vi parlò in mezzo al fuoco; voce di parole (nel testo ebraico: qol debarim) voi ascoltavate, nessuna immagine vedevate, solo una voce». La nostra cosiddetta religione, nata dalla radice di Iesse cioè dall’ebraismo, è fondata sull’ascolto delle annunciazioni o vocazioni. Non solo quelle a Maria o a Zaccaria, a Mosè ed Isaia, ma a pastori impuri. Nasce dall’ascolto assiduo, amante, obbediente della Parola di Dio letta e ascoltata nel privato, proclamata alla domenica. Senza questo alfabeto, la vita diventa un geroglifico incomprensibile o un evento banale. Come lo poteva essere stato (e lo può essere anche per noi oggi) per i pastori: vedere un bambino è evento stupendo, anche se ordinario. Diventa segno e mistero se qualcuno ci allerta con un’annunciazione, una parola rivelata. Ma l’orecchio è aperto sul suo nervo nascosto che è il cuore: Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuoreEd è anche capace di farsi bocca e megafono: riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. (Proviamo a ripercorrere i verbi dell’ascolto nel brano del Vangelo).

 L’occhio e la vista.
Anche l’occhio è un organo sensoriale aperto sull’infinito, ma capace di due livelli: il guardare e il vedere, il vedere e lo scrutare, lo scrutare e lo stupirsi per interrogare e interrogarsi, il credere. E’ un processo lungo: dal guardare al credere passano ore, talvolta anni.
Anche alla tomba della risurrezione accade questo lungo processo di conversione degli occhi. L’evangelista Giovanni usa addirittura tre verbi diversi che noi traduciamo sempre con “vedere”, ma Giovanni conosce la difficile gestazione dall’ascolto allo stupore al credere.
«vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Significa che Dio non lo si ricerca più nell’evanescenza di una fede cerebrale, ideologica, astratta. Lo si vede celebrando segni, inseguendo orme dei suoi passi. Per ora lo vediamo di spalle e forse mai in volto. Ma il desiderio del nostro occhio profondo è ben espresso dai salmi: Io cerco il tuo volto, non nascondermi Signore il tuo volto.
(Ripercorriamo i verbi del vedere nel Vangelo).

Le mani, le gambe e il tatto.
Lo fasciò e lo coricò Toccare Dio deponendolo, avvolgendolo in fasce. L’evangelista Matteo dirà: Chiunque avrà dato da mangiare, da bere… chi avrà vestito… chi avrà accolto… chi avrà visitato…chi sarà andato a trovare…lo avrà fatto  a me. Il buon samaritano si fa prossimo, va a sporcarsi, come fa Dio questa notte, per soccorrere l’uomo ferito, considerato intoccabile dal sacerdote e dal levita. Così si coccola Dio: toccando l’uomo. E i brividi che senti sulla pelle toccando l’uomo intoccabile sono il messaggio che Dio ti manda: hai toccato me.
…dicevano fra loro: «Andiamovediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono dunque senz’indugio. A Dio si va camminando con le gambe, avvicinandosi, mettendosi in movimento. L’apatia, l’immobilismo non fanno parte né della Natività né della Pasqua che, invece, mettono in movimento.

L’odorato.
Nelle nostre liturgie sentiremo, al massimo, odor di candele. Ma attorno al Dio bambino, c’è solo odore di stallatico confuso con quelli di ogni parto. All’Epifania sentiremo profumo di mirra, come ci sarà profumo di nardo accanto al sepolcro e accanto ai piedi di Gesù quando la donna gli rovescia un vasetto di profumo sui piedi.  E’ l’incenso della glorificazione di un condannato a morte, di un povero.
Le nostre narici non disdegnano, oggi, odori meno regali e più quotidiani, quelli di una mangiatoia da animali dove Dio si caccia per nascere e quell’odore pungente di sangue di cui Dio si veste come fosse profumo sponsale. Quest’anno mi mancherà quell’odore tipico del carcere che non ho mai odorato da nessuna altra parte, mi mancherà l’odore inconfondibile di fantasmi di uomini con cui condividevo pane e frutta alla stazione ferroviaria; mi mancheranno profumi e odori delle tavole natalizie nelle RSA, mi mancherà l’umido odore del Natale a Goiàs. Raccoglierò nel profumo del Pane e Vino Eucaristico tutti i profumi, gli aromi, le fragranza,  i fetori, i miasmi umani. E li raccoglierò con le narici mascherate di medici, infermiere, OSS che oggi si chineranno su fiati infetti, corpi distrutti e cuori in ansia.

Il gusto.
Forse questo senso non pare attivato della narrazione della Natività.  Ma approfondiamo: il testo italiano dice che “non trovarono posto nell’alloggio”, nel testo greco: katalyma. È il termine tradotto con la parola “albergo/alloggio”. La stessa parola viene usata anche quando si parla della cena di Gesù con i discepoli, per indicare una stanza interna, situata al piano superiore di una casa, magari in un contesto più urbano com’era Gerusalemme (vedi Marco 14,14 e Luca 22,11).
Nel contesto rurale della nascita, quel locale, collocato all’interno di una abitazione scavata nella roccia, poteva essere anche lo spazio dove sistemare in alcune circostanze gli animali, e quindi ecco la mangiatoia (fatnê) per alimentare le bestie. La stessa mangiatoia riappare nell’annuncio ai pastori come il segno dello straordinario evento (v. 12: «questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia»; v. 16: «Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia»).
Dunque, mettendo insieme il posto dove nasce Gesù e il luogo dove Lui celebrerà la Cena dicendo “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”, possiamo pensare che l’evangelista ci presenti Gesù, da subito, dalla nascita, come Uno da mangiare, come uno che si darà in cibo. «Gustate e vedete come è buono il Signore» (Salmo 33). Gustate come è buono il Pane pasquale. Infatti la Festa dell’Incarnazione la celebriamo spezzando e mangiando l’Eucaristia.




20 dicembre 2020. Domenica Avvento 4.
UNA PAROLA NEL PICCOLO VILLAGGIO DEL CUORE

4 domenica di Avvento
Preghiamo. Dio grande e misericordioso, che tra gli umili scegli i tuoi servi per portare a compimento il disegno di salvezza, concedi alla tua Chiesa la fecondità dello Spirito, perché sull’esempio di Maria accolga il Verbo della vita e si rallegri come madre di un popolo santo e incorruttibile. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal secondo libro di Samuèle 7,1-5.8-12.14.16
Il re Davide, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose al re: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te». Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’ e di’ al mio servo Davide: “Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”».
Salmo 88. Canterò per sempre l’amore del Signore.
Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: «È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà».
«Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo.
Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono».
«Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza”.
Gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele».
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 16,25-27
Fratelli, a colui che ha il potere di confermarvi nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

UNA PAROLA NEL PICCOLO VILLAGGIO DEL CUORE. Don Augusto Fontana
io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda…
Il Signore ti annuncia che farà a te una casa…
Ultima domenica di Avvento, a ridosso della Festa dell’Incarnazione. Tempi di affollamento dei supermarket e dei nuovi santuari delle cose.  Tempi di lockdown vuoti di mistero e di rapporti. Oggi le chiese hanno più banchi vuoti, le case odorano di fritture. E il Signore parla ugualmente a chi lo vorrà ascoltare in una piccola tenda o in un piccolo villaggio del cuore: «l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in un villaggio della Galilea, chiamato Nàzaret». Il centro d’interesse nel racconto di Luca è un messaggio cristologico più che mariano, per spiegare cioè chi è quel bambino che sta per nascere. Anche se Maria è presentata da Luca, volutamente, come il modello del discepolo  e di una chiesa che ascolta, interroga, risponde.
Tempio o casa?
Il vangelo di Luca si apre con l’annunzio di due nascite: quella di Giovanni Battista e quella di Gesù. Sono nascite che indicano il compimento delle promesse di Dio anche in casi impossibili  e infecondi. Come i nostri. Ciò che appare chiaro sin dall’inizio è il contrasto fra la presenza di Dio (angelo) e il villaggio di Nazaret, sconosciuto, nel territorio della Galilea, terra contaminata da stranieri e dunque impuro: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv. 1,46). Soprattutto incuriosisce il confronto tra l’annuncio al sacerdote Zaccaria (e a sua moglie Elisabetta, pure lei di discendenza sacerdotale) nel tempio di Gerusalemme anzi dietro la tenda del Santo dei Santi (Lc 1,5-26)  e l’annuncio a donna Myriam in casa.
Annunciazione o Vocazione?
Molti interpretano il testo del Vangelo alla luce di altre “annunciazioni di nascite prodigiose” (Isacco, Sansone). Padre Klemens Stock in un articolo[1] preferiva parlare di “vocazione di Maria”, senza angeli, ma con in mano un rotolo della Bibbia, il nostro angelo quotidiano. Scrive don Claudio Doglio[2]: «L’annuncio dell’angelo Gabriele è un evento mistico, che avviene nel profondo della coscienza e che non sarebbe stato possibile riprendere neppure con i mezzi di cui oggi disponiamo. Se ricordiamo la scena nel film di Zeffirelli, in questo caso si può apprezzare l’impostazione scenica, dove si mette in evidenza una luce che entra dalla finestra e lo spettatore vede questa ragazza che guarda la luce e che dice poche parole, ma non viene raffigurato nessuno. Questa immagine è corretta; noi siamo troppo influenzati dai quadri, un’infinità di raffigurazioni, mentre dobbiamo imparare che questa è una scena intima: è un ascolto che non avviene con le orecchie, è un discorso che non è fatto con la bocca, è un’esperienza mistica, misteriosa, che avviene nel profondo».
Dunque il brano di Luca sarebbe un racconto di vocazione in cui una persona è chiamata da Dio a collaborare con la Sua storia. L’episodio biblico che si può prestare ad un confronto è il racconto della vocazione di Gedeone contenuto nel Libro dei Giudici (6,11-24): «Gedeone batteva il grano nel tino per sottrarlo ai Madianiti. L’angelo del Signore gli apparve e gli disse: «Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!». Gedeone gli rispose: «Signor mio, se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo?». Allora il Signore si volse a lui e gli disse: «Va’ con questa forza e salva Israele; non ti mando forse io?». Gli rispose: «Signor mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera e io sono il più piccolo nella casa di mio padre». Il Signore gli disse: «Io sarò con te». Gli disse allora: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli… Gedeone vide che era l’angelo del Signore e disse: «Signore, ho dunque visto l’angelo del Signore faccia a faccia!». Il Signore gli disse: «La pace sia con te, non temere!». Dal confronto con il brano di Luca scopriamo che i due testi hanno una strutturazione analoga benchè non identica. Forse l’evangelista intendeva raccontare la vocazione di Maria. Forse intendeva narrare la nostra vocazione?
I dialoghi.
E comunque è bene fermare l’orecchio ai dialoghi.

  • «Rallegrati!…Kaire! ». Risuonano le profezie dell’AT: «Gioisci, figlia di Sion, ascolta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore figlia di Gerusalemme!» (Sofonia 3,14); «Esulta figlia di Sion gioisci figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo re» (Zaccaria 9,9). «L’angelo non dice: prega, inginocchiati. Ma semplicemente: apriti alla gioia, come una porta si apre al sole. Dio si avvicina e porta una carezza» (Ronchi). Per me il saluto ha forse anche un sapore pasquale; quando Gesù si presenta ai discepoli la sera di Pasqua, l’evangelista Giovanni (20,20) usa lo stesso verbo kairô:«mostrò loro le mani e il costato. I discepoli dunque, veduto il Signore, si rallegrarono {ekaresan dal verbo kairô}. In una vita complicata come la nostra e delusa come la mia, siamo visitati dal Signore per disseppellire questo invito dall’accumulo di relitti che la mareggiata ci ha vomitato sulla spiaggia sabbiosa della vita.
  • « kecharitoméne=trasformata dalla grazia[3]», quasi fosse un nuovo nome. Luca rischia grosso perché il Vangelo di Giovanni (1,14) dice che è il Verbo (Logos) di Dio ad essere “pieno di grazia” (plêrês chàritos). Giovanni Paolo II° nell’udienza generale l’8 maggio 1996 commentava così: «L’espressione “piena di grazia” traduce la parola greca kecharitoméne, la quale è un participio passivo. Per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco, non si dovrebbe quindi dire semplicemente “piena di grazia”, bensì “resa piena di grazia” oppure “colmata di grazia“, il che indicherebbe chiaramente che si tratta di un dono fatto da Dio alla Vergine. Il termine, nella forma di participio perfetto, accredita l’immagine di una grazia perfetta e duratura che implica pienezza. Lo stesso verbo, nel significato di “dotare di grazia”, è adoperato nella Lettera agli Efesini per indicare l’abbondanza di grazia, concessa a noi dal Padre nel suo Figlio diletto (Ef 1,6)». Da ora in avanti il suo nome sarà: amata per sempre; «come lei anch’io amato per sempre. Tutti, teneramente, gratuitamente amati per sempre» (Ronchi).
  • «il Signore è con te». Immanu’el è un nome che compare nelle profezie e che il vangelo di Matteo applica a Gesù. Significa “Dio con noi” ed composto dalle parole Immanu ( “con noi”) ed El (che significa “Dio”). Il Signore garantisce a Gedeone che lo assisterà nella missione che gli sta affidando: «Il Signore è con te, uomo forte e valoroso» (Gdc 6,12). «Espressione che avrebbe dovuto mettere in guardia la ragazza, perché quando si esprime così Dio sta affidando un compito bellissimo ma arduo (R. Virgili): chiama Maria a una storia di brividi e di coraggio» (Ronchi). Io ho avuto i brividi, ma non ancora il coraggio.
  • Maria è sconvolta: «Ella fu turbata {dietaràkthe} a queste parole, e si domandava {dielogìzeto} che cosa fosse un tale saluto». Il verbo usato da Luca indica caos, sconvolgimento, sommosse. Anche Zaccaria in 1,12 “al vedere l’angelo fu turbato e piombò su di lui una paura”. La parola di Dio provoca turbamento? Forse sì; e forse Maria era fra le donne della risurrezione (Lc 23 e 24): «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, guardarono la tomba, e come era stato deposto il corpo di Gesù… Ma il sabato, la mattina prestissimo, esse si recarono al sepolcro… Mentre erano confuse ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti; e impaurite». Maria lotta con il suo Signore come Giacobbe con l’angelo (Gen 32,23-33). L’incontro con Dio non è per i rammolliti. Maria riflette, domanda, si interroga ma sta nel dramma. «Zaccaria ha chiesto un segno, Maria chiede il senso e il come» (Ronchi).
  • «Non temere Maria, hai trovato grazia presso Dio». Isaia 41,14: «Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto». Pare che l’invito “non temere” sia ripetuto 365 volte nella Bibbia; uno per ogni giorno del mio anno.
  • Poi con tre verbi si dice quello cui è chiamata Maria: concepirai, darai alla luce un figlio, gli imporrai un nome. Le tre azioni richiamano l’oracolo di Isaia (7,14) : «Il Signore vi darà un segno : ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emanuele». Maria comprende che Gabriele le sta riferendo la grande promessa fatta a Israele, la nascita del Messia. Ma quello che veramente sconvolge Maria è l’altra caratteristica del bambino : «santo e figlio di Altissimo». Questi appellativi erano riservati solo a JHWH. Tutto ciò è impensabile per gli ebrei, è qualcosa di assurdo, di impossibile. Maria rivolge una domanda all’angelo (34) : «come sarà questo?».
  • Il grande protagonista sarà lo Spirito santo detto la «potenza di Altissimo». L’azione dello Spirito può essere spiegata con due immagini: da un lato la discesa, dall’altro l’ombra che copre un territorio. Il verbo che Luca utilizza è il verbo utilizzato dalla Bibbia per indicare la presenza di Dio nella tenda del convegno (Es 40,34-35): «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la dimora». Zaccaria e Elisabetta ricevono lo Spirito per parlare; Giovanni riceve lo Spirito per testimoniare; Maria riceve lo Spirito per generare.
  • A questo punto tutto è appeso al filo della libertà di Maria. E Maria risponde “Ecco!”. Si autodefinisce «io, serva del Signore». Il servo è colui che entra con tutta la sua vita nel «gioco» di Dio, è colui la cui vita si intreccia con la storia di Dio. Questo titolo dice obbedienza ma dice pure dignità e coscienza di essere strumento nelle mani di Dio. Maria è cosciente di essere serva del Signore ed esprime un desiderio: il verbo greco usato è un ottativo, che nella lingua italiana può essere ben tradotto con: «desidero che di me avvenga secondo la tua Parola». Beata lei!

[1] Biblica 61, 1980, pp.457-491
[2] http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio9.htm#Il%20racconto%20dell%E2%80%99Annunciazione
[3] Traduzione del biblista Ignazio de La Potterie




13 dicembre 2020. Domenica Avvento 3
IL MERAVIGLIATO

Preghiamo. O Dio, Padre degli umili e dei poveri, che chiami tutti gli uomini a condividere la pace e la gioia del tuo regno, mostraci la tua benevolenza e donaci un cuore puro e generoso, per preparare la via al Salvatore che viene. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Isaìa 61,1-2.10-11
Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore. Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli. Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti.
Lc 1. La mia anima esulta nel mio Dio.
L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono.
Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 5,16-24
Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!
Dal Vangelo secondo Giovanni 1,6-8.19-28
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».  Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».  Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

IL MERAVIGLIATODon Augusto Fontana
Io gioisco pienamente nel Signore, il mio spirito esulta in Dio…
Un’antica tradizione francese provenzale pone in ogni presepe, tra le statuine, quel personaggio che si chiama il meravigliato: egli non fa altro che allargare le braccia e spalancare gli occhioni su quel bambino. Arriva davanti a Gesù con le mani vuote; si dice che gli altri lo rimproverino, ma Maria gli dice: «Non ascoltarli. Tu sei stato messo sulla terra per meravigliarti. Il mondo sarà meraviglioso, finché ci saranno persone come te, capaci di meravigliarsi».
Il meravigliato, mi provoca a chiedermi se sono disposto a lasciarmi contagiare dalla gioia che sembrerebbe essere la nota caratteristica di questa terza tappa dell’Avvento. Non è una domanda retorica e la risposta non è per niente scontata, soprattutto in questa drammatica pandemia che ci obbliga alla mascherina ma anche a togliere la maschera al Natale per vederne, se possibile, il suo vero volto. Senza piagnistei. Innanzitutto perché, come diceva Nietzche, a vedere le facce dei cristiani quando escono dalla Messa, non sembrerebbe che ci sia stata alcuna buona notizia e che Qualcuno abbia cambiato le loro vite. Poi perché in Sudan sono migliaia i poveri massacrati e 80 milioni sono i profughi che stanno vagando, come uno sciame d’api impazzite, alla ricerca di rifugio e cibo[1]; inoltre la crisi pandemica ha messo sul lastrico anche molte famiglie dei paesi industrializzati e si calcola che i disoccupati mondiali siano 195 milioni e dietro ciascuno c’è una famiglia. Vista, da questo versante, la storia contemporanea non ci offre esuberanti motivi di gioia.  Ma nelle pieghe di queste piaghe intravedo laici volontari, 1400 onlus italiane, medici e infermieri, missionari e suore correre, soccorrere, rischiare, restare. E tutto nell’apatia o nella paralisi per non sapere che fare, nella chiacchiera solenne di proclamazione dei Diritti dell’uomo a cui non fa seguito alcuna politica efficace e alcuna personale pratica messianica.
Di chi e di cosa meravigliarsi in questa liturgia?  Dove il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”? Chi fra noi sente la coscienza personale di essere “consacrato” per essere voce di una Parola, sandalo di un Messia, dito di una direzione?
Il Canto del liberatore e dei suoi liberati.
In questi tempi barbari, a qualcuno di noi verrebbe voglia, alla lettura dei versetti biblici di Isaia 61, di accantonarli come poesia evasiva o ingenua illusione. Qualche altro potrebbe, invece pensare che essi siano stati composti in un momento in cui c’era il vento in poppa e tutto lasciava intravedere un futuro felice. Le cose in realtà non stavano così. Come abbiamo detto domenica scorsa, l’anonimo profeta (appartenente alla “scuola” di Isaia) scrive queste righe mentre si trova coinvolto in un contesto si estrema depressione fra gli esiliati a Babilonia o fra i rientrati a Gerusalemme. Scopre di essere, anche dentro questo “paesaggio” desolato, pieno di gioia. Da dove viene a lui questa speranza e fiducia? Non certo dalla sua faciloneria, incoscienza o carattere ottimista né, tanto meno, dall’estraneità al dolore del suo popolo. Nulla forse può spiegarcelo meglio delle stesse parole del profeta:  «lo spirito del Signore mi ha investito (unto) e mi spinge». E così anziché incrociare le braccia, piangersi addosso, pensare solo a sè o recitare la parte del gufo tra le macerie, il nostro profeta si mette in azione. Egli cerca di riaprire dei solchi là dove la terra sembra essersi chiusa nell’aridità.
Dio in ritardo.
Le premesse e le promesse ci sono. Ma ritardano.  Dio tarda! E’ Parola di Dio che “Dio tarda”: «Dio, tu ci hai respinti, ci hai dispersi; ti sei sdegnato: ritorna a noi» (Salmo 59,3).  Non è una calunnia a Dio, una bestemmia. Dio è ben lontano dalla logica del “tutto e subito”. Ma in realtà come si fa a benedire Dio che sembra non ascoltare mai le preghiere o benedire gli sconfitti, coloro che lottano per un pezzo di patria o per un letto o per un pezzo di pane? La Chiesa non sa più benedire così lo scandalo della Croce su cui Dio resta inchiodato alla sorte di coloro che vediamo perdenti. Dio tarda, Dio è sempre in ritardo ed è Lui stesso a dircelo: «Il regno dei cieli è simile a dieci vergini… Poiché lo sposo tardava si assopirono tutte..» (Mt 25, lss)….Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli… Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “il padrone tarda a venire ” e cominciasse a percuotere i servi e le serve… il padrone arriverà nel giorno che meno se lo aspetta e in un’ora che non sa» (Lc 12,22ss).
“Signore che tardi”, non tardare, vieni presto in nostro aiuto. Signore, senti come gridano i secoli? Non solo il grido di Sodoma e Gomorra sale come il grido della colpa dell’uomo ma sale anche il grido dei “feriti”, trafitti dal Tuo costante ritardo. Tu che dici “chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto, domandate e riceverete”, tu tardi nel dare, nell’aprire, nel donare, Tu che dici di fare giustizia prontamente[2], guarda quanti supplicano e restano travolti dal dolore e Tu, Signore, sei in ritardo e in silenzio.  “Dio che tardi”, dove sei tra milioni di grida che si spengono mentre Tu tardi? Siamo percossi e percuotenti, giudici iniqui e vedove importune, siamo vergini stolte e vergini sagge, siamo grida di fronte al tuo silenzio. Vieni non tardare perché muore la fedeltà a Te e alla tua Parola.  Allarghiamo le narici per riempirle al profumo dell’incenso, ma serriamo il naso all’odore dell’uomo “ferito”, non riempiamo la nostra anima di lui perché non è incenso ma piaga.  E tu ritardi e in noi cresce la confusione. Consacriamo frammenti del Tuo Pane ma abbiamo anche banche per tenere in disparte briciole di pane rubate ai poveri.  Dove sei “Signore che tardi”?
Dio tarda e tarda mentre percorriamo vie che a volte sembrano allontanarci da Lui e tarda e tace ma affonda nella terra le nostre radici e, per percorsi a noi sconosciuti, conduce alla salvezza: «Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia».
Tu chi sei?[3]
Giovanni è il testimone, il “meravigliato”. Uno che ha visto, ricorda e racconta come testimone di un fatto. Subisce una domanda incalzante che l’evangelista mette in bocca all’accusa, in questo solenne processo verso Giovanni e tra poco verso Gesù stesso. Di fatto il «Chi sei?» non è una domanda per dialogare, ma un interrogatorio per accusare. L’interrogatorio scivola lentamente da Giovanni a Gesù, alla chiesa, a me, a te: «Chi sei?…Che cosa dici di te stesso?».
La testimonianza di Giovanni inizia con 3 «no» o negazioni: «Io non sono». Per l’evangelista solo Gesù potrà usare il Nome di Dio: «IO-SONO». L’evangelista è così attento a questo particolare che quando Giovanni si autodefinisce «VOCE», l’evangelista gli cancella dalla bocca il verbo “sono”; il testo greco suona infatti così: «Io, voce (egô fônê) ». Il testimone, la chiesa, io e te ci possiamo definire solo come “eccentrici”, cioè fuori dal centro o, se vuoi, centrati su un altro. Geograficamente la zona d’azione di Giovanni è «al di là del Giordano», cioè ancora al di là del confine della Terra Promessa. La chiesa, io e te, operiamo sulla soglia, nella vigilia, nei pressi; ma chi conduce la gente alla Terra Promessa sarà poi Gesù, quando si deciderà a passare il Giordano e a traghettarci con lui. L’identità di Giovanni è fatta di voce che veicola la Parola: «Bisogna che egli cresca e che io diminuisca» (Gv 3,13).  Ma Giovanni si identifica anche con la voce del Libro della Consolazione di Isaia, che si rivolgeva ai deportati per incoraggiarli a un nuovo esodo, questa volta per ritornare. Viene definito «un uomo», un uomo-fratello. Gli costerà caro. I profeti soffrono di una “malattia professionale”: la decapitazione. Era  – ed è sotto altra forma – l’unico interruttore capace di spegnere voci scomode. Il rapporto tra profezia e Istituzioni è – e sarà – sempre critico.

Mi fermo qui. In questa terza domenica di avvento incalzano due domande. Una a Dio: «Dove sei, Signore, che ritardi di fronte alle promesse che hai fatto ai poveri della terra»?. E una domanda inquisitoria giunge a me dal grido della terra e dal sussurro del cielo: «E tu chi sei, di fronte al popolo devastato che ha sete di un Messia vero che lo liberi dalle profonde piaghe del suo esilio?». Chi fra noi sente la coscienza personale di essere “consacrato” per essere voce di una Parola, dito di una direzione, sandalo di un Messia?


[1] Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. 
[2] Luca 18:7-8 «E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». 
[3] Elaborazione da S. Fausti, UNA COMUNITA’ LEGGE IL VANGELO DI GIOVANNI Vol. 1, Ed. EDB.




8 dicembre 2020
IMMACOLATA. CHI?

Immacolata. Chi?

Dal libro della Genesi 3,9-15.20.
[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna : «Che hai fatto? ». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Salmo 98/97,1-2; 2-3ab; 3bc-4Rit. Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie
1Cantate al Signore un  canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo.
2Il Signore ha fatto conoscere  la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
3Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio.
4Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni!
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 1,3-6.11-12
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. 11 In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà –  12 ad essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38
In quel tempo, 26 l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27 a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28 Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia, il Signore è con/in mezzo a te». 29 A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30 L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31 Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32 Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e 33 regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». 34 Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». 35 Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36 Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37 nulla è impossibile a Dio». 38 Allora Maria disse: « Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

SCELTI IN CRISTO PER ESSERE SANTI E IMMACOLATI NELLA CARITA’(Efesini 1). Don Augusto Fontana
Oggi è festa di Gesù, santo, immacolato nella carità, figlio di Dio fin da prima della creazione del mondo. Ugo di San Vittore si esprime così: “Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (De arca Noe, 2, 8). Noi oggi, come scriveva l’evangelista Giovanni (1,14), contempliamo “la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”. Noi oggi celebriamo la nostra liturgia con Gesù, uomo come noi “escluso il peccato”(Eb 4,15-16). Sì, il mio occhio si ferma su Gesù, concepito uomo immacolato, figlio santo, fratello giusto.
Quando in parrocchia moriva qualcuno, i parenti ci tenevano a incontrarmi per raccontare le virtù del defunto o defunta: “sorrideva sempre…amava i cani e la natura…gran lavoratore e mangiatore…” ecc. E poi mi chiedevano: “Lo dica questo durante la predica”. Ma io li deludevo perché nella liturgia dobbiamo soprattutto parlare di Gesù, della sua vita-morte-risurrezione in cui anche la vita del defunto riceve senso. Anche oggi, nel pieno dell’Avvento, l’occhio si deve fermare sul Santo dei Santi, San Gesù di Nazareth, stella incandescente della nostra fede, prima ancora che fare l’elogio di luna Maria che vediamo brillare di luce indiretta nelle nostre notti, colpita dal sole mentre viaggia negli spazi siderali della Storia della salvezza.
Un po’ di storia di questa festa[1].
L’8 dicembre 1854, dopo un’ampia consultazione dell’episcopato di tutto il mondo, Pio IX definiva il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria con la Bolla Ineffabilis Deus: « ….con l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina la quale ritiene che la beatissima Vergine Maria, per singolare grazia e privilegio di Dio Onnipotente a lei concesso in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, sia stata preservata da ogni macchia di colpa originale fin dal primo istante della sua creazione, è stata da Dio rivelata, ed è perciò da credere fermamente». Già nel sec. IV, Procolo (+ 305), martire napoletano, dice che la Madre di Dio doveva essere formata «da un’argilla monda» come Adamo ed Eva prima del peccato e l’espressione è citata da Pio IX nella bolla Ineffabilis Deus con cui dichiara il dogma.  Nel IX secolo in Irlanda si celebra una festa della «Concezione di Maria» fissata al 2 o 3 maggio. Nel XII secolo, i monasteri benedettini di Inghilterra la celebrano l’8 dicembre. Da questo momento la sua diffusione è rapida: Normandia, Lione, Belgio, Spagna, Francia, Italia e in alcuni monasteri della Germania. San Bernardo (1091-1153), un grande devoto di Maria, contestò la legittimità della festa da poco introdotta: tutte le creature nessuna esclusa hanno bisogno della redenzione di Cristo. Anche Tommaso di Aquino (1228-1274) è sulla stessa linea. Nella sessione VI del Concilio di Trento del 1546 alcuni padri conciliari chiesero la promulgazione di una definizione dogmatica dell’immacolata concezione. Alessandro VII (1655-1667) l’8 dicembre 1661 precisava il contenuto della concezione immacolata di Maria: la preservazione dell’anima della Vergine dalla colpa originale «a causa dei meriti di Gesù Cristo suo figlio, Redentore del genere umano». Dunque questo dogma nasce dalla Rivelazione biblica implicita e interpretata; e dalla devozione popolare.
Il peccato originale[2].
Molto di questa festa lo si deve alla teologia del “peccato originale” secondo Agostino (+430) un po’ manicheo, ma solo un po’. Il teologo Pelagio (+420) affermava che ogni uomo nasceva innocente, ma con la capacità di compiere il male, grazie al dono del libero arbitrio. Agostino gli si opponeva sostenendo che il peccato dei progenitori era ereditario per tutti i secoli dei secoli. Nel 418 il concilio di Cartagine si schierò con la posizione di Agostino e condannò come eretici i pelagiani. E noi restammo inchiodati lì fino ai giorni nostri. Il dogma dovrebbe crescere e lievitare dall’interno, come afferma il Concilio Ecumenico Vaticano II (Dei Verbum, n. 8): «Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro sia con l’intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro che con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio». Dopo il Concilio Vaticano II° molti teologi, Vescovi e Papi hanno fatto barriera attorno alla dottrina del “peccato originale” con tenue aperture sul complesso dei dogmi. Dovremmo dare per scontato che una dottrina fondata su racconti così remoti come quelli della Genesi e sulle riflessioni dell’Apostolo Paolo (Rom. 5,12-21) contengano ‘rivestimenti’ culturali oggi improponibili e che la Chiesa si trovi nella necessità «di presentare, difendere ed illustrare le verità della fede divina con concetti e parole più comprensibili alle menti formate alla odierna cultura filosofica e scientifica» (Paolo VI, discorso del 11 luglio 1966 ai partecipanti al Simposio sul peccato originale tenutosi a Nepi). Il Papa Benedetto XVI nella Catechesi del 10 dicembre 2008 aveva detto, tra l’altro: «Se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’ orizzonte della giustificazione in Cristo». L’uomo non è in grado di ac­cogliere i doni divini in un solo istante, ri­chiede molto tempo per interiorizzare tutte le informazioni necessarie allo sviluppo completo delle sue strutture. Per questo nasce incompiuto e imperfetto. La possibilità di compiere il male, che ne consegue, accompagna tutto il suo processo sto­rico. Solo alla fine, quando Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15, 28) anche il male, il disordine, la morte saranno sconfitti. D’altra parte l’imperfezione delle creature si esprime in scelte negative che guastano le relazioni, deturpano la vita e inquinano anche la sua trasmissione alle nuove generazioni. Ogni creatura nasce con i limi­ti, le debolezze e le insufficienze causate dalle violenze, dalle idolatrie e dagli errori delle generazioni precedenti. La responsabilità degli umani è che molti diventino testimoni efficaci della potenza del Bene e della fecondità dell’Amore in modo che la Vita prevalga sulla morte.
Anche Gesù fatto in tutto simile a noi “eccetto che nel peccato” è stato tentato e ha dovuto fare delle scelte continue; come si può supporre che anche Maria, battezzata nella benevolenza originaria di Dio, abbia vissuto nella fatica della fede, come quando Gesù a 12 anni viene smarrito dai genitori « Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio… Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole… Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,43-50). I tre giorni di smarrimento anticipano la fatica di Maria nello smarrimento della croce e della tomba vuota.
Per trovare la Chiesa in Maria.
Per trovare la donna Maria di Nazareth occorre scavare perché è stata seppellita sotto una montagna di dogmi, leggende, visioni e devozioni.
A Nazaret. Dio si manifesta a una giovane donna, in una casa a Nazareth lontano da Gerusalemme, cuore religioso del paese. È forte il contrasto con l’annuncio al sacerdote Zaccaria nel tempio. “Dio sceglie quello che è stolto per il mondo… quello che è debole per il mondo… quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla…” (1Cor 1,27-29). Nazareth, “un paesino senza storia della meticcia Galilea, dal sacro al profano. Il cristianesimo non inizia al tempio, ma in una casa” (E.Ronchi).
A una donna. Gesù la chiamerà sempre Donna. È il nome che Adamo ha dato ad Eva: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta» (Gen 2,23). Venuto a mancare il vino a Cana Gesù le dice: «Donna, che vuoi da me?» (Gv 2,3-4). Gesù in croce vedendo sua madre  e indicando il discepolo Giovanni disse: «Donna, ecco tuo figlio!». (Gv 19,26-27). Maria è la donna della creazione nuova o rinnovata (cf. Genesi  3,9-15.20). La chiesa è “donna” ricavata dal lato di Adamo, nata dal lato del crocifisso.
Rallegrati. In greco è Kaire! che vuol dire rallegrati! Non è un educato “buongiorno”, ma un saluto profetico. Il profeta Zaccaria, annunciando la venuta del re Messia, aveva esclamato: Rallegrati, figlia di Sion, esulta, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re (Zc 9,9). E tre secoli prima il profeta Sofonia aveva usato identiche parole: Rallegrati, figlia di Sion, manda grida di gioia, Israele (Sof,14). Maria, come sospetto, ascoltava le Sante Scritture e i racconti del suo popolo; intuisce dunque che il saluto la risucchia come protagonista dell’Ora del Messia.
Piena di grazia. (ebr. Hesed. Greco Karis=amore gratuito e performante). Papa Giovanni Paolo II aveva osservato che per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco (kekaritomene), non si dovrebbe dire semplicemente “piena di grazia”, bensì “resa piena di grazia” oppure “colmata di grazia“, il che indicherebbe chiaramente che non si tratta di bellezza o fascino personale ma di un amore gratuito e performante di Dio che è “ricco di grazia e di fedeltà” (Esodo 34,6). Il termine è adoperato nella Lettera agli Efesini 1,6: “a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto”. Per Paolo in Romani 5,15, ciò che è detto a Maria è per tutti gli uomini (la grazia di Dio e il dono concesso in[…] Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini). Nella Lettera agli Efesini oggi abbiamo ascoltato: « In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Maria è il concentrato di una destinazione universale per battezzati e non. “Non è piena di grazia perché ha detto “sì” a Dio, ma perché Dio ha detto “sì” a lei prima ancora della sua risposta. E lo dice a ciascuno di noi: ognuno pieno di grazia, tutti amati come siamo, per quello che siamo; buoni e meno buoni, ognuno amato per sempre, piccoli o grandi ognuno riempito di cielo” (E. Ronchi).
Il Signore è con te. Maria, forse, sa a chi erano state rivolte prima di lei: “Non temere io sarò con te” dice il Signore a Mosè, l’uomo dell’Esodo (Esodo 3, 12); “come sono stato con Mosè, così sarò anche con te”, parole rivolte da Dio a Giosuè, l’uomo che fa entrare Israele nella terra promessa (Giosuè 1, 15); “il Signore è con te uomo forte e valoroso” dice l’angelo a Gedeone quando annuncia la sconfitta dei Madianiti attraverso di lui (Giudici 6,12). Maria, forse, capisce che non sta ascoltando un complimento ma una vocazione e una missione a diventare una colonna della lunga storia di salvezza.
Eccomi. “Maria con la sua ultima parola rivela il nostro vero nome. Il nome dell’uomo è: «Eccomi!»”. (E.Ronchi).

Il Concilio Vaticano II° afferma: «In Maria la Chiesa ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione e in lei contempla ciò che essa desidera e spera di essere» (Sacrosantum Concilium 103).


[1] Mi riferisco ad appunti di don Paolo Farinella 
[2] Mi riferisco a studi del teologo Carlo Molari (articoli vari in ROCCA, Pro civitate Christiana, Assisi, anni 2012, 2013, 2014, 2016)




6 dicembre 2020. Domenica 2 Avvento.
GUFI, AVVOLTOI E GALLI.

Preghiamo. O Dio, Padre di ogni consolazione, che agli uomini pellegrini nel tempo hai promesso terra e cieli nuovi, parla oggi al cuore del tuo popolo, perché in purezza di fede e santità di vita possa camminare verso il giorno in cui manifesterai pienamente la gloria del tuo nome.  Per Gesù Cristo nostro Signore.
Dal libro del profeta Isaìa 40,1-5.9-11
«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
Salmo 84  Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino.
Dalla seconda lettera di san Pietro apostolo 3,8-14
Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.  Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.  Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia.  Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.
Dal Vangelo secondo Marco 1,1-8
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via.  Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.  Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.  Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

GUFI, AVVOLTOI E GALLI. Don Augusto Fontana
I gufi sono solenni, regali, ma sono bestiacce della notte, delle macerie e dei paesaggi desolati. Come gli avvoltoi che planano su carogne. Lo confesso: non amo una chiesa lagnosa che piange sul proprio ombelico purulento né quella che gufa su problemi e moralizza su disgrazie, tuona da balconi o da pulpiti su cuori già devastati e gambe infiacchite e piedi sanguinanti. Preferisco i galli, anche quelli che svegliando l’aurora mi ricordano il mio tradimento notturno. Tento di osare l’Avvento, come posso. Perché l’Avvento è il mio gallo mattutino. Che infastidisce i miei sogni delusi, ma mi apre il giorno: Ecco mando davanti a te il mio messaggero, voce di uno che grida nel deserto.
A volte i profeti hanno la voce monotona del gufo che annuncia sventure o il grido stridulo dell’avvoltoio. Fanno il loro compito pure così. E incutono inquietudine. Ma anche di inquietudine vive l’uomo. Ricordiamo lo scrittore Julien Green: «Quando si è inquieti si può stare tranquilli». Ne abbiamo bisogno dentro le nostre quiete abitudini che nutrono cancri silenti e che, prima o poi, diventeranno metastasi invasive. Dacci oggi, Signore, la tua inquietudine quotidiana.
In questa domenica, però, il registro dell’Avvento cambia: tace il bubulo del gufo e risuona il chicchirìcchio di un  gallo, anzi di tre: quello del profeta (Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta), quello di Giovanni il Battezzatore (Viene dopo di me colui che è più forte di me), quello dell’evangelista Marco (Inizio della bellissima notizia: Gesù Cristo).

Il gallo Isaia.
Un discepolo di Isaia, scrive all’indomani del rientro in patria degli esiliati, concesso dal pagano Ciro nel 439 a.C. Ritornati da Babilonia con la speranza di ritrovare una terra accogliente, si sentono raggelare il cuore (Parlate al cuore di Gerusalemme). Serpeggia scoraggiamento, smarrimento, abulia. Non solo bisognerà ricostruire la città e il Tempio, ma occorrerà imparare a convivere con altre popolazioni diventate nel frattempo proprietarie di terreni e case, prendendo atto di essere più un “resto” che un popolo. E il disimpegno e l’indifferenza sembrano una delega a Dio. Il profeta osserva, ascolta, prega. A differenza dei ciarlatani che usano parole ora arroganti ora accattivanti per nascondere i loro progetti disonesti o conflitti di interesse, il profeta vuole capire che cosa gli ispira la sua fiducia in Dio: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre» (Is. 40,7-8; versetti omessi dalla liturgia odierna).
Mi pare di intravedere nel testo tre scenari.
Prima scena: Parlate al cuore di Gerusalemme. Il primo scenario è costituito da una geografia del cuore, criptata nel segreto delle vite di ciascuno, un’orografia  di monti, colline, sentieri, ruderi, abissi. Se rientriamo in noi stessi per visitare questa geografia del cuore vi troviamo i nostri dissapori, le nostre illusioni crollate di schianto o implose su se stesse come un budino che lentamente si affloscia. Dunque accolgo questo primo invito di Avvento: il Signore vuole visitare prima di tutto lo scenario del cuore con tre iniezioni di fiducia che hanno tre tonalità (materna, sponsale, profetica): consolate…parlate al cuore…gridate. Una sinfonia di voci in crescendo (un sussurro, una parola, un grido) per dire una cosa alle nostre viscere (i nostri due cuori, quello buono e quello maligno): «la tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata». Anche per Dio c’è «un tempo per demolire e un tempo per costruire… un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qoelet 3,3.7). L’Avvento è il Suo tempo per costruire…cucire…parlare.
Seconda scena: Nel deserto preparate la via al Signore. Deserto, steppa, strade, valli, monti, colli. Storicamente fu proprio così: i deportati schiavizzati furono costretti a costruire strade per un popolo straniero ed oppressore; e mentre costruivano piangevano. Senza sapere che su quelle stesse strade i loro passi avrebbero trovato l’accogliente via del ritorno. Mio padre, reduce dalla campagna di Russia, mi raccontava esattamente che li avevano obbligati a costruire linee ferroviarie russe; le stesse su cui una sbuffante tradotta li avrebbe rimpatriati, malconci, ma liberi. : «Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni»  (Salmo 125,6). Non basta dunque aver sospirato la liberazione. Non basta nem­meno riconoscere che la salvezza è un dono di Dio. Il vero dono che Dio fa al popolo è di chiamarlo a costruire il suo regno, con fati­ca, impegnando tutta la vita.  La pioggia che Dio manda dal cielo (Salmo 84, 9-14) fa germogliare soltanto le sementi che l’uomo ha messo nella terra con grande fatica (vv 12-13). La tentazione costante dell’uomo sembra essere duplice: o voler sostituirsi a Dio o pretendere che Dio sostituisca l’uomo. La prima tentazione può essere motivata da mancanza di fede, sfiducia, impazienza. Già Isaia rimproverava i suoi contempo­ranei di sfidare Dio perché sembrava che non intervenisse affatto nel­le vicende umane: «Faccia presto, acceleri pure l’opera sua, perché la vediamo; si facciano più vicini e si compiano i progetti del Santo di Israele, affinché li conosciamo» (Is 5, 19). La seconda tentazione, più subdola, è quella di delegare a Dio quelle attività che spettano invece all’uomo. Con la scusa della fiducia nella Provvidenza ci si può chiudere in una rassegnazione passiva che nasce da pigrizia mentale e si trasforma in mancanza di iniziative e di attività.  A questo si aggiunge una scarsa stima per le realtà materiali: se questo mondo e destinato a finire per la­sciare il posto a «cieli nuovi e terre nuove», è inutile dargli importanza. Il cristiano che ha veramente fede, scrive Pietro nella seconda Lettura, partecipa della pazienza operosa di Dio. Dio non ha dato il Suo “Regno” chiavi-in-mano, ma ce lo dona progressivamente a misura della nostra accoglienza e collaborazione. Anche se tracciare una strada nel deserto è impresa impossibile. Come pare impossibile tracciare un ascolto della Parola in mezzo alla desertificazione compiuta dai consumi estremi e dall’attivismo pre-infartuale. La Regola dei monaci esseni di Qumran (VIII,13-16) dicevano appunto che questa Via era lo studio della Torà data a Mosè.
Terza scena. Liete notizie da una messaggera (in ebr. al femminile: mebaseret). Lo scenario si sposta su un monte, ma punta verso la città a cui (nel testo ebraico) viene affidato il compito di diventare “messaggera” di speranza a villaggi, città e deserti circostanti. Riascoltiamo un’altra profezia (Is. 62, 1-3): «Per amore tuo, Gerusalemme, non tacerò finché non sarai liberata e non risplenderai come luce. Per amore tuo, Sion, non mi darò pace finché non sarai salvata e non brillerai come una fiaccola accesa. Nelle mani del Signore diventerai una corona splendida, un diadema regale. Il tuo nome non sarà più “Città abbandonata”, il tuo paese non si chiamerà più “Terra desolata”. Invece il tuo nome sarà “Gioia del Signore” e la tua terra si chiamerà “Sposa felice”. Infatti sarai veramente la delizia del Signore, e la tua terra avrà in lui uno sposo. Come un giovane sposa una ragazza, così il tuo creatore sposerà te. Come l’uomo gioisce per la sua sposa, così il tuo Dio esulterà per te». La storia della salvezza allora non solo non è estranea alla città, ma a lei viene affidata la missione di esserne la messaggera. Pare che la storia di Dio interseca di volta in volta giardino, deserto e città.

Il gallo Johannah.
Giovanni (Johannah) era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. Come dire che la “voce” si rende parola nella vita. Ciò che manca a me, e forse anche a te, non è la voce, ma la mimica, quella opzione di vita che ci renderebbe credibile. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. Noi siamo risvegliati da gente che canta all’aurora con il chicchirìcchio delle proprie scelte coerenti. Nella tradizione giudaica, Elia era atteso come il profeta della vigilia del Messia. Elia era conosciuto come “uomo peloso che portava una cintura di cuoio attorno ai fianchi” (2 Re 1,8). Marco mette in scena Giovanni abbigliato come Elia (Mc 9,11-13). Negli anni 70, epoca in cui Marco scrive, molta gente pensava che Giovanni Battista fosse il messia (cf. At 19,1-3). Per aiutarli a discernere Marco riporta le parole di Giovanni stesso: Dopo di me viene colui che è più forte di me e di cui non sono degno di sciogliere i sandali. Io ho battezzato con acqua. Lui battezzerà con lo Spirito Santo. Oggi, in termini sportivi, si direbbe: «Palla al centro!». Non è male che il gallo Johannah ci richiami che la partita inizia davvero quando Gesù viene messo al centro. L’avvento è anche questo.

Il gallo Marco.
Inizio della bellissima notizia (Evangelo): Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Inizio, principio: Marco intende dire che quel vangelo che lui narra è tutto e solo un principio rimasto inconcluso; la sua conclusione dipende dai discepoli e dai lettori. Il lettore rimane invischiato, coinvolto dal racconto che narra solo il principio o l’inizio e resta per sempre in-concluso se i discepoli non congiungono l’Ieri di Gesù con il loro Oggi: la resistenza di etnie oppresse alla ricerca di dignità; il risveglio della coscienza verso nuove dimensioni della vita; la nuova sensibilità ecologica; la consapevolezza della cittadinanza che cerca nuove forme di democrazia e partecipazione;  la ricerca crescente di nuove relazioni di tenerezza, di rispetto reciproco tra le persone; l’aumento dell’indignazione della gente per la corruzione e la violenza; una voglia di Parola di Dio che si estende lentamente tra la gente, insieme ad una voglia di Eucaristie veramente celebrate dove non prevalga il rubricismo e la nenia monotona, ma «cose nuove e cose antiche».
Andare nel deserto è romper­la con le complicità. Solo allora abbiamo parole che hanno una risonanza morale degna delle coscienze tenta­te di scoraggiamento. E siccome un compito cristiano è sempre quello della consolazione, credo che la buona notizia che dobbiamo annuncia­re anche noi, è l’inizio del Vangelo di Marco: la speranza di un mondo diverso che noi chiamiamo Regno di Dio-Gesù Cristo.




29 novembre 2020. Domenica 1 Avvento

Avvento Prima domenica 2020

Preghiamo. O Dio, nostro Padre, nella tua fedeltà che mai vien meno, ricordati di noi, opera delle tue mani, e donaci l’aiuto della tua grazia, perché attendiamo vigilanti con amore irreprensibile la gloriosa venuta del nostro redentore, Gesù Cristo tuo Figlio.
Dal libro del profeta Isaìa 63,16-17.19; 64,2-7
 Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te  sussulterebbero i monti. Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti. Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te,  abbia fatto tanto per chi confida in lui. Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.
Salmo 79  Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu, pastore d’Israele, ascolta, seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci.
Dio dell’universo, ritorna! Guarda dal cielo e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 1,3-9
Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.  La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!
Dal Vangelo secondo Marco 13,33-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Tenete gli occhi aperti {blepete}, state svegli {agrupneite}, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare {gregoré}. Vegliate {grêgoreite}  dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate! {grêgoreite}».

 

AL DI LA’ DELLA NOIA: SE TU SQUARCIASSI I CIELI. Don Augusto Fontana

Io vi vengo incontro, ma voi vigilate!
Oggi c’è chi nutre ancora attese significative di giustizia e santità ma, a causa della dilazione e dei ritardi, rischia di entrare nella massa di chi non attende più nulla. E mi scopro fra questi. Ci occorre un supplemento di pazienza attiva, di resistenza. C’è un’inquietudine della coscienza che è indizio di sensibilità, di vita, di fede. Con lo scrittore francese Julien Green potremmo dire “Quando si è inquieti si può stare tranquilli”. Non nutriamo più alcuna attesa significativa, soprattutto noi vecchi. Abbiamo gli occhi disillusi rivolti in basso. Ma ce n’è anche per i più giovani: benessere, distrazioni, banalità e superficialità sono come una rete che imprigionano il cervello. L’evangelista Matteo scriveva: “In quei giorni gli uomini mangiavano e bevevano, si sposavano, fino a quando Noè entrò nell’arca e non si accorsero di nulla finchè venne il diluvio e inghiottì tutti” (Mt. 24, 38-39). Serve un supplemento di fame e sete, di orizzonti più vasti, di utopie.
Oggi c’è chi è soddisfatto della propria posizione religiosa e si è assestato con gli occhi rivolti indietro o dentro. Non sospettano che Dio possa essere diverso nè che possa chiedere altro, oltre quello che loro sanno dare. I tempi di Avvento e Natale pronunciano le parole dell’attesa, del compimento, dell’incontro, dell’intimità e della festa.
Tempi, questi che viviamo, di immonde stupidità politiche. Siamo annoiati dalla rapidità malsana con cui gli eventi si clonano di padre in figlio, di generazione in generazione. Capita a tutti di essere colpiti dalla noia. La nostra vita è ripetitiva in pensieri, parole, opere e omissioni. Accade così che davanti a questa monotonia storica e quotidiana noi ci annoiamo o restiamo sempre in attesa di un qualche evento straordinario che ci risvegli dal torpore della noia. Noia del luogo in cui ci troviamo, delle opere in cui siamo coinvolti e, addirittura, delle persone che ci stanno intorno: un continuo dormiveglia.
E ormai lontana la chiusura del Concilio Vaticano II in quel 8 dicembre del 1965 per riuscire a risvegliare la voglia di tastare il viso alla chiesa cercando di scorgervi la nascita di un sorriso.
Dagli anni ’60 la chiesa guardò a se stessa e si vide vecchia e atrofizzata. E Giovanni XXIII, un santo sognatore, convocò un Concilio Ecumenico. “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, E nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et Spes, 1ss). Parole dei padri conciliari, che ancora oggi costituiscono l’acceleratore per una chiesa che è tornata ad essere conservatrice e a svernare in letargo. Papa Francesco ha impedito che il Concilio cessasse di essere una buona notizia. Guardando oggi di nuovo a noi-chiesa ci chiediamo: siamo tornati indietro? Anche il laicato cristiano è simile a quei bambini che, iniziando a camminare, hanno paura se cadono e riprendono nuovamente a desiderare le antiche sicurezze di box deresponsabilizzanti e protettivi, di fibbie reggenti devozionali e guinzagli clericali contenitivi. Un ampio settore dei responsabili ecclesiastici preferisce il freno all’acceleratore, il sospetto nei confronti dell’uomo piuttosto che la fiducia in lui, il potere più che il servizio, la difesa della sua struttura più che la lotta per la causa dei poveri. Non tutta la chiesa, grazie a Dio. Perché ci sono settori di noi-chiesa che guardano meno alla struttura e più a Gesù, più a quelli di sotto e meno a quelli di sopra. E’, senza dubbio, il frutto di quel Concilio che potremmo rischiare di spegnere. Questa noi-chiesa fiorisce ovunque nei piccoli gruppi o comunità, nella periferia delle grandi città, nei quartieri, nelle associazioni popolari, dentro e fuori i nostri limiti geografici. 

Dal libro della Parola.
L’Avvento di quest’anno si apre con un brano di Isaia e uno di Marco che descrivono due movimenti:

  1. C’è una venuta, un ritorno, un viaggio del Signore verso l’uomo. E’ descritto come evento sospirato “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!”. Con Gesù, Dio ha ribadito la sua rottura dallo splendido isolamento e “ha squarciato i cieli”, “è disceso”, è “andato incontro a quanti si ricordano delle sue vie”. La rottura dell’imene segna l’interruzione fisica della verginità femminile. L’imene della trascendenza di Dio, con Gesù si è lacerata, squarciata. Dio non è più vergine.
  2. Ma la parabola di Marco dipinge il secondo movimento, quello umano. Tre imperativi scandiscono le tre parti del brano di oggi: “State attenti, vegliate, vigilate” (blepô, agrupneô, gregoreô). Anche il testo di Isaia sottolinea l’esigenza di questa reazione umana davanti alla venuta del Signore: “Non vagheremo più lontano dalle tue vie, praticheremo la giustizia, ci ricorderemo delle tue vie e riconosceremo che siamo stati ribelli e abbiamo peccato contro di te”.

Uno dei verbi usati da Marco è, in greco, gregorein (vegliare) che è molto vicino all’altro usato per la Risurrezione (egheirein= alzarsi in piedi). Ambedue descrivono l’esigenza di uscire dalle nebbie e dall’immobilità. Per meglio illustrare il suo pensiero Marco cita la parabola del portiere notturno. Secondo l’uso romano la notte è divisa in 4 veglie o vigilie: sera, mezzanotte, canto del gallo, alba. Molto sapientemente Marco stesso fa riferimento a 4 precisi eventi di Gesù e della Chiesa: la sera del tradimento di Giuda (Mc.14, 17); la notte del processo e della condanna (Mc. 14,64);  l’ora del canto del gallo e del tradimento di Pietro (Mc. 14,72); il mattino in cui Gesù viene consegnato a Pilato per essere crocifisso ( Mc.15, 1).
Dunque Gesù può tornare alla sera quando il discepolo tradisce Gesù o è tradito dai suoi familiari, colleghi, amici, confratelli; nel cuore della notte quando il discepolo condanna Dio o viene ingiustamente condannato; al canto del gallo quando Gesù viene rinnegato o al discepolo viene negata dignità; al mattino quando la vita scivolerà verso la morte.
Ecco perchè nel tempo dell’uomo (Kronos) scorre il tempo di Dio (Kairos). Ecco allora il richiamo alla vigilanza, non come incubo che Dio venga a guardare nel nostro fogliame ed esigere i frutti, ma come tempo dell’incontro descritto dal Cantico: «Io dormo, ma il mio cure veglia. Un rumore! E’ il mio amato che bussa: “Aprimi sorella mia, mia amica, mia colomba, mia perfetta”» (Cantico 5,2).
Ecco il richiamo alla vigilanza per evitare, come dice Marco poche righe più avanti, di addormentarci come i discepoli nel Getsemani nel torpore. Vegliare significa attrezzarsi per un lungo periodo, essere uomini del presente con lo sguardo rivolto al futuro o al profondo. Forse per questo finalmente ho trovato gente che attende, e l’ho trovata tra i detenuti, uomini dalla furbizia acuta e incontenibile, insonne a cercare pretesti per uscire, occasioni per evadere, astuzie per ottenere sconti. In carcere si dorme, ma sognando. Anche qualche ergastolano mi diceva: «Quando uscirò verrò a prendere un caffè da te». Così mi piace, questa umanità insonne, irrequieta, vispa, rumorosa, lagnosa, scontenta, immobilizzata da condanne ma ondeggiata dal vento di piccole e grandi speranze.
La comunità/chiesa, lasciata nelle mani di Pietro e dei suoi, quando Gesù andò all’estero (morte e resurrezione) non fu vigile. In quel primo rendimento di conti, che fu la passione di Gesù, tutti dormirono, non riconoscendo in quel Gesù povero, spogliato, fallito e umiliato il “Figlio dell’Uomo”.
Proprio qui, in questo sentimento di dormiveglia intossicata, nasce l’invocazione che caratterizza l’Avvento, quell’invocazione accorata che leggiamo nel profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!». Come sarebbe bello se ci accorgessimo che qualcosa di davvero nuovo sta accadendo nella nostra vita; se finalmente ci si accorgesse che Qualcuno rompe la monotonia dei giorni che passano; se fosse definitivamente bandito il torpore della noia che ci sfianca. Come sarebbe bello se il tempo riacquistasse senso e pienezza, se il lavoro ritrovasse fantasia e serenità[1], se riscoprissimo gli altri come fratelli da godere.
Papa Francesco nella Evangelii gaudium si dilunga a fare analisi impietose sulle cancrene della società e della chiesa ma dissemina il messaggio di stimoli e speranze: «L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati fa sì che gli operatori pastorali non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce. Così prende forma la più grande minaccia, che è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità. Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza…La nostra fede è sfidata a intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che cresce in mezzo della zizzania»[2].  E per 7 volte termina i suoi paragrafi con inviti alla vigilanza: «non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!… non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!… Non lasciamoci rubare la speranza!… Non lasciamoci rubare la comunità!… Non lasciamoci rubare il Vangelo!… Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!… Non lasciamoci rubare la forza missionaria!».
Quindi Avvento è celebrazione dell’attesa escatologica, della speranza espressa dalla preghiera ardente delle prime comunità cristiane: “Vieni, o Signore Gesù! Maràna thà!” a cui egli risponde: «Sì, vengo presto! Amen» (cf. Apocalisse 22,20; 1Corinti 16,22). Per gli ebrei che hanno familiarità con le Sante Scritture e la viva tradizione rabbinica, è un tema ricorrente quello del silenzio, della lontananza e del nascondimento di Dio. Ne troviamo traccia in molti salmi e in vari brani dei profeti; in Isaia abbiamo quasi una definizione del Dio d’Israele che punta proprio su questo aspetto: “Veramente tu sei un Dio nascosto” (45,15); così nel salmo 10,1: “Perché Signore, stai lontano e nel tempo dell’angoscia ti nascondi?” Anche la prima lettura di questa domenica vi fa riferimento: “perché Signore ci lasci vagare lontano dalle tue vie?… Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,17-19).  I cieli appaiono chiusi e Dio sembra restare irraggiungibile anche per tanti uomini e donne del nostro tempo che si sentono abbandonati, che sono preda dell’ingiustizia, della miseria, della guerra e delle malattie.
Il credente sa da dove viene il male: “Abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli, siamo tutti rinsecchiti come le foglie d’autunno…Siamo come un pannolino di una donna mestruataNessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te: tu avevi nascosto il tuo volto”. Questa consapevolezza ci toglie ogni possibilità di accampare diritti davanti a Dio. Eppure il vero credente non smette di porre tutta la sua fiducia in Dio e osa dire: “ma tu sei nostro padre! Noi siamo argilla… in fondo restiamo pur sempre opera delle tue mani…” (cf. Isaia 63,16; 64,7). Dio non è l’avversario pronto a coglierci in fallo. Ecco perché si può avere la sfrontatezza di ricorrere a lui anche quando si è stati e si è ancora infedeli. Perché “Egli è fedele e ci confermerà irreprensibili fino alla fine, fino al giorno del Signore” (2a lettura).


[1] Il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, bengalese, con la sua Grameen Bank ha istituzionalizzato i piccoli prestiti che hanno consentito di creare sviluppo economico e sociale dal basso. Durante una sessione in remoto di Economy of Francesco, rivolgendosi ai giovani ha chiesto di essere “Not job seekers, but job creators”, non cercatori di lavoro, ma creatori di lavoro.
[2] EG, alcuni passi da n. 82, 83, 84




22 novembre 2020. Festa Pasquale di Cristo re.
Il volto di un re senza corona.

FESTA PASQUALE di CRISTO RE.

Preghiamo.  O Padre, che hai posto il tuo Figlio  come unico re e pastore di tutti gli uomini,  per costruire nelle tormentate vicende della storia il tuo regno d’amore, alimenta in noi la certezza di fede che un giorno, annientato anche l’ultimo nemico, la morte, egli ti consegnerà l’opera della sua redenzione, perché tu sia tutto in tutti.  Egli è Dio, e vive e regna con te…
Dal libro del profeta Ezechièle 34,11-12.15-17
 Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.  Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia. A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.
Salmo 22. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.  Ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia,  mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;  il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 15,20-26.28
 Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.  Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.  È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.  E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.
Dal Vangelo secondo Matteo 25,31-46
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.  Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

IL VOLTO DI UN RE SENZA CORONA. Don Augusto Fontana

L’ultima Domenica dell’Anno liturgico ha tutte le connotazioni della festa di Pasqua. La festa, di fatto, celebra in sintesi tutto il mistero di Cristo nel tempo: «Cristo ieri, oggi e sempre; a lui gloria e potenza nei secoli in eterno…Ad un certo punto, durante la cena, si alzò da tavola, si tolse il mantello, si aggiustò un asciugamano attorno ai fianchi, versò dellacqua in una bacinella e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con lasciugamano che aveva davanti…E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello rosso; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi…[1]».
La festa fu istituita da Pio XI nel 1925 per reagire al laicismo: se Cristo è Re, vuol dire che la chiesa è Regina! Ciò è avvenuto sia in epoche di clericalismo e sia in epoca laicista quando la Chiesa rivendicò leadership per il traino di legislazioni a favore delle proprie strutture e per la salvaguardia di valori ritenuti irrinunciabili. E’ anche vero che con il franare del regime di cristianità, la società rischia di mettere in causa una giusta concezione della regalità di Cristo relegandola al puro ambito dello spirito e delle sacrestie, ma ciò non giustifica nostalgie bigotte ed integraliste; semmai spinge i cristiani ad inventare nuove forme dolci e convincenti di presenza nella convivenza sociale evitando forme di massoneria o di lobbys cattoliche. Scrive Olivier Clément in IL POTERE CROCIFISSO:  «A poco a poco capiremo che il cristianesimo non è un’ideologia che aspira ad essere imposta con la forza dello Stato. I mezzi del potere sono estranei al cristianesimo che sarà sempre più un fermento, una luce, una profezia, un esempio che non impone nulla e si presenta nell’umiltà»[2].

Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa ridare anche consistenza al ruolo sacerdotale e liturgico di ogni battezzato. Benchè piccola e balorda che sia, ogni assemblea liturgica anticipa nel tempo la liturgia finale del regno.

Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa mantenere vivo il sospetto contro le subdole idolatrie moderne pubbliche e private.

Riconoscere e celebrare Cristo-Re significa che ogni battezzato dovrà scoprire il valore sacramentale e salvifico della sua prassi messianica nel lavoro, in famiglia, nel volontariato, nel rispetto della creazione e della vita, nell’accoglienza dei piccoli, nella riammissione degli esclusi.

QUANDO E DOVE VEDRO’ IL VOLTO DI DIO?

«L’anima mia ha sete del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Salmo 41,3). Alzi la mano chi non sente questo punto interrogativo piantato nella carne. Nella mia carne ha aperto la sua ferita e ormai sta suppurando e infettando i miei ultimi tempi di vita.
Quando e dove ti vedo, Dio misterioso e nascosto? «Veramente tu sei Dio nascosto/misterioso» (Isaia 45,15). Non sono il solo in questa inquieta domanda «Quando?»: « i suoi discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: “Dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”»(Matteo 24,3). Pure loro, i discepoli della Risurrezione, «Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano» (Matteo 28,17).

Signore, tu ci hai detto che sei VOCE/PAROLA: «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3,20).

Signore, ti sei consegnato come PANE: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Giovanni 6,51).

Signore, oggi tenti di consegnarci il terzo e ultimo sintomo della tua presenza, i POVERI. L’ultima orma che lasci passando fra noi, la scia di profumo lieve per cercatori inquieti come me: «Quanto avete fatto a uno dei minimi miei fratelli, l’avete fatto a me».

Nel Vangelo di oggi per cinque volte leggiamo gli avverbi «allora» e «quando»[3]. «Allora» enfatizza il futuro, l’avvento, la venuta che ci sta venendo incontro: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria…». Eppure Gesù ci indica che il «quando» futuro inizia già oggi, ora:

  • «“ Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato…. » .
  • E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”».

Il cap. 25 di Matteo ci ha accompagnato nelle due domeniche precedenti abituandoci a questa tensione fra l’ «allora» e l’ «oggi», il tempo sospeso tra attesa e responsabilità: ora bisogna acquistare l’olio delle lampade (v.1-13), ora bisogna moltiplicare i talenti donati (v. 14-30).
Il “discernimento” che il Signore farà fra noi «allora, quando verrà…», ce lo tiriamo addosso «ora», accogliendo i “minimi tra i fratelli” o restando indifferenti.
«Gli rispose Gesù: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Matteo 22,37-39). Il volto del Crocifisso ha il volto di tutti i poveri della terra. Ogni altro è sempre l’Altro perché il “Verbo che era Dio… si fece carne”(Giov. 1,14).

Così si è chiuso il cerchio, per una flebile risposta alla mia domanda “Quando vedrò il tuo volto?”.

Nella Parola, nel Pane spezzato, nei poveri. Forse ce la posso fare mettendo, come Tommaso, le dita nelle tue ferite, nelle stigmate della tua passione: affamati, assetati, senza tetto né vestiti, malati, stranieri, carcerati.

Papa Francesco ha scritto: «“Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32). La sapienza antica ha posto queste parole come un codice sacro da seguire nella vita. Esse risuonano oggi con tutta la loro carica di significato per aiutare anche noi a concentrare lo sguardo sull’essenziale e superare le barriere dell’indifferenza. La povertà assume sempre volti diversi, che richiedono attenzione ad ogni condizione particolare: in ognuna di queste possiamo incontrare il Signore Gesù, che ha rivelato di essere presente nei suoi fratelli più deboli (cfr Mt 25,40)[4].


[1] Lettera agli Ebrei 13,8; Apocalisse 1,6; Giovanni 19,1-3; Giovanni 13,4-5.
[2] Ed,Qiqajon, Bose, 1999, pag. 64.
[3] Elaboro un commento di Silvano Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo, EDB
[4] Messaggio di Papa Francesco per la 4a giornata mondiale dei poveri. 15 novembre 2020. http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/poveri/documents/papa-francesco_20200613_messaggio-iv-giornatamondiale-poveri-2020.html




15 novembre 2020. Domenica 33a
IL SERVO PIGRO

La prima lettura è una famosa pagina biblica dedicata, ad una prima impressione, alla “donna forte”. Ci possiamo permettere di riferire questa donna alla Chiesa, comunità Sposa, Signora, come la chiama Giovanni nella sua 2a Lettera (1-5) « Io, il presbitero, alla eletta Signora (eklekte kurìa) e ai suoi figli che amo nella verità…». Teniamo presente che il libro dei Proverbi non vuole essere un libro dogmatico, ma un libro di sapienza popolare. L’intenzione è voler tradurre nella pratica quotidiana i grandi Comandamenti della Torah, della Legge di Dio. Il libro è un riflesso della cultura maschilista di quei tempi.  Sarebbe anacronistico prendere come “volontà divina” il modello di donna che ci offre questo testo. Modello francamente migliorabile!

Preghiamo. O Padre, che affidi alle mani dell’uomo tutti i beni della creazione e della grazia, fa’ che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza; rendici sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo giorno, nella speranza di sentirci chiamare servi buoni e fedeli, e così entrare nella gioia del tuo regno. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro dei Proverbi 31,10-13.19-20.30-31
Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare. Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

Salmo 127 Beato chi crede nel Signore e cammina nelle sue vie.
Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie.

Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene.
La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come rami d’ulivo intorno alla tua mensa.
Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 5,1-6
Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 14-15.19-21)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

UN SERVO PIGRO. Don Augusto Fontana
Che donna!
La prima lettura è una famosa pagina biblica dedicata, ad una prima impressione, alla “donna forte”. Ci possiamo permettere di riferire questa donna alla Chiesa, comunità Sposa, Signora, come la chiama Giovanni nella sua 2a Lettera (1-5) « Io, il presbitero, alla eletta Signora (eklekte kurìa) e ai suoi figli che amo nella verità…». Teniamo presente che il libro dei Proverbi non vuole essere un libro dogmatico, ma un libro di sapienza popolare. L’intenzione è voler tradurre nella pratica quotidiana i grandi Comandamenti della Torah, della Legge di Dio. Il libro è un riflesso della cultura maschilista di quei tempi.  Sarebbe anacronistico prendere come “volontà divina” il modello di donna che ci offre questo testo. Modello francamente migliorabile! Occorre discernimento sui contenuti della Bibbia per cogliere la differenza tra ciò che in essa è “verità salvifica rivelata” e ciò che è semplicemente “genere letterario”, o elemento culturale della società da cui proviene un determinato testo. L’idea della donna, sposa, madre, casalinga e che lascia l’ambito del sociale al maschio, è ancora un modello culturale di buona parte dei cristiani. E’ molto importante reagire con pazienza ma efficacemente a questa confusione. Comunque, questa Signora non è certamente pigra come il servo della parabola di oggi. Eppure se la metto a confronto con quello che si è sentita dire Marta da Gesù (Lc. 10, 38-42) mi aumentano stupore, dubbi, curiosità.  

«Consegnò loro i suoi beni»[1].
La parabola dei talenti è senza dubbio il testo principale tra i tre di oggi. Matteo parla della venuta finale del Figlio dell’uomo e di seguito ci dice quali siano gli atteggiamenti adeguati nel tempo dell’attesa: la vigilanza sapiente (parabola delle dieci ragazze), l’impegno della fede affidabile (parabole dei talenti), l’impegno della carità (parabola del giudizio finale).

«Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Secondo altri padri orientali, i talenti sono le Parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo»[2].
Scrive il biblista Maggioni[3]: «I talenti (contrariamente a quanto di solito si pensa) non rappresentano le capacità che Dio ha dato a ciascuno, ma le responsabilità o i compiti che a ognuno vengono affidati. Di­fatti, la parabola racconta che il padrone diede i talenti «secondo le capacità di ciascuno». I primi due servitori (il secondo è la ripetizione del primo) sono l’immagine della operosità e della intraprendenza. Sono perciò definiti «buoni e fedeli[4]». Il terzo invece è passivo, non corre rischi, ma si limita a conservare; perciò è definito «malvagio e pigro». Il contrasto è dunque fra operosità e pigri­zia, intraprendenza e passività.  A questo punto va osservato che nell’economia della para­bola i primi due servitori hanno semplicemente la funzione di mettere in risalto – per contrasto – il comportamento del terzo, che diversamente da loro nasconde il suo tesoro in una buca. Anche le prime due scene di rendiconto hanno lo scopo di attirare l’attenzione sulla terza. È perciò chiaro che dobbia­mo concentrare l’attenzione sul comportamento del servo pigro e sul dialogo finale che è la chiave dell’intera parabola.  Il servo buono a nulla ha una sua idea di Dio che «miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso». Dunque c’è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto: nulla di più. Restituendo quanto ha ricevuto si ritiene sdebitato: «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo denaro: ti rendo quanto mi hai dato». Anch’io sono tentato di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta, invece, la pretesa del padrone. Ma l’ascoltatore della parabola è invitato a cambiare prospettiva: non più quel­la dell’obbedienza e della paura, ma la prospettiva dell’amore (o della fede) senza calcoli (non limitarsi a riconsegnare ciò che ha ricevuto). Questo servo è divenuto un burocrate pieno di scrupoli, ma senza alcuna intraprendenza. Il discepolo di Gesù deve stare davanti a Dio in un rapporto di amore, dal quale soltanto possono nascere il coraggio e la generosità.  L’evangelista Matteo ha inserito questa parabola nella sua catechesi sui “tempi ultimi e decisivi” per illustrare l’imperativo della vigilanza, che è il modo con cui il cristiano vive il ‘tempo presente’. Attendere il padrone significa assumere il rischio della propria responsabilità. Chi, al contrario, si chiude in se stesso per paura e rifiuta le occasioni che gli si offrono, diviene sterile. E’ forse questo il senso della frase enigmatica: «A chi non ha, sarà tolto anche quello che ha». Ovviamente, la parabola non intende essere una esaltazione della ‘efficienza’, del lavoro a cottimo, dell’attivismo nevrotico anche se pastorale. La prospettiva è evangelica. Non c’è posto per comunità intorpidite, rinunciatarie e paurose di fronte al progetto evangelico. Probabilmente il servo pigro non è l’uomo che non compie opere buone, ma l’uomo con­servatore e dimissionario, ripetitivo, pauroso di fronte a ogni rinnovamento dettato dalle esigenze evangeliche. E’ importante che i discepoli di Gesù valorizzino i doni loro affidati: “io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto” (Gv 15,16). Ricordiamo i frutti elencati da Paolo[5], i carismi che vanno utilizzati a servizio della comunità. Ricordiamo il rischio che ha corso il fico sterile in Lc 13,6-9.
I talenti nell’economia selvaggia.
La parabola dei talenti è stata interpretata laicamente come un elogio dell’impegno, dell’efficacia, del lavoro, del rendimento nella professione. Eppure il contesto di oggi è tale che questo messaggio, in se stesso buono e persino ingenuo, può rischiare di diventare funzionale all’ideologia dominante, il neoliberismo. Questo, in effetti, predica come grandi valori, l’efficacia, la creazione della ricchezza, il rendimento, l’aumento della produttività, la crescita economica, l’interesse bancario. Sono nomi moderni con cui alcuni furbetti traducono i “talenti”. Alcune frasi avallano direttamente principi neoliberisti. Pensiamo, per esempio, all’enigmatico versetto di Matteo 25,29: a colui che ha verrà dato e sarà nell’abbondanza, ma a quello che non ha gli verrà tolto anche quello che ha. Non sarà facile fare una predicazione che non faccia il gioco di un sistema che, per molti cristiani di oggi, sta agli antipodi dei principi cristiani[6].

Perciò suggerisco:
– che dalla parabola dei talenti non sia dedotta una glorificazione dell’efficacia attivistica e produttivistica, soprattutto in un sistema in cui questa riposa su delle coordinate strettamente individualiste.
– ricordare che non sono poche nei Vangeli le “sentenze enigmatiche”, (ne ricordo due: «chi non odia[7] suo padre e sua madre non può essere mio discepolo…»; oppure «io parlo loro in parabole perché ascoltando non comprendano»); frasi che senza la dovuta interpretazione andrebbero in una direzione contraria all’essenziale cristiano e che bisogna mantenerle nel loro statuto enigmatico, possibilmente migliorandone la traduzione.

L’efficacia, la produttività, l’efficienza…non sono male in linea di principio. Esiste una “efficienza” cristiana. Lo stesso Vangelo la presenta in altri passi, nella sua celebre inclinazione verso la prassi: «non chiunque mi dica “Signore, Signore!”, ma colui che fa la Parola», «beati piuttosto coloro che ascoltano la parola e la mettono in pratica…» e soprattutto il testo che mediteremo domenica prossima, dove il criterio del giudizio finale sarà precisamente ciò che avremo “fatto” a 6 categorie di poveri cristi.
L’efficacia accettata – e persino comandata – dal Vangelo è l’efficacia “per il Regno”, quella che è posta al servizio della causa della solidarietà e dell’amore. Non è l’efficacia di colui che riesce ad aumentare la rendita o quella di colui che riesce ad accaparrare mercati o quella di colui che ottiene fantastici guadagni da investimenti speculativi del capitale. L’efficacia per l’efficacia non è un valore cristiano e neanche umano. Dicono che il capitalismo, soprattutto nella sua espressione selvaggia attuale, sia “il sistema economico che crea maggiore ricchezza”, ma è altrettanto certo che lo ottiene aumentando simultaneamente l’abisso tra poveri e ricchi, la concentrazione della ricchezza a costo dell’espulsione dal mercato di masse crescenti di esclusi. Il criterio supremo, per noi, non è un’efficienza economica che produce ricchezza e distorce la società e la rende più squilibrata e ingiusta. «Non di solo pane vive l’uomo». Cristianamente non possiamo accettare un sistema che in favore della crescita della ricchezza sacrifica la giustizia, la fraternità e la partecipazione. Porre l’efficienza al di sopra di tutto questo, è una idolatria, è culto del denaro.
Siamo comunque invitati a non accontentarci di fare il minimo richiesto o indispensabile nel servizio al Regno; cosi come, forse, ci viene richiesto anche competenza e qualità nel servizio al Vangelo. “In ordinariis non ordinarius!”(Nelle cose ordinarie non essere banale!”) diceva S. Francesco di Sales, volendo portare la qualità totale fin nei dettagli più piccoli della vita ordinaria. Gesù si era lamentato che i figli delle tenebre sono più astuti dei figli della luce; ciò significa che l’astuzia non è male; il male sta nel porla a servizio delle tenebre e non della luce.  Enzo Bianchi propone un controcanto del finale della parabola: «A me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”: Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”. Anche così la parabola sarebbe buona notizia»[8].
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[1] Una cifra enorme. Un talento valeva 6000 denari. Un denaro era la paga base di un giorno di lavoro. Quindi il primo servo riceve il valore di 82 anni di lavoro; il secondo riceve il valore di 32 anni di lavoro; il terzo servo riceve 1 talento pari al costo di 16 anni di lavoro. Sommando, i 3 servi ricevono complessivamente il valore di 130 anni di lavoro.
[2] Enzo Bianchi. https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/11934-talenti
[3] Bruno Maggioni, Le Parabole evangeliche, Ed, Vita e pensiero.
[4] In greco il termine “pistòs” si traduce spesso con “credente, fedele, affidabile”.
[5] Galati 5,22: Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo.
[6] Papa Francesco nel 2013 aveva scritto in Evangelii gaudium n. 54  «Alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”  (trickle-down o “teoria dello sgocciolamento” ndr), che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare».

[7] In ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme assolute. Così, per dire “amare meno” si adotta l’estremo opposto all’ “amare”, cioè l’“odiare”.
[8] Enzo Bianchi, id.




8 novembre 2020.Domenica 32a
UN TEMPO TRA L’INVITO E LA FESTA

Un colpo di sonno al volante è drammatico. Una distrazione in stazione mi fa perdere l’ultimo treno del giorno. L’occasione opportuna passa e va; come il kairòs, direbbe la Bibbia, è un tempo in cui qualcosa di speciale accade e che io devo acchiappare al volo. Giacobbe, in quella notte sulle sponde del fiume Jabbok, «rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora». Una notte di veglia e di lotta con Dio (Genesi 32,25).  Anche i pastori di Luca 2,8 accolgono l’angelo del Signore mentre «vegliavano di notte». Con il salmo di oggi preghiamo: «O Dio, tu sei il mio Dio… penso a te nelle veglie notturne». Chiunque fra noi potrebbe raccontare occasioni perdute per sonnolenza invincibile oppure vigilie insonni ed emozionate per un giorno indimenticabile.

Preghiamo.  O Dio, la tua sapienza va in cerca di quanti ne ascoltano la voce, rendici degni di partecipare al tuo banchetto e fa’ che alimentiamo l’olio delle nostre lampade, perché non si estinguano nell’attesa, ma quando tu verrai siamo pronti a correrti incontro, per entrare con te alla festa nuziale. Per Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro della Sapienza 6,12-16.
La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro.
Salmo 62. Ha sete di te, Signore, l’anima mia.
O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia,

desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode.
Così ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani.
Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca.
Quando nel mio letto di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 4,13-18.
Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti. Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore.  Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.
 Dal Vangelo secondo Matteo 25,1-13.
 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

UN TEMPO TRA L’INVITO E LA FESTA. Don Augusto Fontana
Il salmo 129 grida: «L’anima mia è tesa al Signore più che le sentinelle verso l’aurora, più che le sentinelle verso il mattino». Il vocabolo «sentinelle» (šomrîm) indica anche più genericamente «coloro che vegliano», forse anche i sacerdoti che nel Tempio attendono il giorno per poter presiedere – forse anche una sola volta in vita – il culto d’Israele[1]. Un colpo di sonno al volante è drammatico. Una distrazione in stazione mi fa perdere l’ultimo treno del giorno. L’occasione opportuna passa e va; come il kairòs, direbbe la Bibbia, è un tempo in cui qualcosa di speciale accade e che io devo acchiappare al volo. Giacobbe, in quella notte sulle sponde del fiume Jabbok, «rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora». Una notte di veglia e di lotta con Dio (Genesi 32,25).  Anche i pastori di Luca 2,8 accolgono l’angelo del Signore mentre «vegliavano di notte». Con il salmo di oggi preghiamo: «O Dio, tu sei il mio Dio… penso a te nelle veglie notturne». Chiunque fra noi potrebbe raccontare occasioni perdute per sonnolenza invincibile oppure vigilie insonni ed emozionate per un giorno indimenticabile. Alcune Parabole dei Vangeli sono parabole dei nostri sonni o veglie: “E’ compiuto il tempo [kairòs] e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15).
Il Vangelo di Matteo ha due tipi di parabole:
(1) il Regno è già presente, qui e ora, nascosto nel quotidiano della nostra vita e va scoperto;
(2) il Regno deve venire ancora e ciascuno deve prepararsi fin da ora.
La tensione fra già e non ancora pervade la vita cristiana. Abbiamo bisogno tutti di un’amica, donna Sapienza (signora Hokma’, signora Sophia), che «sta seduta alla nostra porta» e potrebbe farci diventare abili ed esperti (hakam) per stare svegli nel tempo delle nostre notti insegnandoci a procurare e conservare l’olio per le nostre lampade[2].
La parabola di oggi non è una parabola isolata; si colloca, infatti, come la seconda di quattro parabole che esprimono lo stesso pensiero e si trovano l’una di seguito all’altra[3].
– In Mt 24,45-51: Gesù parla di un servo fedele e prudente e di un servo malvagio; il primo aspetta il padrone compiendo il suo dovere, il secondo fa i propri comodi.
– In Mt 25, 1-13: Parabola delle dieci ragazze.
– In Mt 25,14 – 30 il racconto dei talenti affidati ai servi; ci sono servi che li fanno fruttare e servi che, invece, li nascondono rendendoli infecondi.
– In Mt 25,21 – 46 Gesù descrive il giudizio finale quando saranno premiati coloro che hanno dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati…..

Il tema centrale è perciò quello della VIGILANZA (stare svegli): “Vegliate (state svegli), dunque, perché non sapete nè il giorno ne l’ora” (v. 13).

LA PARABOLA DELLE DIECI RAGAZZE.
E’ una parabola ben articolata narrativamente. Con una introduzione al v.1: “Il Regno dei cieli sarà simile a dieci ragazze che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo” e un finale al v. 13: “Vegliate dunque”. Tra queste due cornici, 3 scene.
Nella prima scena  vengono  presentati  i personaggi (cinque ragazze stolte e cinque sagge) e il fatto (prendono delle lampade e alcune anche l’olio, mentre altre no; aspettano lo sposo e, nell’attesa, si addormentano tutte: vv. 2 – 5).
La seconda scena è segnata dall’annuncio (“Si alzò un grido”) dell’arrivo dello sposo, che fa emergere la mancanza dell’olio; c’è il dialogo tra le stolte e le sagge per capire come superare questa difficoltà, e infine la decisione di andare a comprare l’olio nel cuore della notte. Era poco probabile trovare l’olio di notte, ma la parabola intende appunto scuoterci attraverso tali stranezze (vv 6-9).
Infine, la terza scena comprende l’ingresso alle nozze e la chiusura della porta (vv. 10 -12).

 I PERSONAGGI E I SIMBOLI
– A) Il personaggio principale del racconto è certamente GESU’ RISORTO chiamato SPOSO. Sposo: è uno dei titoli più belli con cui la Bibbia chiama Dio. Nella conversazione con la samaritana Gesù le dice che aveva cinque mariti e che quello che aveva in quel momento, cioè il sesto, non era vero marito. Il settimo è Gesù, lo sposo vero (Gv 4, 16-18). Fin dai tempi del profeta Osea (8° secolo a.C.), cresceva nel popolo la speranza di poter giungere un giorno a una intimità tale con Dio simile all’intimità dello sposo con la sposa (Os 2, 19-20). Isaia dice che è desiderio di Dio essere il marito del popolo (Is 54), gioire con il popolo come uno sposo gioisce alla presenza della sua sposa (Is 62, 5). Questa speranza si realizza con l’arrivo di Gesù. Per la mancanza di impegno e di serietà, le cinque giovani stolte mostrarono chiaramente che ancora non erano pronte per l’impegno definitivo del matrimonio con Dio. Avevano bisogno di altro tempo per prepararsi: “State svegli“.
– B) Poi ci sono  le  ragazze  sagge  e  stolte. In che consiste la loro saggezza e la loro stoltezza?
Cinque ragazze vengono chiamate stolte, ma il testo originale greco le chiama “moraiche letteralmente si potrebbe tradurre ‘matte, pazze’, ed è lo stesso termine che l’evangelista ha adoperato, nel capitolo 7, per il ‘matto’ (moròs) che costruisce la casa sopra la sabbia (Mt 7,26: “..è simile a un uomo stolto (matto) che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, la sua rovina fu grande.”). E Gesù diceva: «Questo matto è chiunque tra di voi ascolta queste parole, gli piace il mio insegnamento, ma poi non si sogna minimamente di metterlo in pratica»[4]. Vedi anche in Luca 12, 16-21 la parabola del ricco che accumula beni: «Ma Dio gli disse: Stolto (matto!), questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita».
Cinque ragazze vengono chiamate sagge ma il testo originale greco le chiama “fronimoi” che letteralmente si potrebbe tradurre con “prudenti”. La prudenza, nel contesto di Matteo, è l’atteggiamento del discepolo che mette in conto la possibilità di una lunga attesa senza venir meno alla fedeltà del proprio compito, equipaggiandosi di conseguenza[5].
– C) Poi c’è il simbolo dell’OLIO. Ci infastidisce il rifiuto delle ragazze sagge a condividere l’olio; ma non è possibile condividere ciò che è solo tuo. La fedeltà allo sposo fa parte del rapporto personale di ciascuna con lo sposo, non può essere ceduta. Se io non dico “si” allo sposo (Dio) nessun altro potrà farlo per me.
– D) Poi c’è il sonno delle ragazze. Tutte e dieci “si assopiscono”. E’ la condizione frequente di noi discepoli, nessuno escluso: «Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza» (Luca 22,45); «Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» (Luca 9,28-36).
– E) Infine c’è il rigido rifiuto da parte dello sposo: “Non vi conosco” e la porta non viene aperta a chi bussa. Facendo un confronto tra la parabola delle dieci ragazze e la parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-32) si potrebbe vedere un certo contrasto tra i due brani.
Nikos Kazantzakis – un romanziere greco -, in un suo libro, fa raccontare a Gesù la parabola delle dieci ragazze in una maniera che è più in sintonia con quella del padre che abbraccia il figlio scapestrato, e forse più in sintonia anche con la nostra sensibilità. Lo sposo, sentendo le ragazze stolte bussare e gridare, si commuove, fa aprire la porta, e dice: entrate, facciamo tutti festa, rallegriamoci; anzi fa lavare i piedi alle cinque ragazze stolte perché si sono infangati durante la ricerca dell’olio nella notte. Alla fine noi  saremo  stupiti  della  sua  capacità  di accoglienza[6]. La soluzione del romanziere è ovviamente più piacevole della conclusione della parabola di Matteo, tuttavia non tiene conto della serietà del Regno.
Gesù dice: “in verità non vi conosco” ed è lo stesso che Gesù ha detto a quei discepoli che lo avevano assicurato dicendo: “nel tuo nome abbiamo profetato, abbiamo scacciato demoni, compiuto prodigi” (Mt 7,22: “Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?”) e Gesù dice: “non vi conosco”. Gesù non conosce chi, usando il suo nome, compie cose straordinarie, ma chi compie la volontà del Padre.
Lo stesso Dio che con pazienza fino all’ultimo giorno concede alla “zizzania” l’opportunità di trasformarsi in “grano” non perdona alle ragazze stolte il loro comportamento, la leggerezza con cui non solo non si sono procurate olio di scorta ma anche quella di essere andate via a cercarne altro quando ormai il suo arrivo era imminente. Se fossero rimaste e gli avessero chiesto perdono? La parabola delle dieci ragazze esprime delle esigenze a cui non possiamo venire meno, esigenze che sottolineano la necessità di vivere la Parola in prima persona e non per delega.

Padre, donaci Gesù tua Sapienza che ci renda abili a custodire l’olio della preghiera e dell’amore nella lampada dei nostri giorni, perché non diventino giorni bui e non ci capiti di addormentarci mentre ti attendiamo.
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[1] David Maria Turoldo – Gianfranco Ravasi. I SALMI, traduzione poetica e commento. Mondadori.
[2] G.Cesare Pagazzi, Questo è il mio corpo, EDB, 2017, pagg. 27-32.
[3] Prendo spunto da una Lectio del Card. Martini nel 1999 presso la facoltà di medicina alla Cattolica di Roma.
[4] Padre Alberto Maggi
[5] A.Mello, Evangelo secondo Matteo, Ed. Qiqajon, pag.431-432
[6] Lidia Maggi, L’evangelo delle donne. Figure femminili nel Nuovo Testamento, Claudiana 2014.