20 settembre 2020. Domenica 25a
PERDONARE DIO? ANCHE.

Don Roberto Malgesini, 51 anni, si è accasciato a terra, ferito a morte da uno degli “ultimi” per i quali il sacerdote ha speso la vita. Le colazioni all’alba, l’assistenza di notte a chi rimane sulla strada, una coperta, un paio di pantaloni, un piatto caldo, una doccia o anche solo una parola di conforto per chiunque si presentasse alla sua porta a qualsiasi ora, senza soluzione di continuità. “Troppo buono” si sente ripetere più spesso…<<mormoravano contro il padrone…>>Mi sono accorto solo ora, alla mia veneranda età, di non aver mai perdonato Dio, di non avergliene lasciata passare una.

Preghiamo. O Padre, giusto e grande nel dare all’ultimo operaio come al primo, le tue vie distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra; apri il nostro cuore all’intelligenza delle parole del tuo Figlio, perché comprendiamo l’impagabile onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Isaìa 55,6-9
Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

Salmo 144.  Il Signore è vicino a chi lo invoca.
Ti voglio benedire ogni giorno, lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Grande è il Signore e degno di ogni lode; senza fine è la sua grandezza.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési 1,20-24.27
Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.  Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.  Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

Dal Vangelo secondo Matteo 20,1-16
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

PERDONARE DIO? ANCHE. Don Augusto Fontana
Don Roberto Malgesini, 51 anni, si è accasciato a terra, ferito a morte da uno degli “ultimi” per i quali il sacerdote ha speso la vita. Le colazioni all’alba, l’assistenza di notte a chi rimane sulla strada, una coperta, un paio di pantaloni, un piatto caldo, una doccia o anche solo una parola di conforto per chiunque si presentasse alla sua porta a qualsiasi ora, senza soluzione di continuità. “Troppo buono” è l’espressione che si sente ripetere più spesso…».

…mormoravano contro il padrone… Mi sono accorto solo ora, alla mia veneranda età, di non aver mai perdonato Dio, di non avergliene lasciata passare una. Sono stato un imperdonabile brontolone. Un Dio così impotente a raccontarsi e farsi capire con parole sue da dover ricorrere alle nostre parole e alle nostre vicende e cose della vita. Oggi ci parla dal di dentro dell’esilio degli ebrei a Babilonia e dal di dentro del lavoro, come parabole del suo regno: mettendo in evidenza le somiglianze con il Regno, ma anche le distanze dalla logica del Regno.  E domenica saremo ad una Cena e in una assemblea, attorno a un pane e vino da mangiare e bere insieme: una parabola, una memoria, così simile e così distante dalla sua Pasqua.  La sua condiscendenza è questa: parlarci attraverso la nostra lingua e il nostro quotidiano facendoci gustare la gioia di aver capito e nello stesso tempo il timore di non aver capito del tutto.
I punti di ingresso della celebrazione ce li offre la prima lettura di Isaia: Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie

Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.
Il popolo di Israele era prigioniero a Babilonia e già sognava di ritornare nella sua terra, ricostruire tale e quale come era prima e magari sognando vendette nazionalistiche. Il profeta dice che occorre vivere bene l’oggi, approfittare delle opportunità, del kairòs, del passaggio di Dio nella mia condizione di oggi: vorrei cercarlo non solo quando sarò guarito o ritornato, ma anche ora che passa nella mia vita in questa malattia o in questo esilio dei miei sogni. Nella parabola Gesù ci descrive Dio che si accosta a tutte le ore della vita anche l’undicesima e penultima ora di luce della mia giornata di ottantenne, quella in cui anche il più scalcagnato ladrone può sentirsi dire: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Preso all’ultimo momento per i capelli e trattato come una vecchia suora novantenne, verginella per una vita intera. Apocalisse 3,20: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me». Oggi nella Parabola il Signore bussa all’alba, alle nove, a mezzogiorno, alle tre, alle cinque, a sera. Sei opportunità per dire le grandi ora della storia biblica, ma non solo; anche le piccole ore dei suoi appelli. «Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha chiamato. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna».

Abbiamo pregato nel salmo: «Il Signore è vicino a chi lo invoca». Ma Egli si fa vicino anche a chi non lo cerca. Luca 15: Allora egli disse loro questa parabola: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una…O quale donna, se ha dieci monete e ne perde una…Un uomo aveva due figli…il padre allora uscì a pregarlo».

Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie.
Quando lo cerchiamo, lo troviamo o si fa trovare, come si presenta? Dio è al di là, come il cielo è al di là della terra. Un Dio che mi rimane sempre nascosto, diverso, Santo; sembra quasi che quanto più si è fatto trovare da me, tanto più mi è diventato misterioso. «Le deformazioni dell’immagine di Dio è il pericolo che corrono le persone religiose, i cosiddetti operai della prima ora, o i figli maggiori che non sono mai scappati fisicamente di casa. L’eccessiva familiarità, la disinvoltura con cui trattiamo con lui ci impediscono di lasciarci sorprendere. C’è qualcosa di peggio che essere lontani da Dio. Ed è quella presunta vicinanza che non ci fa accorgere della distanza abissale tra noi e un Dio che ci sconcerta; perché se Dio non ci scandalizza, che Dio è?»[1]. Anche oggi sentiamo la finale della parabola in tutta la sua forza incoraggiante e scardinante: «Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».  Stessa conclusione del cap. 19: «Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».  Ma anche tutta la logica della parabola è estranea ai nostri istinti e alle nostre organizzazioni sociali. Il teologo Hans Weder commenta così: “Tutti gli operai della parabola vengono resi primi…In questa vigna ci sono solo “primi” o, se vogliamo, tutti vengono trattati da primi“. Dio dice apertamente: “Voglio dare a quest’ultimo quanto ho dato a te” (versetto 14). Dio difende energicamente questo Suo diritto a partire dagli ultimi e contesta lo schema rendimento/ricompensa. Non si tratta ovviamente di applicare questa parabola ai normali nostri contratti di lavoro, ma di comprendere la provocazione e la proposta per la nostra vita d’ogni giorno nelle relazioni con le persone, con gli “ultimi venuti”. Poiché veniamo da due domeniche in cui il Signore ci ha detto che siamo dei perdonati e che quindi la nostra chiamata è di essere perdonanti, mi fermerò – in conclusione – su questo sovvertimento: noi accettiamo senza fiatare il dogma della Trinità, della Transustanziazione, della resurrezione e di tutti gli altri misteri, ma è così difficile perdonare a Dio la sua debolezza di cuore; siamo come Giona che si è fatto venire un terribile mal di testa sotto quella piantina di ricino quando Dio si è rimangiata la parola di condanna per gli abitanti di Ninive (Giona 3,10 – 4,11).

Un Dio con cui non si può brontolare.
…mormoravano contro il padrone…
«Il verbo usato da Matteo è gonghizo (=brontolare). Indica l’atto con cui uno fa presente un suo diritto e constata che esso non è stato soddisfatto. Presso il mondo greco, indica l’opposto della riconoscenza dovuta agli dèi. Ha finito con l’indicare l’atteggiamento di chi è ostile a Dio o prescinde da lui, quindi non semplicemente il malumore di chi non vede compiersi una sua aspirazione. E’ il verbo usato per spiegare l’atto del popolo liberato dall’Egitto e non ancora entrato nella Terra promessa che si lamenta del proprio destino. La mormorazione è contro Mosè ed Aronne, ma di fatto è contro Dio stesso, poiché lui ha indicato ai due personaggi di portare il popolo fuori dall’Egitto. La mormorazione muove sempre da una causa concreta: la fame, la sete, la fatica del camminare nel deserto. Alla base sta la liberazione dall’Egitto: il popolo mormora perché a suo giudizio il suo diritto non è stato o non viene soddisfatto. La mormorazione giunge a ridersi di lui ripudiandolo: Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? E fino a quando non avranno fede in me, dopo tutti i miracoli che ho fatto in mezzo a loro? (Num 14,11). L’uomo dunque si arroga il diritto di giudicare e condannare quel Dio che l’ha liberato; a lui deve fiducia, gratitudine e obbedienza, e invece osa farsene giudice»[2].

[1] A.Pronzato PAROLA DI DIO, Ciclo A, Gribaudi, pag 263
[2] Commento di don Nando Bonati




13 settembre 2020. Domenica 24a
DIO PERDONA. IO NO. Atto secondo.

Il brano di Matteo appartiene al cap. 18, che raccoglie una serie di istruzioni pastorali sull’amore interno alla chiesa: non scandalizzare i piccoli, andare a cercare la pecora perduta, saper correggere il fratello…La parabola di oggi è rivolta alla chiesa e non intende dettare regole per la società la quale ha i propri Codici per amministrare la giustizia.  I versetti dal 21 al 35 concludono questo messaggio con una particolare accentuazione sul “perdonare”: parola molto usata ma spesso di difficile applicazione.

 Preghiamo. O Dio di giustizia e di amore, che perdoni a noi se perdoniamo ai nostri fratelli,  crea in noi un cuore nuovo a immagine del tuo Figlio, un cuore sempre più grande di ogni offesa,  per ricordare al mondo come tu ci ami.  Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del Siràcide 27,33-28,9
 Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro.  Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?  Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?  Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio?  Chi espierà per i suoi peccati? Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.

Salmo 102 Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome.

Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia.
Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono;
quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 14,7-9
 Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.  Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.  Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
Dal Vangelo secondo Matteo 18,21-35
 In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.  Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.  Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

DIO PERDONA. IO NO. Atto secondo. Don Augusto Fontana
Il brano di Matteo appartiene al cap. 18, che raccoglie una serie di istruzioni pastorali sull’amore interno alla chiesa: non scandalizzare i piccoli, andare a cercare la pecora perduta, saper correggere il fratello…La parabola di oggi è rivolta alla chiesa e non intende dettare regole per la società la quale ha i propri Codici per amministrare la giustizia.  I versetti dal 21 al 35 concludono questo messaggio con una particolare accentuazione sul “perdonare”: parola molto usata ma spesso di difficile applicazione.
La struttura del brano.
Il brano può essere diviso in due parti:  il dialogo con Pietro ‚ e la parabola del servo disonesto.  La parabola, poi, a sua volta, è divisa in 3 scene: Œnel palazzo il padrone con il servo;  in strada il servo col suo collega; Ž nel palazzo di nuovo il padrone con il servo.

E poi la parabola si chiude con una “promessa” che nel Padre nostro diventa preghiera: «Padre, rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».
La narrazione si regge sul contrasto tra l’agire di Dio verso l’uomo e quello dell’uomo verso gli altri uomini. Le parabole ricorrono frequentemente al contrasto paradossale perché il Vangelo è una novità che spezza il corso regolare e prevedibile delle cose e contrasta con la consuetudine. Fra il mondo di Dio e il nostro si verifica spesso una con­trapposizione.

«Quante volte dovrò perdonare?».
Pietro, dopo aver ascoltato il messaggio precedente di Gesù ha un problema molto concreto: ma quante volte occorre perdonare?

Nell’Antico Testamento si racconta un evento (in Genesi 4) da cui Gesù (e Matteo) trae spunto: Caino, dopo aver ucciso Abele, riconosce la colpa davanti al Signore il quale gli promette: «Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte». Gesù dice di perdonare non sette volte, non settanta volte, ma 70×7=490 volte. Alla vendetta sproporzionata, un perdono illimitato. Luca 17,4 ha una propria versione del perdono: «E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice «Mi pento», tu gli perdonerai».

...il regno dei cieli è simile a… Il comportamento di Dio.
Nella prima scena tutto sembra inverosimile.

  1. Il debito contratto dal servo è di proporzioni irreali (10.000 talenti pari a 164 tonnellate d’oro).
  2. Il servo ha supplicato un rinvio del pagamento («Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò tutto») e si è visto cancellare l’intero debito («lo lasciò andare e gli condonò il debito»). La risposta di Dio è sempre oltre la misura delle aspetta­tive, oltre il ‘giusto’.
  3. Nulla viene detto sulle qualità del servo, se buono e fedele, se abile nel lavoro, se ha reso grandi servizi al suo padrone. Si dice soltanto che ha «supplicato» appellandosi alla magnanimità (makrothumia= animo largo) del padrone, lo ha prega­to come si prega una divinità inginocchiandosi (proskunein).

Il comportamento di Dio appare sempre esage­rato. Mancasse questa esagerazione, immagineremmo l’agire di Dio come una copia del nostro. Il paradosso è un tratto che spesso l’evangelista utilizza per attirare l’attenzione sulla diversità di Dio. Per qual motivo il padrone perdona il debito? Il Vangelo scrive:Impietositosi… (v. 27. Nel testo greco, è una parola tipica dell’amore materno: una commozione viscerale. È il verbo del buon Samaritano e del padre del figlio prodigo. Un verbo che esprime non solo un’emozione, ma comportamenti concreti.

...il regno dei cieli è simile a…Il comportamento dell’uomo.
La seconda scena della parabola ci riporta nel mondo degli uomini. La relazione è fra uomo e uomo. Se leggessimo questa parte della parabola senza aver letto la precedente, saremmo certamente tentati di concludere: è giusto che il denaro prestato venga restituito; il servo che vuol farsi restituire il proprio denaro forse ha sbagliato i modi, ma ha sostanzialmente ragione. Tutto si capovolge, se osserviamo il comportamento di questo servo alla luce dell’antefatto: a lui, per primo, è stato condonato un debito immenso; ora non è capace di una piccola dilazione di tempo né, meno ancora, di un condono (100 denari, pari a 30 grammi d’oro). E così ciò che prima pareva normale diventa incomprensibi­le, del tutto ingiusto. La parabola mira esplicitamente a porre in risalto un antefatto che cambia tutto: cioè guardare le cose a partire dalla «lieta notizia» del perdono immenso di Dio.Il perdono non ha rigenerato il servo, né l’incontro con la gratuità gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere perdonati significa entrare in un circolo nuovo di rapporti, nel quale i criteri della cosiddetta “giustizia” diventano subito inadeguati. Se dimentichiamo che noi siamo stati – per primi – perdonati, gratuitamente amati, non comprendiamo più nulla né del perdono di Dio né del nostro perdono verso i fratelli. E diventiamo inevitabil­mente difensori della rigida giustizia, al punto da volerla im­porre anche a Dio. Anziché essere annunciatori del volto nuo­vo e sorprendente del Dio di Gesù, si diventa annunciatori ripetitivi di una figura ovvia di Dio, rigida, triste, troppo simile a come gli uomini se la immaginano per avere la forza di stupirli e affascinarli.

un finale che …corregge la parabola. Perche’?
Nel terzo quadro della parabola l’atteggiamento del padrone si capovolge: alla misericordia subentra la severità. Il motivo è che il servo non si è comportato come lui: «Non dovevi anche tu aver compassione del tuo compagno come io ho avuto com­passione di te?». La generosità del padrone non ha introdotto alcuna novità nel comportamento del servo. Si di­rebbe una generosità sprecata. E la storia finisce così: «Il padrone, adirato, lo consegnò agli aguzzini, finché non avesse pagato tutto il debito».  Se la parabola terminasse qui, potremmo intitolarla: «Storia del fallimento della generosità di Dio». L’uomo non si lascia rinnovare da Dio.

«Così anche il Padre mio celeste farà a voi, se non perdonerete di cuore ciascuno al proprio fratello». L’affermazio­ne che conclude la parabola – probabilmente dovuta all’evan­gelista Matteo – appare come un ritorno ad un rapporto non gratuito ma calcolato e tradizionale (se ti penti ti perdono…). Il perdono fraterno sembra diventato la condizione per ottenere il perdono di Dio. Non è più la incondizionata misericor­dia di Dio a guidare il discorso, ma il perdono dell’uomo: “Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. La parabola si è capovolta (con soddisfazione dei moralisti!). Letta in questo modo, la parabola non ha più nulla che trascende il nostro modo di pensare. La ragione del nostro perdono non è più un perdono già ricevuto, ma il timore di non essere perdonati. C’è nell’uomo – anche nell’uomo credente – una sorta di inerzia che è difficile smuovere. La novità non si fa mai subito strada in mezzo ai vecchi schemi. Matteo aggiunge dunque un ‘correttivo’ che ritie­ne necessario a seguito delle perplessità e dei problemi della sua comunità (e della nostra?).

 Un messaggio praticabile?
La parabola del servo e del padrone offre un messaggio praticabile? Diciamo subito che la parabola non intende indi­care una norma. Rivela anzitutto come Dio si pone davanti all’uomo. È strano che non si dica come ci si debba porre, a nostra volta, davanti a Lui, bensì come collocarci davanti al fratello. L’amore di Dio non è circolare, ma espansivo. È nella linea della gratuità, non della reciprocità. Questo è il nucleo. La parabola non afferma che il perdono illimitato debba esse­re un articolo della Costituzione degli Stati. Tuttavia, dice che ‘questo‘ fareb­be Dio. E’ un invito forte al discepolo perché allarghi lo spazio del perdono, e non della ferrea giustizia, anzitutto nella comunità ecclesiale (Mt 5,23-24: Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono); ma anche nel mondo.

PER APPROFONDIRE.
1° dubbio: «ma io mi sento così perdonato  dal Padre?».

2° dubbio: «Come, dove, quando posso, da cristiano, conciliare perdono e giustizia?». «Il perdono non elimina né diminuisce l’esigenza della riparazione, che è propria della giustizia».[1]
————————————————–
[1] Messaggio di Giovanni Paolo II per la 30° Giornata mondiale della Pace 1 gennaio 1997: “Offri il perdono, ricevi la pace”.




6 settembre 2020. Domenica 23a
DIO PERDONA IO NO. Atto primo

«Un viandante passava un giorno per la strada, quando gli passò accanto di corsa un uomo a cavallo. Aveva lo sguardo cattivo e le mani sporche di sangue. Qualche minuto dopo spuntò un gruppo di cavalieri, i quali chiesero al viandante se aveva visto passare uno con le mani sporche di sangue. Lo stavano inseguendo.«Chi è?» chiese il viandante.«Un assassino»  rispose il capo della comitiva.«E lo state inseguendo per consegnarlo alla giustizia? » chiese ancora il viandante.« No – disse il capo – Lo inseguiamo per insegnargli la retta via». Se malauguratamente investiamo qualcuno, siamo tenuti a fermarci per soccorrerlo, altrimenti la legge e il codice della strada ci rendono colpevoli di omissione di soccorso. Se invece vediamo qualcuno in difficoltà e non interveniamo, per la legge non è omissione di soccorso.

Preghiamo. O Padre, che ascolti quanti si accordano nel chiederti qualunque cosa nel nome del tuo Figlio, donaci un cuore e uno spirito nuovo, perché ci rendiamo responsabili della sorte di ogni fratello secondo il comandamento dell’amore, pienezza di tutta la legge. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Ezechièle 33,1.7-9
Mi fu rivolta questa parola del Signore: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato».

Salmo 94  Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza.

Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce! «Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 13,8-10
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.

Dal Vangelo secondo Matteo 18,15-20
Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». 

DIO PERDONA, IO NO. Atto primo[1]. Don Augusto Fontana
«Un viandante passava un giorno per la strada, quando gli passò accanto di corsa un uomo a cavallo. Aveva lo sguardo cattivo e le mani sporche di sangue. Qualche minuto dopo spuntò un gruppo di cavalieri, i quali chiesero al viandante se aveva visto passare uno con le mani sporche di sangue. Lo stavano inseguendo.«Chi è?» chiese il viandante.«Un assassino»  rispose il capo della comitiva.«E lo state inseguendo per consegnarlo alla giustizia? » chiese ancora il viandante.« No – disse il capo – Lo inseguiamo per insegnargli la retta via» [2].
Se malauguratamente investiamo qualcuno, siamo tenuti a fermarci per soccorrerlo, altrimenti la legge e il codice della strada ci rendono colpevoli di omissione di soccorso. Se invece vediamo qualcuno in difficoltà e non interveniamo, per la legge non è omissione di soccorso. Anche nel nostro essere cristiani possiamo correre il rischio di fermarci all’osservanza stretta della legge. Qualcuno arriva a dire “Vivi e lascia vivere.”. La Parola di Dio di oggi ci mette in guardia. Il salmo di questa domenica ci ha fatto ripetere: “Ascoltate oggi la voce del Signore”. Dice infatti nella prima lettura il profeta Ezechiele: “Ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia […] se tu non parli per distogliere il malvagio dalla sua condotta […] della sua morte chiederò conto a te”. Ognuno di noi è responsabile del fratello; “respons/abile” nel senso etimologico del termine: “abile a rispondere” della vita degli altri e di questo il Signore ci chiederà conto.
Quando domenica scorsa Matteo riferiva la frase di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo mi segua prendendo la croce”, gli occorreva una spiegazione. Alla domanda: “Cosa significa portare la croce?”, Matteo risponde riferendo, nel cap. 18, le indicazioni di Gesù alla sua comunità di discepoli. Viene chiamato il “Discorso ecclesiale” che è la quarta delle 5 grandi raccolte di “discorsi” di Gesù nel Vangelo di Matteo.
Il cammino della fede cristiana non è un’esperienza privata e solitaria, ma avviene dentro e con una comunità; allora si pone il problema dell’atteggiamento da assumere di fronte al comportamento di un membro che, a tuo giudizio, sta sbagliando.
Matteo, dopo aver ricordato (18,12) lo stile del buon pastore che lascia le 99 pecore al sicuro per cercare quella perduta, affronta esplicitamente il problema della riconciliazione, della correzione fraterna, del perdono, del dialogo. E noi sentiremo risuonare per 2 domeniche questi inviti.

La difficile riconciliazione nella Chiesa.
Matteo, di fronte alla situazione di grave peccato all’interno della comunità, offre alcuni indirizzi:

1- La comunità intera e ogni singolo membro, deve prendersi in carico il fratello che sbaglia. Il testo evangelico si rivolge al “Tu” di ogni credente: “Tu va e ammoniscilo…tu prendi con te alcuni testimoni…tu dillo alla comunità e se il tuo fratello….avrai riconquistato il tuo fratello”. Dunque non una responsabilità delegabile agli altri, ma una sollecitudine personale che non lascia scampo. S. Paolo (1a Corinzi 9,21-22) “Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge…per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno”[3].  Inoltre proprio nel momento in cui un fratello sbaglia contro di te, questo è il momento in cui anche la chiesa si mobilita e si mette in cammino. E’ tutta la chiesa che si deve consumare per uno solo. L’assemblea, la chiesa, che è la convocazione dei perdonati, la convocazione di coloro ai quali è stata usata misericordia dal Cristo, è lo strumento per eccellenza della misericordia.
2- Il metodo della correzione fraterna diventa l’indicazione pratica di come si diventa sentinelle corresponsabili gli uni degli altri. Ma è l’atteggiamento interiore che è importante: forse è ancora facile dire in faccia agli altri quello che gli va detto, ma questa non è correzione fraterna, resta giudizio o predicozzo. Il verbo gr. èlenxon che è stato tradotto con “ammoniscilo” letteralmente significa «convincilo». Non è la posizione di un superiore verso un inferiore per ammonirlo, ma è il dialogo mite di un fratello che prima di guardare la pagliuzza nell’occhio dell’altro, è cosciente del rischio di avere una trave conficcata nel proprio, trave che deformerebbe la percezione della realtà (Mt 7,4). Storicamente è avvenuto che la correzione fraterna, soprattutto nei monasteri a partire dai Monaci ebrei di Qumran del 1° secolo, avvenisse dopo la lettura della Parola di Dio perché davanti alla Parola di Dio nessuno può esimersi dal riconoscersi in deficit di fedeltà. Oggi s. Paolo dice che dobbiamo considerarci sempre in deficit: “Non abbiate alcun debito con nessuno se non quello dell’amore fraterno”. Che è come dire che non riusciremo mai ad andare in credito o alla pari di amore con Dio e con gli altri. S. Paolo in 1 Cor. 6,1-7 raccomanda addirittura di non risolvere le questioni davanti ai tribunali civili, ma di comporle all’interno della Comunità. E anche quando la riconciliazione con il fratello non accade “trattalo come un pagano e un pubblicano” e cioè come Gesù trattava i pubblicani e i peccatori: «i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”» (Mt 9,11).
3- La prima preoccupazione non deve essere quella del fare pulizia dentro la comunità secondo il proverbio popolare molto comune, ma poco evangelico: “Meglio pochi, ma buoni”. La prima preoccupazione è “guadagnare il fratello”. La preoccupazione di Gesù non è quello di buttare fuori le mele marce, ma che il fratello capisca che di fatto rischia la rottura con la comunità storica a cui appartiene, anche se resta ancora nelle preghiere della comunità: «se due di voi sulla terra si accorderanno per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà».  Questo “accordo” in greco esprime la “sinfonia (lett. “faranno una sinfonia”; in gr.sunfonesosin). Nella sinfonia ci sono voci diverse, ma sono accordate tra loro, per cui esce non un rumore, bensì un’armonia, una “sinfonia”, appunto. La preghiera cristiana deve perciò essere fatta da molte persone in accordo le une con le altre, in modo da fare una sinfonia. La grave responsabilità che Gesù aveva affidato a Pietro di legare e di sciogliere, ora viene esteso a tutti i membri della comunità: ”Tutto quello che legherete sarà legato….”. E qui è utile ricordare che Gesù ci aveva messo in guardia di non fare come certi farisei che «Legano pesanti fardelli sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). Il metodo delle scomuniche e dei roghi purificatori, fisici e morali, è un metodo che ha lasciato troppe drammatiche perplessità per non dover andarci cauti ad invocare ostracismi, tribunali ecclesiastici e liste di proscrizione. «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro»: questa frase è la traduzione cristiana di un tema biblico importante: l’abitazione e la presenza di Dio. Il Signore abita in una tenda in mezzo al suo popolo e, nella tenda, accompagna il popolo nel suo pellegrinaggio nel deserto. Così per il tempio di Gerusalemme: lì abita il Nome del Signore. Un testo della Mishnà (una raccolta ebraica di leggi) dice: “Se due persone sono riunite senza che parlino della Torah, della Legge, è una riunione di burloni; ma se due persone sono riunite e parlano della Torah, la shekinah (Dio stesso) dimora in mezzo a loro”. Ora, quello che per l’Ebreo era la Torah, per il cristiano è Gesù. Se due persone sono insieme nel nome di Gesù, c’è la sua presenza. Tutta la storia del mondo termina, secondo la Bibbia, quando Dio abiterà fra gli uomini per sempre: “Ecco la dimora di Dio fra gli uomini; egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” (Ap 21,3-4).

La difficile riconciliazione nella società.
In occasione del Giubileo del 2000, la Caritas Italiana aveva emesso un documento programmatico intitolato “Liberare la pena”. In esso mi avevano interessato alcuni passaggi: «La mediazione penale: con il termine “mediazione” si intende, in via generale, un procedimento di risoluzione dei conflitti che coinvolge un terzo neutrale, con l’intento di favorire la comprensione e il riconoscimento reciproco tra le parti e promuovere fra loro l’eventuale stipulazione di accordi volontari… Nella mediazione penale quindi sia la vittima sia l’agente del reato hanno la possibilità di partecipare attivamente, e a titolo volontario, alla risoluzione dei problemi che sorgono dalla commissione del reato con l’aiuto di un terzo che agisce in modo imparziale. All’esito dell’incontro è possibile l’elaborazione di un’attività riparativa, materiale o simbolica, nella forma, per esempio, di prestazioni gratuite a favore dell’offeso o della collettività, del risarcimento del danno».  Gli scenari futuri lasciano intendere una diffusione della Giustizia Riparativa. Il Carcere arriverà ad essere estrema ratio? Il Card. Martini affermava: “la carcerazione va vista come un intervento di emergenza, un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana; è un rimedio necessario per fermare coloro che, afferrati da un istinto egoistico e distruttivo, hanno perso il controllo di sé, calpestano i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile[4].

Insomma, mentre vorremo lavorare per sbloccare certe situazioni, resta vero che l’istituzione penitenziaria va troppo adagio nel proporre riforme che rendano, innanzitutto, la vita in carcere più umana e socializzante. Il carcere è un ambiente ad ‘istituzione totale’ che per la sua stessa natura rischia di ripiegarsi sempre più su se stesso, nel suo isolamento, divenendo luogo di esclusione e di rifiuto, amministrato da rigidi regolamenti finalizzati alla custodia e retto da pratiche che sanno sempre di repressione, ‘misure limitative e privative della libertà’.
————————————————-
[1] ATTO SECONDO, domenica prossima 13 settembre 2020
[2] Da Antony  Mello LA PREGHIERA DELLA RANA Vol. 1° pag. 116
[3] A dimostrazione che il passaggio dagli indirizzi di fondo della riconciliazione alla prassi concreta necessita di discernimento, posso citare Paolo che in alcune occasioni adotta criteri che appaiono contradditori come nel caso di un grave scandalo (2 Tess 3,6): «Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi».
[4] Colpa e Pena, per una nuova cultura della giustizia, atti del convegno, Bergamo 2000.




30 AGOSTO 2020. Domenica 22a
GESU’. UNO PER CUI VALE LA PENA VIVERE.

La mia (e la tua) vita è “in relazione”. La relazione, quando è profonda, orienta in modo determinante l’esistenza e la custodisce dalla frammentazione e alienazione. A volte la relazione è fonte di conflitti; tuttavia può diventare garanzia di sicurezza. Ho fatto qualche tratto di sentiero con alcuni uomini “di strada”, clochards, e davvero non riesco a capire come si possa resistere in una vita così sradicata ed esposta. Li stimo per il loro spirito di adattamento e povertà essenziale. Io non ne sarei capace. Gesù non era un clochard; era pieno di relazioni, ma con la vita che faceva se mi avesse detto “seguimi” lo avrei deluso. Come quel giovane a cui Gesù aveva chiesto “Vendi tutto per i poveri poi vieni e seguimi”; ma lui “se ne andò triste perché aveva molti beni

Preghiamo. Rinnovaci con il tuo Spirito di verità, o Padre, perché non ci lasciamo deviare dalle seduzioni del mondo, ma come veri discepoli, convocati dalla tua parola, sappiamo discernere ciò che è buono e a te gradito, per portare ogni giorno la croce sulle orme di Cristo, nostra speranza. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo sempre. Amen.
Dal libro del profeta Geremìa 20,7-9
Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me. Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.

Salmo 62  Ha sete di te, Signore, l’anima mia.
O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia,

desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode.
Così ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani.
Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca.
Quando penso a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia: la tua destra mi sostiene.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 12,1-2
Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Dal Vangelo secondo Matteo 16,21-27
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

GESU’. UNO PER CUI VALE LA PENA VIVERE. Don Augusto Fontana
La mia (e la tua) vita è “in relazione”. La relazione, quando è profonda, orienta in modo determinante l’esistenza e la custodisce dalla frammentazione e alienazione. A volte la relazione è fonte di conflitti; tuttavia può diventare garanzia di sicurezza. Ho fatto qualche tratto di sentiero con alcuni uomini “di strada”, clochards, e davvero non riesco a capire come si possa resistere in una vita così sradicata ed esposta. Li stimo per il loro spirito di adattamento e povertà essenziale. Io non ne sarei capace. Gesù non era un clochard; era pieno di relazioni, ma con la vita che faceva se mi avesse detto “seguimi” lo avrei deluso. Come quel giovane a cui Gesù aveva chiesto “Vendi tutto per i poveri poi vieni e seguimi”; ma lui “se ne andò triste perché aveva molti beni” (Matteo 19,22).
La relazione profonda mi chiede di lasciarmi prendere nel fiducioso abbandono di chi capisce che solo in tal modo la propria vita è radicalmente garantita e guidata in pienezza. Per chi fa tale esperienza, vivere equivale ad essere decentrati, presi e posseduti. Questa sembra essere l’esperienza di Geremia e di Gesù, nei brani biblici di oggi. Per ambedue, l’ambiente circostante è fonte di “scandalo” in quanto invita a non vivere secondo la relazione fondamentale che determina la loro vita. Ciò comporta esporre la propria vita, come chiede Gesù ai discepoli. Paolo ai Romani parla di un “sacrificio gradito a Dio”, un vero sacerdozio battesimale che consiste nel vivere la relazione con Dio lasciandosi guidare e determinare da questa relazione. La fede è lasciarsi sedurre da Dio al punto da affidare a lui la propria esistenza; la speranza è lasciarsi progettare radicalmente da lui; la carità è lasciare che il proprio cuore pulsi a tal punto da non trattenere nulla per sé.

Geremia 20,7-9.
Già agli inizi del regno di Joakim, una violenta requisitoria di Geremia contro il culto del Tempio lo aveva trascinato in un processo per sacrilegio da cui era uscito assolto (Ger.26,24), ma profondamente sconvolto. Di fronte alle sue peripezie, Geremia compone le “confessioni”, un genere letterario nuovo nella letteratura biblica, benchè se ne trovi traccia nei Salmi. I racconti di vocazione in massima parte sottolineano lo stato di turbamento e scoraggiamento in coloro che si sono sentiti chiamati: tentativo di abbandono in Mosè (Esodo 32), scoraggiamento in Elia (I Re 19), delusione in Giona (Giona 4), crisi esistenziale in Geremia (Ger. 20). In particolare diventa penoso sentirsi escluso dalla propria comunità solo per aver richiamato certe esigenze.

Al v. 7 il profeta ci dà la chiave di tutto il brano: tu mi hai sedotto e io mi sono lasciato sedurre. In Osea 2,16 la seduzione di Dio nei nostri confronti è dolce[1]. Ma occorre restituire al termine “seduzione” la sua ruvida e perfino brutale evidenza di azione disonesta e infame. Il verbo ebraico pātāh, “sedurre”, è usato ad esempio in Es 22,15[2] a proposito della violenza sessuale fatta su una vergine. La ragazza “sedotta”, anche nel linguaggio biblico, è quella circuita con raggiri che approfittano della sua ingenuità. Geremia non dice «Mi hai affascinato», ma «mi hai ingannato, hai approfittato di me, hai ottenuto quello che volevi e poi mi hai abbandonato lasciandomi al disprezzo degli altri ed io ci sono cascato, ho perso la testa, sono stato uno sciocco». Geremia pensava che la luna di miele proseguisse in modo confortevole (15,16: «quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore»). Geremia pensa che se fosse stato meno coerente e meno appassionato, se si fosse limitato all’ordinaria amministrazione, se si fosse accontentato di fare il diligente funzionario, se avesse predicato le proprie idee e non la Parola del Signore, se avesse tenuto conto dei gusti e delle allergie degli ascoltatori, non si troverebbe ora in questa situazione insopportabile. La sua è una crisi per eccesso di fedeltà. Ora vorrebbe mettere le pantofole ma si rende conto che il sogno è irrealizzabile. Dice: «Non ce la farei», perché il segno della seduzione di Dio ce l’ha inciso ormai sulla carne: «Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo». Non si può contenere e amministrare questo fuoco, questa febbre.

Salmo 63 (62)
Tu sei il mio Dio, ti cerco come la terra arida cerca l’acqua.  “Mio” non significa possesso, ma totale dipendenza. La ricerca appassionata di Dio viene espressa con i due simboli della fame e della sete di Dio. (Amos 8,11-12: « Ecco, verranno giorni, dice il Signore Dio in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno»).  Il Salmo, essendo una preghiera liturgica, sottolinea il ruolo del tempio come spazio privilegiato della presenza viva e dinamica di Dio: «La tua misericordia gratuita vale più della vita».

 Romani 12,1-2
La lettura inizia con un “Dunque”; significa che si collega alla sezione precedente costituita dalla sezione dogmatica (capp. 1-11) che introduce la sezione esortativa (Capp. 12-15). Paolo trae le dovute conseguenze etico-operative che scaturiscono dalla grazia di Cristo. Analizziamo il testo:

  1. Il verbo esortare (parakalein) significa invito e non un ordine o un obbligo.
  2. Qual è il contenuto dell’esortazione? Si tratta di presentare a Dio un culto, ma non rituale. I cristiani sono invitati a offrire i loro corpi, cioè se stessi nella concretezza del quotidiano.
  3. Culto spirituale (loghiken). Letteralmente andrebbe tradotto con “logico, razionale e quindi umano”. Il testo dunque andrebbe tradotto così: “Smettete di offrire culto a Dio con delle cose o degli animali; offrite… sacrifici “umani”, cioè offrite voi stessi con tutta la vostra razionale storia quotidiana”.
  4. <Non siate conformisti con il mondo presente. Trasformatevi invece rinnovando la vostra mente>. L’atteggiamento critico di fronte alle logiche mondane diventa un gesto sacerdotale.
  5. Sacrificio vivente, santo e gradito. Vivente: noi siamo stati salvati non da un rito di culto, ma da tenerezza, lavoro, convivialità e sangue caldo di Gesù. L’impegno di ogni cristiano nell’organizzazione della società e nella resistenza militante contro ogni forma di ingiustizia costituisce quindi un culto autentico, non ritualistico.

Matteo 16, 21-27
Il cap. 16 costituisce, in Matteo un giro di boa, come il cap. 8 per Marco. Quali mutamenti avvengono per costituire questo stacco? Gesù dà per la prima volta l’annuncio della passione e morte. Da questo momento Gesù cercherà di far capire che il proprio stile di una vita “gettata via” (croce) dovrà essere assunto dai discepoli nel rischio di essere presi in giro o ostacolati. Perdere la vita non significa necessariamente rischiare la vita fisica, come ancora oggi succede in certe porzioni di popolo di Dio.

Nel parlare comune c’è il linguaggio dell’augurio, del buon presagio, del «Dio ti guardi, ciò non accadrà mai!». Nelle nostre comunità c’è ancora chi crede all’augurio, alla buona stella sulla propria vita. Crede cioè, chissà per quale eccezione, che possiamo essere cristiani senza che ci venga portato via il nostro modesto mondo pagano. Crede che per noi il Figlio dell’uomo non verrà come un ladro a portarci via ciò che con sottile equilibrismo, tra buona fede e cattiva coscienza, abbiamo accumulato. Crediamo, insomma, che si possa verificare per noi quel che un religioso scriveva a mo’ di dedica sul libro da Messa regalato a una celebre diva: “Con auguri di santità e di successo”. Che è come cercare di fondere l’acqua con l’olio! Invece si diventa sale della terra quando noi per primi siamo salati con il sale che separa ciò che noi pateticamente vorremmo tenere unito. Ecco il sale di Gesù: a Pietro che gli dà buoni consigli Gesù dice “Torna dietro di me, Satana. Tu ragioni alla maniera degli uomini”. E anche se Pietro dice: “Sono pronto a morire con te”, Gesù lo ha già avvertito: “Questa notte mi rinnegherai[3]. Gesù raccoglie Pietro fatto a pezzi dalla sua buona fede e lo sala con la fede.
Il problema della liturgia di oggi è la sequela, una relazione con costi a caro prezzo e benefici di senso esistenziale.

Ma…ne val la pena?
———————————-————————-
[1] Perciò, ecco, la sedurrò (pātāh) a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore.
[2]Esodo 22, 15: «Se uno seduce una vergine non ancora fidanzata e pecca con lei, ne pagherà la dote nuziale ed essa diverrà sua moglie».
[3] Matteo 26,34-35




23 agosto 2020. 21a domenica
QUANDO LUI NON E’ COME CREDO.

Come un cuscino che soffoca il neonato senza che neppure se ne accorga, la fede di molti è andata in crisi con l’abbandono del latino, con la comunione data in mano e distribuita dai laici (spesso donne), con la caduta della tonaca dei preti, senza contare le beghe interne delle nostre parrocchie, le delusioni che ci dà Dio perché non fa’ quello che ci aspettiamo. Dov’è Gesù in tutto questo? Certo non dove lo mettiamo noi. La nostra superficialità imprigiona, talvolta, Dio nelle esteriorità della chiesa delle apparenze. Confiniamo la fede nelle abitudini della fede e allora ci stupiamo di non riuscire più a trovare Dio come al solito.

Preghiamo. O Padre, fonte di sapienza, che nell’umile testimonianza dell’apostolo Pietro hai posto il fondamento della nostra fede, dona a tutti gli uomini la luce del tuo Spirito, perché riconoscendo in Gesù di Nazaret il Figlio del Dio vivente, diventino pietre vive per l’edificazione della tua Chiesa. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen
Dal libro del profeta Isaìa 22,19-23
Così dice il Signore a Sebna, maggiordomo del palazzo: «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto. In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa; lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani. Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire. Lo conficcherò come un piolo in luogo solido e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre».

Salmo 137 Signore, il tuo amore è per sempre.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore: hai ascoltato le parole della mia bocca.

Non agli dèi, ma a te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza.
Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile;  il superbo invece lo riconosce da lontano.
Signore, il tuo amore è per sempre: non abbandonare l’opera delle tue mani.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 11,33-36
O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio? Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.

Dal Vangelo secondo Matteo 16,13-20
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo. 

QUANDO LUI NON E’ COME CREDO. Don Augusto Fontana
Come un cuscino che soffoca il neonato senza che neppure se ne accorga, la fede di molti è andata in crisi con l’abbandono del latino, con la comunione data in mano e distribuita dai laici (spesso donne), con la caduta della tonaca dei preti, senza contare le beghe interne delle nostre parrocchie, le delusioni che ci dà Dio perché non fa’ quello che ci aspettiamo. Dov’è Gesù in tutto questo? Certo non dove lo mettiamo noi. La nostra superficialità imprigiona, talvolta, Dio nelle esteriorità della chiesa delle apparenze. Confiniamo la fede nelle abitudini della fede e allora ci stupiamo di non riuscire più a trovare Dio come al solito. Ma Dio non è mai «come al solito». Dio non si trova riducendosi a fare quello che si è sempre fatto. Dio, forse, potrebbe trovarsi nel nuovo che c’è da fare. Come il cieco Bartimeo che “lascia il mantello”, un certo numero di vecchie abitudini incollate sulla pelle.
Credere significa accettare che Dio abbia da offrire qualcosa di diverso dalla nostra porzione di cibi quotidiani. Qualcuno ha detto: “Noi ci saremmo accontentati di 3 locali più servizi e lui ci offre prateria eterne”.
Da un’inchiesta in una parrocchia: Prima domanda: « Chi è Gesù per te? ».
Alcune risposte: Uno da riconoscere… uno da trovare… un provocatore…uno da accettare… uno che si impegna… un figlio “tutto suo Padre”… uno di cui non si può fare a meno… uno pieno di vita… un comunicativo… uno che è umano (Fil. 2, 6-11), un segno…uno che fa corpo…uno da adottare…uno da amare… uno a cui parlare…
Seconda domanda: «A chi assomigli di più tra i personaggi del Vangelo che hanno avvicinato Gesù? »
Alcune risposte: ai discepoli di Emmaus… al cieco… ai farisei estremisti dell’integrità che conoscevano bene Gesù ma non lo riconoscevano… a Pietro… a Maria sua madre… al giovane ricco…

«Ma voi, chi dite che io sia?». Il cap. 16 costituisce, in Matteo un giro di boa, come il cap. 8 per Marco. Quali mutamenti avvengono per costituire questo stacco?

  1. Gesù dà per la prima volta l’annuncio della passione e morte
  2. Da questo momento si dedicherà di più alla formazione del gruppo dei discepoli che delle folle.
  3. Gesù cercherà di far capire che il proprio stile di una vita “gettata via” (croce) dovrà essere assunto dai discepoli attraverso il perdono e la misericordia.

Innanzitutto il brano non è incentrato sull’investitura di Pietro, come farebbe pensare la liturgia di oggi che, nella prima lettura, propone Isaia 22,19-23: una vicenda di divergenze politiche tra ufficiali di corte (cfr. Isaia 22,15-18) all’epoca del re Ezechia, re di Giuda nell’VIII sec. a.C., con la sottolineatura dei riti di investitura del nuovo funzionario (tunica, cintura/sciarpa e chiavi: le 3 insegne della carica) . E comunque se anche fosse, i versetti 13-18 (del vangelo di oggi) non possono essere letti separatamente dai successivi versetti 21-23, tanto sono parallelamente costruiti: 21Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli… 22Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: «Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai». 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Torna dietro a me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Il problema vero è costituito da ciò che chiaramente è lo sfondo, lo scenario: la croce. La professione ortodossa della fede rivela tutta la sua ambiguità se non si misura con la logica di Dio rivelatasi nella finale della vita di Gesù. Non per niente molti esegeti accostano il brano di oggi con un altro capitolo di Matteo (il cap. 11) in cui si tratta del problema dell’identità di Gesù e della rivelazione ai piccoli: « 25In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. 27Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”». (La lettura di Paolo Rom.11,33-36 ribadisce la misteriosa e incomprensibile logica dell’agire divino: “chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?”).
Parlare della fede altrui, giudicare la fede altrui mi è molto facile. Ma esprimere la mia esperienza di fede è impresa ben più difficile. Non è importante sapere i risultati di un’inchiesta religiosa, ma definire se io ho dato una risposta personalizzata alla domanda di Gesù: “Io chi sono per te?”. La gente tenta di interpretare l’attività e la persona di Gesù secondo i modelli conosciuti del passato. I discepoli e quelli che hanno accettato di condividere il destino di Gesù non possono trincerarsi dietro gli stereotipi e l’opinione della gente. Una forma stereotipa è l’alibi più elegante e astuto per non impegnarmi in una risposta mia personale, magari incompleta e un po’ eretica, ma mia, mia, mia. I discepoli e quelli che hanno accettato di condividere il destino di Gesù non possono trincerarsi dietro gli stereotipi e l’opinione della gente. Anch’io devo prendere posizione ed espormi personalmente. Non si è cristiani per un atto giuridico, per un diploma avuto il giorno del battesimo.
Non è meno importante sentire risuonare quel “voi” collettivo, al plurale: quale risposta dà la mia comunità, la chiesa cattolica, le chiese cristiane, alla domanda di Gesù: “Ma, VOI, cosa dite di me, cosa professate di me?”.
Chiede cosa dicono di lui e non tanto cosa provano nè cosa suggerisce la loro intuizione religiosa. Questo verbo (léghete=dite) gioca un ruolo importante in Matteo ed è tipicamente giudeo. Si “dice” con la bocca, ma ben più con le scelte di vita.
La particella de (= ma) non significa solo “ma voi, al contrario” bensì: e voi non avete nient’altro da dire al mio riguardo? Gesù non rifiuta gli attributi della gente (sei Giovanni Battezzatore, sei Elia, sei Geremia) anche perché in almeno due di essi (Giovanni e Geremia) si riconoscono le caratteristiche del Servo Sofferente. Egli chiede ai discepoli di aggiungere un contributo di esperienza personale derivata da un ascolto della Rivelazione del Padre. Gli altri hanno un posto insostituibile nell’incontro con Cristo, come dei suggeritori che aiutano l’attore a ripartire, a riprendersi e continuare. Lazzaro, il paralitico, il cieco Bartimeo hanno avuto bisogno della fede altrui per essere avvicinati a Gesù, ma poi il contatto ha dovuto essere diretto, un incontro a tu per tu. Anche per la donna samaritana al pozzo (Giov. 4), la genesi della fede dei suoi compaesani ha bisogno delle due tappe, la testimonianza della donna e, alla fine, una presa di coscienza personale: «39 Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna 40 E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. 41 Molti di più credettero per la sua parola 42 e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Occorre saper mettere in discussione la propria fede. Occorre una fede non teorica e astratta, da salotto, mummificata. La superficialità è uno degli ostacoli maggiori alla fede.

Nella logica dello schema di Matteo potremmo anche chiedere a Gesù: “Cosa dice la gente di noi cristiani?…E noi chi siamo per Te?”.




16 agosto 2020. Domenica 20a
SE NON IL PANE DEI FIGLI, ALMENO LE BRICIOLE

Prima gli italiani! Prima la razza ariana! Prima i cattolici! Prima i praticanti! Prima i preti! Prima i maschi! E avanti così, verso identità forti, progrom selettivi, enclaves etniche o religiose, teologie e politiche settarie. Da sempre fu così e forse, ahimè, sempre sarà. Anche nella storia di Israele maturò rozzamente la separazione tra i figli eletti di Isacco e i discendenti del bastardo Ismaele, cani impuri: «Il bastardo e nessuno dei suoi discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nell’assemblea del Signore. L’Ammonita e il Moabita non entreranno nell’assemblea del Signore. Non cercherai mai la loro pace né la loro prosperità, finché tu viva» (Deut 23,1-3). La prospettiva universalistica, tuttavia, corre come un fiume carsico, nella Rivelazione dei profeti e non solo; sappiamo che Rut era Moabita e il racconto del libro omonimo contrasta proprio le norme sopra citate; Matteo inserirà la straniera “proibita” addirittura nella linea genealogica di Gesù (Mt 1,5).

Preghiamo. O Padre, che nell’accondiscendenza del tuo Figlio mite e umile di cuore hai compiuto il disegno universale di salvezza, rivestici dei suoi sentimenti, perché rendiamo continua testimonianza con le parole e con le opere al tuo amore eterno e fedele. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Isaia 56,1.6-7
Così dice il Signore: «Osservate il diritto e praticate la giustizia, perché la mia salvezza sta per venire, la mia giustizia sta per rivelarsi. Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli».

SALMO 66 Popoli tutti, lodate il Signore.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto;

perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti.
Gioiscano le nazioni e si rallegrino, perché tu giudichi i popoli con rettitudine, governi le nazioni sulla terra.
Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra.
Dalla Lettera di Paolo ai Romani, 11,13-15.29-32
Fratelli, a voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti? Infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!

Dal Vangelo secondo Matteo 15,21-28
Uscito di là, Gesù si ritirò nel territorio di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, di quei luoghi, venne fuori e si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio [kakòs daimonizetai=malamente indemoniata]». Ma egli non le rispose parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Mandala via [apòluson auten], perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

SE NON IL PANE DEI FIGLI, ALMENO LE BRICIOLE. Don Augusto Fontana
Prima gli italiani! Prima la razza ariana! Prima i cattolici! Prima i praticanti! Prima i preti! Prima i maschi! E avanti così, verso identità forti, progrom selettivi, enclaves etniche o religiose, teologie e politiche settarie. Da sempre fu così e forse, ahimè, sempre sarà. Anche nella storia di Israele maturò rozzamente la separazione tra i figli eletti di Isacco e i discendenti del bastardo Ismaele, cani impuri: «Il bastardo e nessuno dei suoi discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nell’assemblea del Signore. L’Ammonita e il Moabita non entreranno nell’assemblea del Signore. Non cercherai mai la loro pace né la loro prosperità, finché tu viva» (Deut 23,1-3). La prospettiva universalistica, tuttavia, corre come un fiume carsico, nella Rivelazione dei profeti e non solo; sappiamo che Rut era Moabita e il racconto del libro omonimo contrasta proprio le norme sopra citate; Matteo inserirà la straniera “proibita” addirittura nella linea genealogica di Gesù (Mt 1,5).
Qualche testo profetico aveva già tentato, ogni tanto, di annunciare che anche Sodoma, Gomorra e Ninive si possono convertire (cf. Giona 3,10: «Dio vide che si erano convertiti dalla loro condotta malvagia e si impietosì») e che Gerusalemme e il Tempio saranno aperti a tutti (“Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore resterà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli e affluiranno ad esso i popoli” Michea 4,1; cf. Isaia 2,2-3; “la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli” Isaia 56) e che anche gli stranieri saranno benedetti da Dio: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore dell’universo: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità”» (Isaia 19, 23-25).
Il lungo periodo storico, che va dal V secolo a.C. ai tempi di Gesù, vede dunque convivere due anime religiose che oscillano fra universalismo ed esclusivismo, fra identità ed inclusione, purezza e meticciato, prudenza istituzionale e imprudenza profetica. Gesù vive dentro questa convivenza, con una progressiva simpatia per i pagani e i loro territori («uscito di là [cioè dagli scribi e farisei dei vv. 1-9], Gesù si ritirò nel territorio di Tiro e di Sidòne», l’odierno Libano). I tre vangeli sinottici, nei loro racconti e catechesi, mantengono sotto traccia il sapore di questa tensione presente nelle loro comunità. Secondo loro Gesù a volte dice “Andate![1]”, a volte dice “Non andate![2]”.
Paolo di Tarso (Turchia) ebreo della diaspora greco-ellenistica, circonciso, fariseo fondamentalista, insieme con pochi altri si dedicherà ai pagani non circoncisi, non esiterà ad autodefinirsi “apostolo delle genti” (Rom. 11,13), infrangerà tradizioni religiose antiche senza consultare per ben tre anni il Vaticano di allora, creando non poco scompiglio nella Chiesa di Gerusalemme, chiusa e timida. Matteo scrive questo testo nell’anno 80 circa quando già era scoppiata nella chiesa la crisi provocata dalla “rottura” di Paolo nei territori non giudei.
Una donna straniera converte Gesù?
Occorre cercare di capire l’atteggiamento di Gesù nel Vangelo di oggi. Il suo, inizialmente, è un atteggiamento duro. Non facilmente comprensibile. Se noi chiedessimo un favore a qualcuno e questi non ci rispondesse o ci desse del “cane” penso ci offenderemmo. Se chiamassimo il 118 e chiedessimo con urgenza un’ambulanza, come reagiremmo se il centralinista ci rispondessero come ha fatto Gesù?

       * Ed ecco una donna Cananèa, di quei luoghi, venne fuori e si mise a gridarePrima della preghiera c’è un grido. Poi una preghiera (“Signore, figlio di Davide!”) dal sapore stranamente ebraico sulla bocca di una Cananea. Questa donna sa di avere un problema e ha il coraggio di chiamare il problema per nome: «Mia figlia è malamente indemoniata [kakòs daimonizetai]». Il primo requisito per essere guariti è riconoscere di essere malati.
       *Non le rivolse neppure la parola. E può accadere che Dio non risponda. Resti in silenzio. E’ l’esperienza più difficile per un credente. Anche per noi che facciamo esperienza del Risorto come un Dio assente, lontano, estraneo, straniero.
      * “Mandala via [apòluson auten], vedi come ci grida dietro!”. Il verbo greco “apoluo” l’abbiamo trovato domenica scorsa quando i discepoli avevano chiesto a Gesù: “Congeda la folla”, quasi per dire allo sposo: “Divorzia da questa tua sposa infedele!”. I discepoli non dicono “Salvala, non vedi come sta soffrendo” ma “Cacciala via!”. Probabilmente era insistente. Ma pare che Gesù non si scocci. “Bussate e vi sarà aperto” (Luca 11,9); “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?” (Luca 18,1-8).
      * Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele… La risposta di Gesù è sconfortante. E’ questo il momento più difficile della preghiera cristiana: quando ci sembra che Gesù ascolti gli altri ma non noi. Quando ci pare che Dio ci consideri di serie B, rispetto ad altri, che ci sembrano “eletti” o più meritevoli di noi. Dio tace, e pure i fratelli diventano un ostacolo alla nostra preghiera. Ma questa donna grida ancora, senza paura di essere respinta da Gesù e dalla sua Chiesa.
       * Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui. E’ un gesto liturgico, come tutto il racconto è una grande liturgia di gesti, parole, ascolti, grida, preghiere. Come le nostre liturgie domenicali. Con una proclamazione di fede pasquale: “Signore!”. Ripetuta tre volte.
       *ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Benchè le vie di Dio per noi restino un mistero, anche una briciola (e non il pane intero che avevamo chiesto noi) ci basta. Anche Maria, sua madre, a Cana, gli aveva chiesto qualcosa. E anche a lei, Gesù aveva risposto secco: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”. Anche lì la Chiesa aveva ottenuto un’altra “briciola”, capace di rendere felici due anonimi (e simbolici?) sposi.
        * Davvero grande è la tua fede, ti sia fatto come desideri!  Scrive Ermes Ronchi: “La straniera delle briciole, uno dei personaggi più simpatici del Vangelo, mette in scena lo strumento più potente per cambiare la vita: non idee e nozioni, ma l’incontro. Gesù era uomo di incontri, in ogni incontro realizzava una reciproca fecondazione, accendeva il cuore dell’altro e lui stesso e ne usciva trasformato, come qui. Una donna di un altro paese e di un’altra religione, in un certo senso, “converte” Gesù, gli fa cambiare mentalità, lo fa sconfinare da Israele. No, dice a Gesù, tu non sei venuto per quelli di Israele, tu sei Pastore di tutto il dolore del mondo. Donna, grande è la tua fede! Lei che non va al tempio, che prega un altro Dio, per Gesù è donna di grande fede. Non ha la fede dei teologi, ma quella delle madri che soffrono».
Scrive don Marco Pozza[3]: «Non ci sono cani e figli, sgualdrine e sante, pii e miscredenti. L’unica divisione, anche l’unica differenza, è tra chi lo cerca e chi pensa d’averlo in tasca. Capita che Dio, un giorno, lo trovino prima i lontani, perché i vicini manco si sono accorti di trattenerlo in mano nell’eucaristia. Capita: e, quando capita, Dio va in estasi».


[1] Mt 22,9 andate ora agli incroci delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
[2] Mt 10,5 Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani.
[3] Giovane presbitero vicentino, giornalista scrittore, confidenziale intervistatore di Papa Francesco in numerose rubriche televisive su TV2000, cappellano presso il carcere di massima sicurezza di Padova, laureato alla Pontificia università Gregoriana.




9 agosto 2020. 19a domenica
STORIE. CON DIO DENTRO

Per poterlo riconoscere in ogni avvenimento dell’esistenza occorre una fede “non piccola” (“gli disse: «Uomo di piccola fede, perché hai dubitato?»”), occorre ritrovare dentro di noi quei segni vivi della presenza di Dio che ci portano a coniugare il vangelo con l’esperienza concreta della vita, i problemi dell’uomo con la profezia della fede, l’azione di Dio con l’impegno umano. Se la fede permeasse la mia vita mi sarebbe possibile affrontare serenamente ogni difficoltà. Credere non comporta tirare “i remi in barca”, come spesso mi sento tentato di fare nel tempo della prova, né affidare la propria sopravvivenza alle logiche vincenti e talvolta fondamentaliste, ma abbandonare al Signore quella “povera barca” agitata che è la nostra persona, la nostra Chiesa.

 Preghiamo. Onnipotente Signore, che domini tutto il creato, rafforza la nostra fede e fa’ che ti riconosciamo presente in ogni avvenimento della vita e della storia, per affrontare serenamente ogni prova e camminare con Cristo verso la tua pace. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen. 
Dal primo libro dei Re 19,9.11-13
In quei giorni, Elia, [essendo giunto al monte di Dio, l’Oreb], entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.

Sal 84. Mostraci, Signore, la tua misericordia.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli.

Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. 
Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto; 
giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 9,1-5
Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

Dal Vangelo secondo Matteo 14,22-33
[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!». 

 STORIE. CON DIO DENTRO. Don Augusto Fontana
Le tre letture bibliche ci raccontano storie di vita. Con Dio dentro.
Nella prima storia di vita c’è un profeta, Elia, inizialmente un po’ talebano e un po’ Grande Inquisitore. Aveva lanciato una sfida ad un gruppo religioso del dio Baal; una sfida che assomiglia molto all’attuale “scontro di civiltà” o all’Inquisizione di cattolica memoria. Elia vince la magica sfida e sgozza di sua mano 450 seguaci di Baal; le acque del fiume Kison si arrossano di sangue, come un trofeo al Dio perverso, caricatura partorita dalla sua mente (1 Re 18,40)[1]. Fuggendo dalla regina Gezabele che, per vendetta, ne vuole la morte, ripete l’itinerario di Israele e giunge sull’Oreb. Nella solitudine della montagna, il profeta cerca il suo Dio nel vento impetuoso, nel fuoco e nel terremoto, cioè secondo schemi personali e tradizionali. Ma Dio è sorprendente e appare nel sussurro di un “silenzio sottile”. Elia, velandosi in volto, conosce che il Signore è presenza dolce e paziente, fino a rischiare di essere cercato nelle profondità del silenzio, giù negli abissi del mare dove il vento impetuoso non riesce ad inquietare una sola molecola d’acqua, là dove la Pentecoste non fa sfracelli. «Parlare sottovoce di Dio non significa, come purtroppo taluni dogmaticamente tentano di far credere, rimpicciolire Dio, ma se mai, farlo più grande. Sottovoce, perché del mistero di Dio possiamo solo balbettare qualche cosa. Con pudore. Il mistero è al di là, molto al di là della po­vertà delle nostre parole. Al di là della soglia. Sottovoce, ancora, perché dell’amore sbandierato ai quattro venti è giusto, legittimo, dubitare, sospettare. Il «sottovoce» ha invece il passo silenzioso dei racconti che nascono dal cuore» (Don Angelo Casati)[2].
Un po’ diversa è la seconda storia di vita, quella di Paolo che ha coscienza di essere rimasto giudeo e se ne vanta e sente con passione il problema dei suoi consanguinei e correligionari che non hanno accolto Gesù come Messia e Salvatore. Il grande dolore che ha nel cuore lo porta a dichiararsi disponibile ad essere separato (“anatema”) da Cristo pur di salvare Israele. Un’esagerazione passionale, quasi una bestemmia. Il 1° luglio 1949 il Sant’Uffizio pubblicava un Decreto, sottoscritto da Pio XII, con cui venivano scomunicati militanti e simpatizzanti del social-comunismo, sottoproletariato compreso. Il movimento dei Pretioperai passa dalla parte degli scomunicati, per amore, credetemi, solo per amore. Quante volte abbiamo chiesto che venisse abrogata la scomunica: la scomunica resta. E molti di noi hanno ripetuto con Paolo: «Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli», miei consanguinei nella fatica e nelle speranze, negli errori e nel dimenticato contributo alle tutele e alla liberazione nel lavoro. In contemporanea sono proliferati atei devoti, liberal-chic, portatori sani della peggiore infezione ideologica di materialismo pragmatico e individualismo. Mai scomunicati. Noi, noi, siamo rimasti scomunicati. Io che non ho mai imparato a nuotare e galleggiare, ho preferito “imbarcarmi” con gli scomunicati e rischiare con loro la sindrome del mal di mare, come narra la terza storia di vita della liturgia odierna. Storia di discepoli di allora e di Pietro, ma di fatto storia dei nostri sghembi itinerari pasquali e battesimali. Noi cristiani non camminiamo fuori dal tempo, lontani dalla storia, ma “con i piedi per terra”o nella “società liquida”, come ci definisce il sociologo Zygmunt Bauman[3]. La storia quotidiana, nella sua concretezza scivolosa e liquida, è il luogo privilegiato nel quale il Signore manifesta i segni del suo amore per ciascuno di noi. Per il credente è importante, allora, ascoltare la Parola (“Gesù disse…”) lasciandosi interpellare dal “mare agitato” della storia, della propria vita, della Chiesa. E’ dentro i sussulti di questa bufera che si incontra Dio come una presenza lieve, una mano tesa (“Gesù tese la mano, lo afferrò”), capace di farsi accogliere e di cambiare il corso degli eventi. Per poterlo riconoscere in ogni avvenimento dell’esistenza occorre una fede “non piccola” (“gli disse: «Uomo di piccola fede, perché hai dubitato?»”), occorre ritrovare dentro di noi quei segni vivi della presenza di Dio che ci portano a coniugare il vangelo con l’esperienza concreta della vita, i problemi dell’uomo con la profezia della fede, l’azione di Dio con l’impegno umano. Se la fede permeasse la mia vita mi sarebbe possibile affrontare serenamente ogni difficoltà. Credere non comporta tirare “i remi in barca”, come spesso mi sento tentato di fare nel tempo della prova, né affidare la propria sopravvivenza alle logiche vincenti e talvolta fondamentaliste, ma abbandonare al Signore quella “povera barca” agitata che è la nostra persona, la nostra Chiesa.

Un racconto pasquale, biblico, esistenziale.
Nel racconto evangelico (di un fatto forse mai veramente accaduto nei particolari così come emergono) si riscontrano 2 strati: uno che fa riferimento ai capitoli 14 e 15 di Esodo e uno che fa chiaro riferimento agli avvenimenti pasquali in quanto il racconto è modellato sul cliché pasquale.

1.Sul finire della notte”: è quel crinale tra le tenebre che non se ne sono ancora andate e l’alba che non ha ancora partorito luce; è la “quarta veglia della notte” un richiamo temporale alla “veglia del mattino” quando il Signore mise in rotta i carri degli egiziani. Anche lo sfondo del Golgota fu un crinale tra oscurità non morta e luce non nata: «Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra» (Mc 15, 33). Anche per me è duro vivere crocifisso su quell’albeggiare che ritarda.
2. «Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva». Gesù inaugura il “tempo della chiesa”, non ci trattiene con sé e ci manda (“costrinse i discepoli”) sull’altra sponda, quella del nostro impegno quotidiano, di vita matrimoniale, lavoro, letto d’ospedale, impegno sociale. Sulla sponda altra delle nostre liturgie. Ci costringe a raggiungere la nostra quotidianità non via-terra, ma via-mare, immersi nelle acque del nostro Battesimo.
3.«salì sul monte, in disparte, a pregare… egli se ne stava lassù, da solo». Oggi il suo posto da Risorto è “sul monte”, accanto al Padre, primogenito (“da solo”) dei risorti. E per noi si allungano le ombre della “sera” che presto diventa “notte” e la barca è “agitata da onde e venti contrari”.
4.«egli andò verso di loro camminando sul mare». Il salmista prega così (salmo 76,20): «Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili». Io preferirei la sabbia dove potrei riconoscere le orme lasciate dai suoi passi; Lui cammina su percorsi fluidi dove le sue orme svaniscono. Eppure da lì «il Signore ci fece uscire con mano potente e con braccio teso» (Deut. 26,8): «Gesù gli tese la mano». E il braccio.
5. «i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura». Tutta la scena offertaci da Matteo, ma soprattutto questo particolare narrativo, ricalca le apparizioni pasquali. Maria di Magdala lo vede come un giardiniere, i discepoli di Emmaus come uno straniero e tutti i discepoli, benchè stregati dalla narrazione dei due, ancora non vedono che fantasmi: «Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi» (Lc 24, 36-40). Anche a Pietro Gesù mostra/tende la sua mano. Anche per noi, di domenica in domenica, è una gara dura rispondere alla domanda che anche gli Israeliti si facevano nel deserto: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?» (Esodo 17,7), ci sei o ci fai, Signore?

6. «Coraggio, IO-SONO, non abbiate paura». «IO-SONO» è la rivelazione del Nome Santo di Dio, tra le spine del cespuglio di Mosè. Dunque, la catechesi di Gesù prosegue in quella liturgia sul lago, nelle liturgie battesimali della chiesa di Matteo e nelle nostre liturgie domenicali. Pietro è dubbioso circa la reale presenza dì Gesù (“se sei davvero tu “): lo costringe a scoprirsi. Questo atteggiamento non manca di una sua grandezza, la grandezza impulsiva di Pietro, che si manifesta in maniera molto simile nel gesto descritto in Gv 21,7: «Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto, poiché era spogliato, e si gettò in mare». Però è anche un agire intempestivo, che in qualche modo vuole “imitare” Gesù. E’ vero che Gesù accondiscende alla richiesta di Pietro, dicendogli: “vieni a me!” Ma quell’andare a Gesù deve essere una sequela, non un’imitazione. Finché Pietro/noi chiesa presumiamo di poter camminare sulle acque come Gesù, e quindi di essere capaci di “imitarlo, si va incontro al fallimento: basta un colpo di vento e si va a fondo. Quand’è, invece, che comincia a “seguire” Gesù?       Quando gli grida: “Signore, salvami“! Quando abbiamo la pretesa di essere o fare come lui, dimostriamo di non avere bisogno del suo aiuto, della sua guida, del suo soccorso, e non possiamo che andare incontro al naufragio di tutte le nostre false sicurezze[4].

 


[1] Per un approfondimento cf. in home page, articolo La sindrome del santo di Lidia Maggi (in ROCCA 16/99 Pag. 49)
[2] Citato da Aldo Antonelli, Mistero, in Rocca n°15/1 agosto 2020 pag.45.
[3] Z.Bauman, Modernità liquida, Laterza.
[4] Alberto Mello Evangelo secondo Matteo Ed. Qiqajon pag. 273-275




2 agosto 2020. 18a domenica
CINQUE PER CINQUEMILA

Stare alla stessa mensa, mangiare e parlarsi e ascoltarsi, è un’esperienza umana di partecipazione che fa venire in mente le nostre profonde aspirazioni alla convivialità (ammesso e non concesso che ne siamo ancora dotati). Sempre più raramente oggi, ma grazie a Dio ancora talvolta, il pasto amicale o familiare assume alcune caratteristiche di un rito. Il pasto in comune costituiva nell’Antico Testamento la parte finale del rituale di un patto di solidarietà con Dio o di pace tra uomini. In parte anche oggi è rimasto qualche residuo nei riti di matrimonio, battesimi e cresime, per esempio, e in qualche altra occasione, fatto salvo il sospetto che si segua anche una moda, uno status symbol o un irrinunciabile consumismo.

Preghiamo. O Dio, che nella compassione del tuo Figlio verso i poveri e i sofferenti manifesti la tua bontà paterna, fa’ che il pane moltiplicato dalla tua provvidenza sia spezzato nella carità, e la comunione ai tuoi santi misteri ci apra al dialogo e al servizio verso tutti gli uomini. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro del profeta Isaìa 55,1-3
Così dice il Signore: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide».

Sal 144 Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente.
Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.

Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente.
Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,35.37-39
Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.

Dal Vangelo secondo Matteo 14,13-21
In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, da solo. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Uscito, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e curò i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui». E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

CINQUE PER CINQUEMILA. Don Augusto Fontana
Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? ….Spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà.
Il teologo don Francesco Cosentino scriveva[1]: «La durissima prova a cui siamo sottoposti in questo momento storico attiva le nostre forze interiori, che danno vita a quella resistenza e resilienza capace di accompagnarci psicologicamente e spiritualmente. Per alcuni il digiuno eucaristico che ci è stato imposto è insopportabile. Naturalmente, non si può negare che sia per tutti noi una sofferenza. Tuttavia, sta emergendo nel nostro cattolicesimo italiano qualcosa che ha dell’eccessivo: l’eccessiva sacramentalizzazione della vita della fede, più specificatamente l’eccessivo sbilanciamento dell’azione pastorale che riduce l’essere Chiesa a “una fabbrica di Messe” (celebrate per ogni occasione, a ogni ora, più volte al giorno) e la spiritualità cristiana al semplice – talvolta abitudinario e convenzionale – “andare a Messa”».
Stare alla stessa mensa, mangiare e parlarsi e ascoltarsi, è un’esperienza umana di partecipazione che fa venire in mente le nostre profonde aspirazioni alla convivialità (ammesso e non concesso che ne siamo ancora dotati). Sempre più raramente oggi, ma grazie a Dio ancora talvolta, il pasto amicale o familiare assume alcune caratteristiche di un rito. Il pasto in comune costituiva nell’Antico Testamento la parte finale del rituale di un patto di solidarietà con Dio o di pace tra uomini. In parte anche oggi è rimasto qualche residuo nei riti di matrimonio, battesimi e cresime, per esempio, e in qualche altra occasione, fatto salvo il sospetto che si segua anche una moda, uno status symbol o un irrinunciabile consumismo.
Contestualmente l’Eucaristia domenicale, a distanza di 55 anni dal Concilio Vaticano II°, non decolla verso le altezze conviviali e messianiche, assegnatele dal Concilio e viaggia ancora raso terra, nella intermittenza di una disaffezione crescente o nel più volgare individualismo devozionale. «Ecclesia de Eucharistia, La Chiesa nasce dall’Eucaristia», è stato proclamato nell’Enciclica di Giovanni Paolo II° nel 2003: sfido chiunque a dimostrare che quando usciamo dall’Eucaristia siamo “con-passionevoli” come Gesù, condividenti (“date voi stessi da mangiare”) come i discepoli su quella riva di lago, più uniti tra noi in Cristo (“Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo” 1 Cor 10,17), più messianici come ci chiede il Concilio Vaticano II°: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo[2]» e come chiediamo nella preghiera di oggi«…fa’ che il pane moltiplicato dalla tua provvidenza sia spezzato nella carità, e la comunione ai tuoi santi misteri ci apra al dialogo e al servizio verso tutti gli uomini».
Il testo di Isaia appartiene alla sezione detta “della consolazione” perché fu scritto in tempi ad una comunità di profughi e deportati, frustrati e delusi per l’esperienza dell’esilio a Babilonia. Vengono promessi beni essenziali (pane, vino, acqua, latte) e molto di più (oggi diremmo: anche il companatico), ma soprattutto viene promesso che potranno partecipare alla festa anche quelli che non possono pagarsi la cena. L’immagine e la promessa di questo banchetto sono diventate simboli per il tempo del Messia.
Questa cornice biblica, arricchita dal salmo 144, si adatta bene al brano evangelico che ricorda l’episodio della manna nel deserto (Dt 8,3: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”) e dei miracoli del profeta Eliseo (2 Re 4, 42-44: “Da Baal-Salisa venne un individuo, che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani d’orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Quegli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne avanzerà anche». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò”).
Mensa e Messa all’aperto.
Fino alla uccisione di Giovanni Battezzatore, Gesù aveva fatto di tutto meno che dar da mangiare alla gente. Ora lo fa, come Davide che distribuì una focaccia con companatico a uomini e donne (2 Samuele 6,19) perché è compito del re-messia assicurare il pane al popolo. La cosiddetta “moltiplicazione” dei pani deve essere stato un evento indimenticabile e pregnante di significati. Miracolo sulla natura o miracolo di donazione?[3] . Se non sappiamo dire cosa sia veramente avvenuto possiamo però affermare che non è senza ragione che il fatto sia narrato da tutti e 4 i vangeli e in Matteo e Marco addirittura due volte.

Gesù, dopo uno dei suoi frequenti ritiri o fughe in solitudine, si lascia ancora vincere dalle viscere materne e cura e nutre; Luca (9,11) e Marco (6,34) riferiscono che anche parla e insegna.
Uscito… Il verbo exerchomai è bene tradurlo con uscire da. Gesù “esce” non dalla barca ma dal suo ritiro alla “presenza di Dio”; come il sommo sacerdote ebreo usciva dal Santo dei Santi per presentarsi al popolo. La chiesa di oggi non stia solo accucciata alla presenza del Santissimo, ma “esca” e vada incontro alla gente. Quella gente a cui questo pane è destinato (e non ai discepoli) e che corre verso un luogo “ritirato” (éremos) lontano dalle città (lo seguirono a piedi dalle città). Né Gesù né i discepoli intendono saltare il pasto della sera (è ormai tardi); il contesto dunque non è particolarmente ascetico o spirituale[4]. Prima che di pane eucaristico o eterno qui sembra trattarsi di pane quotidiano. Ma dentro a questo benedire, spezzare e distribuire Matteo nasconde il memoriale della Cena pasquale. Giovanni accentuerà il significato profondo e spirituale di quell’evento nel suo cap. 6: «Rispose loro Gesù: “… il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”. Gesù rispose: “Io sono il pane della vita”».
I discepoli, premurosi, imbarazzati e impotenti, chiedono a Gesù di “congedare” le folle. Il verbo greco apoluo (congedare) viene usato altrove[5] per indicare il “divorzio” dalla moglie; dunque potremmo leggere questo evento come un banchetto di nozze dove però gli amici dello sposo gli chiedono di “cacciar via, divorziare” dalla sposa infedele. Ma Gesù, per mia fortuna, non la pensa come i discepoli, neppure nella Cena pasquale quando si dona anche a Giuda: «E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota» (Giov. 13,26). L’alleanza sponsale (sangue dell’alleanza) è per molti, anzi per tutti: «Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti (pantes), perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti (pollon), in remissione dei peccati» (Mt. 26,27-28).
Pesci e pane. Dal Battesimo all’Eucaristia.
Al pane di Gesù ci abbiamo fatto l’occhio. Qui i pani sono 5. Nella seconda moltiplicazione (Mt 15,34) saranno 7 più alcuni pesciolini. Pesciolini che ci imbarazzano anche perché poi scompaiono e non fanno parte esplicita della distribuzione. Eppure in Giovanni 21, 9-13 il Gesù risorto «si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e così pure il pesce». S. Agostino spiega che il termine greco Ichthýs (pesce) è l’acronimo di Iesous Kreistòs Theou Yiòs Soter cioè Gesù Cristo di Dio Figlio Salvatore: «pesce, termine con cui simbolicamente si raffigura il Cristo perché ebbe il potere di rimanere vivo, cioè senza peccato, nell’abisso della nostra mortalità, simile al profondo delle acque»[6].Lo scrittore latino Tertulliano afferma che i cristiani “nascono alla vita eterna con il battesimo“: è per questo motivo che i primi padri della Chiesa chiamavano i credenti con i termine latino pisciculi (pesciolini) e lo stesso fonte battesimale era detto piscina (dal latino, piscis, pesce). Dunque si può rischiare di sospettare che nella simbologia dei pesci e dei pani ci sia un’allusione a completare l’immersione battesimale (pesci) con la partecipazione alla mensa eucaristica (pani).

Date voi stessi da mangiare.
vadano a comprarsi da mangiaredate loro voi stessi da mangiare. P. Ermes Ronchi commenta: «Due atteggiamenti opposti, riassunti da due verbi: comprare o dare. Comprare, dicono gli apostoli. Ed è la nostra mentalità: se vuoi qualcosa, lo devi pagare. In questo sistema chiuso, prigioniero della necessità, Gesù introduce il suo verbo: date voi stessi da mangiare. Non già: vendete, scambiate, prestate; ma semplicemente, radicalmente: date. E sul principio della necessità comincia a spuntare, a sovrapporsi un altro principio: la gratuità, l’amore senza calcoli, dare senza aspettarsi niente. Ci sono molti miracoli in questo racconto, e il primo è che nulla, neppure la fame, il deserto o la notte, separa quei cinquemila dal fascino di Cristo; poi viene quello dei cinque pani che passano dalle mani di uno alle mani di tutti. Il miracolo della moltiplicazione comincia quando il pane da mio diventa nostro, nostro pane quotidiano. Il pane per me stesso è una questione materiale, il pane per il mio vicino è una questione spirituale».
Scriveva Mons. Tonino Bello: «Le nostre Chiese, purtroppo, celebrano liturgie splendide, anche vere, ma – quando si tratta di rimboccarsi le maniche – c’è sempre un asciugatoio che manca, una brocca che è vuota d’acqua, un catino che non si trova… Quando sono stato nominato vescovo, mi hanno messo l’anello al dito, mi hanno dato il pastorale tra le mani, la Bibbia: sono i simboli del vescovo. Sarebbe bello che nel cerimoniale nuovo si donassero al vescovo una brocca, un catino e un asciugatoio. Per lavare i piedi al mondo senza chiedere come contropartita che creda in Dio. Tu, Chiesa, lava i piedi al mondo e poi lascia fare: lo Spirito di Dio condurrà i viandanti dove vuole lui».
————————————————————————————–
[1] SETTIMANA NEWS 17 marzo 2020
[2] Costituzione pastorale Gaudium et spes, 1

[3] Matteo. Introduzione, traduzione e commento. A cura di Giulio Michelini, S.Paolo 2013,nota a pag. 248.
[4] Pierre Bonnard, L’évangile selon saint Matthieu, Delachaux & Niestlé,1970, pag. 219
[5] Per esempio Matteo 19,3
[6] De Civitate Dei (XVIII,23)




26 luglio 2020. 17a domenica
UNO

La maestra delle elementari, davanti alla mia grave difficoltà di capire il significato dello zero, in quanto numero, mi faceva l’esempio di tanti zeri che messi così non avevano valore, ma con un numero davanti acquistavano e riconsegnavano valore. «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (Lettera di Paolo ai Filippesi 3,7-8).

Preghiamo. O Padre, fonte di sapienza, che ci hai rivelato in Cristo il tesoro nascosto e la perla preziosa, concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti ad ogni rinuncia per l’acquisto del tuo dono. Per Gesù Cristo nostro Signore…
Dal primo libro dei Re 3,5.7-12
In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».

Salmo 118 Quanto amo la tua legge, Signore!
La mia parte è il Signore: ho deciso di osservare le tue parole.

Bene per me è la legge della tua bocca, più di mille pezzi d’oro e d’argento.
Il tuo amore sia la mia consolazione, secondo la promessa fatta al tuo servo.
Venga a me la tua misericordia e io avrò vita, perché la tua legge è la mia delizia.
Perciò amo i tuoi comandi, più dell’oro, dell’oro più fino.
Per questo io considero retti tutti i tuoi precetti e odio ogni falso sentiero.
Meravigliosi sono i tuoi insegnamenti: per questo li custodisco.
La rivelazione delle tue parole illumina, dona intelligenza ai semplici.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,28-30
Fratelli, noi siamo sicuri di questo: Dio fa tendere ogni cosa al bene di quelli che lo amano, perché li ha chiamati in base al suo progetto di salvezza. Da sempre li ha conosciuti e amati, e da sempre li ha destinati a essere simili al Figlio suo, così che il Figlio sia il primogenito fra molti fratelli. Ora, Dio che da sempre aveva preso per loro questa decisione, li ha anche chiamati, li ha accolti come suoi, e li ha fatti partecipare alla sua gloria.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,44-52
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». 

UNO. Don Augusto Fontana

La maestra delle elementari, davanti alla mia grave difficoltà di capire il significato dello zero, in quanto numero, mi faceva l’esempio di tanti zeri che messi così non avevano valore, ma con un numero davanti acquistavano e riconsegnavano valore. «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (Lettera di Paolo ai Filippesi 3,7-8).
Nella vita mi perdo dietro a mille cose, non tutte importanti e, comunque, non tutte importanti allo stesso modo. Anche l’esperienza cristiana è fatta di un insieme articolato di iniziative, azioni, obiettivi, non tutti importanti allo stesso modo. Già all’inizio del suo Vangelo, Matteo (6,33) aveva raccolto una serie di raccomandazioni di Gesù che terminano con l’invito: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. L’ebreo – e noi con lui – è invitato a recitare mattina e sera la preghiera dello SHEMA‘ di Deut. 6,4-9[1]Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte».
La Mishnà, Berakhot [2](IX, 5) commenta così: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore (be-kol levavkha) cioè con entrambi i tuoi impulsi quello buono e quello cattivo; con tutta la tua anima (u-be-kol nafshekha) e cioè perfino se egli ti prendesse l’anima; e con tutta la tua forza (u-be-kol me’odekha) e cioè con tutti i tuoi beni» . Sappiamo che anche a Gesù è stato presentato questo problema quando un giovane si avvicina e gli chiede qual è il comandamento più importante della Legge di Mosè (Mt19,16ss). Un’altra volta Gesù si è trovato nelle condizioni di indicare una graduatoria di obiettivi, quando si trova davanti due donne, Marta e Maria, che esprimono due atteggiamenti interiori a ciascuno di noi o, anche, due categorie di discepoli (Lc. 10, 42). E ci sono anche parole profetiche di Gesù che fanno tremare le gambe ai santi (Mt. 18,8)[3]. Gesù indica priorità insospettate e scandalose per i benpensanti di ieri e di oggi; per certe sue affermazioni si è guadagnato una condanna a morte (Mt.23,23ss)[4]. Si tratta dunque di un problema di non poco conto sia per la nostra celebrazione di oggi che per la vita quotidiana di discepoli. Don Nando Bonati ha suggerito una suggestiva griglia di lettura: « Questo mercante va in cerca di una bellezza unica che ha stregato il suo cuore. Quanta nostalgia in questo mercante! Quante perle ha visto nel suo peregrinare, ma quella ancora no! Da quando ho riletto di questo mercante, mi stanno frullando nella testa i due personaggi misteriosi del Cantico dei Cantici: Ho cercato e non ho trovato…ho cercato e non ho trovato… E finalmente: ho cercato e ho trovato! E lui, il ragazzo, che pensando alla sua amata dice: Sessanta sono le regine, ottanta le altre spose, fanciulle senza numero…ma tu sei l’ UNICA! Dunque l’ingresso al Regno è un ingresso sponsale e, dunque, debbo entrarci con la mia perla, con la mia amata? Dunque l’ingresso al Regno non può essere barattato con perle di poco conto che brillano, sì, ma non hanno il chiarore di quella? Dunque tutte le perle che brillano debbono formare il contorno, la cornice, a quella?».
Ancora oggi il capitolo 13 dell’evangelo di Matteo ci aiuta a celebrare. E’ il capitolo delle Parabole del regno di Dio; parabole che hanno due strati:

  • uno più profondo, cristologico (parlano prima di tutto di Gesù),
  • uno più affiorante, quello ecclesiologico (indicano alla Chiesa come comportarsi di conseguenza).

Parabole che hanno caratteristiche ed elementi comuni, pur nella diversità delle immagini.

  1. Livello cristologico. Credo che si possa riconoscere chiaramente che Gesù era uno ben orientato e unificato all’interno di una sola passione: il Padre e il suo Regno. Davanti ai suoi genitori che lo rimproverano perché si era allontanato per tre giorni Gesù rivela subito il suo orizzonte (Lc.2,49): «Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero le sue parole». E questa passione unificante viene messa a prova nelle tentazioni nel deserto (Mt.4,1) e durante tutta la vita la vive al punto che i suoi lo vanno a cercare per portarlo via perché, dicevano, “E’ fuori di sé” (Mc.3,21). Le parabole dell’uomo che vende tutto per acquistare il campo e il tesoro, o di quel commerciante che si libera dei soldi pur di avere la perla preziosissima, parlano prima di tutto di Gesù: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv. 13,1). Isaia 62,3 rivela che il popolo dei salvati saranno un prezioso gioiello nelle mani di Dio:« Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio». Io, noi, siamo una perla preziosa per la quale Gesù, contro il parere del buon senso, ha dato la sua esistenza pur di farci suoi.
  2. Livello ecclesiologico. Salomone, nella prima lettura, non chiede né ricchezza, né salute, né vittoria; chiede solo Sapienza e saggezza, un cuore “ascoltante”, docile. Nei nostri sogni e nelle nostre legittime richieste occorre focalizzare e puntualizzare le nostre passioni: «Concedimi di desiderare ciò che chiedi e di godere di quanto concedi». Concedimi un cuore, un centro decisionale attento, disponibile. Il Signore: «Ecco io faccio come tu hai detto. Ti concedo un cuore saggio e intelligente». Il “Padre Nostro” raccoglie i nostri “sogni”.

Scrive P. Ermes Ronchi: «Tesoro: parola magica, così poco usata nella religione, parola d’innamorati, di favole, di storie grandi. E di Vangelo. Che capovolge la vita, contiene tutte le speranze, rilancia tutti i desideri. Un tesoro ci attende: a dire che l’esito della storia sarà comunque felice; che nell’uomo è posto un eccesso di desiderio che nessuna cosa concreta o quotidiana potrà esaurire. Nascosto in un campo: che è il mondo, che è il cuore; e la vita altro non è che un pellegrinaggio verso il luogo del cuore (Olivier Clèment), là dove maturano tesori. Il protagonista vero della parabola non è il contadino, ma il tesoro: Cristo, e la pienezza di umanità che Lui è venuto a portare. Dal tesoro deriva una seconda parola: la gioia, radice della vita, che muove, mette fretta, fa decidere. Noi non avanziamo nella vita a colpi di volontà, ma solo per scoperta di tesori (là dov’è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore); per passione di bellezza (mercanti che cercano le perle più belle); per riserve di gioia che Qualcuno, uomo o Dio, amore o tesoro, seme o spiga, colma di nuovo[5]».

Andiamo a vedere come alcuni Padri della Chiesa ci aiutano a celebrare e vivere queste parabole.

  1. Gerolamo[6]: «Questo tesoro, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (cf. Col 2,2s), è il Verbo di Dio, che si rivela nascosto nel corpo di Cristo o le Sante Scritture. ».
  2. Giovanni Crisostomo[7]: «Le parabole del tesoro e della perla si assomigliano: sia l`una che l`altra fanno intendere che dobbiamo preferire e stimare il Vangelo al di sopra di tutto. Con queste due ultime parabole noi apprendiamo non solo che è necessario spogliarci di tutti gli altri beni per abbracciare il Vangelo, ma che dobbiamo fare questo atto con gioia. Chi rinunzia a quanto possiede, deve essere persuaso che questo è un affare, non una perdita. E come chi possiede la perla sa di essere ricco, ma spesso la sua ricchezza sfugge agli occhi degli altri, perché egli la tiene nella mano, la stessa cosa accade del Vangelo: coloro che lo posseggono sanno di essere ricchi, mentre chi non crede, non conoscendo questo tesoro, ignora anche la nostra ricchezza».
  3. Agostino[8]:« Solo l`amore distingue i figli di Dio dai figli del diavolo. Se tutti si segnassero con la croce, se rispondessero amen e cantassero tutti l`Alleluja; se tutti ricevessero il Battesimo ed entrassero nelle chiese, se facessero costruire i muri delle basiliche, resta il fatto che soltanto la carità fa distinguere i figli di Dio dai figli del diavolo. Quelli che hanno la carità sono nati da Dio, quelli che non l`hanno non sono nati da Dio. E` questo il grande criterio di discernimento: “Chi infatti ama il prossimo” -dice l`Apostolo – “ha adempiuto la Legge; e, il compimento della Legge è la carità” (Rm 13,8.10). La carità è, a mio parere, la pietra preziosa, scoperta e comperata da quel mercante del Vangelo, il quale per far questo, vendette tutto ciò che aveva».
    ____________________________________________________

[1] cf. Deut.11,13-21; Num.15,37-41
[2] Mishnà significa “ripetizione”; è la più antica opera scritta della letteratura rabbinica risalente al sec. II d.C. E’ una raccolta di tradizioni e norme legislative civili e religiose, redatto perché non andasse dispersa la tradizione orale dopo la distruzione del Tempio del 70 d.C. Fa parte del Talmud che è un commento scritto alla Legge orale, composto in un arco di 5 secoli in due edizioni, il Talmud di Gerusalemme e il Talmud Babilonese.
[3] « Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno.».
[4] « Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate le decime al Tempio e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. …. pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all`interno sono pieni di rapina e d`intemperanza…. rassomigliate a sepolcri imbiancati belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d`iniquità.».
[5] Come un tesoro nascosto(28-07-2002)
[6] In Matth. II, 13, 44-46
[7] In Matth. 47, 2
[8] In Ioan. Ep. 5, 7




19 luglio 2020. 16a domenica
ZUNIM. LE ZIZZANIE

La zizzania è una specie di gramigna che cresce alta quanto il grano, assomiglia al grano con la differenza che è nera. Nell’ebraico rabbinico si chiama zunim (plurale di zun; le zizzanie) e da qui deriva il termine zizzania. Nella catechesi giudaica la zizzania viene considerato un frumento degenerato, imbastardito, prostituito (la parola ebraica zunim deriva dalla radice zanah che significa prostituirsi). Il problema della chiesa primitiva è dunque chiaro: erano presenti santi e peccatori, giusti ed eretici. Come oggi. Chi ci dà il titolo di togliere speranza di conversione? Chi ci dà il titolo di assumere lo zelo per il bene e per la causa del regno fino al punto di voler togliere la pagliuzza nell’occhio del fratello, magari senza vedere la trave che è nel nostro occhio? (Matteo 7, 3-5).

Preghiamo. Ci sostenga sempre, o Padre, la forza e la pazienza del tuo amore; fruttifichi in noi la tua parola, seme e lievito della Chiesa, perché si ravvivi la speranza di veder crescere l’umanità nuova, che il Signore al suo ritorno farà splendere come il sole nel tuo regno. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Dal libro della Sapienza 12,13.16-19.
Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono. Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

Salmo 85 Tu sei buono, Signore, e perdoni.
Tu sei buono, Signore, e perdoni, sei pieno di misericordia con chi t’invoca.

Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera e sii attento alla voce delle mie suppliche.
Tutte le genti che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, Signore,
per dare gloria al tuo nome. Grande tu sei e compi meraviglie: tu solo sei Dio.
Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà,
volgiti a me e abbi pietà.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8,26-27
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,24-43
Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò zizzanie[1] in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, apparvero anche le zizzanie. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove dunque le zizzanie?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo le zizzanie, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima le zizzanie e legatele in fasci per bruciarle; il grano invece riponetelo nel mio granaio”».

Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

ZUNIM. LE ZIZZANIE. Don Augusto Fontana
Il vangelo di oggi ci presenta Gesù che parla di uno dei suoi temi preferiti: Il Regno di Dio, che è il centro del suo annuncio e del suo messaggio. Vuole spiegare ai discepoli e alla gente che lo sta ascoltando cosa significa il Regno. Lo fa per mezzo delle parabole, di piccoli racconti, perché la gente possa comprendere con facilità. “Il Regno di Dio è simile a…“.
La parabola di oggi è un seguito della parabola di domenica quando si diceva che il seme aveva incontrato 4 tipi di terreno (che sono 4 tappe catecumenali o itinerari di maturazione adulta). C’era un terreno che dava frutto. Sembrava che la narrazione fosse finita lì. Invece riprende con la nuova parabola di oggi: anche nei terreni che danno frutto c’è un’altra insidia: la zizzania. I discepoli – e noi con loro – si accorgono che il seme della parola non è solo ostacolato dall’esterno, ma anche in ciascuno di noi e dentro la chiesa stessa.
La zizzania è una specie di gramigna che cresce alta quanto il grano, assomiglia al grano con la differenza che è nera. Nell’ebraico rabbinico si chiama zunim (plurale di zun; le zizzanie) e da qui deriva il termine zizzania[3]. Nella catechesi giudaica la zizzania viene considerato un frumento degenerato, imbastardito, prostituito (la parola ebraica zunim deriva dalla radice zanah che significa prostituirsi). Il problema della chiesa primitiva è dunque chiaro: erano presenti santi e peccatori, giusti ed eretici. Come oggi. Chi ci dà il titolo di togliere speranza di conversione? Chi ci dà il titolo di assumere lo zelo per il bene e per la causa del regno fino al punto di voler togliere la pagliuzza nell’occhio del fratello, magari senza vedere la trave che è nel nostro occhio? (Matteo 7, 3-5). Chi ci autorizza a invocare il fuoco purificatore sulle città? (Luca 9, 49-55:«Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci». Ma Gesù gli rispose: «Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi». Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Ma Gesù si voltò e li rimproverò».
Vediamo meglio questa nostra parabola. Nelle parabole esistono sempre 2 parti[4]: una costituita dalla constatazione di cose ed eventi e l’altra formata dai dialoghi. Si direbbe quasi che la parte più importante sia il dialogo. Domenica scorsa il testo evangelico poneva una distinzione chiara tra la folla degli ascoltatori sulla spiaggia e il gruppo dei discepoli che, non accontentandosi della prima audizione, vanno in cerca di un ascolto più profondo e seguono Gesù per fargli domande: «Perché parli in parabole?». Ecco un metodo contemplativo così scomodo per me, e forse anche per te; siamo gente che “non ha tempo” se non per una carezza che sfiori veloce e gradevole la guancia, ma senza artigliare il cuore. Accadeva già ai tempi di Ezechiele (33,32): «Ecco, tu sei per loro come una canzone d’amore: bella è la voce e piacevole l’accompagnamento musicale. Essi ascoltano le tue parole, ma non le mettono in pratica». Ho riletto “La Bibbia, parola d’amore[5], sconvolgente e rivoluzionaria rivisitazione della pedagogia della Parola nelle comunità cristiane dei Padri e per oggi. Viene riproposto il simbolo pedagogico inventato da Origene (2° secolo d.C.): la Parola di Dio è come una noce a tre strati: il mallo, il guscio, il frutto. La scorza del mallo è amara e il guscio è duro. Per accedere al frutto interno occorre pelare il mallo e battere il guscio, interrogare il Signore con il coraggio di una parola critica generata dai nostri dubbi e da un ascolto che non si accontenta. Occorre fare domande. Ecco allora, anche nella nostra parabola i suoi discepoli (i catecumeni, gli iniziati, noi) “si avvicinano” e chiedono: «Da dove viene questa zizzania?». Il padrone risponde laconicamente: «Un nemico ha fatto questo». La risposta è telegrafica quasi a dire che non è poi neanche così importante voler cercare le cause, quanto piuttosto sapere come comportarsi in una situazione data per scontata. Per la Bibbia la domanda più importante non è la domanda sull’origine del male, ma su come vivere nella storia dove il bene e il male crescono insieme. L’ordine del padrone di non separare già ora il grano dalla zizzania non significa indifferenza al male, ma semplicemente la libertà dalla ossessione di creare una comunità di giusti e di puri. Gesù non è ossessionato dalla preoccupazione di creare un “resto santo” e non vuole che i discepoli assumano il ruolo di mietitori. E’ precisa volontà del Padre che il grano e la zizzania crescano insieme “perché non abbiate a distruggere il grano insieme alla zizzania”. Gesù prende le distanze anche da Giovanni Battista che annunciava arrivato il tempo in cui il Messia avrebbe separato la paglia e il grano mediante il ventilabro e il fuoco. C’è dunque una netta differenza tra il Padrone del regno, tollerante e paziente, e i suoi servi zelanti e intolleranti, tentati dalla rigidezza e dal giudizio. Allora ci si chiedeva se era possibile perdonare i peccati dopo il battesimo. «Lasciate che crescano insieme», l’imperativo lasciate (àphete) in greco ha anche il significato di cancellare un debito, perdonare. La Parabola invita la comunità ad essere misericordiosa e a «non giudicare nulla prima del tempo, finchè sia venuto il Signore, il quale metterà in luce ciò che le tenebre nascondono e manifesterà le intenzioni del cuore» (1 Corinti 4,5).

C’è un comune denominatore nelle parabole che oggi la liturgia offre alla nostra riflessione.

  1. Il Regno assomiglia sempre a qualcosa che è in divenire. Il grano che cresce nel campo impiega mesi per giungere a dare il suo frutto. Il granello di senape necessita ancora più tempo, anni probabilmente, per diventare un albero che viene scelto dagli uccelli del campo per annidarsi tra i suoi rami. Il lievito, impastato con la farina, deve essere lasciato nell’oscurità dell’armadio durante tutta una notte perché faccia il suo effetto e trasformi l’impasto nel pane che una volta cotto, servirà d’alimento per la famiglia. Tutti i paragoni che usa Gesù nel Vangelo di oggi sono processi che necessitano di tempo. L’osservatore deve essere, pertanto, paziente se vuol vedere i risultati.
  2. Questi processi che Gesù ci propone come esempio per parlare del Regno si attuano, inoltre, in modo nascosto. Per mesi non osserviamo praticamente nessuna crescita nella pianta del grano. E’ difficile osservare la crescita del piccolo albero di senape. E’ impossibile vedere come il lievito vada trasformando l’impasto. Ma sta di fatto che durante questo tempo il grano rinforza le sue radici, l’arbusto va crescendo in modo quasi impercettibile e il lievito trasforma realmente l’impasto. Il Regno, secondo queste parabole, è una realtà che si sviluppa nel tempo ma in modo nascosto.
  3. Il Regno di Dio, nella sua fase terrena, è il tempo della pazienza di Dio e la Chiesa non può guastare questa pazienza anticipando separazioni e giudizi. Scrive la prima lettura di oggi: «Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza». Altre parabole dicono quanto fosse un problema pastorale della chiesa primitiva questo ritardo del giudizio finale purificatore. Ne ricordo una: Luca 13, 6-9:« Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai».

Ecco dunque il problema: essere pazienti su noi e sugli altri, fino ad avere la stessa pazienza del padrone del campo che non vuole che si perda nemmeno una sola pianta di grano. Gesù tollera la radicalità del discepolo solo quando il discepolo la rivolge verso se stesso («Se la tua mano ti è di scandalo, tagliala» Mt. 5,30). Ed è questo il problema: non tanto il fatto che accanto al buon grano esista la zizzania, ma che il buon grano si prostituisca, si imbastardisca e diventi esso stesso zizzania. Dunque la pazienza verso gli altri non mi esime dalla vigilanza verso me stesso per frenare quell’imborghesimento e quella mediocrità che è incompatibile con la crescita del radicalismo evangelico. Scrive il teologo B. Secondin[6]: « A dire il vero, la vita cristiana non può mai essere guidata da un certo «equilibrio», da una via di mezzo, che consenta di galleggiare senza affondare. Il vero equilibrio, lo stare nella verità evangelica, implica sempre una totalità, non può essere un «prudente aderire», ma un «vivere paradossale», non conforme alla mentalità di questo mondo, come Paolo ben sapeva ripetere (Rm 12,1-2). Da qui anche l’aspetto sempre esistito di un certo che di paradossale, esagerato, di «pazzia», spesso rimproverato anche a Gesù e ai suoi discepoli. I santi altro non sono se non l’incarnazione dell’ideale proposto da Gesù, ma con vertici estremi, tipici, che appunto li distinguono dalla massa, che invece tende a diluire il tutto, a fare le cose a metà, a lasciar correre, senza rendersi conto che la salvezza è e resta una grazia a caro prezzo».


[1] le zizzanie plurale di zizanion
[3] A.Mello Evangelo secondo Matteo, Qiqajon

[4] B.Maggioni, Le Parabole del regno, Vita e pensiero, pag. 91ss.
[5] C. e J. Lagarde, La Bibbia parola d’amore, LDC, 2007, pagg. 69-99.
[6] Bruno Secondin, Radicalismo e radicalità: due parole dai molti significati (da CREDERE OGGI – mag-giu 2008)